Corriere 1.10.17
Sarà una ferita all’unificazione europea (comunque vada)
di Antonio Polito
L
a scorsa estate, seguendo le indicazioni del navigatore satellitare,
sono passato dalla Spagna alla Francia senza neanche accorgermene. Non
un cartello, un poliziotto, una bandiera. L’autostrada, semplicemente,
cominciava in Spagna, varcava il confine nei Paesi Baschi, e continuava
in Francia. È il bello dell’Europa unita, direte: un continente senza
più frontiere. Se non fosse che due giorni prima un commando di
terroristi aveva sconvolto Barcellona e la Catalogna, e tutti i media
segnalavano il rischio che l’attentatore della Ramblas e i suoi complici
potessero scappare in Francia per sfuggire alla caccia all’uomo.
Constatare con quanta facilità avrebbero potuto muoversi, metteva un po’
i brividi.
Quella frontiera dissolta è solo uno dei troppi lavori
lasciati a metà dal processo di integrazione europea. Abbiamo
indebolito lo Stato nazionale, annunciando che le frontiere interne non
esistevano più, ma non è mai arrivato lo Stato multinazionale, dotato di
una polizia federale e di una Procura antiterrorismo, che potrebbe
sostituirlo. Dalla stessa illusione, dallo stesso gioco di specchi,
nasce la crisi catalana. La revanche di sentimenti indipendentisti è
paradossalmente un effetto del successo dell’integrazione europea, e non
sarebbe possibile se l’Unione non esistesse. Pochi catalani, scozzesi o
fiamminghi, se la sentirebbero di avventurarsi per il mondo con il
passaporto e il mercato che la loro piccola patria potrebbe offrire. Ma
se invece trovano posto in un contenitore di nazionalità più ampio della
Spagna o del Regno Unito o del Belgio, capace di proteggerli meglio
economicamente e di garantire di più le loro differenze, perché mai
restare dentro i vecchi confini, imposti dal vicino più forte e talvolta
più arrogante. E infatti quasi tutti i movimenti indipendentisti sono
filo-europei, preferendo condividere la propria sovranità con Bruxelles
piuttosto che con le antiche capitali degli Stati che li hanno annessi.
Però
quel nuovo contenitore multinazionale, tanto annunciato e predicato,
nella realtà non c’è, è rimasto un miraggio. Si spiega così il grande
imbarazzo con cui l’Unione Europea assiste allo scontro tra Madrid e
Barcellona. È come se si fosse voltata dall’altra parte, per non vedere:
da un lato i catalani che si sbracciano per avere una stanza tutta loro
nella casa comune, e dall’altro gli spagnoli che di quella casa sono
comproprietari per niente disposti ad affittare. Se l’Europa fosse
schiettamente confederale, un’Unione di Stati, difenderebbe con più
energia lo Stato spagnolo da una pretesa secessionista, togliendo ai
catalani ogni illusione di poter essere accolti dopo una così traumatica
rottura. Ma siccome l’Europa ha nel suo Dna il sogno federale di
un’Unione tra popoli, non se la sente di condannare apertamente gli
indipendentisti. Anzi, arriva a flirtare con loro quando le conviene,
come ha fatto con gli scozzesi, a mo’ di rivalsa per la Brexit.
Bisogna
aggiungere al dramma che si sta svolgendo nel cuore dell’Europa una
delicatissima questione democratica. Dice al Corriere lo scrittore
Xavier Cercas che il referendum è «un attacco alla democrazia in nome
della democrazia». Una consultazione senza quorum, senza campagna
elettorale degna di questo nome, senza legalità riconosciuta dalle
corti, in cui basta prendere un voto in più per dichiarare la
secessione, ha più le caratteristiche del plebiscito, o del colpo di
mano. Ma, d’altra parte, veder difendere la democrazia recintando e
pattugliando i seggi elettorali, sequestrando schede e urne, o imponendo
censure, è un orribile spettacolo in questa parte del mondo, così fiera
delle sue tradizioni liberali. Ecco perché ciò che oggi succederà a
Barcellona non è un affare interno spagnolo, né puro folklore politico.
Comunque finisca, è già una ferita alla storia dell’unificazione
europea: ne mette a nudo l’ambiguità, e proietta un’ombra sul suo
destino .