mercoledì 6 settembre 2017

La Stampa 6.9.17
Colombia, tra i sacerdoti col fucile che credevano nella rivoluzione
Oggi il Papa a Bogotà in Colombia tra i preti guerriglieri. Firmato lo storico cessate il fuoco tra il governo e l’Esercito di Liberazione
di Fabio Bozzato

Erano giovani di classe media ma capaci, come nessun altro, di parlare ai campesinos. Erano innamorati della Cuba castrista, eppure allergici al dogmatismo sovietico. Erano anche preti, frati e suore, arruolatisi a centinaia. L’Eln, l’Esercito di Liberazione Nazionale, fin dal 1964 è qualcosa di unico in Sudamerica. Non a caso è l’ultima guerriglia a resistere. E non a caso è così difficile negoziare coi suoi comandanti, come sta facendo da mesi lo Stato colombiano a Quito, in Ecuador.
È di tre giorni fa l’annuncio tanto atteso: dal 1 ottobre scatterà il cessate il fuoco bilaterale. Per la prima volta ci sarà una vera tregua, seppur temporanea di tre mesi: niente più attacchi, sequestri e reclutamenti. Niente è casuale nel paese di Macondo. Neppure che l’accordo avvenga in occasione dell’arrivo del Papa.
La storia dell’Eln e quella della Chiesa si incrociano così tanto che qualcuno l’ha definito un «convento armado». La teologia della liberazione qui ha raccolto come da nessun’altra parte.
«Negli anni in cui facevo parte del comando generale c’erano più di 500 religiosi solo nella struttura interna e centinaia nelle organizzazioni civili», ci racconta León Valencia Agudelo. Politologo, presidente della Fondazione Paz y Reconciliación, fondatore del giornale digitale Las2orillas, Valencia era un attivista studentesco quando è stato convinto a unirsi all’Eln proprio da un prete, don Ignacio Betancur. Fuori dalla clandestinità dal 1993, oggi è una delle voci più autorevoli della società civile colombiana.
A un anno dalla firma della pace con le Farc, papa Francesco arriva in Colombia per canonizzare due religiosi-simbolo. Il primo è Pedro María Ramirez, un parroco ucciso nel 1948, nel fuoco d’inizio della feroce «violencia» tra conservatori e liberali dopo l’assassinio del presidente Jorge Eliecer Gaitán. Fu il battesimo di un conflitto lungo fino ai giorni nostri.
Il secondo a salire agli altari è monsignor Jesús Emilio Jaramillo, vescovo di Arauca: un assassinio firmato nel 1989 proprio da un fronte dell’Eln, il «Domingo Laín», nome peraltro di un prete-guerrigliero. «Eravamo saltati in un abisso da dove sarebbe stato difficile uscire», ricorda León Valencia. I capi dell’Eln se ne assunsero la responsabilità pur sapendo che era un gesto vile: «Non volevo credere che una forza guerrigliera che contava tra le sue fila centinaia di preti, suore e laici vacillasse nel momento di condannare il sacrificio di un pastore della Chiesa». La decisione di lasciare l’Eln, per Valencia, cominciò anche da lì.
Sacerdote è stato pure il più famoso degli «elenos» (i miliziani dell’Eln), Camilo Torres, nato nel 1929 e ucciso in combattimento nel 1966. Tutt’ora il suo nome è rispettato in tutto il Paese, anche dai più acerrimi nemici. Per lunghi anni, un altro prete, Manuel Pérez, ha guidato militarmente la guerriglia finanziandola coi sequestri, ricattando le compagnie petrolifere, facendo saltare oleodotti e piattaforme. Suora era la sua compagna, Monica.
Si dice che l’Eln conti attorno ai 2 mila miliziani. Ma la sua forza sono gli attivisti nelle campagne e nelle città, nei gruppi sindacali, di quartiere e di parrocchia. «Quanti sono gli elenos? Potrebbero essere ventimila», sorride Olimpo Cardenas, che dirige il giornale Periferia, di chiara simpatia Eln: «Per questo a Quito al primo punto c’è il ruolo della società civile – ci racconta –. Alla “mesa social”, il tavolo delle questioni sociali, ci sono portavoce di 83 organizzazioni. Potremmo dire che noi a Quito stiamo al tavolo dei negoziatori senza starci».
Alto e basso nell’Eln si sono sempre toccati. «Camilo Torres era un sacerdote della élite di questo Paese - spiega León Valencia -. Il suo sigillo religioso continua a pesare su questa guerriglia».
Anche Leonor Esguerra Rojas era destinata a una vita molto agiata, ma nel 1949 preferì unirsi alle suore del Sacro Cuore a New York. Per decenni diresse i prestigiosi collegi Marymount riservati alle ragazze bene di Bogotà e Medellin. All’Eln si avvicinò sull’onda del Concilio e dei sussulti del ’68. Nella sua autobiografia, «La búsqueda», lo racconta ormai anziana e già uscita da tempo dalla guerriglia. Da madre Maria del Consuelo era diventata la compagna Socorro, da irreprensibile direttrice un’attivista in armi e pure amante di Fabio Vásquez, il comandante dell’Eln poi espulso e fuggito a Cuba.
Bergoglio conosce ogni sfumatura dell’idiosincrasia latinoamericana. E non resterà sorpreso. Di sicuro la sua visita alla patria del «convento armado» non sarà fredda come quella di Paolo VI, che nel 1968 a Bogotà aveva lasciato «quel certo sapore amaro», come ricorda Leonor Esguerra, allora suora e di lì a poco guerrigliera.

La Stampa 6.9.17
Per Francesco è il viaggio più delicato
di Andrea Tornielli

Quello che inizia oggi è uno dei viaggi più delicati e problematici di papa Francesco. Certo, la Colombia è un grande Paese cattolico latinoamericano, e ci si aspetta una straordinaria partecipazione popolare. Ma la situazione è complessa e la pace, iniziata con lo storico accordo tra il governo del presidente premio Nobel per la Pace, Manuel Santos, e i guerriglieri delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), appare come un piccolo seme già insidiato da molte minacce.
Durante questo suo quinto pellegrinaggio in America Latina, il Papa percorrerà 21.178 chilometri e pronuncerà 12 discorsi in spagnolo, visitando quattro città: Bogotà, Villa Vicencio, Medellín e Cartagena. Francesco non va in Colombia per fare da «garante» dell’accordo, ottenuto con fatica, ma bocciato dal referendum popolare. E pur invitando alla riconciliazione, unica via per uscire da una guerra civile che ha lasciato sul terreno 230 mila vittime, cercherà di tenersi lontano dalle polemiche sulle clausole dell’accordo. Sottolineerà invece la necessità di costruire la pace con l’impegno di tutti, con leggi giuste che non siano la «legge del più forte».
La scelta dei guerriglieri delle Farc di abbandonare le armi per trasformarsi in un partito politico in cambio di immunità e accesso al Parlamento, come previsto dall’accordo di pace, non è stata senza conseguenze. La scia di sangue, i morti o i rapiti, non si possono dimenticare facilmente. Restano le incognite su un futuro che si teme possa macchiarsi ancora di vendette, uccisioni, violenze.
Mentre l’oligarchia del potere colombiano - 300 le famiglie, imparentate tra di loro, che da 70 anni controllano il Paese - coltiva le sue ambizioni, c’è un popolo che al 50% vive al sotto della soglia di povertà, con quasi un milione di bambini che per strada rovistano nella spazzatura. Vanno ricercate in queste situazioni di povertà le cause remote della violenza dell’ultimo mezzo secolo. Una violenza che si è purtroppo trasformata in cultura della violenza: polizie private, gruppi paramilitari, sicari di professione. Senza un processo di riconciliazione politica, la pace rimane dunque fragilissima, legata a un filo sottile, in balia della radicalizzazione e polarizzazione del dibattito politico interno.
Infine, sullo sfondo del viaggio, c’è la crisi del Venezuela, Paese che confina con la Colombia. Molti si aspettano che Francesco possa dire una parola di vicinanza alle sofferenze di quel popolo.

il manifesto 6.9.17
La Colombia della pace
Il viaggio. Bergoglio arriva oggi a Bogotà per sostenere gli sforzi che mirano ad archiviare l’«amara realtà» della guerra. Ma la destra rema contro
di Claudia Fanti

È una Colombia attraversata da grandi speranze e profonde contraddizioni quella che papa Francesco si appresta a visitare da oggi al 10 settembre.
DOPO IL CESSATE IL FUOCO proclamato nel giugno del 2016 all’Avana tra il governo di Manuel Santos e le Farc, l’esito clamoroso del referendum del 2 ottobre (con la vittoria di strettissima misura del No all’accordo di pace) e la definitiva approvazione da parte del Congresso colombiano, il 30 novembre, della nuova intesa, al termine di quattro anni di faticosi e complessi negoziati, la Colombia prova a lasciarsi definitivamente alle spalle gli orrori di una guerra che è durata oltre 50 anni ed è costata la vita a 220mila persone (di cui oltre 170mila civili).
E se il papa viene a esprimere il proprio sostegno a tale processo, l’estrema destra dell’ex presidente Álvaro Uribe, del clero ultraconservatore e delle Chiese evangeliche (oltre che dei latifondisti e dei narcotrafficanti, cioè di chi coloro per cui la guerra si è rivelata un affare estremamente redditizio), dopo aver tentato in tutti i modi di minare il processo di pace, oggi non fa nulla per nascondere il proprio disappunto di fronte alla visita di chi, sulle reti sociali, viene definito «comunista», «falso profeta» e «protettore di froci e terroristi».
L’ESTREMA DESTRA non dimentica le parole pronunciate dal papa in occasione del referendum, quando aveva espresso la propria volontà di recarsi in Colombia una volta che l’accordo fosse stato «blindato». Così, Fernando Londoño, presidente onorario del partito uribista Centro Democratico, chiede polemicamente: «Perché questa visita? Viene a fare il pastore o a dare il proprio appoggio agli accordi di Manuel Santos con una guerriglia marxista-leninista e anti-cattolica?».
IN REALTÀ, L’UNICA GUERRIGLIA che ancora resta nel Paese è l’Eln, l’Esercito di liberazione nazionale, e anche questa già impegnata nei negoziati con il governo a Quito. Le Farc sono ormai diventate un partito politico a tutti gli effetti, superando anche il difficile momento seguito all’esito del referendum, quando, se non avessero ceduto abbastanza, sarebbero state accusate di porre i propri interessi al di sopra di quelli del Paese; e, se avessero ceduto troppo, avrebbero rafforzato la posizione di Uribe e soprattutto rischiato di scontentare la base guerrigliera. Alla fine, per rendere possibile la nuova intesa, di concessioni la guerriglia ha dovuto farne diverse, per esempio sul versante della riforma agraria, della prospettiva di genere, dei reati soggetti ad amnistia, dei finanziamenti a cui avrà diritto come partito, ma senza cedere su un punto cruciale: l’eleggibilità politica degli ex combattenti e della garanzia, nei due periodi legislativi successivi all’accordo, di ottenere 5 seggi alla Camera dei Deputati e 5 al Senato. Un piccolo capitale a partire da cui l’ex guerriglia dovrà riuscire nell’impresa di convincere una società tradizionalmente ostile e oggi profondamente diffidente.
Guerriglieri delle Farc “in transizione”
CON LA CONSEGNA DELLE ARMI ufficializzata nello storico congresso concluso il 1° settembre, le Farc non hanno voluto perdere lo storico acronimo, ma hanno comunque cambiato nome: non saranno più le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, bensì la Forza alternativa rivoluzionaria della Comunità, il cui simbolo è una rosa rossa con una stella a cinque punte al centro. L’obiettivo è rimasto quello indicato dai fondatori 53 anni fa, pace con giustizia sociale, benché ora siano cambiati i mezzi per tentare di raggiungerlo: non più le armi, ma i voti.
DI FRONTE ALLA REALTÀ di uno Stato che continua a rappresentare gli interessi di un gruppo minoritario, anziché quelli di tutte le classi e specialmente della grande maggioranza di diseredati, proponiamo alla Colombia di mettere fine a questa amara realtà», ha dichiarato lo storico leader delle Farc Rodrigo Londoño «Timochenko» durante la manifestazione d’esordio del nuovo soggetto politico, a Bogotà, in una Piazza Bolivar strapiena di gente. La dirigenza e la base delle Farc riunite nel cuore del potere colombiano, insieme a indigeni, studenti, professori, lavoratori, giornalisti, semplici cittadini, membri del Congresso, rappresentanti delle Nazioni Unite: chi avrebbe mai potuto immaginarlo fino a poco tempo fa? Eppure l’impensabile è accaduto, venendo così ad alimentare la speranza che l’accordo di pace possa realmente imprimere una svolta alla storia della Colombia, mentre, nel frattempo, proseguono – a conferma di quanto siano ancora attive le forze che hanno scatenato il conflitto – gli assassinii di leader contadini, militanti sociali, difensori dei diritti umani ed ex combattenti o loro familiari (già 24 durante i primi sei mesi del 2017).
IN QUESTO QUADRO, la visita del papa servirà proprio come una spinta di incoraggiamento a un processo che, dopo oltre 50 anni di combattimenti, richiederà più di qualche mese o di qualche anno. Un processo che, come ha spiegato il cardinale Rubén Salazar, dovrà essere costruito «tutti i giorni, sulla base della solidarietà, della giustizia e dell’uguaglianza».

