giovedì 12 ottobre 2017

Corriere 12.10.17
La rivoluzione di Lenin non è finita
di Antonio Carioti

Sì, è utile ripercorrere e ripensare la storia della rivoluzione russa, come ha fatto il «Corriere della Sera» nel volume 1917 Ottobre Rosso , in edicola da oggi con il quotidiano. Perché, anche se l’Urss è scomparsa, l’eredità dell’opera di Lenin e Stalin non si è affatto dissolta. Lo sostiene Andrea Graziosi, autore di un’ampia Storia dell’Unione Sovietica in due volumi edita dal Mulino: «Per oltre due secoli, dall’epoca dello zar Pietro il Grande e in parte anche da prima, la Russia aveva cercato di avvicinarsi all’Europa. E ci era riuscita, come dimostra la sua fioritura culturale nell’Ottocento. Ma la rivoluzione d’Ottobre segna una frattura che non si è più sanata. Con il regime sovietico inizia una divaricazione a cui neppure la caduta del comunismo ha posto rimedio. Mentre alcune componenti dell’impero smembrato, dall’Ucraina alla Georgia, sono attratte dall’Europa, le forze che spingono in tal senso a Mosca sono molto più deboli che in passato. In questo come in altri aspetti (penso al modo in cui rivendica come fonte di legittimazione la vittoria nella Seconda guerra mondiale), il regime di Vladimir Putin è segnato dal lascito sovietico».
Eppure i bolscevichi guardavano ai Paesi industrializzati. «Ma Lenin — ricorda Graziosi — fu il primo ad essere colto di sorpresa dagli eventi: poco prima che cadesse lo zar, aveva dichiarato nel suo esilio svizzero che non sarebbe vissuto abbastanza per vedere il socialismo in Russia. Poi colse con grande abilità ed energia l’occasione rivoluzionaria che si era presentata, ma nell’ultimo periodo della sua vita si chiedeva se avesse fatto bene. Siamo saliti sul treno, scrisse, però non sappiamo se vada nella direzione giusta».
I bolscevichi erano una esigua minoranza, come s’imposero? «Prevalsero nelle città della Russia con l’appoggio del proletariato urbano stanco della guerra e di alcuni reparti militari, sia quelli che stavano al fronte e desideravano la pace, sia quelli che in prima linea non ci volevano andare. Dopo aver rovesciato un governo molto debole, proclamarono la terra ai contadini, l’autodeterminazione alle minoranze nazionali dell’impero, e insomma dissero formalmente di sì a tutte le richieste principali delle masse popolari».
Però fu più difficile rimanere in sella, osserva Graziosi, affrontando una feroce guerra civile: «I bolscevichi ressero perché rifondarono lo Stato su nuove burocrazie, specie l’apparato militare e quello poliziesco, assorbendo anche settori dell’amministrazione e del corpo ufficiali ereditati dallo zar, ormai convinti che seguire Lenin fosse l’unica strada per rigenerare una grande potenza russa. Riuscirono a guadagnarsi la parziale neutralità dei contadini, che temevano di perdere, oltre al grano presogli dai comunisti, anche la terra se avessero vinto i controrivoluzionari. Inoltre i bolscevichi costruirono lo Stato, promuovendo in massa uomini capaci e risoluti provenienti dalle classi umili. Era di solito gente brutale, che infatti poi trovò in Stalin il suo capo più idoneo: un uomo crudele, ma di acuta intelligenza, che dimostrò doti notevoli nell’edificazione del nuovo Stato».
Un fallimento drammatico si registrò invece in campo economico: «Il cosiddetto comunismo di guerra introdotto nel 1918, con le requisizioni forzate di derrate agricole, fu poco più di una rapina per tenere in piedi le forze armate e gli apparati statali. Ma più in generale la gestione amministrata dell’economia da parte dello Stato, secondo i dettami della dottrina marxista, si rivelò un disastro. La Nep, la relativa apertura al mercato adottata nel 1921, fu l’ammissione di uno scacco, e fallì anche il tentativo di Stalin di rivitalizzare l’economia di comando al momento del lancio del piano quinquennale nel 1928-29».
Una scelta nella quale contò il pregiudizio ideologico: «I dirigenti sovietici credevano davvero nel cosiddetto socialismo scientifico. Stalin s’ispirò ad alcuni testi di Marx mentre preparava i provvedimenti contro i contadini. E ancora nel 1930 in Urss ci fu un secondo tentativo di abolire la moneta, dopo quello abortito della prima fase postrivoluzionaria. Alla fine il sistema economico emerso negli anni Trenta ci appare il frutto di un aggiustamento tra i dettami del marxismo e la realtà, che riuscì a durare anche grazie alle immense risorse naturali di cui disponeva l’Urss, oltre che alla vittoria del 1945. Lo stesso Mikhail Gorbaciov del resto credeva nel socialismo e cercò di salvarlo con le riforme».
Ben più saggi, secondo Graziosi, si sono dimostrati i comunisti cinesi: «Krusciov, che pure non era stato direttamente colpito dalla repressione staliniana, condannò Stalin, ma conservò il sistema economico da lui costruito; Deng Xiaoping, che era stato epurato e il cui figlio era stato torturato, non svalutò la figura di Mao Zedong, ma ne demolì completamente le scelte economiche. Una strategia che ha funzionato bene. Oggi la Cina ha conservato in parte l’impronta del bolscevismo: è governata da un partito di stampo leninista, che si è rivelato uno strumento efficace per gestire il potere politico. Ma Pechino ha rinnegato la dottrina marxista e si è affidata con successo al profitto per produrre sviluppo e ricchezza».
La spartizione dell’Urss tra diverse repubbliche non dimostra che anche la politica sovietica verso le nazionalità è stata un fiasco? «No — risponde Graziosi —, evitiamo di scambiare l’effetto per la causa. L’Urss è crollata perché il suo sistema economico, tra il 1985 e il 1988, si è dimostrato irriformabile. Solo allora le rivendicazioni nazionali hanno preso il sopravvento e proprio perché le repubbliche erano rimaste l’unica realtà solida alla quale ci si poteva aggrappare. Stalin, da giovane un fervente patriota georgiano, sapeva che l’appartenenza nazionale è più forte della coscienza di classe. E plasmò l’Urss come una federazione di Stati costruiti ciascuno intorno a una lingua nazionale. Un modello che, in forma democratica e non monopartitica, è stato imitato dall’India, strutturata anch’essa come un’unione di Stati linguistici: un altro esempio di quanto pesi ancora, nel mondo di oggi, l’eredità della rivoluzione sovietica».

