Corriere 6.10.17
Iglesias: con atti unilaterali diventeremo la Turchia
«Abbiamo
ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di
provarci». Pablo Iglesias, tra i fondatori di Podemos di cui è
segretario, l’erede del movimento degli Indignati anti austerità, parla
al Corriere . «Potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia
dentro la Ue».
di Andrea Nicastro
MADRID «Abbiamo
ancora pochi giorni per evitare il disastro e abbiamo il dovere di
provarci. Con la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte
catalana e la prevedibile durissima reazione del governo centrale
potremmo vedere la Spagna trasformarsi in una Turchia dentro l’Ue. Ci
risveglieremmo con un governo come quello di Erdogan, che mostra una
parvenza di democrazia, ma che è di fatto autoritario e repressivo».
Pablo Iglesias è il codino ribelle della politica spagnola, l’erede del
movimento degli Indignati anti austerità. Alle elezioni del 2015 ha
mancato per un soffio lo storico sorpasso sui socialisti proprio perché,
secondo alcuni, aveva appoggiato il diritto a un referendum legale in
Catalogna inimicandosi l’elettorato della Spagna profonda. La sindaca di
Barcellona, Ada Colau, fa parte della sua galassia politica e come lei
anche a livello nazionale Podemos è a favore di un referendum legale per
la secessione dalla Spagna, ma non a una dichiarazione unilaterale di
indipendenza.
Iglesias, lei ha già provato a mediare, senza risultato.
«Non
è esatto. Mercoledì ho parlato ai due presidenti, lo spagnolo Rajoy e
il catalano Puigdemont. Assieme a molte altre forze ho proposto loro
almeno di sedersi per individuare un mediatore di comune fiducia.
Puigdemont mi ha inviato un messaggio su WhatsApp con una parte del
discorso che avrebbe fatto in tv: aperto ad ogni mediazione, ma avanti
verso l’indipendenza».
Poco, ma almeno qualcosa. E il premier Rajoy?
«Prima
mi ha ringraziato, ma dopo le dichiarazioni di Puigdemont ha ribadito
che la sua precondizione al dialogo è la rinuncia alla dichiarazione di
indipendenza».
I catalani però non intendono rinunciarci.
«Anch’io
lo penso, ma so anche per certo che a Barcellona sono consapevoli di
cosa comporti: non tanto e non solo l’articolo 155 della Costituzione
che permetterebbe di prendere il controllo della Generalitat, quanto
l’applicazione dell’articolo 116 che significa “stato di emergenza”:
sospensione delle libertà pubbliche che sono il fondamento della
democrazia».
Il coprifuoco nella città della movida?
«In
Catalogna l’85% della popolazione vuole votare. Significa metterli tutti
fuori legge. In politica si sa come cominciano le cose, ma non come
finiscono. Fino ad ora non c’è stato l’incidente irreparabile, ma se si
prosegue verso la distruzione dello Statuto di Catalogna e il conflitto
tra istituzioni, chi lo sa?».
Siamo alla vigilia di una nuova guerra civile?
«Non
immagino la Spagna come la Jugoslavia, ma se a Barcellona i
rappresentanti democraticamente eletti finiscono in cella è un dramma.
Non è fantapolitica. Il comandante dei Mossos d’Esquadra rischia 15 anni
per sedizione».
E la vostra mediazione?
«Stiamo mettendo
sul tavolo dei nomi all’altezza: ex presidenti, ecclesiastici,
impresari, figure internazionali. C’è convergenza su uno in particolare,
ma non voglio bruciarlo. I telefoni restano accesi. Per fortuna anche
la Chiesa cattolica sta lavorando sotto traccia, con il prestigio e la
discrezione che le è propria, ma sta lavorando».
È l’ultima spiaggia?
«C’è
anche la via della mozione di sfiducia a Rajoy. Se Pedro Sánchez del
Partito socialista volesse, i numeri per scalzare il premier ci sono.
Psoe, Podemos, nazionalisti catalani e baschi possono fare una
maggioranza di salute pubblica. Dipende solo da Sánchez. Penso sia
schiacciato tra la base che vorrebbe avvicinarsi a noi e la vecchia
guardia che punta su un governo di grande coalizione con il Pp».
La secessione si fermerebbe?
«Per
salvare la democrazia spagnola è necessario portare il Pp
all’opposizione. Hanno utilizzato il governo per proteggere i loro
politici corrotti e hanno utilizzato il conflitto catalano come cortina
di fumo, trasformando la politica in un derby tra Barça e Real Madrid.
La Catalogna vuole allontanarsi dal governo Rajoy, non dalla Spagna. Il
rapporto tra le élite madrilene e catalane ha funzionato per decenni
anche tra partiti conservatori. Persino la destra può capire la
pluralità della Spagna, ma quando il Pp si è convertito in una forza
marginale in Catalogna, il sistema ha perso coesione. E questi sono i
risultati».
C’è il re garante di unità.
«Il suo discorso di
martedì sera è stato un errore storico. Ha parlato da re del Partido
Popular e ha cominciato a smettere di essere il re di Spagna. Lo dico
come uno che considera che Felipe VI abbia molte più virtù di Juan
Carlos, ma con quel discorso ha legato il suo futuro al Pp. Un capo di
Stato non eletto deve tenere un ruolo indipendente o almeno parlare a
tutti».
Gliel’ha detto in faccia?
«No, perché non mi ha
chiamato. Suo padre telefonava ai nazionalisti baschi, lui no. Suo padre
telefonava ai comunisti che avevano un terzo dei nostri voti, lui no.
Avrebbe dovuto chiamare Puigdemont, la sindaca Colau, non l’ha fatto ed è
un ulteriore segno di debolezza da parte di Rajoy. I giocatori di
scacchi lo sanno molto bene, quando devi muovere il re vuol dire che
stai perdendo la partita».
(Ha collaborato Belen Campos Sanchez)