Il Fatto 23.10.17
Roma e non solo: la carica dei mille “bangladini” d’Italia
I
piccoli negozi di prossimità, aperti a tutte le ore, in grado di
vendere a prezzi stracciati. Un fenomeno della Capitale in rapida
espansione
di Vincenzo Bisbiglia
“I’m proud to be
a businessman”. Aprire una frutteria, una lavanderia, un autolavaggio
o, ancor meglio, un minimarket. È ciò a cui aspirano tutti i migranti
bengalesi in Italia: diventare imprenditori. Anche a costo di violare la
legge o finire in circuiti poco raccomandabili di usura, racket e
sfruttamento del lavoro. Un punto di arrivo per i quarantenni di quella
comunità, dopo gli anni della gioventù passati a vendere rose, ombrelli o
cianfrusaglie cinesi, presidiare per ore le bancarelle dei signorotti
anti-bolkenstein, cucinare negli scantinati fumosi delle trattorie
locali o dormire in dieci negli appartamenti affittati da italiani in
fuga dalla città e in cerca di denaro contante.
Non è un caso che,
secondo i dati Uil Roma e Lazio, siano proprio i bengalesi gli
stranieri con la maggiore “predisposizione imprenditoriale” (47,7%).
Secondo Confesercenti, in tutto il Paese ci sono ben 7.000 minimarket,
cui vanno aggiunti altri 4.000 esercizi di altra natura. In particolare
quello noto come “bangladino” – piccolo negozio di prossimità aperto a
tutte le ore in grado di vendere a prezzi stracciati alcolici e prodotti
alimentari confezionati – è un fenomeno in gran parte romano. Nella
Capitale – dove vivono ben 40.000 dei 142.000 cittadini del Bangladesh
presenti in Italia – insistono oltre 3.200 di queste attività, in parte
documentabili perfino da una App, chiamata proprio “Bangladino”, una
specie di tripadvisor del minimarket.
Fortissima è la rivalità con
gli esercenti locali che denunciano una “concorrenza sleale”, specie
nel centro città. Perché queste persone sembrano non conoscere riposo:
la maggior parte dei negozi apre alle sei del mattino e chiude a
mezzanotte, altri tirano tardi fino alle due o alle tre di notte o
addirittura vanno avanti 24 ore su 24, sette giorni su sette, la
domenica come a Pasqua o a Natale.
“Quasi sempre nei negozi
rinveniamo un angolo dormitorio – racconta Lorenzo Botta, vicecomandante
generale della Polizia Locale di Roma – e la presenza di
lavoratori-schiavi che segnaliamo all’Inps”. Anche sul fronte della
qualità dei prodotti, non va molto meglio. “Dal 90% dei controlli –
prosegue – emerge qualcosa che non va. C’è chi invade il marciapiede con
la merce esponendola allo smog; chi vende la birra oltre l’orario
consentito; soprattutto, chi esibisce prodotti scaduti, a volte coprendo
o falsificando l’etichetta”.
Problemi anche negli autolavaggi e
nelle lavanderie, dove “non troviamo mai scarichi a norma per i saponi, e
addirittura i veicoli vengono spostati da personale sprovvisto della
patente di guida”.
Oltre 500 le multe dei vigili urbani, nel corso
di questo 2017, dati ai quali si aggiungono le 600 multe effettuate
dalla Guardia di Finanza per emissione di scontrini irregolari (diffusa
l’abitudine di applicare l’Iva al 4%) e le 55 “proposte di chiusura
dell’esercizio”, sistematicamente girate alla Procura di Roma: “Da un
po’ di tempo puntiamo al sequestro del negozio, stiamo stringendo le
maglie – riprende Botta – ma siamo in pochi e non riusciamo a
controllare tutto”.
C’è dell’altro. Sempre secondo i dati
Confesercenti, i minimarket fanno registrare un turn-over vicino al 20%
(il doppio di quanto avviene fra imprenditori italiani). In pratica,
quasi ogni anno un quinto dei negozi cambia gestore. Oppure, la società
cui viene assegnata la licenza – basta una semplice richiesta in
municipio, chiamata tecnicamente Scia (Segnalazione certificata di
inizio attività) – modifica i suoi componenti, continui ricambi che
destano sospetti.
“L’alternanza dei nomi – spiega una fonte della
Guardia di Finanza a Il Fatto Quotidiano – spesso serve per far prendere
o rinnovare il permesso di soggiorno ad altri soggetti, anche se chi ci
lavora è sempre la stessa persona. Chi arriva resta comunque ‘debitore’
e a disposizione della comunità, in una sorta di mutua assistenza e
microcredito fai-da-te”.
Il sospetto è che dietro questa “società
comunitaria” si nascondano attività di usura o, peggio, riciclaggio:
l’associazione Codici, in un report risalente ormai al 2014, parlò senza
mezzi termini di “criminalità” e di “racket degli alcolici”, mentre
Alberto Civica (segretario regionale Uil), descrive “una situazione
agghiacciante per i lavoratori, basti pensare che il 46,3% dei 90 mila
imprenditori stranieri residenti nel Lazio ha vissuto l’esperienza del
lavoro irregolare”.
“Questi fenomeni esistono – ci racconta Ejaz
Ahmed, giornalista pakistano in Italia – ma è vero che queste persone
lavorano moltissimo, dormono in tanti in un unico appartamento e non
hanno alcuna vita sociale”. Una gavetta spesa, in particolare, “negli
Internet point o al soldo dei cinesi”, oppure “nelle bancarelle”, le cui
autorizzazioni a Roma appartengono per la maggior parte alla famiglia
Tredicine, che da anni ha messo in piedi una documentata
“collaborazione” con la comunità bengalese per la manovalanza negli
spazi. Alla fine di questo “iter”, “intorno ai 35-40 anni, queste
persone sono riuscite ad accantonare i 20mila euro necessari ad avviare
la loro attività”.
Una “predisposizione imprenditoriale” dei
bengalesi, che secondo Ahmed non rischia di mettere in crisi quella
italiana, anzi. “Il commercio di prossimità a Roma – spiega – è in
difficoltà per altri motivi. C’erano 6.000 negozi chiusi a Roma, gli
stranieri hanno solo riempito quel vuoto”.
Iter che ha percorso
anche Islam, “bangla” del quartiere Appio Latino, da 22 anni in Italia:
“C’è crisi per tutti. Io – ci racconta – facevo il cuoco, ora ho aperto
questo negozio. Se va bene lo tengo, sennò cambio. Mi piacerebbe
arrivare alla pensione, ma mi sa che l’Inps non sta messo molto bene”.
Farouk,
invece, racconta: “Con il quartiere e gli altri esercenti non ho mai
avuto difficoltà, ci rispettiamo e andiamo d’accordo. Solo gli ubriaconi
ci creano qualche problema, ma quello succede ovunque”. Sui cambi di
licenza, poi, allude: “Siete giornalisti, no? Ne dovreste sapere più voi
che io”.