mercoledì 18 ottobre 2017

Corriere 18.10.17
La legge sul fine vita una scelta di dignità
di Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia

Caro direttore, da più di cinque mesi il disegno di legge sul «testamento biologico» è impantanato nella Commissione Sanità del Senato. Nonostante tutti i sondaggi fatti sul tema dimostrino, da almeno un decennio, il consenso di un’amplissima maggioranza di italiani, tremila emendamenti (in massima parte ostruzionistici) e discussioni infinite ostacolano la definitiva approvazione di una legge che non è di destra, di centro o di sinistra, ma che senza distinguo, dando valore alla volontà di ciascuno, tutela la dignità di tutti.
Il cosiddetto testamento biologico non rappresenta più, da tempo, la frontiera «divisiva» dei «nuovi» diritti civili. Non lo è più da ventisette anni negli Stati Uniti, dove il dibattito sul «Living will» è iniziato quasi quarant’anni fa nelle Corti dei vari Stati, nella Corte suprema e nella società civile, per poi culminare con l’adozione del Patient Self Determination Act del 1990; non lo è più neanche, almeno da dieci anni, nella maggior parte dei Paesi europei, dove ormai il valore giuridico vincolante di un testamento biologico fa parte del corpus dei diritti civili minimi del cittadino.
In Italia, benché se ne dibatta da decenni, il tema sembra condannato ad essere gestito nei processi, dai tribunali, dai singoli magistrati, in continua supplenza di una politica incapace di fare quel che le è proprio, il legislatore.
La nazione culla del diritto non riesce a dare ai suoi cittadini una cornice giuridica certa in cui poter esercitare le proprie scelte, liberamente e responsabilmente, su una materia personalissima di libertà individuale, nonostante, come osservava il Presidente emerito Giorgio Napolitano nel maggio 2017, il provvedimento in discussione «risponda a sentimenti e sensibilità ormai prevalenti nella nostra società».
Mentre il resto del mondo sviluppato dibatte di ulteriori forme di disciplina della materia, il nostro Paese resta orfano di quella che è ormai una soglia minima di regolamentazione sul diritto alle disposizioni anticipate di trattamento. Non è più ammissibile, dopo i casi Englaro, Welby, Nuvoli e migliaia di altri meno noti, ma altrettanto degni di considerazione, che i cittadini italiani non possano scegliere, facendo affidamento sulla chiarezza di una legge, come autodeterminarsi in una questione fondamentale, letteralmente di vita e di morte, che riguarda ognuno di noi.
Quella del fine vita è una questione di libertà, di rispetto della volontà, di dignità del vivere e del morire che dev’essere lasciata quanto più possibile alla scelta di ciascuno. Come Senatori a vita, chiamati ad esercitare un ruolo il più possibile libero da ogni condizionamento, appartenenza o calcolo, crediamo che questo Parlamento onorerebbe il Paese se, adottando in Senato senza modifiche il testo già approvato dalla Camera, trattasse i suoi cittadini da adulti, lasciando loro a fine legislatura, come un prezioso legato, il riconoscimento di questo spazio incomprimibile di libertà e responsabilità.

Repubblica 18.10.17
La dignità della vita ferma in Parlamento
Elena Cattaneo Mario Monti Renzo Piano Carlo Rubbia

DA PIÙ di cinque mesi il disegno di legge sul “testamento biologico” è impantanato nella Commissione Sanità del Senato. Nonostante tutti i sondaggi fatti sul tema dimostrino, da almeno un decennio, il consenso di un’amplissima maggioranza di italiani, tremila emendamenti (in massima parte ostruzionistici) e discussioni infinite ostacolano la definitiva approvazione di una legge che non è di destra, di centro o di sinistra.
SENZA distinguo, dà valore alla volontà di ciascuno, tutela la dignità di tutti. Il cosiddetto testamento biologico non rappresenta più, da tempo, la frontiera “divisiva” dei “nuovi” diritti civili. Non lo è più da ventisette anni negli Stati Uniti, dove il dibattito sul Living will è iniziato quasi quarant’anni fa nelle Corti dei vari Stati, nella Corte suprema e nella società civile, per poi culminare con l’adozione del
Patient Self Determination Act del 1990; non lo è più neanche, almeno da dieci anni, nella maggior parte dei Paesi europei, dove ormai il valore giuridico vincolante di un testamento biologico fa parte del corpus dei diritti civili minimi del cittadino.
In Italia, benché se ne dibatta da decenni, il tema sembra condannato ad essere gestito nei processi, dai tribunali, dai singoli magistrati, in continua supplenza di una politica incapace di fare quel che le è proprio, il legislatore. La nazione culla del diritto non riesce a dare ai suoi cittadini una cornice giuridica certa in cui poter esercitare le proprie scelte, liberamente e responsabilmente, su una materia personalissima di libertà individuale, nonostante, come osservava il Presidente emerito Giorgio Napolitano nel maggio 2017, il provvedimento in discussione «risponda a sentimenti e sensibilità ormai prevalenti nella nostra società».
Mentre il resto del mondo sviluppato dibatte di ulteriori forme di disciplina della materia, il nostro Paese resta orfano di quella che è ormai una soglia minima di regolamentazione sul diritto alle disposizioni anticipate di trattamento. Non è più ammissibile, dopo i casi Englaro, Welby, Nuvoli e migliaia di altri meno noti, ma altrettanto degni di considerazione, che i cittadini italiani non possano scegliere, facendo affidamento sulla chiarezza di una legge, come autodeterminarsi in una questione fondamentale, letteralmente di vita e di morte, che riguarda ognuno di noi.
Quella del fine vita è una questione di libertà, di rispetto della volontà, di dignità del vivere e del morire che dev’essere lasciata quanto più possibile alla scelta di ciascuno. Come Senatori a vita, chiamati ad esercitare un ruolo il più possibile libero da ogni condizionamento, appartenenza o calcolo, crediamo che questo Parlamento onorerebbe il Paese se, adottando in Senato senza modifiche il testo già approvato dalla Camera, trattasse i suoi cittadini da adulti, lasciando loro a fine legislatura, come un prezioso legato, il riconoscimento di questo spazio incomprimibile di libertà e responsabilità.
Gli autori sono senatori a vita

il manifesto 18.10.17
Il futuro della Cina (e del resto del mondo) si decide qui
Al via il Congresso. Da oggi il 19mo «conclave» del Partito comunista cinese. Sceglierà i membri del Comitato centrale, del Politburo e quelli dell’Ufficio politico. Nel segno del «sogno» di Xi Jinping
di Simone Pieranni

Oggi 18 ottobre comincia il 19mo congresso del partito comunista cinese, già ribattezzato «il congresso di Xi Jinping». L’appuntamento cade ogni cinque anni: si tratta dell’incontro del gotha politico del paese e ha tra le sue funzioni principali quella di nominare i funzionari che comporranno gli organi dirigenziali più importanti del partito per i successivi cinque anni. Una volta concepite queste scelte, saranno questi funzionari e le loro «correnti» di appartenenza, a decidere gli indirizzi di natura politica ed economica del paese nell’immediato futuro.
IL CONGRESSO DI QUEST’ANNO potrebbe essere definito di mid-term, perché arriva proprio a metà del decennio riservato alla leadership di Xi Jinping, ma ha assunto ormai da tempo una rilevanza molto più profonda: si dice infatti che sarà il «congresso di Xi», proprio perché il numero uno cinese si giocherà tutto, tanto in termine di nomine, quanto di rilevanza storica e possibilità di esercitare il proprio mandato oltre i dieci anni canonici della carica di segretario del partito e di presidente della Repubblica popolare cinese.
IN PARTICOLARE, l’appuntamento dovrà decidere chi comporrà i seguenti organi apicali del partito: i 200 membri fissi e i 100 alternati del Comitato centrale, i 25 membri del Politburo, i membri (attualmente 7, in passato 9) dell’Ufficio politico del Politburo, cuore decisionale della Cina. Queste poche centinaia di persone saranno gli uomini più potenti del paese. E il loro numero uno sarà – come ha sottolineato la cover dell’Economist qualche giorno fa – uno degli uomini più potenti del mondo.
Il Congresso del Pcc, benché caratterizzato dal suo rituale, dal suo impatto sul paese che spesso viene raccontato dai media internazionali con toni quasi folcloristici (il paese è come se chiudesse per consentire ai sovrani di prendere le decisioni fondamentali, come fosse una specie di Conclave) ha in realtà un’importanza non da poco anche per il resto del mondo.
SE VINCERÀ XI JINPING – come è assai probabile – avremo una Cina compatta intorno all’idea del «sogno cinese» del suo numero uno: una visione nazionalistica tendente a stabilizzare l’economia, a modernizzare il sistema industriale, a produrre un mix sempre maggiore tra capitale privato e capitale statale e soprattutto comporterà una Cina sempre più forte nella sua postura internazionale e sicuramente determinata a rendere effettivo, lucrativo e tendenzialmente egemonico il progetto di Nuova via della Seta, il Bri (Belt and Road initiative), che malgrado sia presentato da Pechino come un’opportunità per tutti, non nasconde le proprie mire globali.
INSIEME A QUESTO non mancano le sfide più rischiose: il gruppo dirigenziale raccolto intorno al proprio leader dovrà affrontare problemi non da poco. Innanzitutto questioni economiche, come ad esempio il debito delle amministrazioni locali e le difficoltà a mantenere un controllo su quanto accade nelle zone periferiche del potere; la necessità di sviluppare ancora di più il mercato interno, benché lo sfogo del Bri potrà ovviare al surplus del manifatturiero.
Ci sono poi questioni internazionali rilevanti: la tensione sotto traccia con l’India, le questioni ancora aperte sulle zone di mare contese e più di tutte la crisi coreana, ancora molto distante dalla sua soluzione.
Il comitato centrale del Pcc in sessione plenaria (LaPresse/Xinhua)
Ecco chi sono i 4 osservati speciali del XIX Congresso
Wang Qishan
Wang Qishan è il capo del team anti corruzione voluto da Xi Jinping. Pur ufficialmente non essendolo, è considerato il n. 2 del partito. La sua azione contro i corrotti è stata letale: aveva promesso che avrebbe catturato «le tigri e le mosche» e così ha fatto: migliaia di processi, centinaia di arresti. Wang Qishan non ha guardato in faccia nessuno: ha arrestato funzionari, militari, personaggi importanti, così come piccoli amministratori. Con due problemi però: il primo è Guo Wengui, un miliardario in esilio che lo accusa di aver approfittato della sua situazione per arricchire i famigliari. Sono – per ora – accuse senza prove. Il secondo è che Wang ha superato i 68 anni, età limite per i funzionari cinesi. Ma si dice che Xi voglia forzare il sistema e promuoverlo a numero due effettivo e al ruolo di premier.
Li Keqiang
L’attuale premier nel corso di questi cinque anni è stato di fatto oscurato dalla preponderanza del numero uno Xi Jinping. Li Keqiang è l’unico, insieme al presidente, che in teoria dovrebbe rimanere tra i sette dell’Ufficio politico del Politburo non avendo ancora raggiunti i limiti di età. Però la sua carriera potrebbe rilevare un intoppo proprio nell’eventuale promozione di Wang Qishan al ruolo di premier. In questi cinque anni Li non è stato in grado di attuare più di tanto le proprie idee in materia di riforme e aggiustamenti economici, perché anche quelle decisioni sono finite nelle grinfie di Xi Jinping e della sua smania di controllo totale. Li inoltre, agli occhi di Xi, ha un punto debole: è un uomo del vecchio sistema di potere, quello di Hu Jintao e Wen Jiabao, una camarilla che Xi Jinping negli ultimi tempi ha smantellato pezzo dopo pezzo.
Chen Min’er
Di recente Xi Jinping ha eliminato un potenziale concorrente alla sua successione. Il giovane funzionario classe 1960 Sun Zhengcai, a capo del partito di Chongqing e considerato un protetto di Wen Jiabao è stato destituito da capo del partito, poi è stato indagato per corruzione e infine è stato espulso. Al suo posto Xi Jinping ha messo il fedelissimo, Chen Min’er, dato come potenziale autore di un clamoroso doppio salto: ora è nel Comitato centrale e potrebbe arrivare già a ottobre nell’Ufficio politico, saltando il passaggio intermedio del Politburo. Potrebbe essere lui a succedere al super leader tra 10 anni. Chen Min’er è un alleato del presidente: era stato capo della propaganda quando Xi era al comando del partito nello Zhejiang, dal 2002 al 2007. Se dovesse passare la sua «promozione» Xi avrebbe in maggioranza suoi uomini nel cuore del potere.
Hu Chunhua
Hu Chunhua è segretario del Pcc del Guangdong, una delle regioni cinesi più importanti, responsabile da sola di oltre un quinto delle esportazioni totali della Cina. Hu è uno dei più giovani funzionari in carriera, classe 1963, ed è da considerarsi del gruppo dei «protetti» di Hu Jintao, tanto da essere chiamato «il piccolo Hu». Hu Chunhua è molto stimato: ha saputo fare una carriera nel partito prendendosi importanti responsabilità. Entrato nella Lega della gioventù comunista, feudo politico proprio dell’ex presidente, ha ricoperto importanti ruoli in zone «sensibili» come il Tibet e la Mongolia interna dimostrando di essere in grado di «mantenere la stabilità» anche con l’utilizzo di un pugno di ferro molto apprezzato dalla dirigenza cinese. Potrebbe essere uno dei sette più potenti, sempre che Xi non veda in lui un futuro grattacapo anziché una risorsa.

Repubblica 18.10.17
Xi usa parole da sogno per la Cina del 2021 e per la sua terza vita Debito permettendo
di Angelo Aquaro

PECHINO. È da sogno il discorso del re e quel sogno si chiama China Dream. Sì, più che discorso del re è ormai un proclama da Imperatore quello con cui Xi Jinping apre il congresso che lo incorona per la seconda parte del suo mandato. Ma ormai lo scrivono anche le veline di stato che «gli obiettivi guardano al di là dei prossimi cinque anni».
China Daily
si riferisce ai «due obiettivi per il centenario» che proprio Xi ha delineato nel «China Dream» che continua a risuonare qui, nella Grande Sala del Popolo, dove sono riuniti i 2.280 delegati, 7 in meno di quelli annunciati perché altre teste sono cadute, con la scusa della corruzione, per inseguire il «Sogno cinese». E cioè costruire, entro il 2021, centenario del partito, una società «xiaokang », moderatamente prosperosa. E costruire entro il 2049, centenario della repubblica, un paese «forte, democratico, civilizzato, armonioso e modernamente socialista». Ma lo sanno tutti, qui in Cina, che dire «al di là dei prossimi cinque anni» vuol dire che Xi non ha intenzione di fermarsi ai due mandati quinquennali, e si sta costruendo una terza vita. Tuo Zhen, vicecapo della propaganda, il duro – sarà un caso? – scelto come portavoce del Congresso, conferma che il Conclave rosso iscriverà nella costituzione il suo pensiero. E dunque: è il sogno cinese o il sogno di Xi?
Il fatto è che aspettando la costruzione del sogno di domani indovinate un po’ chi si fa largo nel presente: proprio chi sta costruendo, letteralmente, migliaia e migliaia di chilometri di strade e ferrovie. A 57 anni Chen Min’er è il delfino che si appresta a entrare non solo nel Politburo dei 25 uomini più potenti ma direttamente nei Magnifici 7 del Comitato Permanente, dove Xi combatte per conservare il suo braccio destro Wang Qishan, 69 anni: sarebbe pensionabile per la legge non scritta di qui, ma se riesce a mantenerlo a bordo, magari rispolverando la poltrona di presidente del partito, sarebbe un colpo e un precedente per quando in naftalina, tra 5 anni, dovrebbe andare proprio lui.
Ma chi è questo Chen? Dice bene il Financial Times che a 57 anni il delfino è arrivato fin lassù adottando il manuale del bravo dirigente comunista, cemento e spesa pubblica: regalando al Guizhou, provincia grande quanto la Cambogia, una rete di infrastrutture che è il doppio dell’Inghilterra ma anche per questo attira multinazionali come Apple e Ibm. È lui dunque il primo dei fedelissimi. Assieme a Wang Yang, 62 anni, il vicepremier incaricato di seguire la Nuova via della Seta, il progetto economico che più sta a cuore al “cuore” del partito, come Xi è stato promosso. E Wang Huning, 61 anni, “il Kissinger cinese”, il più influente dei tre consiglieri personali accomunati tutti dagli studi in America. Sono loro gli uomini del presidente. Ed è su di loro che ieri pomeriggio si sono scannati i veri padroni della Cina nella riunione a porte chiusissime dove avrebbero partecipato anche gli ultimi due ex presidenti Jang Zemin e Hu Jintao: capaci ancora di opporsi all’Imperatore? Certo è solo che con l’annuncio, sempre ieri, della data di chiusura, martedì 24 ottobre, il Conclave rosso potrà regalarci ormai poche sorprese: Kim Jong-un a parte, visto che i suoi blitz hanno rovinato le ultime feste di Xi, dal summit sulla Via della seta a Pechino fino al vertice Brics di Xiamen. A proposito: affronterà anche questo il Congresso? E che succede ai rapporti con gli Usa alla vigilia della visita di novembre di Donald Trump?
Hai voglia a riscaldarsi sulla politica, anche estera. È sempre l’economia, bellezza. «Alleggerimento », nel senso del debito, è la parola più spesa qui. Perché anche se il partito sfodera una crescita media del 7,2% negli ultimi 5 anni, il 30% globale, sono i 4mila miliardi di debito, cioè il 41% del Pil da oltre 11mila dollari, a preoccupare gli investitori mondiali. A ragione: il debito del Guizhou, l’ex regno di Chen, il delfino oggi promosso a Chongqing al posto guarda caso di Sun Zhengchai, l’astro nascente che rischiava di offuscare Xi, ammonta all’83% del debito provinciale. È più del doppio della media nazionale. Ma è un record, negativo, che evidentemente vale una promozione. Poi dice che non è un sogno, indebitarsi e crescere: poi dici che non credi al China Dream.

