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L’Italia è una Repubblica fondata sulle aspirazioni
Occupazione | Cancellata l’etica del lavoro per mancanza di materia prima, i millennials basano la loro identità su hobby e interessi, come volevano i situazionisti.
Storia di un cambio di paradigma e del suo sfruttamento
di Raffaele Alberto Ventura
“Ne travaillez jamais”. Non lavorate mai. Scrivendo queste parole su un muro del quartiere latino di Parigi, Guy Debord compiva nel 1953 il suo primo gesto di rivolta contro la società capitalistica, anni prima di fondare l’Internazionale Situazionista e di pubblicare il suo oracolare saggio La società dello spettacolo. Ma fu vera rivolta, oppure l’annuncio di una trasformazione a venire? La logica culturale del tardo capitalismo tiene proprio nella promessa della Fine del lavoro (perlomeno per la classe media occidentale) dal titolo di un celebre libro di Jeremy Rifkin pubblicato ormai vent’anni fa (Mondadori, 2005). E in effetti il lavoro è letteralmente finito per molti millennials che oggi escono dalle università con un altisonante titolo di studio e nessuna prospettiva d’inserimento professionale.
• Reddito e identità
Per chi si ritrova concretamente senza lavoro, oggi la questione più cocente è senza dubbio quella del reddito. Secondo i teorici dello Universal Basic Income questa si risolve facilmente, cioè ridistribuendo i profitti che generano le macchine. È la tesi (indubbiamente ottimista) di Nick Srnicek e Alex Williams in Inventing the Future, in uscita in italiano a gennaio 2018 per Nero. Ma risolta la questione del reddito resterebbe ancora un problema esistenziale: senza lavoro, come dare un senso alla propria vita? Srnicek e Williams smascherano in questo genere di domande i segni di una “ideologia del lavoro”, quella stessa contro cui si batteva Guy Debord. Il senso alla sua vita lo diedero la scrittura, la creazione artistica, la ricerca intellettuale e la militanza politica —non certo il lavoro salariato. Nella prospettiva dei situazionisti, al mercato si può sostituire un’economia del dono ispirata al rituale del potlatch dei nativi americani. Possiamo scherzare quanto vogliamo sull’ingenuità di queste speculazioni che ignorano (o fingono di ignorare) le condizioni materiali dalle quali tutti dipendiamo, eppure mezzo secolo dopo le ritroviamo in bocca ai guru della sharing economy. Tutto un segmento del terziario, dalle attività creative ai servizi alla persona, sta migrando verso la semi-gratuità anche a causa dell’eccesso di offerta.
• La mutazione
In qualche decennio, l’ideologia si è trasformata per adattarsi alle trasformazioni dell’economia. Nel 1999, un manipolo di marxisti tedeschi noti come Gruppo Krisis pubblicò un Manifesto contro il lavoro che denunciava l’assurdità della vita nel tardo capitalismo: «Mai la società era stata, fino a questo punto, una società del lavoro come in quest’epoca in cui il lavoro è stato reso superfluo». Ma chi crede più, oggigiorno, a questa vecchia etica di matrice protestante, quella che secondo Max Weber definiva lo spirito del capitalismo? Tutt’al contrario siamo entrati da qualche decennio nell’era del Nuovo spirito del capitalismo, dal titolo del poderoso saggio dei sociologi Luc Boltanski e Ève Chiapello uscito in quello stesso anno: un’epoca in cui i valori della controcultura sono diventati i valori della cultura dominante, rovesciando anche la nostra concezione del lavoro. Se fosse vero che il lavoro nobilita l’uomo, la gente non sarebbe continuamente costretta a mentire su ciò che fa davvero per mantenersi. Fateci caso: a prendere sul serio le presentazioni degli altri – «faccio lo scrittore», «il fotografo», «il blogger», «il Ceo presso me stesso»…–viene da chiedersi se siamo rimasti i soli a obbedire alla cruda ragione economica, a svegliarci prima delle otto e a scaldare la sedia in ufficio fino al tramonto. Ma non doveva risolvere tutto l’automazione? Il problema è che lo ha già fatto. La scarsità di beni industriali in Occidente è ormai un vecchio ricordo, almeno dai tempi della Società opulenta di John Kenneth Galbraith (1958, in Italia Edizioni di Comunità), ma resta il problema di come finanziare quei consumi che servono alla nostra realizzazione esistenziale e ci permettono di dirci scrittori, artisti, fotografi. La società del lavoro è diventata una società aspirazionale; da weberiana a debordiana. La verità è che in tempo di crisi è più gratificante definirsi attraverso le proprie ambizioni, seppure non ancora compiutamente realizzate, piuttosto che presentare regolare fattura.