Corriere 6.9.17
Stalin vinse con il sorriso
La socievolezza lo aiutò a prevalere sull’alterigia del suo nemico Trotsky
di Paolo Mieli

Come riuscì Stalin ad impadronirsi, dopo la morte di Lenin (21 gennaio 1924), del Partito comunista dell’Unione Sovietica a dispetto della diffidenza manifestatagli negli ultimi mesi di vita dal leader stesso della Rivoluzione d’ottobre? È uno dei temi meglio approfonditi da Stephen A. Smith in La rivoluzione russa. Un impero in crisi 1890-1928 , che Carocci si accinge a dare alle stampe in occasione dei cento anni dall’evento che cambiò la storia d’Europa e del mondo. La scena in cui si svolge la lotta per la successione a Lenin è quella nota dei conflitti interni alla Russia successivi alla fine della Prima guerra mondiale. Conflitti che si svilupparono in un contesto di crisi economica da brividi: la produttività lavorativa scese al 18 per cento dei valori prebellici; il tasso di furti e omicidi aumentò di dieci o quindici volte rispetto a quello di prima della guerra; la popolazione di Pietrogrado passò da 2,4 milioni a 722 mila abitanti (i mancanti erano fuggiti in campagna pensando di trovare qualcosa di cui nutrirsi; ma fu un’illusione). L’Ucraina si sottrasse al potere bolscevico e con essa venne meno il 35 per cento della produzione cerealicola. Le ventuno regioni consumatrici di grano restarono tutte in mano ai comunisti, che però — sul versante opposto — ne controllavano solo cinque delle ventiquattro esportatrici.
Il degrado delle linee ferroviarie era all’epoca inimmaginabile: nel 1920 dei 1.605 milioni di chili di patate trasportate dagli Urali, solo 81,9 giungono a destinazione, alla popolazione urbana. Il resto viene rubato o lasciato marcire. Insieme a quella civile si proclama la guerra alla «borghesia rurale», ai kulaki , piccoli possidenti sospettati di nascondere il grano anche per trasformarlo in liquore. È tempo di carestia. Grigorij Zinov’ev proclama che alla borghesia può essere lasciata «una quantità di pane appena sufficiente per non dimenticarne il profumo».
Trotsky ha un ruolo di primo piano in questa stagione. «L’obbligo e la coercizione sono condizioni essenziali per il rovesciamento dell’anarchia borghese», scrive in Terrorismo e comunismo . Si sviluppa il fenomeno dei «disertori del lavoro»: nei primi nove mesi del 1920 il 90 per cento dei 38.514 operai mobilitati per lavorare nelle trentacinque fabbriche di armamenti, abbandona il proprio posto. Quelli che sono riacciuffati, vengono rinchiusi in campi di concentramento predisposti alla bisogna. La carestia (assieme a febbre tifoidea, colera, peste bubbonica e vaiolo) uccide cinque milioni di persone. Il commissariato per l’Istruzione riceve rapporti significativi (ancorché poco verosimili) secondo i quali le madri «legavano i propri figli ad angoli opposti delle abitazioni per paura che si mangiassero l’un l’altro». Colpa di avversità direttamente riconducibili ai bolscevichi? Sì. Per portare soccorso alle popolazioni intervennero l’American Relief Administration e la Croce Rossa internazionale, i cui operatori umanitari — provenienti da tutto il mondo — scrissero che i funzionari del partito nelle aree colpite dalla carestia erano «persone terribili, suscettibili, che diventavano violente alla minima provocazione». Ma perché? «La posizione di questi funzionari era così poco salda», misero per iscritto i tecnici stranieri nei suddetti rapporti, «che anche gli atti più innocenti suscitavano il loro sospetto».
Dei nobili non si salvò nessuno, venivano definiti, come più o meno ogni superstite dell’antico regime, «ex persone». Si sottrasse a un destino tragico solo il rampollo di una famiglia georgiana, Michail G. Gelovani, che, grazie alla somiglianza con Stalin, fu chiamato a interpretarne la figura in numerosi film del regista anch’egli georgiano Michail Ediserovic Ciaureli. La persecuzione contro la Chiesa fu spietata: sui manifesti i sacerdoti apparivano come etilisti e crapuloni, frati e monache come «corvi neri». Le stime degli ecclesiastici uccisi sono ancora oggi incerte.
Il malcontento operaio cominciò a manifestarsi alle acciaierie Sormovi, nei pressi di Nižnij Novgorod, dove furono messi in minoranza i bolscevichi. Questi reagirono sciogliendo i soviet dove ciò era avvenuto. Il 10 marzo 1919 gli operai delle officine Putilov approvarono una risoluzione dei socialisti rivoluzionari di sinistra nella quale veniva denunciato «il giogo schiavistico dei lavoratori nelle fabbriche» e si chiedeva l’abolizione della «commissariocrazia». Si unirono nella denuncia gli operai della fabbrica di scarpe di Skorokhod e quelli delle officine ferroviarie di Aleksandrovskie. Il dirigente bolscevico Lunacharskij, che andò ad arringare i lavoratori del deposito tranviario di Roždestvenskij, fu accolto dalle urla: «Sei un damerino!», «Levati di dosso quella pelliccia!». A ristabilire l’ordine le autorità fecero intervenire i marinai di Kronstadt, base navale sull’isola di Kotlin nel golfo di Finlandia a una trentina di chilometri da Pietrogrado. Ziniov’ev definì quei lavoratori «arretrati». Tuchacevskij avvertì Lenin che quegli operai andavano considerati «inaffidabili». Intanto i Bianchi sono riusciti a «liberare» un milione e mezzo di chilometri quadrati. Nel corso dell’anno si sviluppano oltre cinquanta insurrezioni contadine in regioni tra loro distanti come l’Ucraina, la Bielorussia, il Caucaso settentrionale, la Carelia. La rivoluzione scricchiola. La reazione bolscevica, scrive Smith, è di una «spietatezza scioccante persino a paragone dei terribili standard di una guerra civile».
A fine febbraio del 1921 si ribellano i soldati e i marinai di Kronstadt, che chiedono la cancellazione di «tutti i privilegi dei comunisti» e lo smantellamento della dittatura di un partito unico. Lenin definì la rivolta un «complotto delle Guardie Bianche» (ma non fu mai trovato alcun riscontro a questa accusa) e ordinò a quarantacinquemila soldati di stroncarla. Ciò che avvenne all’alba del 17 marzo. Successivamente Lenin disse, in termini più ambigui, che la rivolta di Kronstadt era stata «un lampo che aveva illuminato la realtà come meglio non sarebbe stato possibile».
Il 1921 è l’anno più importante per l’assestamento della rivoluzione. In maggio Gavrijl Mjasnikov, un operaio delle officine Motovilica che è membro del partito da un quindicennio, scrive un articolo per chiedere la libertà d’espressione per operai e contadini, «dagli anarchici ai monarchici». Tutti. Lenin chiede che sia sanzionato, il partito esegue. I suoi compagni, però, sono solidali con lui: «a parte le bugie, la diffamazione e gli insulti, il comitato provinciale», si lamentano, «non conosce altra maniera di trattare con coloro che la pensano diversamente che ricorrere alla repressione». Niente da fare: Mjasnikov viene espulso. Le epurazioni che iniziarono nel gennaio del 1921, annota Smith, rimossero dal partito diverse centinaia di migliaia di «elementi ostili ed estranei», ma, «nonostante il linguaggio dell’infiltrazione e della cospirazione, la maggior parte venne espulsa per passività, carrierismo o ubriachezza». Nella seconda metà dell’anno le condizioni di salute del leader della rivoluzione si aggravano. Di qui al gennaio del 1924, quando morirà, conoscerà un costante peggioramento. Ma l’errore, se così lo si può definire, Lenin lo aveva commesso già nel 1920 quando, per bilanciare l’influenza di Trotsky aveva attribuito grande potere alla troika costituita da Zinov’ev, Stalin e Kamenev.
La scalata di Stalin era iniziata molti anni prima, tant’è che nell’aprile del 1922 il leader georgiano si trovò a essere l’unico bolscevico ad aver trovato collocazione contemporaneamente e a pieno diritto nel Politburo, nella Segreteria e nell’Ufficio organizzativo. Aveva percepito che Lenin da tempo non si fidava più di lui, ma aveva altresì intuito che — come sarebbe emerso dal suo testamento politico scritto nel dicembre del 1922 — il capo rivoluzionario nutriva sentimenti di diffidenza anche nei confronti di Trotsky. Lenin aveva elogiato Trotsky per le sue eccezionali capacità, ma gli rimproverava l’eccessiva sicurezza di sé e «l’ossessione per le questioni amministrative». Del resto Trotsky, scrive Smith, «era di gran lunga il più dotato e carismatico dei luogotenenti di Lenin», era assai popolare, ma il gruppo dirigente del partito lo «detestava» e «questa fu una delle ragioni per le quali esitò a proporsi come successore». Timoroso di apparire frazionista «si lasciò sfuggire numerose opportunità di consolidare la propria posizione declinando addirittura, nell’aprile 1923, l’invito a redigere il rapporto politico per il XII Congresso del partito».
S talin colse al volo queste esitazioni del suo antagonista. E ne approfittò. Lenin giudicava Stalin un lavoratore che non aveva eguali. Ma lo considerava anche «rozzo, intollerante, incostante»; criticò il modo con il quale aveva trattato i comunisti georgiani, che si erano opposti al suo desiderio di annessione della propria terra natia; dopo che un giorno di marzo del 1923 Stalin insultò «furiosamente e rozzamente» la moglie di Lenin Nadežda Krupskaja, il fondatore del bolscevismo tornò a insistere perché l’uomo che lui stesso aveva scelto per il vertice del partito fosse immediatamente esautorato. Ma era tardi. Il futuro dittatore lo aveva isolato dal resto del mondo.
Quando Lenin morì, per far dimenticare le perplessità nei suoi confronti sollevate dal leader della Rivoluzione d’ottobre, Stalin diede alle stampe i Fondamenti del leninismo , un’opera abbondantemente plagiata da un lavoro di Filipp Ksenofontov, nella quale la dottrina del capo bolscevico, appena defunto, veniva presentata come «l’intoccabile pietra di paragone della rettitudine ideologica». Nei due anni che precedettero la morte di Lenin, Stalin aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio il distacco dello stesso Lenin da Trotsky. E lo aveva fatto con un capillare reclutamento in ogni angolo del partito. Oltreché con un’intelligente campagna per sfruttare i successi ma soprattutto gli insuccessi dei bolscevichi. In che senso? Trotsky, come è noto, proponeva la teoria della «rivoluzione permanente», secondo la quale il socialismo avrebbe conosciuto la propria realizzazione solo se il moto insurrezionale si fosse allargato dalla Russia ai Paesi più evoluti dell’Europa centro-occidentale. Ciò che non avvenne. E a quel punto, Stalin, teorico del «socialismo in un Paese solo», accusò Trotsky di aver sostenuto le proprie tesi per mancanza di fiducia nelle potenzialità della Rivoluzione d’ottobre. Costringendolo alla celebre autodifesa del XIII Congresso (maggio 1924), quando dovette pronunciare le parole «so che non si deve avere ragione contro il partito perché il partito in ultima analisi ha sempre ragione». Ma in quel momento — anche se alcuni storici hanno sostenuto che ci sarebbero stati ancora margini per una rimonta degli oppositori — il partito era già sinonimo di Stalin.
N el corso del 1924 Stalin e Zinov’ev lanciarono una «campagna di diffamazione» contro l’Opposizione di sinistra spingendosi a contestare le «credenziali bolsceviche» di Trotsky e riportando alla luce i molteplici conflitti tra lui e Lenin degli anni che avevano preceduto la rivoluzione. Nel gennaio del 1925 Trotsky venne rimosso dalla presidenza del Consiglio militare rivoluzionario. Zinov’ev e Lev Kamenev attaccarono Bucharin, grande difensore della Nep (la Nuova politica economica di apertura al mercato) che godeva del sostegno di Stalin. Il quale consentì a che Trotsky e Zinov’ev restassero nel Politburo, ma fece entrare anche i «suoi» Molotov, Kalinin e Vorošilov. Nell’estate del 1926 Zinov’ev e Kamenev formarono con Trotsky l’Opposizione unita. Ma era tardi: in ottobre Stalin — sempre alleato con Bucharin — li fece cacciare dal Comitato centrale e nel novembre del 1927 li fece espellere dal partito. Nel gennaio del 1928 Trotsky fu esiliato ad Alma Ata.
Personaggi come Trotsky (e anche Kamenev) in principio erano considerati molto superiori a Stalin, lo avevano, sostiene Smith, «eclissato intellettualmente». Ma lui li sconfisse facendo leva su un indubbio talento organizzativo e anche su virtù che in genere gli vengono scarsamente riconosciute: «Socievolezza, senso dell’umorismo, apparente semplicità». In molti ne hanno ricordato l’eccellente memoria, la straordinaria capacità di lavoro, la sapienza tattica, l’inclinazione «caucasica» alla violenza. Pochi invece si sono soffermati sulle doti di cui parla Smith, contrapponendole all’alterigia di Trotsky. Alterigia ben descritta da Anatolij Lunacharskij che ne parlò come di una «tremenda imperiosità», denunciandone nel contempo «l’incapacità o la riluttanza a mostrarsi minimamente gentile e premuroso con le persone». Difetti che provocarono attorno a Trotsky un progressivo isolamento (ancorché fosse circondato da persone che per lui avrebbero dato la vita). E fu anche a causa di questo isolamento che nel 1940 si ritrovò inerme di fronte al piccone staliniano che (per mano di Ramon Mercader) gli avrebbe tolto la vita.