Repubblica 18.10.17
“Il pensiero di Xi in Costituzione è un gran balzo preoccupante”
Lo storico Minzner spiega populismo dall’alto e nuovo autoritarismo di Pechino
di A. Aq.

Carl Minzner, esperto di diritto cinese della Fordham University

PECHINO. «È successo a Mao Zedong, e va bene, e poi a Deng Xiaoping, quando però era già morto», dice Carl Minzner, il professore della Fordham Univeristy, New York, tra i più ascoltati esperti di diritto cinese, che sta per mandare alle stampe con Oxford University il suo Fine di un’era: come il ritorno dell’autoritarismo in Cina sta minacciando l’ascesa del Paese.
Finora nella Costituzione è stato iscritto il pensiero di ogni leader. Perché la preoccupa tanto che al pensiero di Xi sia legato il suo nome?
«Perché equivale a dare alle sue parole valore di legge. È un salto di qualità: all’indietro. Che annulla 20, 30 anni di lenta istituzionalizzazione delle norme».
Basta un nome a fare la differenza?
«Che succede quando Xi fa un discorso che, per esempio, tocca argomenti non ancora previsti da una legge? Torniamo ai tempi di Mao? Torniamo a quando il pensiero di un leader valeva più degli sforzi di sistematizzazione di un gruppo? Quello che Mao diceva al mattino, alla sera era legge per tutti».
Sta parlando del rischio di una svolta autoritaria.
«Xi combatte una battaglia, anche giusta, contro i gruppi di interesse. Occhio però: in tutto il mondo l’allarme scatta quando s’infiamma il populismo dal basso. In Cina, e anche qui Mao insegna, il rischio è il populismo dall’alto. Nasce quando i leader combattono, al top, tra di loro: e per vincere si rivolgono alla base. È successo negli anni ’60 quando Mao chiamò in suo soccorso il popolo. In fondo anche Tiananmen scoppia quando a litigare è il vertice ».
Xi potrebbe rivolgersi direttamente al popolo?
«È la soluzione turca. Tayyp Erdogan che chiama alla mobilitazione elettorale ».
C’è ancora spazio per la democrazia in Cina?
«Si chiude ogni giorno di più. La protesta si organizza: ma le rivendicazioni non hanno più profilo sistemico. L’ambiente, certo: ma poi? Sarà mica una sfida al potere, stai soltanto protestando per non avere l’inceneritore sotto casa. Battaglia sacrosanta: ma non proprio la rivoluzione».
(a. aq.)

La Stampa 18.10.17
Xi Jinping apre il Congresso del Rinascimento cinese
La leadership del Partito Comunista da oggi riunita nella capitale: avanti con le riforme economiche E il presidente lancia l’agenda dei prossimi trent’anni: fuori dalla povertà 30 milioni di persone
di Francesco Radicioni

«Voi avete il vostro modello, noi abbiamo il nostro». Chi vive in Cina si sente spesso ripetere questa frase. Dopo l’ultima crisi finanziaria globale e le contraddizioni delle democrazie occidentali, il senso di queste parole ha preso nuove sfumature. Oggi, per molti cinesi, il messaggio è che - in fondo - il modello politico ed economico della Repubblica popolare sia migliore.
Il 19° Congresso del Partito comunista - che si apre questa mattina nella Grande Sala del Popolo nel cuore di Pechino - sarà l’occasione per il presidente Xi Jinping di rilanciare questa visione, oltre che per consolidare il proprio potere al vertice della Repubblica popolare. Salito al potere nel 2012, da allora il presidente cinese è riuscito ad accentrare nelle sue mani tanto potere come non si vedeva da decenni a Pechino. In questi anni, Xi ha stravolto alcune dinamiche e tradizioni con cui è stata governata la Cina nell’ultimo quarto di secolo, facendo della sua carismatica presidenza l’inizio di una nuova fase politica che si propone di cambiare il volto del Paese per i prossimi trent’anni. Fin da subito, Xi Jinping ha chiarito che il suo ambizioso progetto prevede il «grande rinascimento della nazione cinese» entro il 2049. Al di là del linguaggio paludato, il traguardo è proprio quello di rendere i cinesi più sicuri del proprio sistema economico, politico e culturale.
Quando questa mattina Xi Jinping prenderà la parola davanti ai 2287 delegati, rappresentanti di oltre 89 milioni di iscritti, nella sua relazione risuoneranno gli slogan che hanno caratterizzato la retorica della leadership cinese di questi ultimi anni. Forte enfasi sarà posta sulla trasformazione della Cina in una «società moderatamente prospera» entro il 2020: il che significa portare fuori dalla povertà altri 30 milioni di persone. «La sfida più difficile di tutte», l’ha definita Xi alla vigilia del Congresso. Nei prossimi cinque anni la Repubblica popolare dovrà anche muovere i primi passi nella costruzione di un nuovo modello economico - riassunto nel piano Made in China 2025 - che punti su innovazione, produzioni ad alto valore aggiunto e tutela dell’ambiente. Il primo mandato di Xi Jinping è stato anche quello della «nuova normalità» e del rallentamento della crescita economica: passata dal 7,9% del 2012 al 6,7% dello scorso anno. È anche probabile che Xi Jinping torni a sottolineare l’importanza della riforma delle imprese di Stato. Difficile però che le riforme economiche saranno quelle che ci si aspetta in Occidente. Pechino è consapevole del «ruolo decisivo» svolto dalle forze del mercato nel portare la Cina fuori dal sottosviluppo: il 60% della crescita economica e l’80% dei posti di lavoro viene dal settore privato. Allo stesso tempo, la leadership cinese è anche convinta che debba essere la politica a governare l’economia, per far così fronte ai rischi legati al debito, alle incertezze sui mercati finanziarie e alla massiccia fuga di capitali. Insomma, controllo sulla società e stabilità nelle scelte di politica economica, non saranno sacrificati sull’altare delle liberalizzazioni. Xi tornerà anche a rivendicare i successi nella campagna contro la corruzione che ha punito centinaia di migliaia di funzionari, ma che è stata usata anche per metter fine alla carriera di alcuni astri nascenti sulla scena politica di Pechino che rischiavano di fare ombra al «nucleo» del Partito. Sul fronte interno restano aperte le sfide rappresentate dalla turbolenta periferia della Repubblica Popolare: Tibet, Xinjiang, Taiwan e il movimento democratico di Hong Kong. Il grande rinascimento della Cina passa anche dalla svolta che Xi ha imposto al ruolo internazionale del colosso asiatico. In Cina non si era mai visto un presidente così globetrotter – in questi anni è volato in America Latina e in Medioriente, in Africa e in Asia centrale – oltre che così attivo sui principali dossier della politica estera. Pilastro della politica estera di Pechino rimane però la Belt and Road: l’iniziativa economica e strategica promosso da Xi Jinping nel 2013 e che si propone di collegare il continente Euroasiatico attraverso una capillare rete di infrastrutture. Un piano Marshall con caratteristiche cinesi, secondo alcuni. Un’iniziativa che ha consentito a Pechino di rafforzare le relazioni con alcuni Paesi della regione, compresi alcuni dei principali alleati degli Stati Uniti in Asia.

il manifesto 18.10.17
Xi Jinping, dal decennio d’oro alla discontinuità
di Simone Pieranni

Xi Jinping costituisce uno storico punto di discontinuità nella recente storia cinese. La Cina del «decennio d’oro», il periodo che va dal 2002 al 2012, era un paese contraddistinto da una crescita a doppia cifra, in grado di organizzare Olimpiadi a Pechino nel 2008 e l’Expo a Shanghai nel 2010 – entrambi eventi da considerarsi ben riusciti. Analogamente era il paese che, a seguito dell’epoca delle Riforme volute da Deng, aveva saputo inserirsi nei meccanismi economici mondiali, guidando la propria economia in modo pianificato e sapendola difendere da pericolose ingerenze esterne, tanto che la crisi finanziaria del 2008 colpì Pechino solo di rimbalzo mettendo in difficoltà il suo modello legato all’esportazione. Quella Cina era un paese guidato dal Partito comunista, non senza polemiche sui temi dei diritti umani, ma di cui veniva riconosciuta la capacità di una dirigenza di tecnocrati in grado di fare andare la locomotiva cinese nella direzione voluta. Si parlava, non a caso, di «dirigenza» in modo generico: l’allora numero uno Hu Jintao non era certo nei radar dei media internazionali; in pochi ricordano il suo contributo teorico dello «sviluppo scientifico» del socialismo cinese data la sua figura grigia, diluita nella «guida collettiva» del partito.
Dal 2012 tutto questo è cambiato: alla segreteria del Partito e alla presidenza della Repubblica popolare è arrivato Xi Jinping. Il suo nome, allora, venne identificato come «segnale di continuità» con il passato.
La realtà ha dimostrato il contrario, fin dall’inizio: quella che doveva essere una successione «pacifica» ha portato alla luce del sole una lotta terribile all’interno del partito. Ne fece le spese Bo Xilai, legato a una camarilla ultra nazionalista; oggi Bo è in carcere, condannato all’ergastolo, mentre Xi Jinping, dopo questo Congresso, sarà probabilmente il leader più forte che la Cina abbia mai avuto.
E se è scontata la sua nomina a guidare il paese per i prossimi cinque anni, esistono serie possibilità che il suo mandato possa arrivare a 15 anni. Ha attirato su di sé più cariche di Mao Zedong e con la campagna anticorruzione si è presentato come il risolutore del male dei mali della Cina guadagnando sostegno e credibilità popolare. Ha posto sotto di sé militari, sicurezza nazionale ed economia. È stato nominato «cuore» del partito comunista e il «pensiero di Xi Jinping», così come il «pensiero di Mao Zedong» e la «teoria di Deng Xiaoping» finirà nella carta costituzionale del partito comunista, divenendo una linea guida associata al suo nome finché il Partito esisterà. Di fatto Xi Jinping non è solo l’uomo più potente della Cina ora, ma è l’uomo più potente dalla nascita della Repubblica popolare.
Questo accentramento dei poteri ha avuto come direttrici tanto la politica interna, quanto – e soprattutto – quella estera. Il «nuovo sogno cinese», ovvero la volontà di riportare il paese al posto che gli compete, al centro del mondo, «la rinascita della nazione cinese», un mix di tentativi immaginifici molto simili al soft power (calcio, cinema ad esempio) insieme allo smart power (progetti di acquisizione economica tout court) costituisce il fulcro attraverso il quale Xi Jinping ha rimesso la Cina al centro di trame mondiali. Xi Jinping ha disegnato per il futuro una «globalizzazione alla cinese», costituita dalla Nuova via della seta; si tratta di una globalizzazione paternalistica, sicuramente egemonica e per quanto nazionalistica, molto distante dalla muscolarità americana. Internamente Xi Jinping ha spinto su innovazione, robotica, intelligenza artificiale, big data e su una maggiore compenetrazione tra pubblico e privato, arrivando a desiderare una partecipazione statale anche nelle aziende fiore all’occhiello del rinnovato «made in China», non più solo fake, ma campioni del mondo dell’e-commerce (Alibaba) o delle app (Wechat).
Chi può fermarlo? Secondo il Wall Street Journal in una Cina di questo genere il pericolo potrebbe arrivare dai miliardari. Ma Xi ha già dimostrato di sapere come gestirli: arrestandoli. Che Cina sarà dunque: un paese sempre più improntato ad allargare il più possibile la classe media e a fare pesare il proprio ruolo internazionale. Ma nelle mani di una sola persona, come non accadeva da tempo.

La Stampa 18.10.17
Il risiko della leadership in Asia
di Giuseppe Cucchi

Nel declino della Russia, che nonostante l’abilità strategica di Putin non riesce a difendere la Siberia dalla strisciante e per il momento ancora pacifica invasione cinese, e nel sonno della ragione di una America che, grazie al suo nuovo Presidente appare ora avvinta alla Corea del Nord in uno stallo senza apparente via di uscita, la partita per la leadership in Asia - il vero «grande gioco» di questo inizio del terzo millennio - appare ora ridotta a tre soli contendenti: il Giappone, l’India e la Cina. Già da prima i tre non si amavano molto. Fra Giappone ed India pesa ancora l’ombra della Seconda guerra mondiale mentre fra Cina e Giappone e Cina ed India la lista delle recriminazioni reciproche è senz’altro molto lunga. Benché figli della medesima cultura, i due grandi Imperi dell’Estremo Oriente hanno infatti tentato più volte invano di conquistarsi a vicenda. Chi è andato più vicino a riuscirci è stato il Giappone, con una invasione del territorio cinese che è in sostanza durata dal 1931 al 1945 ed è costata alla Cina circa 35 milioni di morti. Ai vecchi rancori di fondo pronti a riemergere alla minima provocazione, ed al contenzioso su alcune isole del Mar Cinese Meridionale, si è poi sommato il fatto che il Giappone sia da sempre il più solido dei pilastri su cui poggia la politica di contenimento della Cina perseguita dagli Stati Uniti. Fra India e Cina infine i rapporti sono stati per parecchio tempo altalenanti, guastandosi poi solo negli Anni Sessanta a causa di contestazioni di confine e dell’ospitalità che gli indiani offrirono al Dalai Lama fuggiasco. Da allora, nella vecchia logica di farsi amico il nemico del tuo nemico, Cina e Pakistan procedono in stretta reciproca intesa sotto lo sguardo allarmato di New Delhi che teme l’accerchiamento. Uno scenario generale molto complesso quindi, cui si aggiungono ora i due elementi di ulteriore complicazione costituiti dalla crisi nucleare nordcoreana da un lato, nonché dal passaggio alla fase operativa della colossale iniziativa di rivitalizzazione delle vie della seta lanciata dai cinesi dall’altro. Allo stato attuale entrambi suggeriscono più domande che risposte. Domande a cui, almeno in parte, le risposte dovrà fornirle il 19o Congresso del Pcc che si apre a Pechino il prossimo 18 ottobre. Secondo le previsioni esso sarà la definitiva consacrazione dello presa sul Paese di Xi Jin Ping, che dovrebbe approfittare della sua forza per riempire la Commissione Centrale di persone a lui legate ponendo così le basi per un eventuale prolungamento del suo mandato oltre i normali termini. In tale quadro il Presidente ha bisogno di successi capaci di motivare a suo favore i delegati e la intera opinione pubblica cinese. Crisi coreana e rivitalizzazione della via della seta acquistano in tal modo un valore contingente del tutto particolare. In primo luogo perché incidono sulla dimensione asiatica della politica estera cinese, quella localmente più sentita. Esse riportano poi la Cina al ruolo di centralità che le è storicamente caro, per cui essa ritorna ad essere «l’Impero di mezzo», «il Paese indispensabile», «il perno di ogni cosa». Non c’è da stupirsi che le parole d’ordine che si prevede usciranno dal Congresso siano «consciousness and assertivness», vale a dire piena coscienza del ruolo cinese e capacita di imporlo al resto del mondo. La Cina assapora così fino in fondo in questo momento il gusto di essere il Paese che gode del privilegio della iniziativa, in attesa che il Congresso si svolga e che più tardi, in novembre, il Presidente Trump arrivi in visita a Pechino. Si perché, al di là del panorama asiatico e delle sue rivalità , l’orizzonte strategico cinese appare ancora dominato dalla sfida con gli Stati Uniti, tutt’altro che rassegnati a perdere quella posizione di assoluta leadership di cui godono nel mondo attuale.

