lunedì 25 settembre 2017

pagina99 22.9.2017  
L’arte di superare l’abitudine alla violenza
Immagini | Nella società digitale le rappresentazioni della brutalità sono così pervasive da inibire ogni lettura e sopportazione. Alcuni artisti contemporanei cercano allora un nuovo linguaggio. Per mostrare ed elaborare il trauma
di Francesco Tenaglia

Un giovane legge la storia, narrata in prima persona, di un vietnamita sfigurato da una bomba al napalm sganciata dall’esercito statunitense. Poi, rivolgendosi alla cinepresa, chiede allo spettatore: «Come mostrarvi il napalm in azione? Se vi facessi vedere le vittime, reagireste sbarrando gli occhi. Li chiudereste alle immagini, poi alla memoria. In seguito allontanereste i fatti e, infine, l’ambiente che li ha prodotti». Poi prosegue: «Posso solo darvi un’idea di come funziona», e si spegne, serafico, una sigaretta sul dorso della mano mentre la voce fuori campo dettaglia: «Una sigaretta brucia a quattrocento gradi centigradi, il napalm a tremila». L’uomo è Harun Farocki, artista tedesco a cui Berlino tributa una grande retrospettiva – inaugurata presso la Neuer Berliner Kunstverein, il Savvy Contemporary, il cinema Arsenal e l’Harun Farocki Institut in concomitanza con la Berlin Art Week – e il cortometraggio è The Inextinguishable Fire (1969), saggio sulla guerra e sul mercato delle armi che pone questioni fondanti sulla relazione tra immagini e trauma, certificando l’impossibilità di elaborare e registrare correttamente eventi che eccedono la nostra soglia di sopportazione emotiva.
• Sfuggire morbosità e rimozione
L’arte è stata spesso chiamata a simboleggiare posizioni contro la violenza, in special modo antimilitariste, attraverso la rappresentazione della violenza stessa: pensiamo a Il 3 maggio 1808 di Francisco Goya, che congela l’attimo precedente alla fucilazione di un gruppo di indipendentisti madrileni da parte di un plotone di esecuzione francese, o a Guernica, in cui Picasso condensa la disperazione della città basca che dà nome all’opera (rasa al suolo dai bombardamenti del generale Franco durante la guerra civile). La differenza risiede nel fatto che Farocki operava in una fase matura della cultura popolare del ’900. Giornali, cinema e televisione avevano reso largamente disponibili figurazioni realistiche e crude delle battaglie e della loro ricaduta sociale. Lo scopo dell’artista era, quindi, individuare un nuovo linguaggio visivo radicale: emotivo ma che, al tempo stesso, analizzasse i meccanismi dell’esposizione a immagini traumatiche; in cui la necessità di testimonianza schivasse il didascalico, la curiosità morbosa, la rimozione o la desensibilizzazione. In modo analogo, alcuni artisti contemporanei attuano una riflessione sul traumatico in una cultura che, ai mezzi tradizionali, aggiunge l’enorme quantità di immagini prodotte con semplici dispositivi elettronici portatili e distribuite ai pubblici, potenzialmente smisurati, dei media partecipativi (YouTube, Twitter, Instagram e gli altri): la violenza è trattata come “materia prima” di cui si rivela la duplice natura di espressione di sé e performance, le dinamiche di attrazione e circolazione; oppure viene sublimata in evocazioni allusive.
• Slip, pistole e sabbie mobili
Il regista danese Nicolas Winding Refn, presentando The Neon Demon (2016) a Cannes, ha dichiarato che internet «ha sovrapposto bellezza e morte», e l’artista Jon Rafman (anche lui, in questi giorni, in mostra alla galleria Sprüth Magers di Berlino) sembra essere d’accordo: nei suoi video cuce insieme o s’ispira a filmati e fotografie scovati in rete che emanano un senso d’intimità eccessiva, confinante con la repulsione. In Still Life (Betamale) del 2013, per esempio, osserviamo un uomo che si infila slip femminili sul capo puntandosi contemporaneamente due pistole alle tempie, mentre un individuo – di genere non identificabile e travestito da volpe – si lascia gradualmente inghiottire dalle sabbie mobili. Non sapremo mai se i protagonisti di questi video sono vivi: ci limitiamo ad assistere a teatralizzazioni di piaceri così specifici e personali da risultare intollerabili; esse immaginano l’internet come memoria pubblica che rende a tutti consultabile l’insieme dei feticismi prodotti dal genere umano.
• Un’insensata carneficina
Analogo lo scalpore che ha provocato Real Violence (2017), video realizzato con tecniche di realtà virtuale dallo statunitense Jordan Wolfson per l’ultima Whitney Biennial: indossati i visori, gli spettatori potevano osservare l’artista picchiare a morte un coetaneo (un animatrone) con una mazza da baseball, nell’indifferenza delle strade di New York. Sequenze che trovano ragion d’essere nella monumentale violenza a cui costringono lo spettatore: un braccio di ferro con chi, pur potendo distogliere lo sguardo su palazzi e passanti, non può che soffermarsi impotente su un’insensata carneficina. Che misura in modo lineare l’appetito per il macabro a cui ci ha assuefatti il sistema dell’informazione.