Repubblica 6.9.17
Trotzkij e Lenin
I due leader insieme nella lunga notte che cambiò la Russia
Il 24 ottobre l’attacco a due giornali bolscevichi scatena la reazione del Soviet
di Ezio Mauro

Il primo ricordo è del bimbo Lev che si fa la pipì addosso a casa dei vicini, poi il gioco d’estate a catturare le tarantole con un filo di pece per metterle in una boccetta di olio di girasole trasformandolo in medicinale, la domenica con il meccanico Ivan Vasilievic che taglia i capelli al padrone e ai due figli, il vecchio Timofej Isaevic che va in giro per i casolari a scrivere lettere e suppliche per i contadini analfabeti nascondendo nella manica i pagamenti in sale, pepe, zucchero e tabacco, la sinagoga ebraica solo per le ricorrenze più importanti, quel primo viaggio con la madre in carrozza a Bobrinez, la scoperta dei fili del telegrafo e la domanda senza risposta: come riescono a passare lì dentro i telegrammi?
La prima immagine del potere è quella del contrammiraglio Zelenoj, prefetto di polizia di cui si vede appena il pugno che spunta dalla carrozza mentre urla i suoi comandi, i gendarmi fanno il saluto e gli uomini abbassano il cappello. Poi arrivano le letture, Oliver Twist, “Potere nelle tenebre”, quindi il teatro, il giornale di classe a Odessa, un’espulsione a scuola con permesso di ritorno, gli opuscoli di propaganda sotto il materasso a Nikolaev, l’incontro con il giardiniere Franz Shvigovskij che riunisce in casa socialisti, esiliati, studenti e finite le riunioni li ospita a dormire dopo una zuppa collettiva, ma senza lenzuola e cuscini. Il padre che già non sopportava di vedere il figlio con gli occhiali, perché gli davano un’aria da intellettuale sfaccendato, non vuole mantenere un rivoluzionario. Lev rompe con lui, e quando il vecchio andrà a visitarlo nell’ufficio di Commissario del Popolo al Cremlino, regolerà quel conto eternamente sospeso: «Vi ricordate, padre, quando litigavamo al villaggio, e voi mi dicevate che lo Zar sarebbe durato per secoli? Eccoci qua». Ma prima, Lev deve pagarsi da solo gli studi, la giacca blu e il cappello di paglia col bastone nero con cui va alle riunioni della Lega Operaia, il poligrafo con cui scrive articoli, titoli, manifesti. Per quelle carte lo arrestano la prima volta a 18 anni perché il disgelo fa emergere una borsa piena di documenti clandestini nascosta in un buco scavato sotto un cavolo, e in carcere (dove non ha sapone e non si cambia per tre mesi, ma fa ogni giorno ostinatamente 1111 passi lungo la diagonale della cella) incontra per la prima volta il nome di Lenin, leggendo il suo saggio sugli sviluppi del capitalismo russo.
Quando torna a Piter da New York Lenin è già il capo del partito, Lev Davidovic che lo aveva conosciuto a Londra ricorda il giudizio su Ilic di Plekhanov, il “papa” dei socialisti russi: «è di questa pasta che si fanno i Robespierre». Lui può raccontare nei comizi quel che ha visto all’estero, l’eco enorme della rivoluzione negli Usa quando tutti, giornalisti, intellettuali, politici, si precipitavano nella redazione americana di Novyj Mir dove lui lavorava, il figlio con la difterite che balla sul letto quando lui telefona alla moglie le prime notizie da Pietrogrado, perché sa che rivoluzione vuol dire amnistia, vuol dire fine dell’esilio, vuol dire ritorno e soprattutto vuol dire Russia. Oratore appassionato e immaginifico («il governo è nato morto – dirà del ministero Kerenskij – e con gli occhi aperti attende la sua sepoltura»), lo invitano dappertutto, anche senza tessera è il beniamino delle assemblee bolsceviche in cui usa sempre il “noi”, affolla la sera il Circo Moderno coi suoi discorsi a braccio, con la figlia che lo guarda in platea, inchioda con la sua furia polemica il Soviet, sempre con la Browning in tasca. Quando nel tumulto di luglio i marinai di Kronstadt riuniti davanti a Tauride sequestrano sul sedile posteriore di un’auto scoperta il ministro dell’Agricoltura Chernov come ostaggio, insoddisfatti delle sue risposte prudenti sulla terra ai contadini, tutti si precipitano fuori dal palazzo. Ma è Trotzkij che salta sul cofano dell’auto e chiede silenzio: «Voi siete la gloria e l’onore della rivoluzione, la sua avanguardia. Ma perché volete macchiare tutto questo con una violenza meschina contro una persona isolata? Chi è per la violenza?». I marinai mugugnano, ma non rispondono. «Cittadino Chernov, siete libero», dice Trotzkij sollevandolo dal sedile e accompagnandolo dentro Tauride.
Nella battaglia politica di Lenin contro Zinovev e Kamenev, che volevano aspettare l’Assemblea Costituente di novembre per prendere il potere legalmente, Lev Davidovic appoggia la tesi leninista dell’insurrezione subito. Tra i due c’è una differenza strategica, anzi politica, perché Trotzkij diventato presidente del Soviet di Pietrogrado vuole che questo sia lo strumento dell’insurrezione, mentre Lenin come sempre mette al centro il partito-guida. Ma adesso, dopo le polemiche del passato, sono alleati, entrambi vedono la storia a portata di mano, la battaglia è la stessa. Quando il governo decide l’ordine d’arresto per Lenin, Zinovev e Kamenev, Lev protesta con una lettera, chiedendo di essere accomunato ai suoi compagni. Finirà in cella al Kresty per poco più di un mese come “agente tedesco”, e qui a conferma della sua autorità rivoluzionaria arriveranno in visita i marinai dell’incrociatore “Aurora” chiedendogli di aiutarli a sciogliere il dubbio capitale durante la manovra controrivoluzionaria del generale Kornilov: devono difendere il Palazzo d’Inverno o assaltarlo? Anche i figli ragazzini andarono a trovarlo raccontandogli – attraverso la grata – della domenica passata nella dacia di un colonnello amico di famiglia, dove avevano lanciato una sedia contro un ospite che aveva chiamato spie Lenin e Trotzkij. Mentre si salutavano con le mani sulla grata, lui si accorse che la moglie gli stava passando nei buchi un coltellino.
Adesso, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, quando Kerenskij vara il pre-parlamento come contraltare ai Soviet, è Trotzkij d’accordo con Lenin a chiamar fuori i bolscevichi: «Questo è un governo di tradimento nazionale, non faremo da paravento nemmeno un giorno, nemmeno un’ora». Nella confusione dell’aula, qualcuno urla che il partito bolscevico prepara qualcosa di oscuro, un grande scandalo, un colpo di mano. «Stupidaggini – provoca Trotzkij, sfrontatamente –: appena qualche colpo di revolver». Pochi giorni dopo, nell’assemblea plenaria del Soviet i menscevichi sollevano la stessa questione, riproponendo la domanda che agita tutta Pietrogrado: si sta preparando un colpo di Stato? Lev Davidovic si alza dalla presidenza, va alla tribuna e contrattacca: «Chi è che lo chiede? Chi vuole saperlo? Kerenskij? Il controspionaggio? L’Okhrana? O qualche altra organizzazione?». Zinovev e Kamenev sfruttano questa ambiguità in una riunione della Duma di Vyborg, sostenendo che bisogna rinviare l’assalto alla città, perché il partito «non dispone di un meccanismo per l’insurrezione ». Lenin morde il freno, urla che ci sono solo due alternative, o una dittatura dei generali come Kornilov, o una dittatura del proletariato. Passa la sua mozione.
In realtà il meccanismo è pronto, e Trotzkij lo sta caricando come una molla. Col Comitato Militare Rivoluzionario, in mano a due bolscevichi come Podvolskij e Antonov-Ovseenko ha lo strumento di battaglia. Ogni caserma sa quante autoblinde può muovere, quanti camion. Le Guardie rosse contano su quarantamila baionette, agiranno in gruppi di dieci, quattro gruppi formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un battaglione di quasi quattrocento uomini. Le operaie creano reparti di infermiere, fanno i corsi in fabbrica. Sono pronte le divisioni operaie, i reggimenti contadini, le squadre di ferrovieri rivoluzionari e di postini bolscevichi, mentre è più difficile penetrare nel telegrafo, in mano ai cadetti. Tutt’attorno, la Russia ribolle: i sindacati sono ormai diventati duemila, con più di due milioni di lavoratori iscritti, i soviet a settembre sono quasi mille, il partito bolscevico supera i duecentomila tesserati, nel villaggio di Sicevka i contadini sono appena usciti di notte con fruste e bastoni per demolire la casa del padrone, l’Unione dei proprietari denuncia che in tre giorni sono stati bruciati ventiquattro poderi mentre il pane è razionato nelle città, a Mosca non si va ormai oltre le due libbre a settimana.
È a questo punto che Trotzkij fa la prima mossa. Il 18 ottobre un telegramma a tutti i reparti militari prescrive di non eseguire più gli ordini dello stato maggiore salvo che siano vistati dalla sezione militare del Soviet. È il via all’insubordinazione, primo atto della rivoluzione. E Trotzkij ha appena firmato di suo pugno l’ordine agli arsenali di consegnare cinquemila fucili alle guardie rosse. Sabato 21 la guarnigione di Pietrogrado si schiera, dichiarando che d’ora in poi prenderà ordini solo dal Soviet, “unico potere”. Lenin è inquieto nel suo rifugio protetto dal quartiere operaio, non va nemmeno nelle altre stanze della casa, non esce mai sul balcone, chiede al partito di poter raggiungere il quartier generale allo Smolnyi. Il Soviet di Vyborg risponde di no, le strade non sono sicure, la rivoluzione non può rischiare di perderlo. Allora alla vigilia del giorno fissato per l’insurrezione Lenin convoca Trotzkij. «Come mai il potere non si muove? C’è il rischio di qualche trappola? E se sapessero cosa stiamo facendo, e all’ultimo momento giocassero d’anticipo? ». «Tutto è sotto controllo – risponde Trotzkij –, tutto avverrà automaticamente».
Una ragnatela d’impotenza sembra avvolgere le ultime ore del regime repubblicano, imprigionando il Palazzo d’Inverno come otto mesi prima aveva catturato la reggia di Zarskoe Selo e la debolezza sovrana dello Zar. Kerenskij dice ai suoi uomini che organizzerà un Te Deum di ringraziamento se i bolscevichi attaccano: «Ho più forza di quanta mi serva, li schiaccerò». In realtà, lui che baciava la terra davanti alle trincee, abbracciava i soldati, si illude che le truppe lo seguano. Il generale Polkovnikov, comandante della regione, gli ha appena detto che la guardia di Piter è fedele, ed eccola schierata con i ribelli, in blocco. Il comandante della fortezza di Pietro e Paolo, con i suoi centomila fucili, non accetta gli ordini del Comitato militare rivoluzionario, ma quando arriva Trotzkij a parlare alla truppa i soldati si schierano con il Soviet all’unanimità. «Noi – dice in ogni suo comizio Lev Davidovic – daremo tutto quello che c’è in Russia a chi non ha niente, e ai soldati nelle trincee. Tu hai due pellicce? Bene, danne una al soldato che sta al freddo. Hai due stivali ben caldi? Restatene a casa, servono più all’operaio che a te». Nell’ultima assemblea al Circo Moderno gremito propone un giuramento collettivo, quasi un atto religioso: «noi difenderemo la causa degli operai e dei contadini fino all’ultima goccia di sangue. Giuriamo di sostenere con tutte le forze e qualsiasi sacrificio il Soviet che ha preso sulle sue spalle la rivoluzione per donare terra, pane e pace». Una selva di mani alzate sigla la promessa.
Non fidandosi della città Kerenskij aveva disposto una cintura di sicurezza intorno a Piter, schierando il Terzo corpo d’armata a ventaglio nei presidi di Zarskoe Selo, Gatcina, Peterhof, pronto a intervenire al comando del generale Krasnov e dei suoi cosacchi, mentre sei cannoni da campo compaiono davanti al Palazzo d’Inverno, sorvegliato dagli allievi delle scuole ufficiali fuori, e dal battaglione femminile all’interno. Ma lunedì 23, quando ordina all’incrociatore Aurora che è entrato nella Neva di allontanarsi in mare, Kerenskij scopre che i marinai non obbediscono più. La notte chiama a rinforzo un battaglione di ciclisti, che però riconosce solo il comando del Soviet, non accetta altri ordini, non si muoverà.
I nervi della città sovreccitata, confusa e tuttavia impaziente avvertono nella tensione collettiva quel che sta per accadere. Le strade si riempiono al mattino, si svuotano la sera quando scende presto il buio, e le voci senza controllo affollano la notte spaventata parlando di saccheggi, furti, rapine per strada, passanti a cui sono stati rubati anche i vestiti. Solo Lenin non riesce a vedere, non può ascoltare, vorrebbe capire. Isolato nel suo nascondiglio, vicino ma assente, ancora alla vigilia scarica la sua inquietudine nell’ultimo telegramma al Comitato centrale: «Non dobbiamo aspettare, potremmo perdere tutto. Rimandare la sommossa significa morte certa». Ma Trotzkij non rimanda, sta aspettando l’occasione, il pretesto simbolico, il passo falso di Kerenskij: che arriva alle 6 del mattino di martedì, due ore prima dell’alba di Pietrogrado, quando un drappello di junker assalta i due giornali bolscevichi, Soldat e
Rabocij Put (che ha sostituito la Pravda fuorilegge), frantuma le matrici, spezza i cliché, getta le carte per strada, sbarra le porte con i sigilli del governo.
Parte un fonogramma dallo Smolnyi per tutti i reggimenti: «Il nemico del popolo è all’attacco, il Soviet assume la difesa dell’ordine rivoluzionario, prepariamoci all’azione». Il reparto bolscevico del Genio va sul posto, spezza i sigilli davanti alla folla, riapre le due redazioni. Poi i telefoni diventano muti. Il governo ha isolato il palazzo tagliando le linee, bisogna usare le staffette. È il momento in cui Lenin, non sentendo più nulla, decide di lasciare il rifugio. Chiama il compagno Rahjia che aveva organizzato la fuga in Finlandia, scende nel Prospekt Bolshoj Sampsonievskij, si ferma sul portone stordito poi lascia la clandestinità e si immerge nella febbre di Pietrogrado per raggiungere l’ora x dell’insurrezione.
Lo Smolnyi infine lo inghiotte, gigantesca cattedrale della rivoluzione, alveare bolscevico dove ogni stanza ospita una cellula della sommossa, dietro le targhe del vecchio collegio femminile della nobiltà zarista, “Aula III”, “Signori professori”, “Sala assistenti”, dove adesso sono appoggiati i fucili dei delegati di ogni reparto militare. La notte sarà lunga e prima dell’alba Vladimir Ilic vedrà Trotzkij che chiede una sigaretta a Kamenev, poi sviene sul divano per stanchezza, per sonno, per fame. L’indomani si riunisce il congresso panrusso dei Soviet, e si aprirà con la notizia che la rivoluzione è ormai per le strade della città. Nella fattoria di Janovka, nella scuola di Odessa, nel carcere dello Zar, sul bastimento che lo esiliava in America, Lev Davidovic non poteva nemmeno immaginare che sarebbe finita così: come in quel momento non immaginava che il terrore di Stalin sarebbe riuscito a divorare entro pochi anni anche lui, l’architetto della rivoluzione.
Ma adesso tutto sta per compiersi, è il momento. Quando la sala è già piena di delegati venuti da tutto il Paese, lui e Lenin si coricheranno stremati su una coperta nella stanza in fondo a destra, piena di sedie ammucchiate oggi come cent’anni fa: vado a vederla, identica, silenziosa, immagino il frastuono del Soviet oltre la parete bianca, il giorno della rivoluzione. Qui i due vorrebbero dormire un’ora, ma Lenin è tormentato: «E il Palazzo d’Inverno? Perché non si sa niente? Non possiamo fermarci».
Nessuno può più fermare la corsa cieca del secolo. La sorella di Ilic viene a chiamarli, è l’ora, il congresso si alza in piedi quando entra Trotzkij, poi vede spuntare accanto a lui questo strano Lenin senza il pizzo e senza i baffi, che si siede in prima fila: chi è? È lui? C’è Ilic, è tornato, è libero, dunque è finita la fuga, è cessata la paura e la nuova epoca forse può davvero cominciare. I menscevichi non lo credono, dicono che l’insurrezione abortirà, perché è una congiura, l’unica salvezza è un governo di coalizione. Lenin e Trotzkij si guardano, Lev Davidovic va alla tribuna: «Noi stiamo vincendo e voi ci proponete di rinunciare alla vittoria per venire a patti. Ma siete figure miserabili, siete dei falliti, la vostra parte è finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi: nella spazzatura della storia».
Dall’altro angolo della storia, prigioniero dei suoi guardiani e del suo fallimento, l’ex Zar in quelle ore sembra scrivere il diario notturno con l’inchiostro di un altro mondo. «È stata una giornata di sole con quindici gradi sotto zero. Sono giorni che non arriva nessun giornale, come pure nessun telegramma. Probabilmente in città non accadono fatti degni di nota. Siamo andati a messa: buio fitto».