Il Sole 18.10.17
Ma il renminbi globale resta un sogno lontano
di Gianluca Di Donfrancesco

Per giocare fino in fondo il ruolo di superpotenza, Pechino ha bisogno anche di una valuta globale. È per questo che si è impegnata per portare la «moneta del popolo» nel paniere delle valute dell’Fmi, affiancando dollaro, euro, yen e sterlina. L’obiettivo, raggiunto lo scorso anno, ha segnato un tappa importante nel processo di internazionalizzazione dello yuan, che però ha via via perso slancio.
Oggi, il 64% delle riserve valutarie mondiali è denominato in dollari, poco più dell’1% in yuan, che rappresenta meno del 2% dei pagamenti internazionali, in discesa dal 2,8% dell’agosto 2015. Negli ultimi due anni, l’uso dello yuan nei mercati obbligazionari mondiali si è ridotto del 50% circa e i depositi in yuan a Hong Kong, il suo principale mercato offshore, sono scesi di altrettanto rispetto ai massimi di fine 2014.
Alla base del rallentamento c’è il nuovo - e più orientato al mercato - regime di cambio adottato a settembre del 2015. Secondo Donald Amstad, Director Fixed Income Asia di Aberdeen Standard Investments, «i regolatori hanno gestito male l’introduzione del nuovo meccanismo, che fa riferimento a un paniere di valute anziché solo al dollaro. Non hanno avvisato il mercato e hanno allentato il controllo sullo yuan, che è crollato proprio mentre il dollaro era in fase rialzista. Risparmiatori, società e istituzioni hanno portato capitali fuori dalla Cina e le riserve sono diminuite a un passo di 50-60 miliardi di dollari al mese. Questo ha esacerbato il timore di deprezzamento dello yuan, innescando un circolo vizioso». E per fermarlo, Pechino ha introdotto rigidi controlli di capitale.
La crisi ha infatti cambiato le priorità di Pechino. «L’obiettivo - spiega Fabiana Fedeli, Senior Portfolio Manager Emerging Markets di Robeco - è diventato controllare il deflusso di capitale e l’impatto sulla valuta. Così il Governo ha rallentato l’apertura del mercato dei capitali domestico, che è una condizione essenziale per l’internazionalizzazione del renminbi».
Pechino non ha però rinunciato. A rilanciare il tema è stato l’uomo che più ha spinto per la liberalizzazione dello yuan, il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. A pochi giorni dal 19° Congresso del Partito comunista, Zhou ha ricordato che «nessun Paese può avere un’economia aperta, se mantiene un rigido controllo dei capitali». «La Cina - sostiene Xu Sitao, Chief Economist di Deloitte Cina - aspira ancora a fare del renminbi una valuta in grado di rivaleggiare con dollaro, euro e yuan. Il problema è a quale velocità». «Una valuta globale - aggiunge Amstad - serve a Pechino per avere più forza in politica estera. Il governatore della Banca centrale ci crede e noi pensiamo che anche il presidente Xi Jinping la voglia, ma non a tutti i costi: se significasse provocare una crisi finanziaria interna, Pechino si fermerebbe. La prossima tappa avverrà durante una fase di debolezza del dollaro e sarà più graduale. Difficilmente vedremo cambiamenti forti e improvvisi come quelli di due anni fa».
Gli ostacoli sul percorso non sono pochi. Per Amstad, «in primo luogo, sarà necessaria una riduzione della leva finanziaria. Poi c’è una questione di credibilità. Dato che la Cina è sempre intervenuta sul mercato, ci vorrà una lunga fase di gestione credibile del mercato dei capitali prima che gli investitori si convincano». La fiducia dei mercati è «la chiave» anche per Fedeli: «Un mercato valutario aperto, che consenta di esportare capitali dalla Cina, con facilità e senza ritardi, è una condizione necessaria, ma proprio il bisogno di bilanciare l’internazionalizzazione della valuta con la capacità di controllare le fughe di capitale renderà il processo più lento di quanto la forza commerciale della Cina potrebbe consentire».
Non va poi dimenticato, sottolinea Amstad, che «ai cinesi la stabilità del tasso di cambio piace». E piace al punto che, per Xu Sitao, l’ostacolo principale resta proprio il «disagio nei confronti delle fluttuazioni di mercato, soprattutto sul tasso di cambio. Giusto o no, un renminbi stabile è percepito come un segnale di fiducia».

il manifesto 18.10.17
Dietro quei dati sugli stupri
Violenza maschile contro le donne. Le statistiche e le rappresentazioni. Un’emergenza agitata per alimentare l’odio e nascondere il vero problema
di Stefano Ciccone

La violenza maschile contro le donne è al centro dell’attenzione: spettacolarizzata, offerta allo sguardo voyeuristico sulla sofferenza delle vittime o delle famiglie. Una rincorsa pornografica in cerca del frammento di orrore o dell’effetto commozione.
L’emergenza violenza è agitata per alimentare l’odio e l’intolleranza che crescono nel paese e che il governo insegue e riproduce. Lo stupro di Rimini è stata l’occasione per questa campagna inciampata poi sulla violenza da parte dei due carabinieri, fino alla ragazzina cinese aggredita da un italiano a Milano.
In questo contesto i dati del Viminale sulle denunce per violenza sessuale, per cui il 60% delle violenze denunciate sarebbe ad opera di italiani e il 40% ad opera di «stranieri» pur essendo questi minoranza, sono stati impugnati, purtroppo, non solo dalla destra.
IL FEMMINISMO E LA SINISTRA sono stati accusati di essere troppo titubanti nel condannare la violenza degli stranieri per un «politicamente corretto» ipocrita. L’alternativa sarebbe un’intransigenza che sulla violenza sulle donne «non guarda in faccia nessuno»? In realtà è perfettamente l’opposto: l’allarme sociale sulla violenza, ridotto a emergenza di ordine pubblico, a frutto di un’invasione di altre culture, non solo alimenta la xenofobia, ma ha il risultato di marginalizzare e rimuovere il fenomeno. Più si rappresenta la violenza come emergenza più la si può considerare estranea alla nostra «normalità», come un’alluvione: il segno di una pazzia, di una barbarie da allontanare e non un problema che riguarda la nostra società, la nostra cultura. E così, dopo la nostra dose di orrore, commozione o indignazione, possiamo passare ad altro tranquillizzati. Noi uomini italiani possiamo metterci l’animo in pace: non c’è bisogno di metterci in discussione, non c’è nulla da cambiare nelle relazioni tra i sessi, nel nostro immaginario, nella nostra sessualità: basta delegare alle forze dell’ordine.
Che significatività statistica hanno i dati forniti? Lo stesso Viminale afferma che si tratta solo del 7% delle violenze avvenute: il 93% non viene denunciato. La parte conosciuta e quella sommersa sono omogenee ed equivalenti per cui la prima è rappresentativa della seconda? È evidentemente più facile denunciare la violenza di un aggressore sconosciuto che non quella di un datore di lavoro, un parente o un’autorità religiosa. Gli stessi dati del Viminale mostrano che il numero di stranieri nel nostro paese è aumentato ma la percentuale di stupri operati da questi è diminuito. Che significato avrebbe questo dato? Che aumentando il numero degli stranieri diminuisce la loro propensione alla violenza? In realtà si tratta di numeri così parziali da avere una scarsa attendibilità e un’oscillazione casuale non significativa.
LA CATEGORIA «STRANIERI», poi, è stata da tutti letta come «immigrati provenienti dall’Africa, dal sud, neri, arabi». In realtà gli stessi dati ci dicono il contrario: la categoria comprende, come è ovvio, belgi, statunitensi, cinesi, australiani, libici, siriani, norvegesi… e la frequenza delle violenze è proporzionale alla numerosità delle comunità presenti. Anzi: anche se l’emigrazione dalla Germania o dalla Siria verso l’Italia non hanno le stesse dimensioni le violenze ad opera di tedeschi sono il doppio di quelle commesse da siriani.
Già Saporiti, sul Sole24ore del 17 settembre, mostra, confrontando la numerosità dei residenti italiani e dei residenti stranieri con la numerosità dei detenuti per reati sessuali, come i dati siano travisati. Studi come quelli di Elisa Giomi dell’Università di Roma 3, mostrano che la realtà è esattamente l’opposto: i casi di violenza ad opera di stranieri vengono riportati dai media 7 volte di più di quelli ad opera di italiani.
Tornando al Viminale, e dunque non ai detenuti ma alle denunce, il risultato non cambia. 25 sono gli autori di stupro dell’Europa dell’ovest, 5 del nord America, 110 del sud e centro America, 173 dall’Asia. La nazionalità cinese, in genere in ombra, mostra 17 autori, il doppio della repubblica serba e più di cinque volte dei libici. Gli autori di stupro provenienti dai circa 50 stati dell’Africa sub sahariana sono 203, il 12,7 %, quelli provenienti dal Maghreb 330, poco meno del 21%.
Ma, soprattutto, le vittime, che nella percezione della notizia sarebbero tutte italiane, corrispondono di nuovo a tutte le comunità. L’immagine di immigrati sbarcati sulle nostre coste che violentano le donne italiane non ha dunque corrispondenza statistica. Come diciamo da venti anni la violenza non può essere attribuita a una nazionalità, a una cultura o a un livello sociale: è opera di parenti, amici e colleghi.
Le 1.539 denunce per stupro sono, inoltre, solo una piccola parte dei reati che riguardano la violenza maschile (lo stalking, le percosse, le uccisioni…). Sulle uccisioni i dati ci dicono che gli italiani sono la stragrande maggioranza.
I NUMERI, dunque non giustificano la strumentalizzazione xenofoba della violenza. Ma la cultura securitaria e razzista che militarizza le nostre città non è solo contro gli immigrati, è contro le donne. La riproposizione di una società chiusa, anche se usa il rispetto delle donne come valore contro altre culture è nemica della libertà femminile. Lo stesso vale per la lettura dei diritti delle persone omosessuali in funzione islamofoba. La rappresentazione di una contesa tra uomini con le donne poste sotto tutela e protezione maschile è linearmente connessa con un ruolo di potere. Le donne e i minori posti sotto quella l’autorità paterna che, fino al 1975, esercitava l’uso dei mezzi di correzione anche sulla moglie.
Ma possiamo negare le differenze tra culture? Certamente no. Eppure i media, come abbiamo visto, mescolano paesi africani islamici, cristiani e animisti.
Se la violenza è trasversale, la condizione di segregazione coatta, di isolamento ed esclusione contribuisce a produrre comportamenti violenti. Le politiche di inclusione, di ricongiungimento familiare, di recupero di condizioni di vita e relazionali umane contrastano la violenza più di politiche che accrescono la marginalità.
Sarebbe poi opportuno cogliere, con le differenze esistenti, gli elementi che attraversano culture rappresentate come incompatibili: la rimozione sociale del desiderio femminile, la tendenza a normare i corpi femminili, la rappresentazione di uno sguardo e un desiderio maschili che «consumano», violano e degradano e che porta o a coprire i corpi femminili o a esporli come merce.
E sarebbe opportuno riconoscere le differenti «culture» non come entità omogene e costanti nel tempo: l’irrigidimento integralista nelle diverse comunità islamiche non come residuo del passato ma moderna risposta politico identitaria, i conflitti agiti dalle donne nelle società non occidentali, la distinzione tra tradizioni culturali e dettami religiosi.
Ma l’obiezione ricorrente è: «va bene ci sarà anche la violenza degli italiani, ma intanto cominciamo col non far entrare altri stupratori…». In questo avverbio: «intanto», si nasconde l’ipocrisia della retorica xenofoba: rimandiamo la violenza contro le donne al momento remoto in cui avremo chiuso le frontiere e espulso l’ultimo «straniero», nel frattempo parliamo d’altro.

Il Fatto 18.10.17
Roberto Faenza
“Le accuse a Harvey Weinstein distolgono da quelle a Trump”
Il regista e sceneggiatore italiano: “Perché delle violenze si parla solo ora? Nell’ambiente tutti sapevano. È un sistema omertoso e opportunistico”
di Alessia Grossi

“Trovo abbastanza raccapricciante che siano stati tutti zitti per anni. Perché credimi, se sapevamo noi italiani che tipo era Harvey Weinstein, negli Stati Uniti non poteva non esserne a conoscenza l’intera Hollywood”. Secondo Roberto Faenza, regista, sceneggiatore e saggista italiano, starebbe proprio qui la “stranezza” del “caso Weinstein”.
Le rivolgo la sua stessa domanda. Perché proprio ora le accuse di violenza?
Non ci vedo nessuna dietrologia, non mi fraintenda. E non dico che le denunce delle attrici, non soltanto quella di Asia Argento siano infondate. Ma non si può non notare la coincidenza.
Con cosa?
Con le accuse dello stesso genere rivolte a Trump. Ora – da quando c’è questo nuovo caso così eclatante – non se ne parla più. È come se si fosse messo in moto un meccanismo di distrazione, spostando l’attenzione da Trump a Weinstein.
Perché proprio lui?
Sicuramente perché – come dicevo prima – le accuse non sono infondate. Ma c’è di più. Harvey è un uomo vicino ai democratici. Attaccare l’idolo dem di Hollywood si porta dietro una serie di conseguenze importanti, che appunto, spostano l’attenzione, anche internazionale, dal presidente degli Usa.
Anche Asia Argento rientrerebbe nel disegno di Trump di abbattere il simulacro dem di Hollywood?
Chiaramente no. Ma ce ne sono anche altre, almeno una decina tra le attrici italiane che sono state a letto con lui per avere anche una particina in un suo film. Il che significa che tutti sapevano. Ma c’era reticenza ad accusare il prepotente che abusava del suo potere in una maniera scandalosa.
Harvey Weinstein è davvero un orco?
Può darsi. Ma perché stanno venendo fuori soltanto ora queste cose? A me colpisce anche l’omertà di questo sistema hollywoodiano fatto di un opportunismo raccapricciante.
In che senso opportunismo?
Finché Harvey ha fatto comodo, nessuno ha parlato. Ora l’Academy gli toglie addirittura gli Oscar.
Non le sembra un gesto appropriato?
Credo sia ipocrita. Dov’era l’Academy in tutti questi anni? Nessuno di loro era a conoscenza di ciò che succedeva? Ma se lo so io… a me pare soltanto una caccia allo stregone.
E in Italia? Asia Argento ha accusato anche un regista/attore italiano di averla molestata.
Quando si lancia un’accusa del genere dovresti fare anche il nome. Trovo grave anche in questo caso l’omertà dell’ambiente. È come se si svegliasse Biancaneve e scoprisse che uno dei nani è un delinquente. Ma dov’erano tutti?
Anche da noi quindi c’è un Weinstein secondo lei?
Secondo me non c’è un Harvey italiano, perché in Italia è tutto in scala ridotta. Ma in ogni caso, il principio è lo stesso. Chi ha il potere, lo esercita. Un potere anche intimidatorio nei confronti dei colleghi registi. Non è soltanto una questione femminile.
Cosa intende?
Voglio dire che non è solo una questione di letto, e che oltretutto riguarda ogni nicchia di potere. Anche quello della tv. Non c’è mica solo Harvey. Guardi, io gli darei un Oscar proprio ora a Weinstein, pensi un po’.

