lunedì 4 settembre 2017

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Verità percepita
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Sapere | Dai migranti al crimine, la statistica ha perso credibilità: i cittadini non modificano le loro convinzioni anche quando i numeri le smentiscono. L’antidoto è nei big data, che spesso però sono asserviti alla propaganda. A discapito della realtà
di Andrea Daniele Signorelli

Secondo i calcoli dell'Inps, ogni anno gli immigrati presenti in Italia versano 8 miliardi di contributi, ricevendone indietro solo 3 in termini di pensioni e welfare di vario tipo. Il saldo netto, quindi, è di circa 5 miliardi di euro. Questi numeri dimostrano come gli immigrati possano essere, letteralmente, una risorsa per l'Italia. E allora per quale ragione – stando a un recente sondaggio Swg – ben il 65% degli italiani si mostra in disaccordo con l'affermazione «gli immigrati sono una risorsa per il nostro Paese»? Lo stesso vale per la criminalità. I dati Istat confermano come in Italia i reati siano in costante diminuzione: in dieci anni si è passati da quasi 3 milioni a meno di 2,7 milioni. Un netto calo che comprende anche omicidi, tentati omicidi, furti e violenze sessuali. Nello stesso lasso di tempo, gli stranieri residenti nel nostro Paese sono raddoppiati. E allora come si spiega che – sempre secondo un sondaggio Swg–ben il43% degli italiani, dato in costante crescita, pensa che «gli immigrati portano solo criminalità»? La ragione è semplice: le persone non si fidano delle statistiche ufficiali e danno molto più valore alla loro percezione soggettiva della realtà. Ed è proprio per questa ragione che un report del think tank progressista British Future consiglia, quando si affronta il tema migranti, di lasciar perdere le statistiche e di concentrarsi invece su episodi qualitativi. In poche parole, piuttosto che enumerare gli effetti positivi che l'immigrazione ha sul Pil, è meglio raccontare qualche aneddoto di migranti che hanno soccorso una vecchietta o portare qualche esempio costruttivo di integrazione riuscita. Ma perché ci si fida più di un episodio particolare, che potrebbe benissimo rappresentare un'eccezione, che dei freddi numeri, che dovrebbero invece essere in grado di raffigurare la realtà nel suo insieme? Le ragioni sono parecchie, ma più che alla possibilità di mentire con i numeri (che esiste) bisogna guardare alla generale sfiducia nei confronti della politica, degli esperti – come dimostrato anche dalla Brexit, vittoriosa nonostante il parere quasi all'unanimità contrario degli economisti – e quindi anche delle statistiche e dei dati che spesso sono la materia prima con cui le istituzioni raccontano la realtà. Stando a un sondaggio di YouGov, il 55% dei britannici è convinto che il governo stia nascondendo la verità sull'effettivo numero di immigrati che vive nel Paese. Allo stesso modo, i dati statistici del Pil non riusciranno mai a convincere chi vive nelle aree depresse dell'Italia che le cose stiano effettivamente migliorando. «La globalizzazione non ha reso irrilevante la geografia», scrive William Davies sul Guardian. «In molti casi, al contrario, l'ha resa ancor più importante, esacerbando l'i n eguaglianza tra le aree di successo e quelle svantaggiate ». In altre parole, la percezione (corretta o meno) della realtà locale che circonda il singolo è più importante dei numeri nazionali. E quando le due cose confliggono, si tende a pensare che siano i numeri a mentire. Nel momento in cui non si ha più fiducia nelle istituzioni –continua a scendere anno dopo anno, come raccontano i dati Demos – e si ritiene che i numeri che smentiscono le nostre opinioni siano falsati, ognuno diventa libero di raccontarsi la propria verità e di circondarsi di persone che la pensano allo stesso modo, dando così una patente di legittimità anche alle opinioni più balzane (basti pensare, per quanto riguarda l'Italia, alla crescita enorme del movimento No-Vax, nonostante tutti gli indicatori statistici e tutti gli esperti siano concordi sui benefici dei vaccini). Benvenuti nell'epoca della post-verità.