Gli avvenimenti, i protagonisti, le conseguenze dell’insurrezione di Pietrogrado

Esce oggi con il «Corriere della Sera», al prezzo di e 9,90 più il costo del quotidiano, il volume a più voci 1917 Ottobre Rosso , a cura di Antonio Carioti, che rimarrà in edicola due mesi. Questa raccolta di saggi, con prefazione di Sergio Romano e introduzione di Ernesto Galli della Loggia, ripercorre e analizza le vicende della rivoluzione russa a cento anni dall’insurrezione che portò al potere il Partito bolscevico fondato da Lenin. Comprende interviste al regista russo Nikita Mikhalkov (a cura di Paolo Valentino), allo storico dell’Urss Boris Kolonitsky (a cura di Marta Allevato) e allo studioso svizzero Guy Mettan (a cura di Stefano Montefiori). Le ragioni per cui il regime dello zar fu travolto dalla guerra sono analizzate da Lorenzo Cremonesi. Antonella Salomoni ricostruisce l’avvento e il consolidamento del potere sovietico, soffermandosi sul tema dell’economia, mentre Giovanni Codevilla si occupa della politica antireligiosa dei bolscevichi e Luigi Magarotto descrive il loro rapporto con gli intellettuali, specie scrittori e poeti. Antonio Moscato rievoca la figura di Lev Trotsky, protagonista della rivoluzione il cui ruolo venne poi cancellato dal suo nemico Stalin, mentre Luciano Canfora ricostruisce il modo in cui lo stesso Stalin riuscì a imporsi dopo la morte di Lenin, che pure aveva espresso giudizi severi nei suoi riguardi. Marcello Flores analizza il fallimento del tentativo di estendere la rivoluzione in Europa e Natalia Terekhova si occupa del rapporto tra i bolscevichi e i socialisti italiani. Fabrizio Dragosei nota come il regime russo di Vladimir Putin preferisca non celebrare il centenario dell’Ottobre.