Repubblca 18.10.17
“Anche io” sono vittima di abusi Con Alyssa dilaga la social-denuncia
La star Milano lancia #metoo, poi hashtag in italiano e francese. E gli uomini: l’ho fatto
di Francesca Caferri

ME TOO. Anche io. E non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo. Perché in fondo lo sapevano già tutti. Nelle università, negli ospedali, negli uffici, nei giornali. Che da quel prof è meglio andarci accompagnate, con quel capo è meglio evitare le trasferte di lavoro. Che quel colloquio è meglio fissarlo al ristorante e la sera il lavoro rimasto è bene portarselo a casa invece di rimanere fino a tardi alla scrivania. Perché molestano le donne. Eppure c’era proprio bisogno di dirlo perché tutti aprissero gli occhi e smettessero di far finta di nulla. O di sorridere facendo la battutina di turno.
In tempi di social sono decine di migliaia le donne che dopo lo scandalo di Harvey Weinstein che ha scosso Hollywood lo stanno facendo, in tutto il mondo. #MeToo, l’hashtag lanciato dall’attrice Alyssa Milano, protagonista della serie di culto “Streghe”, nel giro di 48 ore ha fatto il giro dei social affiancandosi e superando, con la forza di quella lingua franca che è l’inglese, quelli nati negli altri idiomi. #quellavoltache in italiano e #balancetonporc in francese, per citare quelli più vicini a noi.
Se tutte le donne che sono state in qualche modo molestate lo dicessero in pubblico, forse servirebbe a far capire l’entità del fenomeno, ha detto Milano lanciando la sua campagna. E la risposta non si è fatta attendere. «#MeeToo. Quando ero nell’esercito. E molte volte. Sono stata zitta per preservarmi», dice Rita Abraham. «#MeeToo. Da bambina, quando i ragazzini mi tiravano su la maglietta e mi toccavano », le fa eco un’altra donna.
Eppure un interrogativo resta: davvero, serviva che lo dicessimo? Forse sì, perché qualcuno ha cominciato a capire. Le battutine sono diminuite, i sorrisi si sono spenti e la condanna di chi sapeva e ha taciuto, a Hollywood come nel resto del mondo, sta diventando un po’ più comune. E forse serviva che lo dicessimo perché c’è anche chi ha iniziato a rispondere in pubblico: cosa che non era affatto scontata. #Ihave. L’ho fatto, è l’hashtag nato negli Stati Uniti in risposta a #MeToo: l’ho fatto anch’io, ho molestato una donna. Una collega, una compagna di studi, un’amica che si era fidata troppo. In Italia e in Francia non si ha notizia di hashtag simili, ma sarebbe bello se nelle prossime ore cominciassero a girare anche sulla nostra Rete frasi come questa: «L’ho fatto. Ho chiesto sesso in cambio di favori di lavoro. E ho punito chi diceva no», twitta un uomo.
«Dovremmo tutti essere femministi », ha detto la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie con una frase che ha colpito talmente tanto da finire scolpita sulle magliette da 500 dollari di Dior. «I bambini devono essere cresciuti femministi tanto quanto le bambine, perché sono quelli che hanno il potere e la responsabilità di cambiare la cultura», ha scritto qualche giorno fa il primo ministro canadese Justin Trudeau, idolo del femminismo moderno.
È una verità elementare. Ma se a farla capire serve urlare sui Social network, allora lo stanno facendo decine di migliaia di donne. #MeeToo. Anche io. E anche a nome di quelle che un Social network non sanno neanche che cosa sia.

Repubblica 18.10.17
Molestia e castigo
di Natalia Aspesi

PARE che a scandalizzarsi per l’eccesso e l’accumulo di molestie sessuali perpetrate dal produttore hollywoodiano di incallita perversità verso una intera folla di giovani belle ragazze, poi diventate celebri star o scomparse nel nulla, siano soprattutto gli uomini, arrivando il presidente francese Macron a togliergli la Legion d’onore, con un gesto quasi da pochade. Non si vorrebbe che addirittura condannassero al rogo, come capitò a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, certi bei film messi insieme dall’orrendo omaccio, tipo Il discorso del re o Pulp Ficion, per cancellarne ogni traccia. Ma perché gli uomini più commossi delle donne, più indignati, più stupiti come se non ne sapessero nulla di certe sorti femminili non poi così rare?
Senso di colpa? Mani avanti? Virtù? Machofemminismo? Impotenza? Terrore che le donne si mettano a parlare, e non solo nel mondo del cinema? Nelle fabbriche, negli uffici, nelle redazioni, in parlamento, in tribunale, nelle caserme, negli ospedali, all’opera, negli allevamenti di galline, anche nelle parrocchie, ovunque insomma si trovino insieme uomini e donne? Soprattutto nel passato ma non tanto lontano, le molestie hanno fatto parte di una certa quotidianità italiana, finendo le prede quasi a non farci più caso: l’omino che nella penombra si tirava già i pantaloni al passaggio delle adolescenti, l’omone che in strada seguiva le ragazze mormorando schifezze, l’uomo che in tram toccava immancabilmente il sedere o strofinava sullo stesso la sua patta, il medico che sostava più del necessario con le mani sul seno, l’attore che riceveva la giornalista in camerino, indossando una vestaglia che si apriva a poco a poco. E tutte queste miserie miserabili, neppure in cambio di qualcosa, come probabilmente può essere stato per le aspiranti attrici che non sono fuggite davanti al boss aspirante violentatore. Pare che i disperati erotomani da strada siano quasi scomparsi, e invece molto aumentati quelli da ufficio, diminuendo nel contempo la soglia di tolleranza delle donne: si sta parlando non di violenza sessuale ma di molestie, come quelle capitate alla maggior parte delle vittime di Weinstein.
Per cui nel giusto frastuono delle signore svillaneggiate, è ormai da tempo intervenuta la legge, a cui si può ricorrere, sempre che poi si venga ascoltate. Negli Usa esiste una norma, il Titolo VII della legge sui diritti civili del 1964, che se fosse applicata in Italia distruggerebbe intere aziende. Il sexual harassment, la molestia sessuale, è un reato che comprende praticamente tutto ciò che non è violenza, e consente alla vittima con buon avvocato di dilapidare ogni sostanza al crudele persecutore. Il reato punisce toccamenti, pizzicotti, strofinamenti, sfioramenti, mostrare immagini scurrili, inviare mail pruriginose, ma anche ogni altra villanata tipica di certi nostri allegroni: cioè fischiare al passaggio di una bella segretaria, o fissarla con cupidigia, commentare parti del corpo, raccontare barzellette erotiche. In più fare riferimenti all’età, all’etnia, alla religione, alle disabilità, anche alla possibile pazzia. Cosa deve fare la donna (o l’uomo, che negli ultimi 5 anni ha rappresentato il 17% delle denunce) per rivalersi delle varie offese? Primo denunciarle al proprio superiore, poi alla Commissione per le pari opportunità sul luogo di lavoro, telefono 888-669-4000, se mai capitasse anche alle italiane di compiere uno stage negli Stati Uniti.
E in Italia? Da noi il reato di molestia è previsto dall’articolo 660 del codice penale e comprende espressioni volgari a sfondo sessuale, atti di corteggiamento invasivo e insistito diverso dall’abuso. Una sentenza della Cassazione del 2012 fa una interessante differenza tra molestia e violenza, che avviene quando la molestata non ha possibilità di fuga. Secondo la sentenza che non teme di essere esplicita, «un tale comportamento materiale accompagnato da strani movimenti con la lingua e toccamento dei propri pantaloni e dalle parole oscene pronunciate come ‘mi diventa grosso e duro’ denotava senza alcun dubbio l’intento di appagamento del proprio desiderio violando nel contempo la sfera di autodeterminazione sessuale della donna». Anche in Italia Harvey Weinstein se la passerebbe molto brutta. Si spera.

il manifesto 18.10.17
«La scelta di Edith», la guarigione dopo Auschwitz
La storia di una psicologa sopravvissuta ai lager che racconta la propria esperienza traumatica ma aperta alla resilienza
di Lia Tagliacozzo

Edith Eva Eger aveva 17 anni quando è stata catturata dai nazisti insieme alla sua famiglia e agli altri ebrei della sua città nella primavera del ’44. Ora un libro – La scelta di Edith (Il Corbaccio, pp. 351, euro 18,60) – ne racconta la storia dall’infanzia ad oggi. La vita l’ha condotta da Kosice in Cecoslovacchia, ad Auschwitz, a Mauthausen, poi la «marcia della morte» da Mauthausen a Gunchenskir e, dopo la liberazione, di nuovo in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Austria, per approdare in varie città degli Stati Uniti e fermarsi, a oltre 90 anni, a La Jolla, in California. È negli Usa che farà la fame, lavorerà in fabbrica e, a 42 anni, conseguirà la laurea in psicologia. Da allora, da quel giorno di maggio del 1969, farà la psicologa, scrivendo e lavorando sul trauma, e sullo stress post traumatico. Il libro narra un percorso reciproco, quello tra pazienti e dottoressa nel corso di lunghi anni: nella misura in cui lei aiuterà i suoi pazienti a guarire, loro segneranno le tappe di una guarigione possibile.
La scelta di Edith è un bel libro – a scriverlo, con Eger, è Esmé Schwall Weigand – la parte dedicata alla deportazione e alla tragica esperienza dei campi di sterminio sono pagine drammatiche, ma non è nel campo della memorialistica che il volume desta maggior interesse. Da tempo, gli studi sulla Shoah indicano la necessità «nelle storie di vita» di prendere in considerazione non solo il periodo della guerra e della deportazione ma anche il periodo precedente e successivo, eppure La scelta di Edith non è nemmeno un libro di storia, è il racconto di come sia possibile vivere «dopo»: vi si narra infatti di una sorta di psicologia della libertà. «La memoria – scrive Eger – è un sacro suolo. Ma anche infestato di fantasmi. È il posto dove la mia collera, il senso di colpa e il dolore girano in tondo come uccelli affamati rovistando tra le solite vecchie ossa. È il luogo dove vado in cerca della risposta alla domanda alla quale non si può rispondere: ’Perché sono sopravvissuta?’». Domande e tentativi di risposta che non tracciano un percorso lineare, ma nessuna guarigione lo è: «Entrambe – scrive Eger riferendosi a due pazienti – erano potenzialmente in grado di guarire. Avevano la possibilità di scegliere azioni e atteggiamenti che le avrebbero trasformate da vittime in sopravvissute anche se le circostanze con le quali avevano a che fare non fossero cambiate. I sopravvissuti non hanno tempo di domandare ’Perché proprio a me?’. L’unica domanda rilevante è ’E adesso?’».
La chiave è nel solco della logoterapia, filone della psicoterapia fondato da Viktor E. Frank, viennese, anche lui prigioniero nei campi di sterminio nazisti. Un approccio positivo che ha radici nella vita di Edith. È ancora ad Auschwitz quando, dopo aver sfiorato la morte, riflette: «Non so cosa succederà dopo. Nel frattempo posso sentirmi viva dentro. Oggi sono sopravvissuta. Domani sarò libera». La ricerca della libertà dal dolore e dal trauma è il filo conduttore del volume. Resta qualche perplessità – in particolare per ciò che riguarda il difficile tema del perdono – ma l’inquietudine che suscita la lettura può essere un buon viatico.

La Stampa 18.10.17
In vendita per Halloween il costume di Anna Frank
di Monica Perosino

Venticinque dollari più spese di spedizione. «Oggi straordinariamente scontato a 20 dollari». Tanto basta per «trasformare le vostre bambine in Anna Frank». È questo l’annuncio comparso sul sito di acquisti online HalloweenCostumes.com. Nelle specifiche dell’articolo si precisa che l’abito è 100% poliestere ed è corredato da una tracolla marrone e un basco verde.
«Anna Frank Costume for Girls» (Costume di Anna Frank per ragazze) raffigura una ragazzina in abito blu. Sotto, una didascalia in cui si spiega che «la Seconda Guerra Mondiale ha creato eroi inaspettati e persino una ragazza come Anna Frank, con niente se non un diario, è riuscita ad essere d’ispirazione al mondo intero». Ma se l’intenzione della HalloweenCostumes.com era quelle di celebrare gli eroi della Storia, le cose non sono andate proprio come previsto. L’idea di vendere per Halloween il costume «ispirato» all’adolescente ebrea il cui diario ha testimoniato gli orrori del regime nazista, è stata travolto dalle critiche e dall’indignazione: da più parti HalloweenCostumes.com è stata accusata di aver messo in piedi «un’operazione disgustosa», uno «sfruttamento vergognoso» e un modo «assurdo di ricordare una vittima dell’Olocausto», morta di tifo a 15 anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.
Travolta dalla valanga di critiche l’azienda che distribuisce costumi da Halloween ha cancellato la pagina in tutta fretta e tolto dal mercato il costume.
Tuttavia lo stesso costume è ancora in vendita su altri siti anche se viene presentato come «World War II Girl Costume», costume di ragazza della Seconda Guerra Mondiale.

il manifesto 18.10.17
A Roma una marcia contro il razzismo e per la solidarietà
Roma. L’appello di Camilleri, don Ciotti e Moni Ovadia: «No agli accordi con le milizie libiche»
di Marina Della Croce

ROMA Sarà una giornata per dire no al razzismo, ma anche agli accordi che Italia e Europa stanno siglando con alcuni Paesi africani per imprigionare i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. E contro le leggi Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza che non solo non fanno alcuna distinzione tra chi delinque e chi invece arriva nel nostro Paese in cerca di lavoro, ma aboliscono anche il secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo.
Sarà una giornata come a Roma non si vedono da anni. L’appuntamento è per sabato prossimo e sono attese migliaia di persone da tutta Italia. Solo l’Arci – tra le sigle che hanno promosso l’iniziativa insieme a Libera, A Buon diritto, Amnesty International Medu e altre – ha organizzato 22 pullman, altri sette sono attesi dalla Campania e poi da Lecce, Bari, Milano, Genova, Bologna. «Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini per costruire il futuro di questo Paese» si legge in una lettera-appello firmata da monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Enrico Ianniello, Moni Ovadia. Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina e Carlo Petrini. Per chi deciderà di aderire alle 14,30 da piazza della Repubblica partirà un corteo che attraverserà via Cavour e via Merulana per concludersi in piazza Vittorio.«Un mondo laico e religioso vasto – spiega una nota dell’Arci – che da sempre è schierato in difesa del diritto di migrare e che agisce in prima persona, anche disobbedendo a decisioni italiane ed europee che sono in aperto contrasto tanto con la nostra Costituzione che con i fondamentali principi internazionali».
Da anni assistiamo a un escalation di comportamenti sempre più aggressivi nei confronti di migranti, rom e qualunque forma di diversità. Dalle ruspe leghiste per spianare i campi rom si è arrivati in poco tempo a siglare accordi con milizie libiche alle quali è stato affidato il compito di impedire ai barconi carichi di disperati di prendere il mare. Il modo in cui questo avviene è, come raccontano innumerovoli testimonianze, tenendo prigionieri uomini, donne e bambini in centri all’interno dei quali le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Da una settimana l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sta lavorando a Sabrata, in passato uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia, per assistere circa 14 mila migranti che le milizie libiche tenevano prigionieri all’interno di hangar, magazzini, case e fattorie, riuscendo in questo modo a far diminuire notevolmente il numero di sbarchi nel nostro Paese. La maggior parte dei migranti tratti in salvo sono traumatizzati e agli operatori dell’Unhcr hanno raccontato di aver subito violenze sessuali, di essere stati costretti a lavori forzati o a prostituirsi. «La strada degli accordi con i regimi dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo – scrivono tra gli altri monsignor Nogaro e Andrea Camilleri – non solo implica aiuti economici e governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu».
Una strada che l’Europa, Italia in testa, sembra decisa a percorrere sempre più e la recenti successi elettorali ottenuti in Germania e Austria da forze xenofobe e populiste non faranno altro che rafforzare ulteriormente questa scelta. Utilizzando anche l’ipocrita distinzione tra rifugiati e migranti economici, «etichette – proseguono i firmatari della lettera-appello – con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati, come i cosiddetti migranti economici, tentano tutti di sfuggire alla morte».
Al corteo parteciperanno anche numerose realtà e centri sociali dietro uno striscione che ricorderà come «Nessuna persona è illegale». Tra gli altri ci saranno i romani di Baobab, Action, Esc, Communia, ma è è prevista anche la partecipazione di realtà milanesi, bolognesi e da Genova. «Vogliamo essere in piazza – è scritto nell’appello dei centri sociali – perché riteniamo urgente rispondere al clima di odio razziale e di guerra ai poveri che sta imperversando nelle nostre città e che viene alimentato ad arte dal razzismo istituzionale e dallo sciacallaggio d formazioni esplicitamente neofasciste. Vogliamo essere in piazza insieme agli uomini e alle donne migranti che continuano a mostraci grande coraggio e determinazione nel disegnare le proprie rotte e costruire il proprio futuro».

