giovedì 7 settembre 2017

La Stampa 7.9.17
Ti disprezzo Obeida, vile mandante
In 152 giorni tu hai scavato l’abisso
Io, tenuto prigioniero per cinque mesi da un uomo che non ho mai visto Mio malgrado sono legato a lui da qualcosa che non è mai irreale: il Dolore
di Domenico Quirico

Avrei voluto raccontarvi la storia di un uomo, un libanese di nome Obeida al-Hujeiri, figlio di Moustafa detto Abou Takieh: ma non la so. Come per tutti il suo passato è fatto di parole. Come tutti ha una storia che, adesso, soprattutto adesso, forse non ama, una storia che divide con innumerevoli sconosciuti, le cui sofferenze o gesti di odio si susseguono senza mai scomparire del tutto come in un gioco di specchi in cui la stessa immagine si ripete all’infinito. Ora che è rinchiuso in una prigione libanese e uomini duri, duri come lui quando interrogava, gli chiedono ragione di almeno venti delitti, forse tenterà di mutilarla, di truccarla quella storia, di trascinarla nel fango e arricchirla di bugie da quattro soldi.
Per salvarsi, uscirne: forse. Ma una cosa sembra che l’abbia confessata: ed è la ragione che lega la sua storia alla mia, dove mi ha fatto entrare a forza, di colpo, una sera di aprile di quattro anni fa.
Perché Obeida al-Hujeiri, figlio di una grande famiglia feudale libanese, padrone di terre di villaggi e di uomini, fiancheggiatore della Armata siriana libera e poi della lercia jihad di Al-Qaeda, e di Isis, è l’uomo che ha organizzato quattro anni fa il mio rapimento.
Più si avanza nel tempo più ci si accorge che ci si crede liberati da tutto e in realtà non lo si è da niente. Una parte dei miei carcerieri di allora sono morti, ho visto le foto terribili dei cadaveri, i volti e i corpi devastati: mi è rimasto lo strano rimpianto di non aver potuto parlare con loro, non più da vittima a prigioniero, di porre loro domande e non il contrario. Ma quelli erano i manovali, gli operai del delitto.
Obeida no! Non vorrei guardarlo negli occhi e misurare l’abisso che quei 152 giorni di prigionia hanno scavato tra noi. Perché è lui il colpevole di avermi portato, per cinque mesi, all’estremo delle notti, dove non c’è più nessuno, nient’altro che i minuti che passano. Ciascuno dei quali fa finta di tenerci compagnia per poi fuggire, una diserzione dopo l’altra, un tradimento dopo l’altro. Ci lega, lui lo ha voluto, qualcosa che purtroppo non è mai irreale, il Dolore, che è una sfida a una finzione universale, la sola sensazione provvista di un contenuto, se non di un senso.
Allora chi sei Obeida? Perché in un giorno di aprile, mentre la ribellione siriana sembrava ancora piena di imprese rischiose e riuscite, hai fissato il tuo sguardo su di me, hai pensato che avrei potuto essere utile per le tue trame spietate, i tuoi affari loschi, i tuoi commerci falsamente rivoluzionari? Chi per primo ti ha sussurrato il mio nome, e le possibilità criminali che ti offriva il mio strano mestiere di andare dove non si dovrebbe andare, a fare domande, a guardare? Ah! delle cose su di te le so, me le hanno raccontate: che il tuo dominio erano le terre di confine tra Siria e Libano, il crinale della montagna aperto sul caos, la regione del Qalamoun dove la rivolta contro Bashar, il ritiro dell’esercito sbandato dai ribelli, stagnava un vuoto pieno di trafficanti idealisti e banditi, fermento delle cose crudeli che sembrano il fondo della storia di questa parte del mondo.
Quello era il tuo mondo, Obeida, di capobanda, feudatario, politicante libanese, in contatto con i burattinai sunniti in Arabia Saudita e Qatar. Gli affari politici e non, sequestri, incursioni, armi, li facevi con l’Armata siriana libera che controllava nel 2013 oltre confine Kara e Yabrud e Al-Qusayr. La rivoluzione già si annacquava nel sudicio del malaffare, affondava alla svelta e senza rimpianti nel trogloditismo fanatico. Al-Nusra, il nome siriano di Al-Qaeda, che cresceva di forza, era il tuo nuovo socio, e complice, che predicava che dobbiamo metterci sotto il bastone degli organizzatori del mondo, dei pedanti della barbarie. Anche questo mi lasci, il rimpianto di non essermi sbagliato come tutti gli altri, la rabbia di aver visto giusto in questa deriva. Questa è la miseria segreta di chi è disingannato. Ersal era la tua città, libanese, ma occupata dai jihadisti che tu avevi guidato.
Sono passato da Ersal, in quell’aprile, per traversare il confine su sentieri di montagna sfiorando frutteti di meli in fiore. Terra di nessuno, opaca, violenta, zeppa di sudici misteri, uomini armati e profughi con l’aria di sospetto e di tranquillo destino. E tu già tenevi in mano il mio destino, guidavi, senza che io lo sapessi, i miei passi verso l’agguato, ad Al-Qusayr dove avrei trovato i manovali dell’Armata siriana libera che tu avevi scelto e assoldato.
Oggi che siamo separati, in me sussistono pezzi interi della tua opera interrotta. Regna ancora su quello che sopravvive nel mio essere, del tuo tenace lavoro. Delle zone intere restano sotto la tua influenza e al tuo richiamo si destano. Ti disprezzo Obeida, se davvero sei tu il mio sequestratore. Il disprezzo è più che l’odio. Colui che ispira odio resta umano, l’odio ha le sue regole, i suoi motivi, le sue armonie. Talvolta crea, determina, sprona. Il disprezzo no. Si disprezzano solo i vili.