Repubblica 13.9.17
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al
patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della
preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni
Mancano
otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande
giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto
“ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo”
diciamo noi) ha segnato la storia
cristiana facendo della
sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della
Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al
Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino
l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante
sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del
potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il
Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che
avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema
discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il
concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del
mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il
cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316
padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di
Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le
chiese cristiane fino ad oggi.
Essa ha assorbito una questione che
ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il
simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La
sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è
essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo
e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente
introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” —
il Filioque — là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo
Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città)
procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente
difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando
dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali
considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi
che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico
di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto,
ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi
come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del
simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione
con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che
esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta
energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione
tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il
Credo domanda
alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede — premessa che
decide della celebrazione comune dell’eucarestia — che quel testo
enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina,
che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto
aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo
greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa
cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della
Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il
Credo
in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo:
specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da
traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze
episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa
constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione — che
come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura — del Credo:
una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di
conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche
a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata
confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico
Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe
Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i
concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo
fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia
Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e
d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e
cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere
di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la
chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea
si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese
e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al
vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme
di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.