La Stampa 18.10.17
Chi tocca Banca Etruria muore?
In via Nazionale la battaglia delle regole
di Stefano Lepri

Chi tocca Banca Etruria muore? La mossa a sorpresa del Pd contro il governatore Ignazio Visco, ispirata da Matteo Renzi, può essere letta in due diverse maniere. Una è tutta politica: costi quello che costi, non lasciare la polemica contro i crack bancari alle sole opposizioni, M5S in testa. Un’altra è la vendetta per aver messo in difficoltà l’entourage toscano del segretario Pd.
Il problema ovviamente esiste. In un breve volgere di mesi, dalla seconda metà del 2012 all’inizio del 2013, il sistema bancario italiano di cui prima si era vantata la solidità si è rivelato il più debole tra i grandi Paesi dell’area euro. Può ben darsi che ci sia stato un ritardo nel rendersene conto da parte della Banca d’Italia, allora unica responsabile della vigilanza sulle nostre aziende di credito.
È legittimo discutere se gli interventi sulle banche in difficoltà siano stati tempestivi. Quello sul Monte dei Paschi che Visco fece nelle prime settimane del suo mandato, autunno del 2011, lo fu. Per alcuni dei successivi, soprattutto la Banca popolare di Vicenza che era guidata da un gruppo di potere molto influente sia in Veneto sia a Roma, si possono avere dubbi.
Ma i politici dove erano? Dalla parte opposta.
Quasi sempre da ogni parte del Parlamento sono venute pressioni per non drammatizzare o per evitare interventi traumatici; in un caso almeno, il commissariamento della Cassa di Risparmio di Chieti nel settembre 2014, anche il M5S protestò. Nel caso di Banca Etruria si era adoperata appunto l’allora ministra Maria Elena Boschi.
L’assorbimento di una banca in difficoltà da parte di una più grande è sempre parsa ai politici la soluzione più opportuna per lavare i panni sporchi in casa, non turbare gli assetti di potere ed evitare conseguenze giudiziarie. Nel caso di Banca Etruria si parla appunto di svariati tentativi di questo tipo; e altro forse verrà a galla, nell’inasprirsi dello scontro.
Su questo l’amministratore delegato di Unicredit ha promesso di parlare davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta. In un’altra fase girò l’ipotesi di un intervento della Popolare vicentina, finita nel baratro essa stessa. Alcuni degli imputati hanno attribuito il suggerimento alla Banca d’Italia, la quale tuttavia è convinta di poter dimostrare di non esserne stata parte.
«Sbagliai a fidarmi della Banca d’Italia» recente affermazione di Matteo Renzi, è una frase ambigua, che si presta a diverse letture. Ne è sempre mancata una esplicazione precisa: quando, come, su quali banche. Cosicché si è tentati di sospettare che il rancore derivi non da ciò che la Banca d’Italia ha mancato di fare, ma da ciò che, magari un pochino tardi, ha fatto.
All’attacco improvviso oltre a capi d’accusa articolati mancano anche proposte alternative. Di personaggi esterni di autorità e competenza indiscutibili ce ne sarebbero, per dare una nuova guida alla Banca d’Italia; ma nessuno di essi pare sia mai venuto in mente a chi conduce l’attacco.
Oltretutto, per sostenere la linea Draghi nel consiglio Bce contro le pressioni tedesche serve un governatore rispettato all’estero, capace di esprimersi con proprietà sulle intricate faccende della moneta. Un italiano non all’altezza sarebbe un colossale autogol per l’economia del nostro Paese.

La Stampa 18.10.17
Le bordate per scaricare le responsabilità su Bankitalia
di Marcello Sorgi

I timori trapelati dal Quirinale sono più che giustificati: il siluro che Renzi ha fatto partire contro il governatore Visco, con una mozione del Pd alla Camera che ne chiede la sostituzione, è di una tale violenza da rischiare di intaccare il prestigio e la proverbiale autonomia della Banca d’Italia, una delle istituzioni italiane più rispettate anche sul piano internazionale. Per quanto Gentiloni si sia adoperato per mitigare la durezza del testo, ottenendo almeno di evitare un accenno alla “discontinuità”, che avrebbe potuto essere interpretato anche come un “no” a una successione interna all’istituto di emissione, il senso del documento voluto dal leader Pd è chiaro: scaricare una volta e per tutte sul governatore uscente la responsabilità delle crisi bancarie che hanno afflitto il governo Renzi e in particolare, per quanto riguarda il dissesto di Banca Etruria, Maria Elena Boschi, il cui padre era vicepresidente dell’istituto e risulta tra i personaggi del vertice duramente sanzionati dalla magistratura.
Sono state proprio le notizie di questi giorni sugli sviluppi giudiziari del “caso Etruria”, e le iniziative parlamentari di Lega e Movimento 5 stelle, che da tempo conducono su questo una martellante campagna, a convincere Renzi all’accelerata. Far cadere la testa di Visco, giunto a fine mandato e in predicato di una riconferma, nella strategia del segretario, equivale a trasformare Bankitalia nel capro espiatorio delle crisi bancarie, che hanno fatto fiorire dappertutto comitati di protesta di cittadini che si dichiarano truffati e che considerano insufficienti i rimborsi delle perdite subite con l’acquisto di titoli-spazzatura che il governo intanto ha disposto.
Colpire al cuore il vertice di Bankitalia, specie in un momento in cui il sistema delle banche è tutt’altro che stabilizzato, e in Europa è aperto il dibattito su un regime più rigoroso delle sofferenze bancarie che appesantirebbe ulteriormente i conti degli istituti di credito nazionali, potrebbe però rivelarsi un azzardo esagerato. Mattarella e Gentiloni questo hanno cercato di far capire al leader Pd. La nomina del governatore della Banca d’Italia, che una volta era a vita, è diventata più politica da quando la durata del mandato è diventata di sei anni. Ma sempre, nei precedenti rinnovi, i partiti si erano accostati con una certa cautela al problema, per evitare di far apparire lottizzata la scelta di una persona che deve necessariamente avere uno standing elevato e piena indipendenza per poter svolgere il suo compito.

Repubblica 18.7.17
Le sassate populiste in campagna elettorale
di Massimo Giannini

LA POLITICA non compie nessun atto di “lesa maestà”, nel criticare l’operato di un banchiere centrale. O persino nell’auspicare che un governatore venga rimosso e sostituito. Ma la mossa del Pd contro Ignazio Visco non ha precedenti nella storia repubblicana. In una settimana la principale forza della maggioranza impone al Parlamento prima un voto di fiducia sulla legge elettorale, ora una “mozione di sfiducia” contro il governatore della Banca d’Italia. Due “atti di forza” che rasentano quasi l’abuso di potere.
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ECHE sollevano seri dubbi sulla natura di un partito che si propone agli italiani come architrave del sistema politico-istituzionale.
Nessuno si meraviglierebbe se il testo approvato alla Camera portasse la firma di Brunetta o Di Battista. Per toni e argomenti, quel documento è in linea con le posizioni oltranziste di Forza Italia o con quelle giustizialiste dei Cinque Stelle. Ma c’è una coerenza oggettiva nella linea di Matteo Renzi, che adesso rivendica il suo dissenso rispetto alla riconferma di Visco e prende Via Nazionale a colpi di piccone. Il leader del Pd ha sempre sostenuto che, dopo i dissesti bancari di questi ultimi anni, sarebbe stata utile una forte “discontinuità”. Un mese fa, a Radio Capital, aveva detto testualmente: «Il governo e le forze parlamentari facciano una scelta all’altezza del compito della Banca d’Italia». Più chiaro di così non poteva essere. Ora la mozione dei democratici ricalca esattamente lo schema del segretario, che dunque lancia il sasso contro Palazzo Koch e non nasconde la mano. Ma restano due problemi, insormontabili.
C’è innanzitutto un problema di “forma”. Mettere in relazione l’esigenza di promuovere “un maggior clima di fiducia dei cittadini” con l’esigenza di individuare “a tal fine” un degno sostituto di Visco è un argomento da talk show per moderni tribuni della plebe, non un tema da confronto in un’assemblea legislativa. Tanto più se proprio per discutere la questione cruciale dell’efficacia della vigilanza nelle crisi bancarie di questi ultimi anni è stata appena costituita una Commissione d’inchiesta. Un partito di governo non può muoversi con le logiche di un movimento di piazza. Se lo fa, destabilizza il capo del governo stesso, Gentiloni, costretto a una delicata mediazione. E al tempo stesso crea una frattura profonda con il Capo dello Stato, che non a caso richiama “tutti gli organi della Repubblica” al rispetto del proprio ruolo, dell’indipendenza dell’Istituto, e dell’interesse del Paese.
C’è poi un problema di sostanza. Dal disastro del Montepaschi al collasso delle quattro banche “in risoluzione”, dal crac delle due popolari venete a quello di Carige: è evidente che qualcosa non ha funzionato, nei controlli di Bankitalia e Consob. È altrettanto evidente che spesso è passato troppo tempo tra le prime ispezioni negli istituti in stato pre-agonico (che nonostante questo hanno continuato a dare credito ad aziende amiche ma fallite e a piazzare bond-spazzatura all’ignara clientela) e i decreti di commissariamento degli amministratori. Ma nessuno è ancora in grado di stabilire se ci siano state responsabilità dirette della Vigilanza, se invece il problema sia di natura giuridica (i poteri che la legge gli conferisce) o se infine ci siano stati ritardi inspiegabili anche da parte della magistratura.
È chiara l’intenzione del leader Pd, che prende a sassate Palazzo Koch perché in questo momento nel Paese non c’è nulla di più impopolare che difendere le banche. Ma anche nella macelleria creditizia di questi anni, che ci è costata oltre 20 miliardi di denaro pubblico, la politica non può scagliare la prima pietra. C’è da chiedersi quanto sia credibile questo Pd renziano “di lotta e di governo”, che finisce per recitare troppe parti in commedia. Come fai a a chiedere la testa del governatore “che non ha vigilato”, quando hai nell’armadio lo scheletro di Banca Etruria e di papà Pierluigi Boschi? Come fai a contestare il rigore morale e amministrativo di Via Nazionale, quando hai tenuto per mesi e mesi come consulente a Palazzo Chigi il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, che stava indagando proprio sui misfatti di Banca Etruria?
Può anche darsi che Ignazio Visco non meriti la riconferma. Ma se non la meritasse lui, dovrebbe essere rimosso l’intero direttorio. E comunque, in piena campagna elettorale, tutto questo non lo può stabilire una mozione parlamentare voluta e votata da un partito che pretende di essere “l’unico argine al populismo”, e che invece finisce per cavalcarne l’onda insieme a Berlusconi e Grillo. Se fosse ancora vivo, un grande governatore del passato come Guido Carli non avrebbe avuto dubbi: li avrebbe chiamati “atti sediziosi”.

Il Fatto 18.10.17
Il Rosatellum crea astensionismo
di Salvatore Settis

Sulla nuova legge elettorale e il patto scellerato che ne ha assicurato l’approvazione alla Camera si è ormai detto tutto. O quasi. Un punto mi pare sia rimasto ancora al margine nei commenti di questi giorni: il reale rapporto fra la legge e il crescente astensionismo. La legge Rosato istiga alla sfiducia nelle istituzioni perché disprezza la Costituzione e le sentenze della Consulta, insiste sulle liste bloccate, è pensata come una conventio ad excludendum di alcuni partiti ai danni di altri; inoltre, ha costretto il governo a un improprio voto di fiducia che lo delegittima, e, se sarà firmata da Mattarella, ne appannerà la figura.
La sfiducia nelle istituzioni genera astensionismo, questo lo dicono tutti; ma il prevedibile calo di affluenza alle urne viene di solito presentato come un by-product della legge elettorale, un effetto previsto ma collaterale. E se allontanare i cittadini dalle urne fosse invece, in una strategia perversa ma tutt’altro che fantapolitica, scopo primario di una legge come questa? Gli indizi abbondano, a cominciare dai grandi festeggiamenti dopo le Europee del 25 maggio 2014 per il 40,81 % del Pd, definito da Renzi “risultato storico”. Nei commenti di allora (verificare per credere) ben pochi notarono che la coalizione di ferro fra non votanti e schede bianche o nulle superava di molto, col suo 49,63%, il risultato del Pd. E che la percentuale Pd, se calcolata sul totale dell’elettorato, valeva in realtà solo il 20,64%. Ma i trionfalismi di Renzi travolsero la scena politica italiana, innescando l’arrogante marcia di una riforma costituzionale scritta coi piedi e approvata a occhi chiusi da un Parlamento di nominati. La sicumera con cui si dava per scontata la vittoria nel referendum era dovuta al calcolo che alle urne si presentassero da una parte solo i fedelissimi (per convenienza o per inerzia) e dall’altra un manipolo di “gufi” ormai condannati a vani piagnistei. Il referendum del 4 dicembre, grazie a una mobilitazione di imprevista ampiezza, portò invece alle urne milioni di persone (specialmente giovani) che affossarono la stolta riforma e chi vi si era prestato. Ma questa inversione di tendenza, anche per la natura assai composita degli elettori del No, non incide minimamente sulla tendenza a un astensionismo crescente, dimostrato anche dai voti alle elezioni regionali (47,4% di votanti in Basilicata, un drammatico 37,67% in Emilia; in Sicilia vedremo). Intanto, nulla fanno i nostri governi per recuperare alla democrazia i 22 milioni di cittadini che non votarono alle Europee. Perso il referendum, non è cambiato il piano di chi vuole impadronirsi di un’Italia in cui la fiducia nelle istituzioni cala ogni giorno: avere sempre più voti (in percentuale) su sempre meno votanti. E, tramontato il sogno di una maggioranza solitaria del Pd, raggiungere comunque questo risultato mediante una qualche larga intesa, riesumando Verdini e Berlusconi e rastrellando voti a qualsiasi costo. Per poi ritentare, con sprezzo del referendum, lo stravolgimento della Costituzione già fallito una volta.
Perciò, un anno dopo aver contestato l’appoggio alla riforma costituzionale del presidente emerito Napolitano con una lettera aperta pubblicata da Repubblica il 4 ottobre 2016 (con risposta di Napolitano), stavolta mi trovo in pieno accordo con le sue pesanti osservazioni sul cosiddetto Rosatellum. Ma non sarebbe forse l’ora, alla vigilia di nuove elezioni, di fare il bilancio degli errori compiuti all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 ? Allora il Pd, anziché tentare altre coalizioni anche di limitato scopo e durata, scelse l’abbraccio mortale con Berlusconi. Allora il capo dello Stato pretese irritualmente dal presidente incaricato Bersani di garantire una maggioranza parlamentare prima di presentarsi alle Camere, e Bersani piegò la testa rinunciando al mandato. Allora Beppe Grillo derise apertamente chi invitava M5S e Pd a negoziare una coalizione d’obiettivo, con il programma di risolvere annose questioni come una sana legge elettorale e una legge sul conflitto d’interessi, e i due appelli in merito (9 marzo: Un patto per cambiare, se non ora, quando? e poi 10 marzo: Facciamolo!), pur raccogliendo 200 mila firme in pochi giorni, restarono lettera morta.
Molto è cambiato da allora, ma qualcosa di uguale è rimasto: la scarsa democrazia interna dei partiti, dal Pd al M5S, che favorisce l’astensionismo creando condizioni favorevoli a una politica che sull’astensionismo fa leva; mentre i fuoriusciti dal Pd non trovano nemmeno la strada per far blocco tra loro. La legge elettorale contribuisce a tener fissa la bussola del discorso politico sul “come” e non sul “che cosa”, sulle coalizioni e non sulle necessità del Paese, sui giochi di potere e non sui programmi di governo. Proprio nessuno vuol provare a porvi rimedio? Nessuno vuol provare a capovolgere le regole del gioco, facendo leva sulla democrazia interna di partito e su un chiaro progetto di attuazione dei diritti costituzionali per riportare alle urne quegli stessi giovani elettori che il 4 dicembre mostrarono fiducia nella Costituzione?