La Stampa TuttoScienze 6.9.17
Uno, cento, mille cervelli
In quelle metamorfosi il segreto della mente sana
Dalla ricerca di base i farmaci di ultima generazione
di Laura Cancedda

Il cervello umano è un organo estremamente complesso che ha la funzione di garantire il benessere dell’individuo e che continua, nei suoi meccanismi, a rivelarci grandi sorprese.
La sua complessità è data dal fatto che contiene un numero strabiliante (oltre 100 miliardi) di unità funzionali, i neuroni. Queste cellule sono organizzate in strutture ben definite dal punto di vista anatomico, le aree cerebrali, che svolgono specifiche funzioni. Per esempio, le cortecce sensoriali, come la visiva o l’uditiva, sono adibite a processare informazioni provenienti dal mondo esterno come immagini o suoni, mentre l’amigdala regola le emozioni, come la paura, e l’ippocampo regola l’apprendimento e la memoria.
Mille trilioni
Tuttavia, per funzionare, il cervello necessita che i diversi neuroni siano connessi l’un l’altro con strutture specializzate chiamate sinapsi. In particolare si calcola che ogni singolo neurone possa connettersi ad altri neuroni attraverso qualcosa che può raggiungere le 10 mila sinapsi e che le connessioni totali nel cervello possano arrivare fino a mille trilioni. Queste connessioni si formano durante lo sviluppo a partire da programmi genetici definiti, ma sotto la costante e pesante influenza delle esperienze sensoriali, emozionali e di apprendimento a cui ogni individuo è sottoposto durante la crescita. Il risultato sono connessioni sia tra neuroni all’interno di una stessa area funzionale sia tra neuroni di diverse aree funzionali, a volte anche distanti tra loro.
Ma la complessità delle connessioni sinaptiche non è solo questa. Infatti, le connessioni del cervello non sono stabili neanche dopo che si raggiunge la maturità, perché anche le esperienze di vita che facciamo ogni giorno in età adulta conservano (seppure a livelli inferiori rispetto alla fase dello sviluppo) la capacità di cambiare le sinapsi sia in termini di numero sia di tipo. Infine, nel cervello, non ci sono solo neuroni, ma altri tipi cellulari, molti dei quali prendono anche loro parte alla formazione di connessioni cerebrali.
Ma come è stato possibile imparare tutte queste cose sul cervello? Attraverso la cosìddetta «ricerca di base», cioè una ricerca scientifica volta a capire la fisiologia dell’organizzazione e del funzionamento del cervello. Per fare questo gli scienziati si possono avvalere di diverse tecniche sperimentali. Queste tecniche comprendono procedure per visualizzare i neuroni e le loro connessioni, altre procedure per ascoltare e registrare che cosa si dicono questi neuroni e ulteriori tecniche per capire qual è il risultato finale a livello comportamentale di una corretta connettività tra i neuroni.
Infatti, se da una parte la comprensione del funzionamento del cervello rappresenta ancora oggi una delle grandi sfide della ricerca, dall’altra quello che già sappiamo è invece da considerarsi un punto di partenza per capire la causa delle malattie del sistema nervoso e per poter pensare a nuovi interventi terapeutici sui pazienti. Infatti, quando si fa ricerca di base non si sa mai quali prospettive potrebbero aprirsi per la salute umana, ma a tutti noi ricercatori piace pensare che siano infinite. Nel concreto, molte volte i risultati di una specifica ricerca daranno frutti misurabili in termini di miglioramento della salute umana solo molti anni dopo.
Sindrome di Down
Ma in altre occasioni, per una serie di circostanze che possono essere addirittura casuali, le cose possono andare anche un po’ più veloci. Come gli studi che abbiamo recentemente realizzato nel nostro laboratorio dell’Istituto Italiano di Tecnologia e che hanno portato a scoprire che un comune farmaco diuretico riesce a ristabilire una corretta funzionalità delle connessioni cerebrali in un modello murino di sindrome di Down: potrebbe essere utile per il trattamento dei sintomi cognitivi tipici delle persone con questa sindrome. Il farmaco, infatti, è già stato utilizzato in passato per molto tempo in clinica per aumentare la diuresi e si è dimostrato sicuro.
Basandosi sui nostri dati, l’ospedale Bambino Gesù a Roma sta ora organizzando uno studio clinico-pilota che dovrebbe cominciare nei prossimi mesi. Ci auguriamo che lo studio confermi i risultati incoraggianti sul modello murino, ma non si possono fare previsioni. Quello di cui però siamo sicuri, per il momento, è che con tanto lavoro e un po’ di fortuna anche la ricerca di base mirata alla comprensione di come funzionano le connessioni cerebrali ha il potenziale necessario per migliorare la vita di tanti pazienti.