• Sfruttamento di un’idea
L’industria culturale lo ha capito benissimo e infatti ci fornisce oggi una serie di strumenti per coltivare la nostra illusione. Infrastrutture telematiche che facilitano l’incontro tra domanda e offerta, hardware e software semi-professionali, sistemi di monetizzazione… Il potlatch nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ma abbassando le barriere all’ingresso dei mestieri creativi ha nello stesso tempo reso sempre più difficile fare di questi una solida fonte di reddito. Di fatto, li ha trasformati in qualcosa di più simile a degli hobby. D’altra parte l’eccesso di offerta ha creato una domanda monetizzabile per le piattaforme che forniscono il servizio. È la logica del cosiddetto prosu - ming, consumo travestito da produzione. Lo stesso ora accade a tanti altri mestieri meno creativi: aziende come AirBnb, Foodora, Uber vivono sulla diffusa aspirazione di mettersi in proprio, gestire i propri tempi, liberarsi dalla schiavitù del lavoro salariato o addirittura vivere senza lavorare spremendo una piccola proprietà o un piccolo talento. A lungo termine, è una nuova e più profonda schiavitù quella che offrono. La “malattia dei costi”, per come diagnosticata negli anni Sessanta da William J. Baumol, insegna che al diminuire dei costi dei beni industriali corrisponde un apprezzamento di tutto ciò che non è scalabile né automatizzabile: in particolar modo della cultura, per non parlare di tutto ciò che diventa “posizionale” (gli status symbol) precisamente perché non può essere democratizzato, dalle opere d’arte ai formaggi tradizionali. Nemmeno i progressi dell’automazione ci possono liberare da questi bisogni, che discendono direttamente dalla sete di autorealizzazione tipica del nuovo spirito del capitalismo. L’economista Fred Hirsch parlava per questo, nel suo omonimo libro del 1976, di limiti sociali dello sviluppo. Possiamo pubblicare facilmente un libro su Amazon, ma chi finanzierà i nostri studi, le ricerche, l’editing, la promozione, e soprattutto il tempo che abbiamo speso per scriverlo? Il reddito universale non farà miracoli. Studi molto seri mostrano l’attuabilità di certe forme di Universal Basic Income, ma l’effetto non è sempre quello auspicato dagli utopisti: ad esempio il World Economic Forum considera che un versamento mensile incondizionato sarebbe addirittura un incentivo al lavoro, perché sostituirebbe i sussidi vincolati alla disoccupazione; mentre la scuola di Chicago ha sempre difeso questa misura perché giustificherebbe una totale privatizzazione del welfare. Insomma, se il reddito universale di base non spaventa nessuno è proprio perché, in fin dei conti, non cambia granché. Nelle interpretazioni che stanno prevalendo, si tratta soprattutto di riallocare le stesse risorse secondo una diversa configurazione, proprio come al gioco delle tre carte. Quanto poi al sogno di riuscire a ridistribuire la totalità dei profitti generati dall’automazione, la parte davvero difficile sarà convincere i cinesi a mantenere la classe media occidentale – più di quanto già non facciano. Intanto ce ne restiamo qui, con le nostre grandiose aspirazioni e la bocca asciutta.
• Una società situazionista?
Il vecchio progetto debordiano si è realizzato, ma in maniera deformata. Siamo tutti artisti, tutti piccoli imprenditori, ma dobbiamo pagare per esserlo. Una galassia di aspiranti qualche-cosa che non arrivano a fine mese ma intanto fanno prosperare l’economia delle piattaforme. Lo stesso Debord, quando la sua celebre scritta sul muro venne riprodotta su una cartolina negli anni Sessanta, non ottenne nemmeno un centesimo di royalties. Questa è la bolla in cui viviamo: ospiti di un parco giochi in cui coltivare le nostre illusioni, con buona pace degli utopisti e altri accelerazionisti, continuiamo a dovere finanziare in qualche modo i costumi di scena per la recita della “fine del lavoro”.