venerdì 20 ottobre 2017

Il Fatto 20.10.17
Catalogna
“Siamo intrappolati nell’indipendenza. E saremo più poveri”
Sono soprattutto le ricadute economiche a preoccupare quei catalani non favorevoli o neutri rispetto alla secessione
di Mattia Eccheli

“Llibertat presos politics Sanchez Cuixart”. I manifestanti di martedì sera, 200 mila secondo la polizia, hanno appiccicato il volantino lungo l’Avenida Diagonal. Il giorno dopo, un piccolo esercito di addetti della nettezza urbana, ha ripulito per ore dalla cera delle candele accese dagli indipendentisti. L’arteria, che taglia in due Barcellona, è rimasta chiusa per tutto il giorno. La capitale della Catalogna è più silenziosa del solito. E anche meno caotica, malgrado gli ingorghi. “Da due mesi ci sono meno turisti – spiega un cameriere straniero che lavora in uno dei ristoranti di Rambla de Catalunya – dicono che la sera non escono perché hanno paura”. “Gli affari? Non so i numeri precisi, ma sono diminuiti parecchio”, aggiunge.
In genere tra mezzogiorno e le 16 nei bar c’è la fila per pranzare nei locali del centro, mentre in questi giorni sono libere perfino le panchine di Passeig de Gracia. L’attesa per acquistare i biglietti a casa Batllò è di pochi minuti. I negozi della centralissima via dello shopping non sono deserti, ma c’è poco movimento. Per strada quasi non si sente parlare francese. O italiano. Dal referendum in poi, l’Alianza per la Excelencia Turistica ha contabilizzato nella regione una flessione dell’attività reale del 15%. I dati del terzo trimestre sono anche peggiori (-20%), con una perdita di volumi stimata in 1,2 miliardi. “Il 20% dei catalani vuole l’indipendenza, un altro 20 è unionista – spiega Jordi, 30enne e un contratto a tempo determinato – Il resto è gente che chiede solo di lavorare e vivere. Senza doversi preoccupare anche di questa vicenda”.
Le bandiere della Catalogna appese ai davanzali si sono moltiplicate negli ultimi anni. Il loro numero aumenta più ci si allontana dalla capitale e si va verso Girona, o Tarragona, o Lleida. Dove ai lampioni sono ancora appesi i manifesti per il referendum. “La Spagna non ci ha ascoltati – ripete Sergi, uno di quelli che ha votato e manifestato per l’indipendenza – La Costituzione del 1978 prevedeva una graduale estensione dell’autonomia. Che non è mai arrivata”. Il suo tono di voce esprime sicurezza. Non ha paura di esporsi.
Chi invece non vuole la secessione si porta quasi istintivamente la mano davanti alla bocca. “È da mesi che non mi sento di poter parlare più liberamente. Dire che sei a favore dell’unità della Spagna è una cosa che da qualche tempo preferisci tenere per te”, sospira Carmen, madre di mezza età.
“Questa vicenda sta mettendo a dura prova la tenuta del tessuto sociale – racconta una ragazza italiana cresciuta in Catalogna –. E non oppone catalani e spagnoli: ma catalani che la pensano in un modo a catalani che la pensano in un altro”. Fra gli uni e gli altri c’è sgomento: nessuno pensava che le cose potessero arrivare a questo punto. Dai politici, di Madrid e di Barcellona, tutti si aspettavano di più. E di meglio. Adesso tutti si chiedono come andrà a finire. L’impressione è che la chiave del rebus politico-diplomatico dipenda dall’economia. La fuga delle imprese ha soffocato certe speranze e incrinato molte certezze. Perché la Catalogna si è saziata della prosperità che ha alimentato la fame di autonomia. La “crisi” rischia di costare 12 miliardi; in termini di Pil la Spagna perderebbe l’1,2%. La regione molto di più.