La Stampa TuttoScienze 6.9.17
Nelle endorfine in tilt si cela il meccanismo che obbliga alle abbuffate compulsive
di Paola Mariano

Quando si mangia, il cervello è inondato da una tempesta di «droghe naturali»: sono le endorfine, molecole simili agli oppiodi, associate al piacere del palato e, quando il menù non è dei migliori, al senso di sazietà.
Lo rivela uno studio finlandese pubblicato sul «Journal of Neuroscience» e condotto presso l’Università di Turku: la ricerca contribuisce a capire meglio tanti disturbi alimentari, a cominciare dalle abbuffate compulsive e dall’obesità. In entrambi i casi - si spiega - potrebbe andare in tilt il meccanismo di autoregolazione del cibo mediato proprio dalle endorfine.
Diretti da Lauri Nummenmaa, gli studiosi hanno osservato il cervello di 10 volontari, ricorrendo a un sofisticato strumento diagnostico per immagini come la «Pet», basato sull’emissione di positroni. Il test è stato ripetuto per tre volte, rispettivamente dopo che i volontari avevano mangiato pizza, bevuto un drink insipido e, infine, dopo aver digiunato.
Se dopo la pizza le 10 «cavie» si sentivano sazie e soddisfatte (e il loro cervello era inondato da endorfine), dopo il drink erano invece sazie ma insoddisfatte: la bevanda non aveva sprigionato alcuna sensazione di piacere. E tuttavia - con sorpresa dei ricercatori - anche in questo secondo caso il cervello era attraversato da «getti» di endorfine.
«Sembra, quindi, che gli effetti del nutrirsi siano indipendenti dal piacere», osserva Nummenmaa. Ecco perché la scoperta è importante come arma anti-obesità: è probabile che le abbuffate ripetute mandino in tilt il sistema degli oppiodi, rendendolo meno sensibile ai segnali di sazietà. Così si mangia sempre di più e allo stesso tempo se ne perde il piacere.

Il Fatto 6.9.17
Secondo Mark Lilla, docente di Storia alla Columbia UniversityIn una società fatta di minoranze la sinistra perde
di Stefano Pistolini

Per gli americani di buona volontà, è in pieno svolgimento l’era masochistica della sconfitta. Costoro, secondo Mark Lilla, docente di Storia alla Columbia University, sono i progressisti versione XXI secolo, proprio gli stessi che, in un inatteso exploit di positivismo condussero prima al trionfo e poi alla riconferma presidenziale di Barack Obama.
Un successo ormai lontano, adombrato dalla miriade di sconfitte che questi democratici subiscono dall’America repubblicana – sia in versione educatamente conservatrice, sia attraverso le scalmane populistiche del tempo di Trump – a ogni scadenza che conta, a livello locale, di Stato e nazionale. Perdenti cronici, pieni di buoni propositi, eppure implacabilmente smentiti dall’esito delle urne, pronte a premiare chi minaccia, promette e strepita.
Cosa diavolo sta succedendo in America, qual è il malfunzionamento politico, si è chiesto Lilla, prima in un op-ed sul New York Times e poi in un pamphlet che ne amplifica la trattazione, rendendola ancora più nervosa: The Once and Future Liberal – After Identity Politics (HarperCollins) si mette di impegno – con tutti i rischi di una lettura elitaria – a gettare benzina sul fuoco. E forse conviene dare ascolto alle sue tesi anche dalle nostre parti, dove alcuni oggetti della sua critica sono perfettamente identificabili (la questione-migranti in testa).
La teoria di Lilla è che il liberalismo americano sia “scivolato in un panico etico riguardo alle identità razziali, sessuali e di genere, che ha finito per distorcere il suo messaggio e impedirgli di divenire una forza unificante capace di governare”. La mobilitazione in favore delle cause identitarie, a cominciare da quella per la disparità razziale e contro le forme di razzismo, fino a quelle in difesa delle comunità omosessuali o di altre entità a rischio di discriminazione, ha finito per modificare l’essenza della visione liberal, trasformandola in una galassia di militanze “nel nome di…”, che genera aggregazioni minoritarie invise alla maggioranza, che le percepisce come estranee. Questa politica delle identità, secondo Lilla, mina il perseguimento del bene comune, obiettivo primario della visione liberal americana. E la divisione in gruppi di rivendicazione – le donne, gli afroamericani, gli ispanici, i gay, gli indiani ecc. – alimenta “una divisiva retorica della differenza” che, in nome del vittimismo, concede motivazioni alla egemonica sopraffazione del potere bianco. “Una delle lezioni della recente elezione presidenziale, col suo ripugnante esito, è che l’età del liberalismo identitario deve finire”, scrive Lilla. Troppi democratici indulgono in una “politica dei narcisismi”, indifferente alla soluzione dei reali problemi dell’America. Indispensabile per lui è il ritorno a un pragmatismo della politica che si ponga innanzitutto un obiettivo: vincere. Riprendere il controllo del maggior numero possibile dei centri di potere. Il progresso, in termini sociali, economici, di uguaglianza e opportunità, transita per il potere politico, che deve costituire il target primario. I progressisti devono ricominciare a fare una cosa: vincere le elezioni, qualunque sia la posta in palio. Se nel 2016 un consistente numero di elettori di Barack Obama ha votato Donald Trump, la causa sta proprio nel progressivo predominio delle politiche identitarie, che hanno fatto sentire fuori posto chiunque non s’identificasse in una di esse.
È naturale che l’ostilità espressa nei confronti dei movimenti – Black Lives Matter, per citare uno dei più rilevanti, che contesta la persecuzione sofferta dai neri a opera delle forze di Polizia – e l’acredine nei confronti delle mobilitazioni nelle università, abbia procurato a Lilla parecchie critiche. Ma lo storico insiste: “Le elezioni non sono incontri di preghiera. Nessuno è interessato a sentire la tua storia personale”, sostenendo che Trump e i suoi si sono insinuati con successo proprio negli interstizi di questo scenario multiplo di rivendicazione, che ha accentuato le divisioni nel fronte progressista, creando gruppuscoli rumorosi, ma destinati alla sconfitta. La sua proposta sta nell’avvento di una nuova forma di progressismo, basato sulle finalità comuni. “Serve realismo, una visione disincantata di come viviamo” scrive, scagliandosi contro i guerriglieri della giustizia sociale e la loro “rancorosa retorica dei distinguo”.
Lilla riconosce il ruolo svolto dai movimenti per i diritti civili nei decenni passati, ma li ritiene controproducenti negli scenari attuali, per come risucchiano energia allo scopo unico di riportare i Democratici ai posti di comando. Black Lives Matter, secondo Lilla, “è l’esempio di come non si costruisca la solidarietà”. I suoi sono argomenti incendiari, che hanno il pregio di gettare una luce su cosa sia accaduto nelle ultime stagioni in America e su come Trump e il suo canone di distorsione delle verità siano riusciti a trasformare i movimenti identitari nella minaccia contro “l’America per come la conosciamo”. Steve Bannon, spin doctor della vittoria di Trump, ha ispirato a questo dettato la campagna del suo candidato. E ha vinto. “Non abbiamo bisogno di altre marce – scrive Lilla –, ci servono più sindaci”. L’unica identità da perseguire nel fronte democratico è quella di americani”, dando vita a una forza unitaria capace di governare. Obama vinse perché nelle sue parole non isolava mai un gruppo, ma parlava sempre di “noi”. Come Bill Clinton prima di lui, aveva capito che le settorializzazioni in politica sono l’anticamera della sconfitta. E che è necessario un lavoro concreto di coinvolgimento e inclusione, non di distinguo. Così si vince e si acquista il potere di decidere. La destra ci è riuscita, investendo capitali in network, siti internet, blog e talk show. La visione paranoica del potere incarnata da Trump ha radici in quel brodo mediatico, condito di ansia economica, crimine e rancori culturali. “I liberal si ricordino che il nostro primo movimento identitario è stato il Ku Klux Klan. Chi segue quel solco, deve prepararsi a perdere”.
Le università devono smettere d’essere ossessionate dalle marginalità sociali e dal culto degli ultimi. Pena il perpetuarsi dei successi di chi, come la lega Bannon-Trump, ha puntato al bersaglio grosso. The Devil’s Bargain ovvero “il patto del diavolo” è il titolo di un altro libro appena uscito, a firma di Joshua Green, inviato di Bloomberg Businessweek. Bannon, scrive Green, ha insegnato a Trump come utilizzare lo scontento dell’elettorato e l’insofferenza dei lavoratori bianchi verso l’immigrazione, l’Islam e le battaglie delle minoranze. Il “muro” è stato la metafora perfetta. “Prima l’America”, lo slogan elementare. Lilla riparte da lì, dalla constatazione che la politica è un’arte pragmatica, che perde sostanza se praticata in un’ottica perdente. “Se davvero vogliamo proteggere gli automobilisti neri dalla persecuzione da parte delle forze di Polizia, servono procuratori dotati di visione democratica. E dunque nominati da legislatori di mente aperta”. Che perciò devono essere sistemati al loro posto, vincendo le elezioni. Queste non sono Olimpiadi. L’importante non è partecipare. Le cose non cambieranno a colpi di flash mob. Bisogna convincere gli americani a mettere in buone mani il Congresso, il governo delle città e degli Stati. Bisogna legiferare. Non protestare. Meno simboli e più decisioni. Strano, no? Suona come “vecchia politica”. Eppure ha le sembianze di un antidoto. O forse di una colossale fregatura intellettuale. Dove sta il vero?

La Stampa 6.9.17
Camusso: “Il governo non riesce a creare un futuro per i giovani”
La leader Cgil: la ripresa c’è, ma non genera occupazione. Dall’esecutivo risposte insufficienti
intervista di Roberto Giovannini

Siamo un Paese malconcio, non siamo stati capaci di investire sulle sue ricchezze, sulle sue competenze, e non abbiamo costruito possibilità di futuro per i giovani». Secondo Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, «non è accettabile che vadano all’estero centomila ragazzi l’anno». Come non è accettabile «il deterioramento del clima democratico, con un continuo “sdoganamento” di valori e linguaggi xenofobi e fascisti e la creazione di finte emergenze come quella dei migranti. È ora di costruire posti di lavoro, non di delegare solo alle imprese. I risultati di tre anni di politiche liberiste basate sulla sola decontribuzione sono davanti a tutti».
Susanna Camusso, la ripresa è arrivata. Cosa si può fare per trasformarla in crescita dell’occupazione?
«Un po’ di ripresa è arrivata, anche se molto c’è da fare per recuperare il terreno perduto. Gli investimenti privati sono un po’ ripartiti, ma con scarsi risultati occupazionali, anche perché per il blocco dei pensionamenti non c’è stato ricambio. Mancano gli investimenti pubblici. Manca il personale nella sanità. Casa Italia è stata una meteora che non ha prodotto nulla per rimettere in sesto il territorio».
E il Jobs Act, che secondo il governo ha permesso di far ripartire l’economia?
«Io spero che nessuno sia così matto da pensare che quel poco di crescita che c’è sia figlio del Jobs Act. Però abbiamo agganciato una possibilità di ripresa. Servono interventi nella legge di Stabilità per consolidarla e accelerarla, per chiudere il gap che invece aumenta con l’Ue».
State facendo una serie di incontri con il governo. Come stanno andando?
«È importante che sia ripreso il dialogo, ma sul lavoro non ci sono ancora risposte soddisfacenti. E poi non si riesce ad avere un quadro d’insieme sulle intenzioni del governo».
Forse perché non hanno risorse?
«I soldi sono pochi anche perché non si vogliono cercarli. Ma continuare a moltiplicare piccoli provvedimenti inefficaci è una scelta, non un obbligo. Per noi la priorità è creare lavoro, abbattere la disoccupazione giovanile. Concentriamo le risorse che ci sono su questo».
Si parla di un nuovo sgravio contributivo per i giovani.
«Non è la decontribuzione l’unica via per ridurre il cuneo fiscale. Si intervenga sulle detrazioni da lavoro dipendente: ridurre il prelievo fiscale sulle buste paga dei lavoratori strutturalmente e per tutti sarebbe giusto. E sistemerebbe anche la beffa degli 80 euro, che si sono trasformati in una tassa contro i contratti».
E per l’occupazione giovanile? Cosa proponete?
«C’è uno strumento che si chiama apprendistato: favorisce insieme il lavoro stabile e la formazione dei giovani fino a 39 anni, e ha uno sconto contributivo e fiscale convenientissimo. Usiamolo»
Ma non ha funzionato come si sperava...
«Certo: perché gli hanno fatto concorrenza misure come gli stages e i tirocini da 300 euro al mese, che possono durare anche un anno. Sulla carta si dice che il lavoro stabile deve costare meno del lavoro precario. Bene, solo che poi l’apprendistato viene spiazzato dai tirocini e altre forme precarie, e il contratto a termine, “grazie” al decreto Poletti, alla fine conviene più del lavoro a tempo indeterminato. Facciamo pulizia. Ed eliminiamo l’aumento automatico dell’età pensionabile, così qualcuno riesce finalmente ad andare in pensione».
È un tema importante questo?
«Oggi abbiamo l’età pensionabile effettiva più alta d’Europa. Lavoriamo più ore di Germania e Francia. L’aspettativa di vita alla nascita si è ridotta sia nel 2015 che nel 2016. È necessario allontanare la pensione di altri cinque mesi? Anche alle donne, bloccate per sei anni? È una follia. Il governo deve congelare questa misura. E poi gli investimenti. Bisogna colmare il grande vuoto degli investimenti pubblici. E farla finita con questa sequenza disordinata di bonus, cose che durano un po’ di mesi e poi spariscono ma di cui si esaltano i risultati inesistenti».
Ma ci sarebbero le risorse per queste misure più efficaci?
«In tre anni sono stati dati 40 miliardi alle imprese, 18 miliardi per il Jobs Act, hanno tolto l’Imu sulla prima casa, anche ai ricchi. Sono state sperperate risorse che non hanno dato risultati sul lavoro e hanno aumentato le diseguaglianze. Le dichiarazioni dei redditi dell’anno scorso dicono che un milione di lavoratori hanno perso il bonus degli 80 euro. Che era l’unica concessione per il mondo del lavoro».

