La Stampa
Usa
“Se l’Italicum resta intatto
Grillo può vincere le elezioni”
Così il Dipartimento di Stato ha letto la politica italiana a cavallo del referendum
di Paolo Mastrolilli
Matteo
Renzi «non è obbligato a dimettersi», ma probabilmente lo farà. Subito
dopo però potrebbe ricevere un nuovo incarico dal presidente Mattarella,
e «ripresentarsi davanti al Parlamento per un voto di fiducia sul Renzi
2.0». Sembra un auspicio, più che un’analisi politica, questo che
l’ambasciatore John Phillips inserisce nel rapporto inviato a Washington
il primo dicembre dell’anno scorso. Siamo alla vigilia del referendum
costituzionale, e dai documenti che La Stampa ha ottenuto nel rispetto
delle leggi americane, gli Stati Uniti temono che la sconfitta del
premier esponga l’Italia al rischio di una deriva estremista e
populista, e di una crisi economica e bancaria. Ma quello che preoccupa
di più, in prospettiva, è l’arrivo di Grillo a Palazzo Chigi: «Se
vincesse il sì e l’Italicum restasse intatto, potrebbe vincere le
prossime elezioni e formare il governo».
Il 30 novembre Phillips
firma un primo rapporto dedicato allo «Short-Term Economic Outlook on
Referendum», la prospettiva economica a breve. Via Veneto dà per
scontata la vittoria del «No», e cerca di spiegare a Washington i
pericoli: «I nostri contatti nel governo hanno sminuito le potenzialità
di reazioni negative dei mercati immediate e serie. Tuttavia
l’incertezza riguardo il futuro di Renzi, e la minaccia dell’instabilità
politica, hanno aumentato la volatilità guardando al 2017, anno in cui
l’Italia siederà nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ospiterà a maggio
il G7. Ciò potrebbe comportare difficoltà per le banche in cerca di
capitali, creando sfide immediate per il piano di ristrutturazione del
Monte dei Paschi di Siena. Nonostante il debito pubblico sia posizionato
per sopportare le turbolenze dei mercati, la volatilità successiva al
referendum potrebbe alzarne i costi. Data la convinzione nei settori di
affari e finanza che il «No» sia stato già messo in conto dalle borse,
l’Italia potrebbe essere colta di sorpresa, se qualunque ripercussione
seria dovesse emergere a causa del risultato, minacciando la crescita
(già debole), e complicando le relazioni con l’Unione europea». Phillips
nota che «le azioni delle banche italiane sono scese del 14% dal voto
sulla Brexit, mente il 25 novembre lo spread rispetto ai bond tedeschi è
salito a 191 punti, il livello più alto dal maggio 2014». Riporta che
«il settore privato favorisce le riforme, ma rigetta l’ipotesi di una
catastrofe se vincesse il No». Cita l’appoggio di Confindustria, «a cui
si è aggiunto di recente quello del ceo di Fiat-Chrysler Sergio
Marchionne», ma aggiunge che l’associazione degli industriali «non si
aspetta ramificazioni economiche negative». Rivela un incontro avuto il
21 novembre con i dirigenti della Banca d’Italia, «che si aspettano un
po’ di volatilità dopo la vittoria del No, ma non la fine del mondo».
Anche «i leader delle due principali banche italiane ci hanno detto che
non sono preoccupati. Uno, durante un incontro avuto il 21 novembre, ha
definito il referendum un “non evento”; l’altro, il 28 novembre, ha
detto che i rischi sono “gestibili ed esagerati”». Phillips però resta
preoccupato per il Monte dei Paschi di Siena, che «lancerà il suo
aumento di capitale da 5 miliardi di euro il 6 dicembre», e Unicredit,
che lo farà il 13: «Le condizioni instabili dei mercati minacciano il
successo dei piani di entrambe le banche. Ma mentre Unicredit ha riserve
sufficienti, un collasso di Mps potrebbe richiedere un intervento
doloroso». L’ambasciatore poi rivela il suo vero timore, citando un
rapporto scritto l’11 novembre dalla Deutsche Bank: «I mercati
finanziari restano più preoccupati per i rischi di medio e lungo
termine, ossia una potenziale vittoria elettorale del Movimento anti
establishment 5 Stelle nelle prossime elezioni generali, da tenersi non
più tardi del marzo 2018».