• Autoritratto di un trauma
Di segno opposto è Autoportait (2017) del neozelandese Luke Willis Thompson, presentato quest’estate che hanno dissezionato la vicenda. La Reynolds qui ha totale controllo sulla presentazione di sé: ha scelto abito, acconciatura, pose e inquadrature. Appare placida e composta, quasi rinascimentale; cionondimeno, nello sguardo dello spettatore informato, emerge implicitamente il trauma subito, come un tratto somatico fantasma.
• Il cecchino astratto
Sul medesimo tema, è impossibile non citare The Pixelated Revolution (2012), lecture-performance di Rabih Mroué con cui l’artista libanese analizza la grammatica visiva di video postati da civili durante la rivoluzione siriana. Prendendo spunto da una teoria della Chisenhale Gallery di Londra. Thompson è entrato in contatto con Diamond Reynolds, donna di colore che molti ricorderanno per essere riuscita a riprendere, attraverso una diretta Facebook, l’uccisione del compagno Philando Castile per mano di un poliziotto durante un controllo, riuscendo a viralizzare l’incidente (il poliziotto credeva che, al posto della patente, Castile stesse estraendo un’arma da fuoco) e salvarsi la vita. Thompson l’ha immortalata in un video-ritratto che offre un’immagine opposta, ma gemellare, a quella circolata in streaming e negli innumerevoli rivoli di notizie che hanno dissezionato la vicenda. La Reynolds qui ha totale controllo sulla presentazione di sé: ha scelto abito, acconciatura, pose e inquadrature. Appare placida e composta, quasi rinascimentale; cionondimeno, nello sguardo dello spettatore informato, emerge implicitamente il trauma subito, come un tratto somatico fantasma.
• Il cecchino astratto
Sul medesimo tema, è impossibile non citare The Pixelated Revolution (2012), lecture-performance di Rabih Mroué con cui l’artista libanese analizza la grammatica visiva di video postati da civili durante la rivoluzione siriana. Prendendo spunto da una teoria del XVIII secolo secondo la quale l’ultima immagine vista prima della morte s’imprime nella retina del deceduto, proietta una sequenza catturata con un telefonino da un tetto: la telecamera scova un cecchino nascosto tra i palazzi e in un’angosciante manciata di secondi il soldato si rende conto di essere ripreso, punta il fucile verso l’obiettivo –quindi verso il nostro punto di vista – e mira. L’autore delle riprese, forse sentendosi al riparo dal ruolo di osservatore, non si nasconde, ma continua a registrare e, dopo il rumore di uno sparo, cade a terra. La ripresa s’interrompe. Rabih Mroué tenta d’individuare le sembianze del cecchino con gli stessi frustranti risultati del protagonista di Blow-Up di Antonioni: i successivi ingrandimenti digitali deformano l’immagine, sgranandola e rendendola simile a un quadro astratto.
• La violenza nell’opacità
Probabilmente il lavoro più efficace e poetico sulla rappresentazione (o non rappresentazione) della violenza istituzionale è di Alfredo Jaar. In Lament of the Images (2002) lo spettatore è invitato a percorrere un corridoio completamente buio in cui può leggere tre testi. Il primo racconta di come Nelson Mandela fosse costretto a lavorare in una cava di calcare che, riflettendo la luce solare, accecava i prigionieri (cui erano negati occhiali protettivi); si dice che Mandela non pianse nel giorno della liberazione perché quei riflessi gli avevano inibito tale capacità. Il secondo tratta del più grande archivio fotografico nel mondo –appartenente alla Corbis di Bill Gates – trasportato in un bunker costruito in un’ex cava di calcare per conservarlo alle condizioni ambientali migliori, ma rendendolo così inaccessibile (le immagini sono via via digitalizzate secondo le richieste dei clienti: l’attività richiederà centinaia di anni secondo i calcoli dell’artista); l’archivio Corbis conserva anche foto della guerra del Vietnam e della prigionia di Nelson Mandela. L’ultimo testo segnala che, prima di bombardare l’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno acquistato le riprese satellitari della zona sotto attacco dalla società privata Space Imaging per uso esclusivo del dipartimento della Difesa, nonostante il Pentagono disponga di satelliti dieci volte più potenti; il risultato dell’operazione commerciale è stato rendere impossibile ai mezzi d’informazione l’approvvigionamento di immagini indipendenti, necessarie per verificare le fonti governative sugli effetti degli attacchi. Al termine della lettura dei testi il visitatore è invitato a entrare in una stanza in cui c’è solo un grande schermo che emana una luce bianca accecante – un micro-trauma spaesante, appunto – metafora delle relazioni tra immagini e potere che transitano in insenature più profonde, opache e impenetrabili di quanto l’epoca della trasparenza totale ci lasci immaginare. Dove la violenza si manifesta nella possibilità di celare immagini allo sguardo.