La Stampa 6.9.17
“Compra una borsa, vinci lo stage”
Ma sul web è bufera anti Carpisa
E alla fine l’azienda di pelletteria di Nola chiede scusa
di Francesca Schianchi

«Compra una borsa e vinci uno stage». Infiamma i social per tutta la giornata la trovata di Carpisa, una specie di lotteria dedicata a ragazzi tra i venti e i trent’anni per guadagnare un mese di tirocinio che propone dal suo sito l’azienda di pelletteria e accessori moda con 600 punti vendita nel mondo (400 in Italia) e 500 dipendenti, costretta in serata alle scuse per «la superficialità con cui è stato affrontato un tema così delicato come quello del lavoro».
A indignare il mondo del web (e non solo) è un bando, in scadenza oggi, per ottenere uno stage di un mese a 500 euro più alloggio in foresteria e pranzo in mensa aziendale, all’ufficio comunicazione dell’azienda a Nola, in provincia di Napoli. Per candidarsi, però, non bastano studi adeguati e tanta buona volontà; no, in questo caso bisogna prima acquistare una borsa della collezione autunno-inverno che dia diritto al “codice gioco”. A quel punto bisogna elaborare «un piano di comunicazione professionale» tenendo conto di una dettagliata griglia di fattori (dall’«evidenza degli obiettivi del lancio, all’analisi del posizionamento del brand, al dettaglio delle tattiche ed elenco delle azioni di comunicazione»), infine inviare dati personali e il proprio curriculum. Tre passaggi e dita incrociate, sperando di essere il “fortunato” vincitore. Tutti i partecipanti, comunque, rinunciano a qualsiasi diritto sulla propria proposta e non potranno avanzare richieste economiche per l’eventuale futuro utilizzo.
«Chissà chi me l’ha fatto fare di iscrivermi all’università, quando potevo comprare una borsa», ironizza amara Elisabetta su Twitter, dove l’hashtag #Carpisa tiene banco per tutta la giornata tra battute e indignazione, come quella di Chiara: «Purtroppo finché ci sarà qualcuno disposto ad accettare condizioni simili, la “fantasia” delle aziende non avrà limite».
Una levata di scudi contro l’azienda – che in molti si ripromettono di boicottare - a cui si aggiunge il segretario nazionale della Filcams Cgil, Fabrizio Russo («Un concorso svilente e irrispettoso per i tanti giovani che studiano e si impegnano»), che spinge il marchio della tartarughina in serata a scusarsi e tentare di correre ai ripari, dicendosi in realtà molto impegnata a favore dei giovani: «Già oggi i collaboratori con meno di 29 anni rappresentano oltre il 40 per cento del totale dell’azienda», scrivono. Il concorso a premi, però, resta valido.

La Stampa 6.9.17
Italia. Un appartamento su cinque è sfitto
I proprietari: “Non si pensi a requisire”
Sette milioni le case non abitate. “Ma i censimenti sono imprecisi”
di Paolo Baroni

Sono sette milioni le case sfitte in Italia, per lo più concentrate nelle regioni a maggiore vocazione turistica (come Valle d’Aosta e Liguria) o nelle aree interne delle regioni meridionali che nel corso degli anni hanno subito i più forti fenomeni di spopolamento (Calabria, Molise, Abruzzo). In pratica più di una casa su 5 nel nostro Paese risulta vuota (22,5%). Le statistiche, sia quelle ufficiali elaborate dall’Istat, sia quelle di operatori di mercato come «Solo Affitti» coincidono, per cui non dovrebbe essere molto difficile per i prefetti avere rapidamente il polso della situazione.
I dati
Stando all’Agenzia delle Entrate nel complesso gli immobili «a disposizione» sono 6 milioni e 623 mila e corrispondono al 10,4% del totale, le abitazioni non utilizzate di proprietà di persone fisiche sono invece 5,71 milioni (17,9% del totale), praticamente il doppio di quelle affittate (8,8 per cento). Ma poi, tra case non dichiarate (694 mila) e alloggi di cui non è stato possibile ricostruire l’utilizzo (283.432), ce n’è quasi un altro milione che resta nel limbo.
Concentrazione al nord
Gli immobili sfitti, in gran parte abitazioni, sono concentrati per lo più al Nord (2,9 milioni) e nel Mezzogiorno (2,5 milioni), mentre al Centro se ne contano 1 milione e 160 mila. Tra i grandi comuni Ravenna è la città che presenta la quota maggiore di case non occupate (28,37% pari a 27.119 unità), a seguire Reggio Calabria (27,23%) e Catania (19,735); tra le province svettano Olbia-Tempio (52,9%), Sondrio (49,7%) e Crotone (46,75); tra le regioni il primato va invece alla Valle d’Aosta col 50% dei case vuote (58.731), a seguire Calabria (38,74%, 481.741 alloggi) e Molise (36,89%, 73.524). In Sicilia ce ne sono ben 923.360 (32,23%) e 520.026 in Puglia. Dove sono presenti le aree metropolitane più estese si registrano i livelli più alti di occupazione delle case cui corrispondono quote di immobili sfitti ben sotto la media nazionale: a Milano si tocca infatti il 10,8% (16,6% in centro), a Roma il 9% (14% in centro) e a Napoli l’8,6% (13,4 nel centro antico). Ma gli stock sono comunque rilevanti: 731.665 in Lombardia, 488.114 nel Lazio e 417.576 in Campania.
La definizione
«Si fa molta confusione fra immobili sfitti, vuoti e non occupati - mette in guardia Corrado Sforza Fogliani, presidente del centro studi di Confedilizia -. Anche i dati del censimento vanno presi con le molle, perché non è detto che tutte le case non occupate lo siano in maniera permanente. E se oggi ci sono tanti alloggi vuoti è perché meno gente ha i mezzi sufficienti per prenderli in affitto, insomma è uno sfitto involontario». Quanto al censimento disposto da Minniti, secondo Sforza Fogliani, «non riusciranno a farlo. E comunque dopo cosa fanno, partono con le requisizioni? E con che soldi sistemano questi alloggi? Ricordo che esiste già una legge, la 431, che consente ai Comuni di prendere in affitto le case vuote ed assegnarle a chi ne ha bisogno. Ma siccome poi si devono far carico dei costi nessuno lo fa».
Le critiche
Ai proprietari di case, sia piccoli che grandi, l’iniziativa di Minniti ovviamente non piace. «Ogni tanto quando si presenta una situazione allarmante qualcuno si inventa questa storia del censimento e quindi delle requisizione, ma queste sono cose che forse si facevano nei paesi comunisti, dove non esisteva una prassi costituzionale che tutela la proprietà immobiliare» spiega il segretario generale dell’Unione piccoli proprietari immobiliari, l’avvocato Fabio Pucci. «Comunque non credo che Minniti possa arrivare a tanto perché sarebbe una misura non solo impopolare ma anche altamente illegittima contro cui ricorreremmo in tutte le sedi compreso Strasburgo».

Il Fatto 6.9.17
Affondo di Strada: “Ministro sbirro”. E la sinistra si divide

“Minniti ha una storia da sbirro e va avanti su quella strada lì, per lui ributtare in mare o riconsegnare bambini, donne incinte e poveracci a quelli lì in Libia, e farli finire nelle carceri ammazzati o torturati, è una cosa compatibile con i suoi valori, con i miei no e si sente orgoglioso di quel che fa”: l’attacco da sinistra e ad alzo zero all’attuale ministro dell’Interno del Pd e ex coordinatore del Pci dalemiano è del fondatore di Emergency Gino Strada, a margine della conferenza stampa di presentazione di “Casa Emergency”, dove è intervenuto insieme al sindaco Giuseppe Sala. “Nessun governo delle migrazioni è possibile, in Italia come ovunque, se non si cerca di offrire tutela e assistenza sia agli sradicati in fuga sia a chi se le vede arrivare sotto casa” scrive nella sua Amaca su Repubblica Michele Serra. Anche il deputato del Pd con delega alle riforme, Emanuele Fiano si schiera con il ministro: “Minniti ha al centro del suo operato la salvaguardia dei diritti umani e delle persone, si sta spendendo per tenere in alto questi valori per difendere chi scappa da guerre e fame e sta cercando di razionalizzare la situazione dei flussi migratori nell’assenza dei partner europei”.

Corriere 6.9.17
Sicilia, Pisapia contro Mdp. Poi la tregua
Le critiche per la scelta di correre da avversari del Pd. L’incontro con Speranza: continua il percorso unitario
Bersani: serve discontinuità, mai con Alfano. E l’ex sindaco punta a un ticket di centrosinistra Micari-Fava
di Monica Guerzoni

ROMA Prima lo schiaffo a distanza, poi la stretta di mano dal vivo. I rapporti tra il mondo di Pisapia e quello di Bersani vanno avanti così, sull’orlo della rottura ecco che scoppia una scintilla di pace. È accaduto anche ieri, quando l’ex sindaco di Milano ha finalmente incontrato Roberto Speranza e messo nero su bianco l’impegno a non mandare all’aria le nozze fra Campo Progressista e Articolo 1 - Mdp, il partito nato dalla scissione del Pd.
In via Zanardelli, nuova «ditta» di bersaniani e dalemiani, Pisapia ha confermato l’intenzione di andare avanti col «percorso unitario nazionale per la costruzione di un nuovo centrosinistra, in discontinuità con le attuali politiche del Pd». E anche se nelle urne del 5 novembre dovessero arrivare divisi, i rispettivi gruppi dirigenti la prossima settimana si incontreranno.
La nota congiunta non era scontata, visto com’erano andate le cose al mattino. Pisapia scende dal treno, si chiude con la sua piccola squadra in un centro congressi alla stazione Termini e, quando ne esce, scuro in viso, liquida brusco la politica dei compagni di strada: «Mdp in Sicilia? Ha fatto scelte che non condividiamo». E se Bersani poco prima aveva fatto il pompiere smentendo tensioni, Pisapia smentisce Bersani: «C’è da chiarire se rivive il progetto originario di una coalizione di centrosinistra, sfidante rispetto al Pd». Parole che avevano fatto esultare i renziani, convinti che il sogno del partito di sinistra coltivato da D’Alema sotto la guida dell’«ineffabile avvocato» milanese stesse per naufragare sui lidi siciliani.
E invece no, la giornata del centrosinistra è scandita dai colpi di scena. Chi nel Pd si aspettava il via libera di Pisapia alla candidatura del rettore Fabrizio Micari rimane deluso, perché l’ex sindaco non intende giocare «una competizione nazionale fondata su uno schema di alleanze ambigue e innaturali rispetto al mondo progressista». Nella nota il nome di Alfano non c’è, ma è al ministro degli Esteri che Pisapia si riferisce quando stoppa gli «schematismi nazionali» che hanno messo d’accordo il leader di Ap con Matteo Renzi. E ce n’è anche per Bersani e compagni, ai quali rimprovera l’«autolesionismo» che li porta a fare in Sicilia mera testimonianza.
Ecco allora la ricetta di Pisapia per battere il tafazzismo e non arrivare al voto con due candidati, regalando la Sicilia a Berlusconi o a Grillo: azzerare tutto e chiedere a Micari e al candidato di Mdp Claudio Fava di aprire il dialogo «per costruire una piattaforma programmatica unitaria, non inquinata da ambiguità». Un ticket Micari—Fava? La formula potrebbe essere questa. Il rettore è pronto a raccogliere il guanto di sfida che gli ha lanciato Fava, sfidandolo al duello con le primarie.
Roberto Speranza è contento perché l’incontro dal suo punto di vista ha spazzato via le ambiguità. «Se salta l’alleanza con Alfano e quella di centrosinistra ridiventa una coalizione classica il giorno dopo si fanno le primarie — spera in una ricucitura il coordinatore di Mdp — Noi non abbiamo rotto perché siamo matti, ma perché Renzi ha trasformato Alfano nel perno della coalizione, facendo uno scambio sulla legge elettorale».
Nel Pd la prendono male. Lorenzo Guerini, regista dell’accordo con Alfano, dà voce ai sospetti del Nazareno: «Forse da parte di qualche dirigente di Mdp c’è la voglia di danneggiare il Pd sulla pelle dei siciliani». A sera, a In Onda su La7, Pier Luigi Bersani si mostra stupito per l’uscita di Guerini, che un tempo riteneva uno dei migliori al Nazareno. In compenso con Pisapia «i rapporti sono fra il buono e l’ottimo», ma certo l’ex segretario riconosce che di ombre da fugare ce ne sono parecchie: «Se vuole una discontinuità e un centrosinistra pulito ci siamo. Ma se vuole Alfano e compagni, c’è qualche problema». Può suonare strano detto da uno che se n’è andato, ma Bersani non disdegnerebbe un invito alle Feste dell’Unità. Quando quelli del Pci buttarono fuori quelli del Manifesto li invitarono, ricorda. «Oggi invece parlano tra loro».