*Il lato oscuro dei grandi numeri
Ma se la statistica non gode più di fiducia, qual è l'alternativa? Il modello che si sta facendo largo, e che sta iniziando a ottenere sempre più credito anche a livello istituzionale, è quello dell'analisi dei big data. Un sistema in grado di riuscire laddove le statistiche e i sondaggi falliscono o proprio non possono essere d'aiuto, prevedendo per esempio la vittoria di Donald Trump (impresa riuscita all'algoritmo sviluppato dal programmatore indiano Sanjiv Rav, in grado di analizzare politicamente i dati dei social network) o addirittura anticipando ampiamente lo scoppio di un'epidemia d'influenza grazie all'analisi delle chiavi di ricerca sui motori di ricerca (è il caso di Google Flu Trends). Se non bastasse, grazie ai dati che lasciamo ogni giorno sui social network o alle ricerche che compiamo su Google, è possibile raggruppare in tempo reale informazioni sullo stato d'animo degli abitanti di una nazione, osservare giorno per giorno come cambiano i valori religiosi o politici e anche quali siano i temi più pressanti per gli utenti che abitano in una certa zona. Tutto questo, inoltre, raccogliendo opinioni spontanee disseminate per la rete: «In questo modo, si possono tracciare le identità che le persone si conferiscono autonomamente, invece che essere costretti a imporre loro categorie dalle quali, magari, molti non si sentono rappresentati», riflette ancora il Guardian. «È una forma di aggregazione dei dati che si adatta bene alla nostra fluida epoca politica». Il risultato è presto detto: Facebook, secondo uno studio delle università di Cambridge e Stanford, ci conosce meglio dei nostri più stretti amici. Basta scaricare un'estensione di Chrome, Data Selfie, per avere un piccolo esempio delle informazioni personali che il social network di Mark Zuckerberg riesce a raccogliere su di noi: le principali testate che leggiamo, il nostro orientamento politico e religioso, addirittura la nostra personalità, se siamo cioè un tipo più contemplativo o impulsivo, lavoratore indefesso o indolente, ecc. ecc. È facile capire come mai uno strumento in grado di fornire dati così accurati stia rapidamente scalzando sondaggi e statistiche. Nell'epoca della post-verità, chi organizza una campagna elettorale sarà molto più interessato ad andare a caccia di tendenze, correlazioni e sentimenti emergenti, invece che affidarsi a una statica raffigurazione numerica della società. Ma se questi dati sono così precisi, in grado di fornire un quadro della popolazione più dettagliato, localizzato e in profondità, e se inoltre si adattano alla perfezione alla nostra epoca, allora qual è il problema? In verità, la questione big data presenta anche parecchi pericoli. Un assaggio se n'è avuto già nel 2014, quando Facebook rivelò di aver manipolato, per una sua ricerca, il newsfeed di quasi 700 mila utenti per vedere in che modo queste modifiche influissero sugli stati d'animo degli utenti stessi. Un esperimento che sollevò un vespaio di critiche; con il risultato che, probabilmente, Facebook continua a condurre studi del genere guardandosi però bene dal renderli pubblici.
*Sfruttare le percezioni errate Oltre al problema etico di raccogliere dati sugli utenti attraverso la manipolazione volontaria della loro esperienza social, c'è una seconda questione che sorge: quanto possiamo fidarci delle analisi ottenute studiando i big data, se le azioni e lo stato d'animo degli utenti di Facebook e gli altri social network possono essere manipolati con un semplice cambio d'algoritmo? Infine, c'è la questione più politica: se la statistica è figlia dell'età della ragione e della sua volontà d'illuminare (per quanto possibile) la complessa realtà sociale, i big data si prestano a meraviglia al cavalcante populismo di oggi. Gli strateghi delle campagne elettorali, per esempio, possono creare profili psicologici di ogni singolo utente e inviargli messaggi promozionali cuciti su misura. Il potere di questa comunicazione l'ha mostrato perfettamente la campagna elettorale digitale di Donald Trump, progettata da Cambridge Analytica e in grado di inviare messaggi negativi su Hillary Clinton a tutti i democratici indecisi degli Stati in bilico; di raccontare ai disoccupati della rust belt come Trump sia a favore del salvataggio delle fabbriche e, contemporaneamente, come sia invece un convinto sostenitore del laissez faire ai simpatizzanti del Tea Party. Grazie alla microtargettizzazione, i politici possono inviare messaggi tra loro contraddittori a fasce elettorali differenti senza che nessuno se ne accorga (almeno finché non è troppo tardi). Rispetto al passato, la situazione si è quindi ribaltata: se la statistica può essere usata per correggere delle sensazioni errate (com'è nel caso dell'immigrazione), nell'epoca dei big data – che, non va dimenticato, sono per la quasi totalità nelle mani di pochissimi colossi privati che li sfruttano a fini di lucro – le emozioni dettate "dalla pancia" non vengono più corrette dai dati, ma diventano a loro volta dei dati da sfruttare per ottenere il consenso; esacerbando il lato peggiore della (comunicazione) politica e mettendo ulteriormente a rischio la qualità delle nostre democrazie.