il manifesto 18.10.17
La Cgil contro il governo: risposte o sarà sciopero
Manovra. Cgil, Cisl e Uil scrivono una lettera al premier chiedendo un confronto urgente. Furlan: sul piatto delle pensioni c’è «il vuoto assoluto». Camusso: «La legge di Bilancio favorisce le rendite e mantiene lo status quo». Re David (Fiom) vorrebbe muoversi subito
di Antonio Sciotto

ROMA La legge di Bilancio infiamma le polemiche fin dal mattino: duro botta e risposta ieri tra la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che hanno incrociato i microfoni da due differenti trasmissioni radio. La leader sindacale ha spiegato a Circo Massimo di Radio Capital che la finanziaria appena varata «favorisce le rendite e mantiene lo status quo», non escludendo quindi uno sciopero generale. A stretto giro, da Radio anch’io Rai, Padoan ha replicato: «Mi chiedo quale legge di bilancio abbia visto», la nuova manovra «non corrisponde alla descrizione» di Camusso. In serata i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto un incontro urgente sulla manovra al premier: altrimenti non è escluso uno sciopero.
Tra i pro e i contro si sono poi via via inseriti in giornata tutti i principali partiti politici e i sindacalisti, da Di Maio a Renzi, da Brunetta a Salvini, fino a D’Alema e i segretari confederali. Il Pd ha ovviamente offerto pieno sostegno alla legge di Bilancio, mentre le opposizioni l’hanno bocciata senza riserve. Critiche anche da Cisl e Uil, soprattutto sulla parte pensioni. Mentre la Fiom Cgil è netta: la segretaria Francesca Re David chiede lo «sciopero generale».
INTANTO MATTEO RENZI è partito dalla stazione Tiburtina con il suo treno elettorale, con promesse rombanti: dichiarando «pieno sostegno al governo» sulla manovra, l’ex premier ha detto che «nella prossima legislatura dovremo fare un ulteriore Jobs Act», «individuare misure anche per i cinquantenni», e che serve «un’ulteriore riduzione delle tasse». Renzi pensa a una riedizione degli 80 euro: «Vanno individuate – spiega – nuove categorie non necessariamente per gli 80 euro ma per ridurre le tasse al ceto medio, perché non è accettabile che si allarghi la forbice tra chi sta bene e chi non sta».
All’attacco Massimo D’Alema di Mdp: «Gli sgravi fiscali possono incoraggiare a prendere un giovane per tre anni ma poi, quando finiscono, questo viene licenziato».
CGIL, CISL E UIL hanno dunque deciso di inviare una lettera al premier Paolo Gentiloni per chiedere un incontro urgente. In particolare i tre sindacati chiedono di inserire quanto previsto dall’accordo dello scorso anno sulla fase 2 della previdenza e un intervento per bloccare l’aumento dell’aspettativa di vita per le pensioni di vecchiaia. Nel frattempo prosegue la mobilitazione con assemblee nei luoghi di lavoro e iniziative sul territorio, ma per ora non si è presa nessuna decisione di sciopero.
Camusso, dal canto suo, ha così spiegato la sua contrarietà alla legge di Bilancio firmata Gentiloni: «Si è fatta una scelta politica: si poteva intervenire sulla finanza, sul patrimonio e facilitare chi lavora e chi produce e invece si è scelto di usare questo slogan sulle tasse («nessuna nuova tassa», aveva detto il presidente del consiglio, ndr), facendo credere che è una risposta a tutti e invece è una risposta solo ad alcuni, mantenendo la pressione fiscale alta».
SCIOPERO «PER ME non è una parola abrogata», ha poi aggiunto la segretaria generale della Cgil. «Valuteremo insieme a Cisl e Uil la risposta quando non si rispettano gli accordi. Il governo ha fatto una scelta politica. Questa manovra non dà nessuna prospettiva di cambiamento. È solo una sterilizzazione dell’aumento dell’Iva». Lo sciopero generale, insomma, non è affatto escluso, e poco più tardi la stessa Camusso, rispondendo questa volta ad Agorà Rai 3 su possibili proteste aveva aggiunto: «La prima cosa che dovremmo fare è discutere con i lavoratori».
Ma Padoan ritiene di aver fatto il massimo, e respinge le accuse: «Abbiamo messo risorse per gli investimenti pubblici, per gli investimenti privati, risorse per l’occupazione giovanile. Stiamo dando una scossa alla crescita», risponde a Camusso. E sulla previdenza: «Non è vero che non siamo intervenuti sulle pensioni. Ci sono misure come l’Ape sociale e l’Ape donna», ci sono «molti meccanismi introdotti, come per i lavoratori usuranti che hanno diritto ad andare in pensione prima». «C’è una legge concordata in sede Ue che tiene conto dell’allungamento delle aspettative di età», dice infine per spiegare l’impossibilità di modificare la legge Fornero.
Intanto si è saputo che per il 2018 le risorse stanziate per il Rei (reddito di inclusione) verranno incrementate di 300 milioni, portando così il reddito garantito a ciascuna famiglia da 480-490 euro a 530-540 euro (50 euro in più).
IL PIÙ CAUTO DEI SINDACATI resta la la Cisl: per la segretaria generale Annamaria Furlan «non c’è bisogno di rullare i tamburi». «Bene la decontribuzione per le assunzioni e i contratti del pubblico impiego – spiega – anche se la previdenza resta «una nota dolente», perché lì c’è «un vuoto assoluto».
Chi aveva fatto «rullare i tamburi»? Francesca Re David, segretaria generale Fiom, ritiene che «in questa manovra non c’è nulla a favore del lavoro, nulla sulle pensioni. Quest’anno finiscono gli ammortizzatori sociali e cominceranno i licenziamenti e anche su questo il governo non ha previsto nulla. A questo punto la risposta – conclude – può essere una sola, indire uno sciopero generale contro questa manovra». Idea che in serata Camusso commenta così: «La Cgil ha domani (oggi per chi legge, ndr) una discussione nella quale valuterà e farà le sue scelte».

il manifesto 18.10.17
A rischio metà delle scuole, 113 anni per ristrutturarle
Edilizia scolastica. Legambiente, 18° rapporto Ecosistema scuola: a questi ritmi a Roma ci vorranno 150 anni per ristrutturare gli edifici. C'è tutto il tempo, anche per questo la chiamano "città eterna". E pensare che Renzi - quando cavalcava la sua tigre di carta - aveva promesso le "scuole belle"...
du Roberto Ciccarelli

La «Buona Scuola», la riforma con la quale Renzi si è giocato il consenso degli insegnanti, è stata circonfusa anche dalle promesse di intervenire sull’edilizia scolastica più malmessa d’Europa. Mirabolanti cifre hanno accompagnato la via crucis dell’ex premier che, in quel tempo lontano quando cavalcava la sua tigre di carta a Palazzo Chigi, parlava di «rammendare» edifici costruiti per il 60% prima del 1976 con una spesa, fantasiosa, pari a 9 miliardi di euro. Quello era il tempo in cui l’architetto Renzo Piano fu chiamato a operare per il progetto «Scuole belle». E vennero anche le promesse di avviare l’anagrafe scolastica, uno strumento annunciato da qualche decennio, sempre sul punto di arrivare, ma mai giunto allo stesso binario dei treni che l’attuale segretario del Pd ha ripreso a prendere nella sua campagna elettorale permanente.
Il diciottesimo rapporto Ecosistema Scuola, presentato ieri a Roma da Legambiente, conferma una certezza: dalle aule dovranno passare altre cinque generazioni di studenti, pari a 113 anni, prima che tutte le scuole siano messe in sicurezza. Considerati solo gli ultimi quattro anni, sostanzialmente riconducibili nel bene e soprattutto nel male, a Renzi si scopre che siamo stati sommersi da chiacchiere. Solo il 3,5% degli interventi ha riguardato l’adeguamento sismico delle aree a rischio: ben 532 interventi per 15.055 edifici, il 41% del totale che si trova in zona sismica 1 e 2, a rischio di terremoti fortissimi o forti. Il 43% di questi edifici risale a prima dell’1976, ovvero prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica varata solo dopo la catastrofe che devastò il Friuli. Solo il 12,3% delle scuole presenti in queste aree risulta progettato o adeguato successivamente alle tecniche di costruzione antisismica. In fondo, gli interventi promessi da Renzi erano solo «estetici». Si doveva spazzare la polvere sotto il tappeto, rammendare le scuole come le periferie, certo non intervenire in maniera strutturale. Una visione di questa complessità è estranea al post-modernismo chiacchierone della «renzinomics».
Ma si può fare di più. Ad esempio, a Messina. Una città, com’è noto, non estranea a eventi tragici nel corso della storia contemporanea di questo paese. Su 115 edifici scolastici, 96 sono stati costruiti prima del 1976. Negli ultimi quattro anni sono stati eseguiti 18 interventi. Grazie alla spinta impressa dai progetti di Renzi, la messa in sicurezza avverrà tra 150 anni. Ben 37 anni dopo la media nazionale. Ma Messina non è sola. Prendiamo Roma, dove al Virgilio è crollato un solaio, e gli studenti hanno occupato perché, giustamente, vogliono vivere tranquilli a scuola, negli intervalli che le 200 ore di alternanza scuola lavoro lascerà liberi per lo studio. Anche la Capitale impiegherà 150 anni per realizzare l’adeguamento energetico degli edifici scolastici. Già nel 2014 risultavano aver bisogno di manutenzione urgente (nel 36% dei casi) e che dall’efficientamento energetico potrebbe beneficiare sia in termini di benessere che di risparmio economico. Anche per questo Roma è chiamata la «città eterna». C’è tutto il tempo.

il manifesto 18.10.17
Le zone sismiche, solo 151 scuole «sicure» su 15mila
di Edoardo Zanchini

Centociquant’anni ci vorranno, se continuiamo così, per avere una qualche certezza che le scuole a Messina diventino davvero sicure. Sono più degli anni che corrono dal terribile terremoto del 1908 che rase al suolo l’intera città.
Nel resto d’Italia non va meglio – i numeri sono raccontati nel Rapporto ecosistema scuola presentato ieri da Legambiente -,  ma oramai per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, come del territorio dal rischio idrogeologico, siamo entrati in un corto circuito mediatico in cui è facile perdersi, dove si confondono le responsabilità, tra i numeri e gli annunci del governo, i problemi ordinari e quelli straordinari legati ai terremoti.
Eppure non dovrebbe essere difficile sapere da dove partire, dopo tanti anni che si discute del tema e che i periodici crolli ci ricordano i problemi di un patrimonio edilizio costruito in larga parte prima dell’entrata in vigore delle norme sulla sicurezza sismica.
Ci si potrebbe aspettare che il problema, anche in questo caso, sia nelle scarse risorse per gli interventi. Tutto il contrario.
Nel 2017 ancora non si dispone di informazioni attendibili sulla situazione delle scuole.
Perché l’anagrafe scolastica, di cui si parla da tanti anni e che dovrebbe essere il «libretto di salute» dei fabbricati, è ancora incompleta e risulta vuota delle informazioni fondamentali sulla sicurezza degli edifici. Persino nelle zone a rischio sismico elevatissimo (come a Messina!).
Le risorse ci sarebbero pure, con oltre 9 miliardi di euro stanziati in questi anni, ma che in assenza di priorità vengono spesi in cantieri il più delle volte inutili, per il cambio dei controsoffiti o delle luci in edifici che rischiano di crollare o che sono dei colabrodo da un punto di vista energetico.
L’analisi di Legambiente mette in luce alcuni numeri incredibili. Rispetto al totale dei soldi stanziati solo il 4% è andato a interventi di adeguamento sismico, e alla fine di questi interventi rispetto alle 15mila scuole presenti nelle zone 1 e 2 (quelle dove possono verificarsi terremoti fortissimi e forti), saranno 151 gli edifici che potranno considerarsi «sicuri».
Il caso forse più emblematico è quello di Roma, che ha il più alto numero di scuole in Italia, e dove né il momune né il ministero si prendono la responsabilità di dire quanti sono gli edifici su cui si sta intervenendo. Pare siano 27 su 1.200 scuole, le altre dovranno aspettare.
E poi qualcuno si stupisce che il crollo del tetto del Liceo Virgilio avvenuto alcuni giorni fa abbia dato il via a occupazioni in diverse scuole romane? Nel vuoto di contenuti del dibattito politico italiano ci sarebbe uno spazio enorme per chi si volesse candidare a prendere in mano queste sfide.
Siamo proprio sicuri che non sia meglio spendersi su un tema popolare e di cambiamento piuttosto che inseguire gli slogan dei populisti?
* vicepresidente nazionale di Legambiente

Corriere 18.10.17
Raqqa è libera. La sconfitta dell’Isis
dal nostro inviato Lorenzo Cremonesi
Le forze curdo siriane strappano ai jihadisti la loro «capitale», oltre 2 mila civili uccisi nella battaglia
di Lorenzo Cremonesi

