lunedì 16 ottobre 2017

Corriere 16.10.17
Storia di un partito senza ricambio Cosa resta dell’album di famiglia dem
Da Franceschini a Veltroni, si fa prima a dire chi è rimasto. E i nuovi non avanzano
I distratti, gli oppositori E il Pd senza ricambio
di Aldo Cazzullo

Pare una delle vecchie foto di inizio Novecento, che ritraggono famiglie numerose destinate a essere disperse dalla vita e dalla storia. Per il momento sono ancora tutti insieme, ma tra poco lo zio emigrerà in America, il cugino in Australia, il nipote andrà in guerra, il figlio passerà al clan rivale…
Allo stesso modo, a soli dieci anni dalla fondazione, molti padri e madri del Pd hanno disconosciuto il figlioletto. Il progetto ambizioso che doveva unire i discendenti di Moro e di Berlinguer non ha avuto una sorte tanto diversa da quello che sull’altro fronte doveva mescolare liberali e postmissini; e se l’Italia oggi non ha una destra moderna, ma un’alleanza forse provvisoria tra europeisti moderati e sovranisti radicali, anche la sinistra riformista è debole e divisa come e forse più che in passato.
Il bambino compiva dieci anni, ma la festa è andata maluccio. Prodi, il papà del Partito democratico, aveva altro da fare: un convegno all’Aspen. Per il padrino, Parisi, è stato «un giorno di lutto». Enrico Letta è nella commissione che deve riscrivere l’architettura dello Stato, ma non il nostro, un altro, la Francia; e l’uomo con cui girava in tandem i distretti industriali del Nord, Pier Luigi Bersani, ha fondato un partito concorrente, il cui leader-ombra è considerato un altro transfuga, Massimo D’Alema, accanto a mediani faticatori come l’emiliano Migliavacca e portatori di voti come il romagnolo Errani. Cofferati si è rifatto una vita a Genova, Del Turco ha avuto i suoi guai in Abruzzo, Rosy Bindi è sul piede d’uscita, Bassolino ci sta pensando, Rutelli è fuori da tempo, Dini è tornato a destra, Gad Lerner consiglia Pisapia. Il gigante buono Angelo Rovati, l’economista Marcello De Cecco e la grande Tullia Zevi sono morti. Rosa Russo Iervolino è stata condannata dalla Corte dei conti a una punizione da girone dantesco: versare 560.893 euro al Comune di Napoli, di cui è stata sindaca, per le centinaia di lavoratori socialmente utili chiamati per la raccolta differenziata dei rifiuti, rimasti inattivi con i noti risultati. Carlin Petrini è tornato al lardo di Colonnata e alla cipolla di Tropea. Anna Finocchiaro ha annunciato che non si ricandiderà, il poligrafo Follini scrive libri, Amato boccia leggi elettorali alla Consulta, Soru si è dimesso da tutto pure dalla segreteria del Pd sardo (gli è rimasta solo la tessera), Soro vigila sulla privacy degli italiani anche se noi non ce ne siamo accorti.
Si fa prima a dire quelli che sono rimasti. Franceschini, sempre in maggioranza (al mesto compleanno di sabato girava una battuta: «Trovato l’accordo con l’Isis, Dario resta ministro»). Gentiloni, che ha il suo da fare. Fassino, sia pure ammaccato, anche lui fresco di pubblicazione («Pd davvero» il titolo del saggio). E Veltroni, l’unico tra i padri fondatori a essere venuto e ad aver preso la parola per difendere la fragile creatura.
Poi c’è l’uomo al comando. Matteo Renzi dieci anni fa non c’era. Faceva il presidente della Provincia di Firenze, e non lo chiamarono in un gruppo in cui avrebbe se non altro abbassato l’età media. La sua ascesa è avvenuta non nella scia dei capi, ma contro. Lui comprese che il segno del tempo era la rivolta contro le élites, l’establishment, il sistema. La rottamazione — parola appena più gentile di quella che Grillo andava urlando nelle piazze — l’ha messo in sintonia con un elettorato e un’opinione pubblica che chiedevano un profondo rinnovamento della politica e della classe dirigente. Ma se oggi siamo qui a parlare degli assenti, degli oppositori e dei distratti è anche perché il ricambio non c’è stato, o almeno non abbastanza. E quando il ricambio manca, la colpa non è mai dei vecchi che non vogliono ritirarsi; è sempre dei nuovi che non riescono ad avanzare.