Il Fatto 6.9.17
Sicilia, il partito di Pisapia diviso su chi sostenere: quindi non deciderà nulla
Correnti - Campo progressista spaccato tra chi vuole allearsi con Renzi e Alfano (Tabacci & C.) e chi ritiene più saggio sfilarsi dalla contesa sull’isola: il leader d’accordo coi secondi
di Tommaso Rodano

Pisapia sostiene Micari. Anzi no: Pisapia si sfila dalla contesa siciliana. Pisapia rompe con Bersani e compagni. Anzi no: Pisapia incontra Speranza e conferma il percorso comune con Articolo 1 – Mdp, malgrado le tensioni sull’isola.
Insomma, nulla di fatto. L’ultima puntata della telenovela estiva della sinistra italiana si risolve nel pomeriggio con nuove contraddizioni e due comunicati ufficiali, a stretto giro di posta.
Nel pomeriggio lo “stato maggiore” di Campo Progressista si riunisce a Roma; un gruppetto che va dall’ex democristiano Bruno Tabacci all’ex vendoliano Marco Furfaro.
Pisapia viene intercettato dai cronisti alla fine dell’incontro e riconosce: “In Sicilia Mdp ha fatto scelte che non condividiamo” (ovvero la candidatura di Claudio Fava). Dunque Pisapia va con Micari? No. Pochi minuti dopo, ecco il comunicato di Campo progressista: “I partiti in Sicilia stanno giocando una competizione nazionale: da un lato fondata su uno schema di alleanze ambigue e innaturali rispetto al mondo progressista, e dall’altro basato sull’ennesima riproposizione di uno schema di testimonianza, seppur nobile, già fallito in passato”. Un colpo al secchio (il Pd che imbarca Alfano, “alleanza ambigua e innaturale”) e uno alla botte (Mdp, che si condanna a una battaglia “di testimonianza”). Pisapia quindi non sceglie tra Micari e Fava, ma chiede ai due candidati “ogni sforzo per ritrovare l’unità del centrosinistra”. Altrimenti, potrebbe sfilarsi dalla contesa siciliana.
Il fatto è che il micropartito dell’ex sindaco (valore elettorale stimato dai sondaggisti attorno all’1%) è già composto da sensibilità piuttosto distanti tra loro, diciamo. Così a margine della riunione Furfaro esulta perché “non siamo finiti in braccio ad Alfano”, mentre Tabacci è imbufalito con la sinistra: “Mdp non si era opposta a Micari, ma ha cambiato idea a causa di una presunta telefonata tra Renzi e Leoluca Orlando. Ma si può fare politica così? In questo modo si fa il gioco di Berlusconi e il centrosinistra perde. Evidentemente Mdp ha deciso che vogliono perdere”.
Malgrado tutto, Pisapia riesce a prendere ancora tempo. E il suo equilibrismo è sufficiente a evitare la rottura del fragile percorso comune con Bersani e compagni. Dopo la riunione di Campo progressista infatti l’ex sindaco raggiunge Roberto Speranza in via Zanardelli, sede di Mdp. Un incontro che produce un altro comunicato ufficiale, stavolta da parte degli ex Pd: “Le attuali diverse valutazioni sulle elezioni in Sicilia non incidono sulla prosecuzione del percorso unitario per la costruzione di un nuovo centrosinistra in discontinuità con le attuali politiche del Pd. Continuerà ancora l’impegno comune non solo a livello nazionale, ma anche in tutte le altre regioni che andranno al voto nel 2018”. L’ennesimo incontro tra le parti sarà lunedì.
Ora in Sicilia cosa succede? Intanto arriva l’ufficialità del ritiro del governatore Rosario Crocetta. Correrà con Micari: “Per me è un giorno di liberazione personale. Ho fatto cinque anni di sacrifici terribili”. Poi c’è Micari che approfitta dell’uscita di Pisapia per chiedere l’appoggio di Fava: “Incontriamoci e discutiamo, cercando di trovare le ragioni dell’unità”. Fava risponde subito: “Non ho problemi a incontrare il rettore, ma di cosa vuole discutere? Ci confrontiamo in concreto sulla coalizione e sul candidato? Pisapia ha parlato di alleanze innaturali e ambigue. Bene: se il partito di Alfano esce dalla coalizione e si sceglie un cambio di rotta rispetto al governo Crocetta, io non ho difficoltà a confrontarmi con lui nelle primarie”. Una linea concordata con Roberto Speranza: “Se Renzi molla Alfano, siamo disponibili alle primarie di coalizione tra Fava e Micari anche tra una settimana”.
La palla torna dunque nel campo dell’ex presidente del Consiglio e di Leoluca Orlando. Se il Pd rinunciasse all’appoggio degli alfaniani, sull’isola potrebbe ricomporsi una coalizione di centrosinistra. In caso contrario, i bersaniani avranno un alibi inattaccabile per aver scelto Fava e lo stesso Pisapia potrebbe sfilarsi dalla contesa siciliana dopo aver fatto un tentativo, almeno formale, per tenere insieme i pezzi della coalizione.
Lo scenario è comunque irrealizzabile: il patto tra Renzi e Alfano ormai è chiuso, ed è proiettato verso le prossime elezioni politiche. Ne sono convinti anche i bersaniani: tra i termini dell’intesa, oltre ai posti in lista per gli alfaniani al Senato, c’è la garanzia che la soglia di sbarramento del 3% alla Camera, prevista dall’attuale legge elettorale, non sarà ritoccata verso l’alto.

Repubblica 6.9.17
Pisapia, colpo a sinistra “Mdp mette a rischio tutto” Appello all’unità in Sicilia
Il leader di Campo progressista attacca la scelta di schierare Fava contro Micari. Nota congiunta con Speranza: il progetto comune però va avanti
di Silvio Buzzanca

ROMA. Giuliano Pisapia scuote il cantiere della sinistra. Erano dieci giorni che si attendeva una sua parola sull’intreccio fra manovre in Sicilia e quadro nazionale. E alla fine il leader di Campo progressista ha parlato ieri mattina, intercettato a Roma da Repubblica tv, e ha bocciato il sostegno di Mdp a Claudio Fava. «In Sicilia hanno fatto scelte che non condividiamo», ha detto l’ex sindaco di Milano.
Pisapia aveva appena discusso la linea con il gruppo dirigente di Cp in un albergo, dove qualcuno aveva chiesto di rompere definitivamente con Bersani e soci. Invece è arrivato un comunicato in cui si legge che il progetto civico costruito da Leoluca Orlando intorno al rettore Fabrizio Micari è messo a rischio da partiti che «stanno giocando una competizione nazionale: da un lato fondata su uno schema di alleanze ambigue e innaturali rispetto al mondo progressista, e dall’altro basato sull’ennesima riproposizione di uno schema di testimonianza, seppur nobile, già fallito in passato». Dunque un invito a Renzi a lasciar perdere l’alleanza con Angelino Alfano, ma anche un appello a lasciare cadere la candidatura di Fava.
Altrimenti, dice Campo progressista, si rischia di fare cadere la Sicilia in mano al centrodestra. E per evitare questo scenario Pisapia invita «Micari e Fava ad aprire fin da subito un dialogo per costruire una piattaforma programmatica unitaria, realmente civica e credibile, non inquinata da ambiguità che nulla hanno a che fare con la storia del centrosinistra».
Una posizione che suona quasi come una rottura con Bersani e i suoi. Ci sono problemi evidenti. Ed è lo stesso Bersani che lo ammette in serata: «Il mio rapporto con Pisapia è tra il buono e l’ottimo. Poi dovremo chiarirci, vogliamo un centrosinistra pulito e unito. Se vuole una discontinuità ci siamo. Ma se vuole Alfano e compagni, c’è qualche problema, non per me, ma per la nostra gente».
Nel pomeriggio Pisapia aveva incontrato Roberto Speranza, uno dei leader di Mdp, per cercare di mantenere in vita canali di dialogo. Non vuole “strappare” con Mdp. E così la nota finale parla di «valutazioni diverse» sulle vicende siciliane, ma queste «non incidono sulla prosecuzione del percorso unitario nazionale per la costruzione di un nuovo centrosinistra in discontinuità con le attuali politiche del Pd».
Così “Insieme”, l’aggregazione fra Campo progressista e Mdp, non finisce in soffitta e si prende tempo per vedere cosa accadrà in Sicilia. Con la promessa che «continuerà ancora l’impegno comune non solo a livello nazionale, ma anche in tutte le altre regioni che andranno al voto nel 2018».
Nell’isola, intanto, il Pd incorona Micari candidato ufficiale del partito nella direzione dove si rende omaggio a Rosario Crocetta con un lungo applauso. Il governatore appoggerà il rettore con la sua lista Il Megafono.

Repubblica 6.9.17
L’aut aut di Giuliano: “Voglio unire se non riesco farò un passo indietro”
“Ci proverò fino all’ultimo, ma non si ripeta mai più ciò che è accaduto per l’isola” E avverte: “Non farò la foglia di fico né del Pd né di una sinistra rinchiusa nel recinto”
di Giovanna Casadio

ROMA. «Io fino all’ultimo provo a unire il centrosinistra. Tutti noi di Campo progressista ci muoviamo in questa direzione. Se non raggiungiamo l’obiettivo, allora faremo un passo indietro». Giuliano Pisapia è determinato e tutt’altro che “riluttante” nella censura alla linea di Bersani, Speranza, D’Alema, i leader di Mdp. Alla fine di una tesissima giornata di incontri e di chiarimenti con i compagni demoprogressisti, l’ex sindaco di Milano è un po’più ottimista. Ma la Sicilia è un banco di prova per la sinistra. E non è andata bene.
«Mai più come in Sicilia»: è stato il primo paletto posto infatti ieri sera nel faccia a faccia con Roberto Speranza, che dei demoprogressisti è il coordinatore. Per ora, spiega Pisapia, non è che noi abbiamo sposato il candidato del Pd e di Alfano, il rettore Fabrizio Micari alle regionali siciliane del 5 novembre. Ma ancora «cerchiamo di ricucire attorno a una candidatura, per riproporre la stessa esperienza civica che ha visto a sostegno del sindaco di Palermo Leoluca Orlando da Mdp ai centristi di Alfano».
La questione non è locale. È tutto il progetto del partito della sinistra in gioco. «Non faccio la foglia di fico né del Pd, né di una sinistra che si chiude nel recinto» ripete Pisapia. E nelle sue parole c’è un retrogusto amaro.
«Non sono un ingenuo, sapevo che sarebbe stato ed è un percorso non facile, però un po’ di amarezza c’è. Mi sono impegnato in quello che ritenevo e penso sia un progetto utile per la comunità». Le divisioni, le polemiche, gli errori, gli accapigliamenti non fanno parte della scommessa di Pisapia. Non piace al leader di Campo progressista neppure l’aut aut sulla manovra economica che Mdp minaccia di non votare se non cambia profondamente, rischiando di fare cadere il governo Gentiloni. «No a venti di guerra, sì a proposte sui punti che ci stanno a cuore di equità, di investimenti, di riequilibrio»: ha detto. «Io sono qui, vado avanti, non mollo, ma non metto la faccia in un progetto che va nella direzione opposta rispetto a quanto abbiamo voluto» ripete Pisapia.
Di tutto questo l’ex sindaco di Milano parlerà nell’incontro a inizio della settimana prossima con Mdp, ovvero con Bersani, Speranza, D’Alema, Rossi e Scotto. Però la barra sarà chiara: «In Friuli, in Molise, in Lombardia, nel Lazio, alle regionali del prossimo anno cioè, la spaccatura in più candidati del centrosinistra che costituisce un suicidio, non deve e non può esserci. No a una sinistra minoritaria, identitaria, che rischia come in Sicilia di arrivare al 3%»: è il tam tam da Massimiliano Smeriglio a Bruno Tabacci nella riunione di Campo progressista.
Pisapia intanto ha spronato ad avviare una serie di incontri siciliani con Micari, con Claudio Fava, con Fausto Raciti, il segretario dem dell’isola. La richiesta è di avere assicurazioni su un codice di trasparenza per le candidature e insistere fino all’ultimo per vedere se si possono riproporre liste civiche senza i simboli di partito come già è stato alle amministrative e che consentano quindi di tenere insieme tutte le forze dalla sinistra ai centristi.
«Speranza è stato d’accordo con me che il nostro progetto politico nazionale è per un centrosinistra ampio. Se questo è l’obiettivo ultimo, non ci possono essere tensioni continue che mirano a spaccare» ripete Pisapia. Ovvio che con la legge elettorale proporzionale il partito della sinistra correrà da solo alle politiche dell’anno prossimo ponendosi in discontinuità rispetto al Pd ma senza pensare di fare a meno dei democratici. «A meno che non si voglia fare un favore alle destre e a Berlusconi »: ha commentato nel corso dell’assemblea di Campo progressista ieri Bruno Tabacci. Che è stato in Sicilia la settimana scorsa per verificare tra l’altro la praticabilità di primarie del centrosinistra. Capitolo chiuso, i tempi non ci sono. Il Pd su questo sembra irremovibile e Micari, a cui è stata chiesta da Leoluca Orlando la disponibilità a candidarsi con l’appoggio ampio del centrosinistra, non è disposto a questo ulteriore esame.
La domanda che l’ex sindaco di Milano ha messo sul tavolo di Mdp è: cosa volete fare, la sinistra identitaria, che ha nel Pd il proprio avversario, che gioca a perdere, o costruire una alternativa vincente di centrosinistra?