Phillips sta scrivendo dopo il successo
di Trump alle presidenziali, e quindi sa che questi rapporti
rappresentano la sua eredità politica, consegnata a chi gestirà le
relazioni con Roma dopo di lui. Perciò acquista ancora più importanza il
documento che invia il primo dicembre, per sfatare cinque miti sul
referendum: «Le tendenze politiche europeee e americane sono un fattore
in vista del 4 dicembre, ma le circostanze domestiche italiane guidano
le intenzioni degli elettori». Il pronunciamento su Renzi viene prima
del vento della Brexit o di Trump. Il primo mito da sfatare è che il
premier doveva evitare il referendum: «È falso. La costituzione lo
impone, se una sua riforma è approvata dal Parlamento con una
maggioranza inferiore ai due terzi». Il secondo è che poteva
concentrarsi su altre priorità: «Il governo Renzi era stato creato per
fare le riforme. Il presidente Napolitano aveva accettato di prolungare
il suo mandato a questa condizione». Semmai il rimpianto sta nella fine
della cooperazione con Berlusconi: «Se fosse continuata, la riforma
avrebbe ottenuto i due terzi in Parlamento, eliminando la necessità del
referendum». Il terzo mito è che la riforma apre la strada di Palazzo
Chigi a Grillo: «La legge elettorale è stata già fatta, non è oggetto
del referendum. In effetti se vincesse il Sì e l’Italicum restasse
intatto, M5S avrebbe una possibilità realistica di vincere le prossime
elezioni e formare il governo. Ma la riforma costituzionale non dipende
dalla legge elettorale, e nulla impedisce al Parlamento di cambiarla in
futuro. I pro e i contro del maggioritario non sono sulla scheda il 4
dicembre». Il quarto mito è che la riforma dà troppi poteri al premier:
«Ne dava di più quella tentata da Berlusconi nel 2006. È ironico che uno
degli argomenti di M5S contro la riforma stia nel fatto che il nuovo
Senato lo frenerebbe, se andasse al potere, perché è basato sulle
Regioni che il Movimento non controlla». Il quinto mito è che la
premiership di Renzi finirà con la sconfitta. Qui Phillips fa il
ragionamento riportato all’inizio, nella speranza che il premier si
dimetta, ma per ottenere un nuovo incarico. Del resto lo stesso
presidente Obama, ricevendolo in ottobre alla Casa Bianca, aveva
auspicato che il capo del governo restasse al suo posto qualunque fosse
stato l’esito del referendum.
Il quinto mito però non si rivela
tale, e il 5 dicembre l’ambasciatore invia a Washington un rapporto
classificato come «sensitive», in cui si chiede: «Italy Votes No: Where
Do We Go From Here?». Dove finirà ora l’Italia? Renzi «ha sbagliato a
personalizzare il referendum, e il suo ruolo come baluardo contro
populismo ed estremismo è stato duramente indebolito», ma Grillo «non è
sulla soglia del potere». Phillips non crede alle elezioni anticipate:
«L’esuberanza di M5S maschera una crisi di leadership nel Movimento, che
gli renderà difficile giocare un ruolo responsabile nei prossimi mesi.
Secondo molti osservatori l’appello per il voto è un bluff. M5S vuole
più tempo per gestire la crescente crisi interna e sanare lo scisma tra i
pragmatici, guidati da Di Maio e Di Battista, che vogliono il governo, e
l’ala ortodossa condotta da Roberto Fico, che diffida dell’ambizione
politica ed è frustrata dai crescenti scandali ed errori di gestione nel
partito. Chiedendo le elezioni anticipate nonostante l’impossibilità
tecnica di farle, il Movimento raccoglie i benefici del ritardo, senza
partecipare al mercato delle vacche che i suoi membri oppongono
visceralmente». Quanto a Berlusconi, «sollecita prudenza e suggerisce
che l’attuale maggioranza può durare fino al 2017, per guadagnare tempo a
favore del suo ritorno». Renzi invece si riprenderà il partito, per
purgare gli oppositori di sinistra e guidarlo alle prossime elezioni:
«Il sistema delle primarie aperte garantisce la sua vittoria nella corsa
a segretario. A quel punto si concentrerà sulla ricostruzione, che
includerà l’eliminazione dei dissidenti».
Nei rapporti successivi
Phillips si arrovella sulle ipotesi di governi tecnici o istituzionali, e
sulla girandola dei candidati, ma quando nasce l’esecutivo Gentiloni
tira un sospiro di sollievo, anche se è «la fotocopia di quello Renzi, e
D’Alema avverte che costerà al Pd un altro 5% di voti». L’ambasciatore
nota soprattutto le conferme di Padoan, Calenda e Pinotti, e la
promozione di Minniti all’Interno, come conferme del fatto che la
stabilità dell’Italia, almeno per ora, è salva.