Il Fatto 17.10.17
È la sindrome di Pandora: il mostro paga Hollywood no
Asia Argento
di Federico Pontiggia
Ricapitoliamo.
Espulso dall’Academy, che assegna gli Oscar: votava e, ai tempi d’oro,
movimentava votanti sui suoi film, vedi La vita è bella di Benigni.
Legion d’onore, l’onorificenza francese: Sarkozy gliel’appuntò, ora
Macron gliel’ha revocata. Si chiama damnatio memoriae, e la memoria di
Harvey Weinstein è a scomparsa. Bannato, reietto, condannato, pure dal
fratello Bob, che gli sistema la lapide professionale: “Non dobbiamo
permettere a Harvey di tornare a lavorare in questa industria. Mai. Ha
perso i suoi diritti”. Chissà, forse The Weinstein Company (TWC)
cambierà nome, ammesso non si (s)venda al fondo di private equity Colony
Capital: le trattative sono avviate. Come si cambia per non morire.
Se
Weinstein è già il passato o, meglio, trapassato prossimo, i riflettori
sono sul futuro dello showbiz, le regole del gioco, le regole
d’ingaggio a Hollywood: ci si accontenta di eliminare il caprone o si
abbatte il vecchio recinto per farne uno diverso, più sicuro? In breve,
si derubrica Harvey il predatore a sciagurata eccezione o si invalida la
regola hollywoodiana? Non per essere scettici, ma propenderemmo per la
prima, che è più facile: cambiare il culo, non il sofà su cui poggia.
Dato in Arizona a curarsi la dipendenza sessuale in un rehab per happy
few caduti in disgrazia, speriamo Harvey sia altrove, perché sarebbe
tempo perso: la sua addiction non è per il sesso, ma per il potere. E
non si cura. Che fare? Riscrivere le regole, mandare in soffitta il
divano e ripristinare la scrivania, bassa. Ancor prima, resettare gli
uomini o scambiarli con un Nexus 9 tipo Ryan Gosling: il problema, se
ancora non si fosse capito, sono gli uomini.
Non solo Weinstein,
ma chi 13 anni orsono lo aiutò a insabbiare l’indagine del NYTimes – a
dar retta alla reporter Sharon Waxman, Matt Damon e Russell Crowe – e
chi oggi dice e ridice, ovvero si contraddice. Tra il dire e il fare
ammenda spesso c’è di mezzo l’universo social, ovvero l’accoglienza
pubblica: se la posizione presa non è quella giusta, si raddrizza ex
post. Gli esempi, illustri, si sprecano: Oliver Stone, che prima l’ha
battezzato “vittima di un sistema di giustizieri” e poi s’è addirittura
rimangiato la serie, Guantanamo, in cantiere con TWC; Woody Allen, che
prima s’è detto “triste per Weinstein” e poi ha rettificato in
“intendevo che Weinstein è triste, malato”. Poi c’è Quentin Tarantino,
che ha preso in prestito il Twitter di un’amica, l’attrice Amber
Tamblyn, per palesare un “cuore spezzato” e rimandare a una futura
dichiarazione in merito. Attendiamo fiduciosi. Nel frattempo, nel
verminaio che sono i social sul tema, spuntano tweet capaci di
illuminare d’assurdo la gravità della situazione, come questo di
@AlexSabetti: “All’inizio dei prossimi film comparirà la didascalia: ‘In
questa produzione non è stata molestata nessuna donna’”. Da ridere, se
non ci fosse da piangere. Lacrime, almeno qualcuna, si sarebbero
risparmiate prendendo sul serio Courtney Love quando nel 2005 avvertiva
le aspiranti attrici: “Se Harvey Weinstein vi invita a una festa privata
al Four Season, non ci andate”. Parole al vento.
Per rimanere con
la collega Fiorella Mannoia, viceversa, quello che le donne non dicono
ora ha perso il “non”: un hashtag in America, #MeToo, uno in Italia,
#QuellaVoltaChe, per dire la molestia subita e sofferta in silenzio.
Senza #, ma con un lungo post su Facebook, l’ha fatto anche Björk,
rivelando di essere stata “umiliata e offesa da un regista danese”.
Spulciandone l’esigua filmografia, ça va sans dire, parrebbe essere Lars
von Trier, che nel 2000 la diresse in Dancer in the Dark. Il
condizionale è d’obbligo, perché è un’altra regola, di un altro gioco:
”Indovina Chi?” mi ha molestato. L’ha fatto Björk, e l’ha fatto Asia
Argento, con due tweet: “#quellavoltache un regista/attore italiano tirò
fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre
parlavamo del ‘personaggio’” e “#quellavoltache Hollywood big shot
director with Napoleon complex gave me GHB and raped me unconscious, I
was 26 years old #BalancetonPorc”. Ipotesi, illazioni e scommesse,
filmografie spulciate, biografie compulsate, rimandi storici e sentito
dire, la caccia è impazzata, e impazzita: nessuna verità, solo altre
vittime. E un’altra domanda: che senso ha, qual è il fine? Asia Argento
prima ha risposto a un follower che gli chiedeva perché non avesse fatto
i nomi dei molestatori “Believe me, I will”, poi è rientrata nell’alveo
di #quellavoltache (“Nessuno fa nomi, raccontiamo le nostre storie)”,
quindi ha asserito di non aver “in alcun modo fatto il nome dell’autore
del gesto né tantomeno ho indicato elementi per identificarlo”. To be
continued.