Mardin (confine turco-siriano) Isis non c’è più. Per come lo abbiamo conosciuto, questo criminale movimento dell’estremismo islamico perde ciò che più lo caratterizzava rispetto ad Al Qaeda e agli altri gruppi jihadisti nella nostra era: la dimensione territoriale. La sua capitale è trasformata in un cumulo di macerie, i suoi militanti siriani arresi con le famiglie. Quelli più pericolosi, i volontari stranieri, morti a centinaia nell’ultima battaglia senza speranza. L’annuncio della «presa totale» di Raqqa ieri a metà mattina segna un momento cruciale nella lotta contro il terrorismo religioso sunnita nato e cresciuto nel Medio Oriente post-2001. Preso l’ospedale centrale lunedì mattina, debellati poi ieri entro mezzogiorno i nidi di resistenza nella gigantesca struttura dello stadio municipale, le bandiere gialle con la stella rossa dei curdi hanno cominciato a sventolare ovunque.
Era almeno una decina di giorni che dal quartiere generale delle milizie curde siriane a Qamishli si parlava di «vittoria imminente». «Abbiamo preso tutta la cittadella medioevale. Isis è totalmente accerchiato. I suoi militanti locali cercano di scappare con le famiglie. Stiamo dando la caccia agli stranieri», ci dicevano i portavoce delle Ypg, le «Unità di Difesa Popolare», che assieme alle Ypj, le corrispettive unità femminili, contano circa 35 mila combattenti e costituiscono la ben oliata macchina militare dei curdi. A loro sono affiancati alcuni battaglioni di arabi locali. L’intera forza è oggi raggruppata sotto la bandiera delle Forze Democratiche Siriane (Sdf). E sono stati i loro rappresentanti a dichiarare senza tentennamenti che «l’intera Raqqa è stata liberata». Ma nel Rojava, la regione autonoma curda, è ben evidente che sono proprio i curdi ad aver motivato e guidato il combattimento. Non a caso già il presidente Obama aveva puntato su di loro per combattere Isis in Siria e Trump non ha cambiato strategia.
Ciò che era osservabile chiaramente nei cinque giorni della nostra visita sul fronte della città assediata lo scorso luglio è che un ruolo fondamentale l’hanno avuto le forze aeree americane, compresa l’intensa e continua presenza dei droni, oltre alle operazioni mirate delle truppe scelte Usa sul campo. Ed è questa una delle differenze più rilevanti tra i nove mesi della battaglia per Mosul e i cinque per Raqqa. Se infatti la prima in Iraq ha visto impegnati i curdi locali (i peshmerga) solo nelle prime fasi lungo la piana di Ninive e nelle zone cristiane, con la parte del leone giocata dall’esercito iracheno da sud coadiuvato dalle milizie sciite e dall’Iran con il sostegno aereo Usa, a Raqqa le Ypg sono state l’attore indiscusso grazie all’appoggio americano. E ieri ancora gli americani invitavano a non indugiare sull’esaltazione della vittoria. Un centinaio di jihadisti sarebbe ancora in vita. «Ci sono sacche di resistenza dell'Isis a Raqqa. Ci vorrà qualche tempo prima che possano venire battute definitivamente», ha dichiarato il colonnello Ryan Dillon, portavoce della missione Usa in Siria.
Lo scenario della battaglia è quello ormai tristemente noto delle guerre urbane contemporanee. Almeno la metà degli edifici distrutti o inagibili, strade coperte di macerie e rottami, ovunque il lezzo della decomposizione e soprattutto onnipresente la minaccia delle mine, delle trappole bomba, degli ultimi cecchini irriducibili. I morti negli ultimi cinque mesi sarebbero almeno 3.250, tra cui 1.130 civili. Altre fonti alzano il dato a quasi 2 mila. Ma i bilanci potrebbero essere peggiori. Tanti morti restano sepolti sotto le rovine. I profughi nella regione sono oltre 270 mila. A Raqqa si cercano i sopravvissuti casa per casa.
La svolta è arrivata domenica mattina quando i leader tribali locali hanno negoziato la resa di circa 300 jihadisti siriani, che hanno lasciato la città con le famiglie. Restavano alcune centinaia di volontari stranieri, forse oltre 300. Almeno 22 sono stati uccisi nella battaglia dell’ospedale. Tanti altri sono cadaveri irriconoscibili nel dedalo di gallerie in cemento armato costruite sotto lo stadio. Ma alcuni potrebbero essere semplicemente nascosti e pronti a colpire. Hanno bruciato i loro documenti, sono nascosti in gallerie e buche. I servizi segreti occidentali, tra loro quello francese, temono che possano venire a colpire in Europa. Lo stesso problema si era presentato a Mosul quattro mesi fa. Al momento si stanno rastrellando con cautela i vicoli della città vecchia. Da tre giorni l’aviazione Usa non tira più per evitare vittime «da fuoco amico».
Più a sud, lungo la valle dell’Eufrate, sino alla cittadina di Deir ez-Zor e al confine con l’Iraq sunnita, sono l’esercito siriano con gli alleati russi e l’Hezbollah sciita a tentare l’ultima mazzata alle regioni ancora controllate dall'Isis. Ma saranno scaramucce. Il serpente ormai ha perso la sua testa.

il manifesto 18.10.17
Roman Rosdolsky, amante fedele dei «Grundrisse»
Ancora fondamentale il suo «Genesi e struttura del Capitale di Marx», a 50 anni dalla morte. Si ripercorre la figura poco nota dell’intellettuale ucraino ed eterodosso
di Yurii Colombo

Quando Roman Rosdolsky muore a Detroit il 20 ottobre 1967 aveva appena finito di correggere le bozze di Genesi e struttura del Capitale di Marx, un’opera a cui aveva lavorato per quasi vent’anni e che uscirà postuma l’anno successivo. Secondo Marcello Musto, quella di Rosdolsky «fu la prima, e anche la principale mai scritta, monografia dedicata ai Grundrisse. Tradotta in molti paesi, favorì la loro divulgazione e circolazione ed ebbe un notevole influsso su tutti i loro successivi interpreti».
Anselm Jappe ha fatto notare che il carattere non meramente filologico della Genesi è da attribuire al fatto che prima dell’esplosione del ’68 «a differenza del marxismo tradizionale, Rosdolsky non vede nelle contraddizioni apparenti della realtà capitalista delle semplici mistificazioni, ma l’espressione di contraddizioni reali. Ciò è significativo per comprendere il feticismo della merce non come fenomeno che appartiene unicamente alla sfera della coscienza, ma come un fenomeno reale».
GRAZIE A UN ERUDITO traduttore di Marx come Bruno Maffi la Genesi fu disponibile in italiano già nel 1970 diventando presto opera discussa sia a livello accademico sia all’interno del dibattito teorico dell’estrema sinistra (si pensi al seminale Marx oltre Marx di Toni Negri o a L’Ape e il comunista delle Brigate Rosse). Malgrado lo straordinario impatto che la Genesi avrà per la divulgazione dei Grundrisse, la biografia del marxista ucraino è rimasta poco conosciuta e solo quest’anno in Germania è stata pubblicata un’ampia biografia (Rosdolsky-Kreis, Mit permanenten Grüssen).
ROSDOLSKY nacque a Lviv nel 1898 nella parte occidentale dell’Ucraina sotto il dominio austroungarico. La sua famiglia faceva parte dell’intelligencija cittadina e il padre era un famoso etnografo. Roman iniziò a militare nei circoli socialisti già al liceo e poi dopo l’Ottobre, aderì al movimento comunista, di cui sarà uno dei fondatori nell’Ucraina occidentale. Tuttavia la sua adesione al marxismo restò eterodossa e fortemente segnata dal nazionalismo ucraino. Alla metà degli anni ’20 ruppe con il movimento comunista ufficiale e aderì all’opposizione trotskista, di cui condivideva l’analisi della «rivoluzione permanente»: «Come membro di un popolo ’senza storia’ che aveva solo classe capitalista rudimentale, non potevo sperare nell’instaurazione di uno Stato borghese ucraino. D’altro canto l’irrisolta questione contadina e l’oppressione nazionale creava un terreno favorevole per il rapido sviluppo delle idee del socialismo rivoluzionario», affermerà in seguito. Il suo interesse per la questione ucraina non scemerà mai. Negli anni ’30, su questa tema, scrisse l’importante studio La comunità di villaggio nella Galizia Orientale e la sua dissoluzione.
DALLA FINE DEGLI ANNI ’20 visse prevalentemente a Vienna dove completò la tesi di dottorato su Friedrich Engels e il problema dei popoli senza storia in cui criticava la tesi del «Generale» secondo cui i popoli slavi erano intimamente reazionari e incapaci di giungere all’indipendenza.
Un’opera che il crollo dei regimi dell’est e la rinascita dei nazionalismi hanno riportato alla ribalta (in Italia è uscita per i tipi della Graphos nel 2005).
Sono stati anni particolarmente intensi quelli di Vienna per Rosdolsky. Dal 1926, collaborò con il Marx-Engels Institute di Mosca fino a quando David Rjazanov venne estromesso dall’incarico. Partecipò con entusiasmo all’esperienza della «Vienna Rossa» e conobbe Emily Meder che sarà la compagna di una vita. Dopo l’Anschluss fu espulso dall’Austria e tornò a Lviv.
Tuttavia con la spartizione della Polonia seguita al patto Ribentropp-Molotov, la Galizia finì sotto il controllo sovietico, e Rosdolsky temendo di essere arrestato come trotskista, fuggì a Cracovia. Conobbe qui l’altra metà della «mezzanotte del secolo»: i bambini dell’orfanotrofio ebraico dello stabile adiacente a quello in cui viveva con la moglie, furono deportati dalle truppe tedesche. Da quel giorno, scriverà in una sua memoria, sentirà l’intensa mancanza delle «abitudini di quegli orfani ebrei che avevo iniziato a osservare con curiosità e del suono poco familiare dell’yiddish».
NEL 1942 Rosdolsky fu arrestato a Vienna e passerà il resto del periodo bellico nei lager di Auschwitz, Ravensbrück e Oranienburg lavorandovi come carpentiere. Nel 1947 decise di lasciare l’Austria per gli Stati Uniti nel timore di essere sequestrato dalla Gpu e spedito – come altri suoi compagni – nei gulag sovietici.
Rosdolsky non si integrerà mai nella società americana. In piena era maccartista non riuscì a ottenere nessuna cattedra: svolgerà per il resto della vita l’attività di libero ricercatore. Oltre a lavorare alla Genesi, approfondirà lo studio della politica leninista, e in particolare del «disfattismo rivoluzionario». Abbandonata la politica attiva – della IV Internazionale non condivideva caratterizzazione sociale dell’Urss – le difficoltà economiche portarono lo studioso ucraino ad isolarsi e a lunghe pause nelle sue ricerche. «La tua depressione non mi è estranea», gli confesserà in una lettera Paul Mattick.
In quegli anni Rosdolsky manterrà uno scambio epistolare anche con altri eretici del movimento comunista come Korsch, Frölich, Deutscher e Mandel, il quale gli dedicherà il suo studio sul tardocapitalismo. Quest’ultimo, in un omaggio all’amico ricorderà come «prima di morire assistette con grande gioia a due avvenimenti che confermavano la sua piena fiducia nella vittoria finale delle idee di Lenin e Trotsky… la riapparizione di una opposizione comunista di sinistra in Polonia cristallizzata nella Lettera aperta di Modzelevsky e Kuron e il carattere di massa che assunse la rivolta studentesca contro la guerra in Vietnam».
Dopo la morte, sua moglie Emily tornerà in Europa dove parteciperà ai movimenti sociali e femministi degli anni ’70.

Il Fatto 18.10.17
“La stretta parentela tra Lutero e Hitler”
La Riforma - Il 31 ottobre 1517 il monaco affisse le sue tesi sul portale della cattedrale di Wittenberg
di Paolo Isotta

Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre nella biblioteca del monastero di San Gallo un codice contenente Il poema della Natura di Lucrezio, miracolosamente sopravvissuto alla distruzione e alla condanna del silenzio che l’opera aveva subita a opera dell’appena trionfante Cristianesimo. Il De rerum natura espone la teoria atomica di Democrito ed Epicuro, nega la distinzione fra spirito e corpo, l’immortalità di corpi e anime e l’esistenza di Dio; e si diffonde nella cultura europea.
Nel 1584 Giordano Bruno pubblica a Londra il De l’infinito universo et mondi, ove sostiene la pluralità degli universi e l’identità di Dio e Natura: il che conduce del pari all’ateismo, benché il filosofo fosse stato bruciato dalla Chiesa come “eretico”. Fra queste due date, il 31 ottobre 1517, il monaco agostiniano Martin Lutero affigge sul portale della cattedrale di Wittenberg le sue celebri tesi. È il primo passo di quella Riforma che modificò la storia del mondo.
Se la diplomazia ecclesiastica fosse stata lasciata libera di agire, la scettica Roma, a forza di trattative e compromessi, avrebbe estenuato e riassorbito l’ardito contestatore. Da sempre sorgevano teologi che sostenevano doversi tornare allo spirito evangelico; e la Chiesa ne aveva, imparzialmente, bruciata una parte e acquetata l’altra. Ma Lutero si trovò di fronte un fanatico come Carlo V: il quale funse da maieuta nei confronti del fanatismo suo. Lutero diventò il rivoluzionario autore del più importante scisma dell’Occidente.
Era partito solo dalla venalità e dalla corruzione della Chiesa romana, da lui sacrosantamente attaccate; a mano a mano sconvolse la teologia negando l’efficacia delle opere e portando l’assemblea a partecipare attivamente alla liturgia. La Messa e le funzioni dovevano esser in tedesco, affinché il popolo capisse: come se il Symbolum Nicenum (il Credo) fosse, in qualunque lingua, comprensibile. La Scrittura andava liberamente esaminata.
La Riforma di Lutero pare tuttora a molti un’affermazione di libertà. Ma la venalità dietro alla quale c’è un fondamentale scetticismo è preferibile al fanatismo. I grandi lumi dell’ex agostiniano sono Sant’Agostino e San Paolo; onde giustifica la tirannia, proibisce la ribellione al despota e sostiene anch’egli che la giustizia non è di questo mondo: il popolo ha da esser mansueto giacché ogni potere viene da Dio. Nel mondo cattolico l’Antico Testamento (e, talora, anche il Nuovo) era ormai considerato solo per un valore simbolico. Lutero lo riporta al centro della vita religiosa; e lo stesso avviene colle altre confessioni protestanti che si diffondono a seguito della sua vittoriosa predicazione. Il “peccato originale” è peccato “di conoscenza”: ma noi per Lutero dobbiamo scontarlo. Il cattolicesimo stava blandamente neutralizzando la parte biblica della religione; il suo ritorno potente è un regresso culturale del quale continuiamo a pagare i prezzi. La reazione della Controriforma fu intransigente conseguenza; ma le dobbiamo una fioritura artistica d’incommensurabile valore: il luteranesimo (e non parliamo dell’ancor più fanatico calvinismo) non riesce a liberarsi dall’idea che l’arte abbia essenza peccaminosa.
Che il luteranesimo sia oscurantista dal punto di vista culturale dice già Federico Nietzsche. Che in esso siano le radici del nazismo, affermerà nel 1945 Thomas Mann. Ma l’aveva già scritto uno dei più grandi biblisti novecenteschi, Giuseppe Ricciotti: egli, in Paolo Apostolo, mette in rilievo “la stretta parentela spirituale che c’è tra Hitler e Lutero, fra nazismo e luteranesimo, non esclusi gli intermediari di Hegel, Fichte, Treitschke ed altri”. La filosofia di Hegel, culminante nell’ideologia tirannica dello Stato Etico, è una mascherata Teodicea: Teodicea luterana.

La Stampa 18.10.17
I Longobardi sono ancora tra noi: l’Italia d’oggi figlia anche dei barbari
A Pavia una grande mostra riscopre il popolo che ha dato la sua impronta al Medioevo e ha cambiato per sempre la storia del Paese, nel bene e nel male
di Maurizio Assalto

Anche uno dei dolci italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.
Ma non è soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di molti nomi di persona (come quelli che terminano in -berto, da pert, illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è il titolo della mostra, curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira, aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che, integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia, si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.
Fine dell’unità politica
Oltre 300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a noi?
Gli «uomini dalla “lunga barba”» (langbart) erano penetrati in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni, dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia. Non è chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles, Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al loro regno.
I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni - gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).
Una consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi, intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne pressoché inalterata per un paio di secoli.
Un regime di apartheid
Sono davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.
Anche se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie (della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano. Ma è nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi. Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.