IL CASO CAMBRIDGE ANALYTICA 
Un potere (eversivo) costruito sui nostri dati 
Dove finisce la comunicazione e inizia invece la manipolazione? Nell'epoca dei social network, la domanda sta diventando sempre più pressante, grazie alla capacità di Facebook (e non solo) di veicolare messaggi targettizzati sul singolo utente. Il potere di questi nuovi strumenti si è visto in tutta la sua forza durante la campagna elettorale di Donald Trump, curata nel suo versante digitale da Cambridge Analytica, società fondata dal controverso miliardario Robert Mercer. Nonostante il ruolo di questa azienda, che si occupa di analisi dei dati e di psicologia sociale, sia stato ridimensionato da alcuni esperti, è chiaro come i suoi metodi rappresentino la nuova frontiera del marketing politico e rendano sempre meno distinguibile il confine tra persuasione e manipolazione. Negli ultimi anni, Cambridge Analytica ha accumulato enormi quantità di dati personali sugli utenti di Facebook, in modo da inviare messaggi promozionali che avrebbero, per esempio, confermato le tesi di chi sospettava che Hillary Clinton fosse al soldo di Wall Street, disincentivato dal recarsi al voto i democratici più perplessi dalla loro candidata e alleviato le preoccupazioni nei confronti di Donald Trump dei repubblicani più scettici verso l'immobiliarista newyorkese. Tutto ciò senza risparmiarsi in allarmismi, esagerazioni o fake news pure e semplici. Niente di illegale, sia chiaro; ma proprio il fatto che questa forma di comunicazione sia legale fa pensare che a breve qualunque campagna elettorale imparerà a sfruttare al meglio questi strumenti, rendendo sempre più complesso distinguere la realtà dall'invenzione e l'informazione dal marketing politico. Grazie ai social network, insomma, diventa possibile raccontare una versione della realtà sempre diversa a seconda della persona con cui si sta parlando, spesso senza che questa si renda nemmeno conto che dietro quella comunicazione non c'è una fonte informativa, ma una spregiudicata strategia elettorale. A peggiorare il quadro, c'è il fatto che Cambridge Analytica nasca da un ramo di Scl Group, una società britannica di comunicazione strategica e ricerca comportamentale sul cui sito web si legge: «Scl fornisce dati, analisi e strategie ai governi e alle organizzazioni militari di tutto il mondo. Per oltre 25 anni, abbiamo condotto programmi di cambiamento comportamentale in oltre 60 Paesi». Secondo quanto riportato tra gli altri da Politico, Scl sarebbe stata coinvolta in campagne di disinformazione usate per fomentare colpi di Stato nei Paesi in via di sviluppo o per influenzare elezioni in Ucraina, Albania, Romania, Nigeria e molti altri. Nell'elenco, compare anche l'Italia. La giornalista del Guardian Carole Cadwalladr ha dedicato lunghe inchieste al caso Scl/Cambridge Analytica spiegando come le due società non siano startup create da giovani innovatori ma siano parte integrante dell'establishment della Difesa inglese, e ora anche di quella americana. La preoccupazione, dice Cadwalladr, non riguarda solo l'uso digitale che la politica e le campagne elettorali fanno dell'analisi dei dati e della psicologia sociale a fini di propaganda, ma il fatto che Scl è deve essere considerato un vero e proprio «contractor militare che usa strategie militari sulla popolazione civile».
A. D. S.