venerdì 8 settembre 2017

Repubblica 8.9.17
La privacy usata come scudo per ridurre l’informazione
di Claudio Tito

NEL decreto del governo che intende disciplinare l’uso e la pubblicazione delle intercettazioni si nasconde una grande ipocrisia. Sintetizzata in una delle frasi con cui si apre la relazione che illustra il provvedimento: «La delega è volta a garantire la riservatezza delle comunicazioni ». Come se il nucleo più profondo di una questione così delicata fosse banalmente il diritto alla privacy. Non è così. Anzi si tratta di una mistificazione, di un paravento. Perché l’effetto è tutt’altro: stampa silenziata e opinione pubblica disarmata.
Solo così può essere accolto il tentativo di far prevalere la riservatezza su altri diritti fondamentali, a partire da quello di informare i cittadini.
Intendiamoci: nessuno nasconde l’esigenza di vietare alcuni abusi e di dare una nuova organizzazione a una materia che lo sviluppo tecnologico ha radicalmente trasformato. Nel decreto del ministro della Giustizia, però, questa necessità deborda e assesta un vero e proprio colpo alla libertà di stampa.
Vietare la pubblicazione delle intercettazioni consentendone solo la sintesi fatta da un magistrato equivale a privare non i giornali o i giornalisti ma l’opinione pubblica del diritto di sapere.
Va poi sfatato un mito che spesso si materializza quando si affronta questo tema. In discussione non ci sono le conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine o quelle privatissime tra due soggetti. Non si tratta di non prestare le dovute garanzie a chi è estraneo alle indagini o viene coinvolto solo incidentalmente. È evidente che tutto questo debba essere stralciato dal processo e anche dai giornali. In questo caso, però, si discute di colloqui che i magistrati hanno già dichiarato rilevanti. Dialoghi che gli inquirenti hanno valutato come decisivi per la prosecuzione del processo. Prove da utilizzare per dimostrare la colpevolezza di un indagato. Circostanze che un giudice ha reputato significative per descrivere il contesto losco o delittuoso in cui si muoveva l’imputato. E allora come è possibile che l’opinione pubblica ne debba essere tenuta all’oscuro? La rilevanza rimarcata in un atto giudiziario da un pm può diluirsi nell’irrilevanza quando si avvicina ai lettori? L’interrogativo ha una sola risposta: in gioco non c’è la privacy. L’obiettivo è semmai quello di arginare la stampa e i cittadini. Una scelta che sempre più assomiglia a un’ultima ondata che lascia con la risacca i detriti di una stantia difesa di chi è già forte.
Perché bisogna essere chiari: la riservatezza su cui si fonda il decreto non riguarda i semplici cittadini. I giornali pubblicano le intercettazioni dei personaggi pubblici, di chi ha un ruolo importante nella società. E chi chiede i voti agli elettori, guida delle grandi aziende, svolge un ruolo capace di impattare sui concittadini, ha necessariamente diritto a una privacy attenuata, inferiore a tutti gli altri. Non prendere atto di questa ordinaria osservazione — confermata di recente anche dalla Corte di Strasburgo — equivale a voler difendere chi è già potente. Alimentando il sospetto di una corsa all’auto-tutela e provocando quei sentimenti “anti-casta” che costituiscono il primo carburante del populismo.
Per questo esistono un “interesse giudiziario” e un “interesse pubblico”: non possono essere sovrapposti e soprattutto non possono scomparire. Ma l’intervento del ministro Orlando riesce a ottenere il risultato opposto.
Per risolvere il problema, basterebbe semplicemente affermare che il magistrato elimina dagli atti tutto quello che considera irrilevante ai fini dell’inchiesta. Una norma, peraltro, che già esiste nel codice di procedura penale (articolo 269).
Questo governo è allora davvero sicuro di voler correre il rischio di indebolire così tanto la nostra democrazia? Davvero crede sia giusto che l’opinione pubblica debba venire a piena conoscenza dei delitti commessi in questo Paese solo con estremo ritardo? Sarebbe stato giusto, ad esempio, non riportare con completezza quella frase («c’è lavoro per i prossimi dieci anni») pronunciata nel 2009 da un imprenditore subito dopo il terribile terremoto dell’Aquila?
Ci sono poi altri due aspetti che non si possono sottovalutare. Il primo riguarda il calendario della politica. Mancano sei mesi alle elezioni nazionali. Una classe dirigente responsabile non può lanciare un messaggio del genere in vista di un appuntamento così importante. Al momento, tra l’altro, il sistema di voto prevede le preferenze. E un elettore non può vedersi potenzialmente negare il diritto di sapere tutto quello che riguarda il candidato prescelto.
E poi esiste una questione procedurale. Un provvedimento che investe una questione tanto vitale per una società non può essere adottato con un decreto delegato. Ossia con un testo che non deve essere sottoposto all’esame del Parlamento. Le Camere, certo, hanno consegnato all’esecutivo una delega. Sta di fatto, però, che si arriva a stabilire una nuova disciplina delle intercettazioni con una legge che non ha bisogno di altre verifiche e con l’ombra — visti i contenuti — di un eccesso di delega. Il Consiglio dei ministri può vararlo — ma può anche evitare di farlo — entro il prossimo 3 novembre. La Camera e il Senato si trovano nella condizione di esprimere solo un parere, niente di più. Un percorso del genere non può che suscitare ulteriori dubbi sul merito del decreto. Che rischia, in questi termini, di cucirsi addosso la forma del bavaglio.