Repubblica 18.10.17
1917 - 2017
Russia l’ultimo atto il massacro dei Romanov
di Ezio Mauro

Sceglie di stare con l’Imperatore: «È lui adesso che ha più bisogno di me», dice a monsieur Gilliard affidandogli il ragazzo. «In due saremo più forti». Arriveranno a Tjumen – Nikolaj, Alix e la figlia Marija – dopo la partenza alle 5, il fiume Tobol attraversato a piedi su assi pericolanti, quattro cambi di cavalli. Il penultimo nel villaggio di Pokrovskoe dov’è nato Rasputin, con tutta la famiglia del Santo Diavolo che guarda la coppia reale dalla finestra con quegli stessi occhi, mentre Alix ricorda la profezia: «Infine vedrete la mia casa e la mia gente». Lo starez li assiste, ne è sempre più convinta. In realtà attorno agli ex sovrani non si muovono fantasmi, ma una partita politica sui corpi imperiali, con Mosca che vuole lo Zar per un processo all’assolutismo (Trotzkij si candida al ruolo di grande accusatore) e i bolscevichi degli Urali pronti a un colpo di mano sulle rotaie per impadronirsi del trofeo più simbolico della rivoluzione. Finché il Cremlino capisce che conviene cedere, e guidare da Mosca la mano dei carcerieri locali.
Dopo che un anno prima il governo inglese aveva ritirato la proposta di asilo ai Romanov, adesso è Cristiano X re di Danimarca che chiede al Kaiser di aiutarli, firmata la pace. «Non posso rifiutare la mia compassione », è la risposta, «ma un aiuto diretto mi è impossibile». Quando entra nella “Casa a destinazione speciale” a Ekaterinburg Nikolaj è dunque abbandonato dal mondo, solo di fronte al suo destino. Misura subito le quattro stanze a disposizione della sua famiglia, ancora divisa. Le trova belle, pulite, sia la camera d’angolo col grande letto che la sala da pranzo con le finestre, e il salotto arcuato senza le porte.
Ma dovrà accorgersi subito che il regime carcerario si è fatto più pesante. Prima che vengano disfatti i bagagli, il commissario e l’ufficiale di guardia procedono a un’ispezione minuziosa. Hanno visto che nelle lettere la Zarina e le figlie insistono sulle “medicine”, capiscono che è un codice familiare per alludere ai gioielli, temono che sotto i loro occhi si camuffi il mitico tesoro della Corona. Quando aprono anche i flaconi della farmacia portatile di Alix, lo Zar sbotta: «Finora abbiamo avuto a che fare con gente onesta e beneducata, smettetela». Gli risponde Boris Didkovskij, uno dei capi del Soviet: «Vi ricordo che siete sotto inchiesta e in stato d’arresto. Voi non date più ordini a nessuno ».
Un mese dopo anche lo zarevic e le tre sorelle rispondono al comando del destino ed entrano nella casa Ipatev per l’ultimo atto. Ma Aleksej si fa male al ginocchio già la prima sera, subito torna l’angoscia. E Olga, Marija, Tatjana e Anastasija si accorgono che al loro stesso piano vivono 19 soldati delle officine Zlokazov, c’è una guardia fissa davanti all’unico bagno, la porta della loro camera non si può chiudere, la tavola non ha tovaglie, ci sono in tutto cinque cucchiai, con l’intendente Adveev che prende bocconi di cibo dai loro piatti con le mani. La sera, anche tardi, le costringe a suonare per i soldati il pianoforte a coda Bekter che oggi trovo nel Patriarcato, perfettamente accordato, dopo che ha attraversato il caos del 1917 arrivando fin qui, non si sa come ma in tempo per l’ultima musica prigioniera.
Della Corte sono rimasti soltanto in cinque nella casa del destino. È una vita rarefatta, per sottrazione. Si può uscire in giardino, tra i tigli, solo per un quarto d’ora e una volta al giorno. È vietato ogni esercizio fisico. Un vecchio imbianchino entra nelle stanze dei Romanov con secchiello e pennello e passa una mano di calce sui vetri di tutte le finestre. Adesso anche la luce è prigioniera. Alix taglia i capelli a Nikolaj per l’ultima volta, cenano alla luce di una candela perché salta l’elettricità, con tutti i fili volanti dei campanelli per l’allarme che finiscono nella stanza del comandante.

Ma è al Cremlino – dove Lenin si è spostato col suo governo a marzo del 1918 – che si decide la fine. Tra due mesi il Soviet decreterà il Terrore, «rispondendo col terrore rosso di massa alla borghesia e ai suoi agenti». La prima fiammata si accende qui, a Ekaterinburg. Il commissario militare degli Urali va a incontrare a Mosca Jakov Sverdlov, intimo di Lenin e presidente del Comitato esecutivo. La bande “bianche” cecoslovacche si avvicinano alla città: anche se non hanno nessun piano di restaurazione monarchica, sono un’occasione da sfruttare per coprire il massacro. Il partito degli Urali si assumerà la responsabilità materiale dello sterminio dei Romanov, col comando del Cremlino. La decisione è presa.
Mosca vuole solo uomini esperti sul campo dell’azione. L’intendente Adveev è sostituito col telegramma numero 4.558, al suo posto arriva il commissario della Ceka Jurovskij, con dieci cekisti scelti tra i prigionieri di guerra tedeschi e ungheresi: parlano poco il russo, non rispondono ai prigionieri che tra loro li chiamano “lettoni”. Aprono una finestra nella casa, quasi per spingere la famiglia alla fuga, pensando a un’imboscata. Per due giorni la Zarina trova un messaggio in un francese incerto, nascosto nel tappo del latte che arriva ogni mattina col burro e la panna dal monastero di Santa Caterina: la firma è di “un ufficiale” che annuncia «l’ora della liberazione vicina». L’imperatrice dubita, spera, sospetta. Lo Zar si smarrisce nell’attesa, al punto da descriverla nel diario giovedì 27 giugno: «Notte inquieta, abbiamo vegliato vestiti, perché abbiamo ricevuto due lettere che ci dicevano di prepararci a essere rapiti da persone a noi fedeli. Ma i giorni passavano, e non succedeva niente».
La spiegazione è chiusa nel monastero di Santa Caterina, raccolta cent’anni fa da suor Magdalina la veggente, da Avgustine nelle cucine, tramandata da una madre superiora all’altra fino a Evstafija Morozova, che oggi me la racconta. Le due novizie di 19 e 29 anni, Antonina e Marija, che erano ammesse ogni mattina in abiti borghesi alla “Casa a destinazione speciale” col cibo per i reali, dovevano lasciare il cesto nell’anticamera ai cekisti. Non c’era nessun “ufficiale”, nessun francese. Quei falsi messaggi erano stati scritti da Petr Vojkov, dirigente del Soviet, coi ricordi del francese di Ginevra, all’Università. Nessun altro si era mai avvicinato al cibo, il compito delle suore era sempre uguale, salvo una notte quando dalla casa chiedono del rum per lo zarevic raffreddato e il mattino prima della fine, quando il comandante ordina al convento 50 uova e 5 litri di latte, perché gli uomini dopo il massacro avranno fame.
Tutto precipita, tutto è pronto, anche la fabbricazione del falso complotto. Siamo alle ultime ore. Mentre Aleksej fa il primo bagno, ancora con il ginocchio gonfio, Vojkov manda i suoi uomini in farmacia e all’emporio con l’ordine di requisire 175 chili di acido solforico e 300 litri di benzina. Il comandante Jurovskij è ossessionato dalle “medicine” e ordina alla Zarina di sigillare i gioielli in un cofanetto. L’ultimo giovedì tre operai portano in casa una grata pesante, la saldano all’unica finestra aperta, sbarrando le ore finali dei Romanov dietro un’inferriata. Infine, il segnale conclusivo: lo sguattero di cucina Leonid Sednev, che è un ragazzo, viene allontanato dalla casa.
Cosa capiscono i reali? Non sanno che l’ordine di uccidere tutti i Romanov è eseguito in quelle ore dovunque si trovino. La notte del 25 giugno a Perm il fratello dello Zar, Mikhail, viene prelevato col suo segretario Johnson all’albergo Korolev da tre uomini che lo portano in “destinazione sconosciuta”, dove verrà giustiziato come altri Granduchi, come la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella dell’Imperatrice. Nella casa Ipatev la famiglia dello Zar non ha notizie ma avverte che tutto sta infine per compiersi. «Lo sposo si avvicina», scrive Alix. L’ultima lettera del dottor Botkin è senza illusioni e senza rimpianti: «In sostanza io sono morto, ma non ancora sepolto. O meglio, sepolto vivo».
Arriva quella notte, martedì 16, quando Jurovskij fa portare nel seminterrato 14 pistole nuove, testate due giorni prima. Ha ordinato di sgombrare la stanza con la volta bassa, un’unica finestrella sul cortile, la carta da parati con piccoli quadrati scoloriti. Nello stanzone di fianco adesso entrano i dieci “lettoni” che con il Comandante avranno un bersaglio ciascuno da abbattere, la raccomandazione è di mirare al cuore. Nel cortile l’autista Serghej Lukjanov ha accostato un camion Fiat all’ingresso, con l’ordine di soffocare col motore il rumore degli spari. Sopra, al primo piano, come se fosse una sera qualunque lo Zar gioca l’ultima partita a carte col dottore, Aleksej è stanco ed è già sdraiato in camera. Tatjana legge alla madre il libro del profeta Amos che parla di chi «ha bruciato le ossa del re/ per ridurle in calce». Alle 10 e mezza si spengono le luci nella “Casa a destinazione speciale”. Ci sono 15 gradi nel buio, e nell’eco di fucilate lontane.
È mezzanotte quando Konstantin Dobrinin, la guardia, bussa dicendo ai prigionieri che c’è pericolo di un assalto, devono alzarsi subito. La famiglia scende la scala, seguita da ciò che resta della Corte, quattro persone, il dottor Botkin, la cameriera della Zarina Anna Demidova che porta con sé due cuscini, il cuoco Ivan Kharitonov, il lacché Aleksej Trupp. Nikolaj tiene in braccio Aleksej, padre e figlio hanno il cappello militare con la visiera, le ragazze – Anastasija porta con sé lo spaniel Joy – lunghe sottane nere con i corpetti di seta bianca, Alix ha cucito i gioielli dovunque, nascondendoli sotto i bottoni, nelle stecche dei corsetti, dentro i colletti delle giacche: adesso chiede una sedia, ne portano tre. Jurovskij, che ha fatto il fotografo in gioventù, li dispone a ventaglio, in modo che non si sovrappongano.
Esce, rientra con gli uomini, ha un foglietto: «Nikolaj Aleksandrovic, i vostri hanno tentato di liberarvi, e per questo motivo dobbiamo fucilarvi tutti ». Lo Zar sembra non intendere: «Come? Come?» sono le sue ultime parole. Mentre Alix e Tatjana si fanno un segno della croce, Jurovskij punta la Nagant addosso a Nikolaj, lo colpisce alla carotide poi lo finisce da un passo, quindi spara alla testa di Aleksej gettandolo a terra. Intorno la carneficina impazza: Alix crolla sul dorso, Anastasija si muove carponi e viene finita a colpi di baionetta, come la Demidova che si è riparata dietro i cuscini, mentre Trupp il lacché cade in ginocchio, Olga a Marija muoiono subito, Botkin è colpito al cuore, Tatjana alla nuca, il cuoco riesce a lanciare un’ultima maledizione. Un colpo col calcio della pistola spezza il cranio del cane.
Fumo, sangue, il camion Fiat che ansima davanti alla finestra nel cortile. Adesso hanno fretta, devono avvolgere gli 11 corpi nelle coperte strappate ai letti di casa, caricarli sul camion. Ma prima c’è la caccia ai gioielli, orologi strappati dal polso, anelli dal dito, braccialetti, brillanti nascosti negli abiti, una piccola icona da tasca. In piena notte il camion col suo carico di cadaveri appare nel vicolo Voznesenskij, accende i fari, va verso la foresta, attraversa la linea di separazione tra l’Asia e l’Europa (dove oggi c’è un cippo) e arriva a Ganina Jama. Qui, nei “buchi della terra” come dice il nome, tagliano a pezzi i corpi alla luce delle lanterne gialle, li sfigurano con l’acido sui volti, poi li bruciano.
Cent’anni dopo 5 gigli bianchi crescono a fatica nella fossa, circondata dal legno del monastero dei Santi Martiri Reali, con 7 chiese per i 7 Romanov uccisi a Ekaterinburg. Pochi chilometri più in là, c’è il luogo dove hanno sotterrato le ossa e le ceneri. Una pedana di legno con le traversine del treno e una croce per Lo Zar, Alix, Olga, Tatjana e Anastasija. A pochi metri un quadrato di terra in pieno bosco, con due rose bianche e pochi mughetti segna la sepoltura di Marija e di Aleksej, lo zarevic infelice. Non c’è un turista, nemmeno un curioso. D’altra parte il vero monumento al massacro, la “Casa a destinazione speciale”, non esiste. Ripulita in fretta dai soldati, riconsegnata a Nikolaj Ipatev il 21 luglio, è stata distrutta nel 1977 e al suo posto adesso c’è la “Cattedrale sul sangue”, con il secondo altare che cresce proprio sopra la stanza maledetta, il pozzo originario intatto, brandelli sparsi dalla scena del delitto: la carta annonaria di Nikolaj, un pezzo del mancorrente della scala, la maniglia d’ottone della stufa, un dente da latte di Aleksej, che Alix conservava in un anello.
Qui tutti per cent’anni sapevano dov’erano i corpi reali, da quando il 20 luglio del 1918 il Presidium del Soviet degli Urali aveva affisso un manifesto ai muri di Ekaterinburg: «Poiché le truppe cecoslovacche minacciano la città e il boia coronato può sfuggire al tribunale del popolo (un complotto di guardie bianche per rapire tutta la famiglia Romanov è appena stato scoperto) è stata decisa la fucilazione dell’ex Zar, e la decisione è stata eseguita la notte tra il 16 e il 17 luglio. La famiglia Romanov è stata trasferita in un luogo più sicuro».
Nessuno parlava. Finché, caduto il comunismo, riemergono dal sacrario del bosco le poche ossa che hanno consentito un riscontro con il Dna, per arrivare prima alla certezza che i resti erano dei Romanov e poi alla loro canonizzazione come “martiri imperiali portatori di passione”, infine – il 17 luglio ’98 – ai funerali di Stato nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, che ospita i sarcofaghi storici degli Zar. Sono entrato nella cappella, dove finisce questo lungo viaggio nella Russia delle due rivoluzioni. Non ci sono candele, nemmeno un cero, e le donne che lucidano il marmo delle cripte con i cinque resti – Nikolaj, Alix, Olga, Tatjana, Anastasija – spiegano che per la luce e la fiamma si attende che arrivino qui finalmente anche Marija e Aleksej, adesso che il Dna li ha riconosciuti togliendoli dal nulla e dalle leggende: che per anni facevano vivere nella foresta l’erede scampato al massacro, oppure a Grudzionka, o nel castello di un conte polacco, infine a Omsk dove un generale lo mostrò al vecchio precettore Gilliard, che lo interrogò inutilmente in francese, mentre la gente intorno offriva pane e sale.
Davanti alle tombe imperiali le vecchie aspettano: i resti o l’apparizione. Non è forse stata recuperata la croce dei Romanov, che all’interno ha le reliquie di 40 santi? Tutto è possibile. E non è tornata al suo posto l’icona della Madonna del Nord, che faceva ricrescere le mani mozzate? Tutto può ancora accadere. Mentre i ragazzi intorno scattano le foto col telefonino come a un concerto, indifferenti, loro ripetono che passerà il tempo finché lo Zar potrà ancora mostrarsi alla sua gente. E allora dalle terre lontane dell’Oriente l’imperatore verrà, uscirà dal bosco e dal mistero, giungerà fin qui con la sposa fedele davanti all’acqua della Neva.
La storia sembra finire e ricominciare qui, dove si è generata la grande epoca, in una città mobile come l’acqua che l’attraversa, dentro una fortezza, davanti a un altare, in un sepolcro. Ma basta uscire nell’aria chiara di San Pietroburgo per ritrovare gli altri spettri di quell’anno implacabile e crudele. Stalin e Kerenskij, Trotzkij in piedi davanti alla mappa della capitale che sta per conquistare, Rasputin che si muove di notte, mesi prima, tra gli zingari e i canali per raggiungere la sua fine nel palazzo del principe. Poi le case fantasma dove cent’anni fa scrivevano Blok e l’Akhmatova, da dove partivano per sempre Nabokov e la Berberova, dove Zinaida Gippius guardava dalla finestra la rivoluzione. Infine un’altra sepoltura, al centro della piazza Rossa a Mosca, con Lenin da quasi un secolo trasformato in mummia nella pretesa di imprigionare il passato e il futuro nell’eternità della rivoluzione, dilatando all’infinito il ’17.
Cent’anni dopo quell’eternità è infranta, l’infinito è rientrato nel secolo. La mummia si è fatta uomo.
12. Fine