Corriere 6.9.17
«Innaturali certe alleanze Benissimo le primarie se i dem scaricano Ap»
Il candidato: non lascio in cambio di qualche seggio
di Felice Cavallaro

PALERMO Crocetta si ritira per non fare lo «sfascista» e invece Claudio Fava si candida a governatore della Sicilia piazzando un bastone fra le ruote del centrosinistra in corsa con il rettore Fabrizio Micari.
Non è un modo di erodere consensi a vantaggio dei grillini o del ricompattato centrodestra di Nello Musumeci?
«Non mi candido contro il Pd. Abbiamo lavorato per settimane insieme su un punto di intesa programmatico di centrosinistra e invece, con l’abbraccio di Alfano, ecco una coalizione slabbrata, deturpata dalle esperienze politiche di governo di Alfano e dalle esperienze giudiziarie di alcuni suoi deputati. Come Pisapia, invochiamo un cambio di rotta».
Beh, non mancano incomprensioni con Pisapia che lei sul Fatto ha pure definito un leader «evaporato».
«Era solo l’interpretazione del titolista. Mentre condivido la nota di Campo progressista. Pisapia ora dice di volere “costruire una piattaforma programmatica unitaria non inquinata da ambiguità”».
Pisapia invita Micari e Fava a lavorare insieme.
«Ma deve dirlo a Renzi, non a me. Spieghi a lui che occorre evitare alleanze innaturali. Dire di volere cambiare rotta imbarcando Crocetta e Alfano sono ossimori che in politica puoi spiegarti nel chiuso delle stanze dei partiti, non puoi farle capire alla gente».
Anche Crocetta un nemico?
«È una scelta che marca un segno di continuità».
Micari l’ha invitata a un confronto.
«Sono disposto a incontrarlo, ma non solo per discutere delle sorti magnifiche della Sicilia. Pronto a misurarmi anche con le primarie, purché non ci sia Alfano».
Dicono che Crocetta si sia ritirato anche in cambio della promessa di tre seggi di senatore. Tratterà pure lei?
«Mai fatto in vita mia. È questa l’umiliazione di una campagna elettorale che ha trasformato la Sicilia in un vicereame borbonico per una trattativa da suk arabo su quanto mi dai. Con i siciliani considerati utili beoti per i tavolini romani».
La sua intransigenza non è apprezzata dall’ex leader della Rete, Leoluca Orlando che l’accusa di avere la «vocazione all’atomo», di continuare a rappresentare una frangia elitaria di sinistra perdente.
«Ho conosciuto Orlando quando rivendicava il primato della coerenza a qualsiasi prezzo. Ora fa alleanze con chi ci sta. Legittimo cambiare, ma è lui a cambiare».
Ma la sinistra da sola come può farcela in Sicilia?
«Infatti io non sono il candidato chiamato a difendere le bandiere della sinistra. Io voglio parlare a tutti i siciliani che vivono le loro delusioni anche lontano da quelle bandiere. Non si fa politica guardandosi allo specchio».
Ma ha incassato anche lo scetticismo di D’Alema.
«È solo la boutade di qualche giornalista. Giovedì apriamo la campagna elettorale insieme a Messina. Basta con questo tentativo di farci apparire litigiosi e frammentati».
Nel Pd continuano a dirle che «un compromesso moderato è meglio di una sconfitta radicale».
«Candidarsi con chi ha fatto business sui migranti non è un compromesso moderato, ma innaturale».
Tutti da scansare, tranne lei?
«È la prima campagna elettorale in cui tutti i candidati a governatore sono persone perbene. Ed è un passo in avanti. Ma attorno abbondano zavorre e cariatidi dei sistemi Cuffaro e Lombardo. Un pezzo con Micari, un altro con Musumeci».

Il Fatto 6.9.17
“Giuliano vuole solo il potere, ora dica con chi sta”
Tomaso Montanari. Lo storico dell’arte: “Afferma tutto e il suo contrario, siamo alle ‘convergenze parallele’ di Aldo Moro”
di Luca De Carolis

“È tempo che Pisapia faccia chiarezza. Ripete di voler essere alternativo al Pd ma pure di voler stare assieme al Pd. Parole degne delle convergenze parallele di Aldo Moro: ma quello era uno statista…”. Tomaso Montanari, storico dell’arte, docente e voce dei comitati del No, si dice stufo degli equilibrismi dell’ex sindaco di Milano.
In Sicilia Pisapia va con Alfano e Renzi, mentre Mdp rimane con il suo candidato, Claudio Fava. Eppure l’ex sindaco e Roberto Speranza assicurano che il “percorso unitario” prosegue. Paradossale, o no?
Il primo aspetto che mi colpisce è la forma, questo linguaggio da azzeccagarbugli in cui non si capisce nulla. Oggi (ieri, ndr), come si è visto in un video su Repubblica.it, Pisapia è uscito da una riunione dicendo: “Non si sa se il progetto va avanti”. Ossia, una cosa durissima. Poco dopo però in una nota ha scritto che il progetto continua.
Magari nel frattempo c’è stato un chiarimento.
Non si può dire tutto e il contrario di tutto. Questo “maanchismo” veltroniano allontana gli elettori. Ormai i comunicati dei politici, soprattutto di sinistra, vanno decifrati.
Perché parlano così?
La parola chiave, anche nel comunicato di oggi di Campo progressista, è “vincente”. Ovvero, il fine è il potere, il governo, e va raggiunto con qualsiasi mezzo. Io non dico che bisogna voler perdere, ma la vittoria non può essere un fine in sè. Conta quello che vuoi fare. Eppure a Pisapia va bene Renzi, e ora gli va bene anche Alfano.
È così inaccettabile?
Io ricordo quello che ha detto Rosy Bindi alla festa del Fatto, venerdì scorso: allearsi con Alfano in Sicilia è particolarmente grave. Non sono affatto sicuro che lui sia meglio del candidato del centrodestra, Nello Musumeci.
Campo progressista le obietterebbe che Pd e Ap sono già assieme nella coalizione del sindaco Leoluca Orlando, a Palermo.
Le personalità contano. Orlando è una figura di garanzia, anche sul piano morale. Mentre il candidato di Pd, Ap e Pisapia, Fabrizio Micari, come prima cosa ha detto che non si dimetterà da rettore di Palermo. Ma ci vuole senso dello Stato, della cosa pubblica.
Ma che conseguenze avrà questo strappo sulla Sicilia per i comitati del No? Lavorerete solo con Mdp?
La nostra posizione rimane quella espressa al teatro Brancaccio a Roma, mesi fa: nessun veto sulle persone, ma chiunque voglia stare in un certo fronte deve puntare a un cambiamento radicale di rotta. Io non dico se bisogna stare o meno con Mdp: sono le cose da fare a decidere se bisogna stare assieme o no. E poi Articolo 1 deve chiarire se ha tagliato il cordone ombelicale col Pd, e se rinuncia alla voglia di riprendersi il partito.
E Pisapia, è perduto nelle larghe intese?
Doveva essere il federatore della sinistra, ma a me pare che voglia solo federarla al Pd, un partito che non è più nemmeno di centro. Come ci si può alleare con chi ha ossificato la giustizia sociale?

il manifesto 6.9.17
Pisapia disapprova Bersani e sceglie Micari contro Fava
Regione Sicilia. L’ex sindaco a un passo dalla rottura con Mdp per le divisioni sul voto siciliano. Alta tensione per l’alleanza con Alfano Poi la tregua. Ma intanto Ap si sfalda
di Alfredo Marsala

PALERMO Alza la voce Giuliano Pisapia per cercare di non rompere con i bersaniani di Mdp e di tenere il filo col Pd, ma il suo appello a Fabrizio Micari e a Claudio Fava per l’apertura di un dialogo e la costruzione di una piattaforma programmatica comune è solo un tentativo estremo e tardivo. Il suo richiamo all’unità in Sicilia appare come il canto del cigno, anche perché il suo emissario Bruno Tabacci, che negli ultimi tempi ha legato con l’ex ministro Totò Cardinale, a capo della costola renziana di «Sicilia futura», ha già chiuso l’accordo su Micari.
IL LEADER DI CAMPO progressista prova a recuperare il terreno dopo settimane di silenzi, incontrando Roberto Speranza, con il quale ha deciso di mantenere aperto il dialogo. Pisapia ha riunito a Roma i dirigenti critici con Mdp perché «in Sicilia ha fatto delle scelte che non condividiamo». Alla riunione c’è chi ha chiesto una rottura con i bersaniani mentre altri hanno spinto perché Pisapia si faccia promotore di una mediazione avanzata.
Al Pd, Campo progressista chiede di rompere «alleanze ambigue e innaturali rispetto al mondo progressista», cioè quella con Ap di Angelino Alfano, e a Mdp di rinunciare «all’ennesima riproposizione di uno schema di testimonianza, seppure nobile, già fallito in passato».
UN APPELLO VELLEITARIO per quello che riguarda l’alleanza tra dem e Alfano: se saltasse le ripercussioni sul governo sarebbero immediate, a partire dalla legge di bilancio; mentre Mdp già teorizza con Pierluigi Bersani e Vincenzo Visco un periodo all’opposizione. Speranza ha ribadito a Pisapia che la presenza di Ap nella coalizione che sostiene Micari è dirimente per Mdp, e ha ricordato al suo interlocutore che fu lui per primo ad escludere una alleanza con gli alfaniani. Alla fine in una nota congiunta si ammettono «valutazioni diverse», ma che queste «non incidono sulla prosecuzione del percorso unitario nazionale per la costruzione di un nuovo centrosinistra in discontinuità con le attuali politiche del Pd».
Parole che per Mdp implicano la rottura con il partito di Renzi, e per Pisapia una ridefinizione del profilo del centrosinistra e delle sue politiche, ma con il Pd. A Micari pronto a raccogliere la ‘sfida’ di Pisapia con la richiesta a Fava di un confronto, il vice presidente dell’Antimafia, che domani sarà a Messina con D’Alema, replica secco: «Se il partito di Alfano esce dalla coalizione, io non ho difficoltà a confrontarmi con lui in primarie». Insomma, margini impossibili.
A meno che Ap non imploda. Uno scenario verosimile. Dentro il partito la fronda anti-Micari sta crescendo, molti dirigenti, se Alfano dovesse ufficializzare il sostegno al rettore, sono pronti a saltare sul carro di Nello Mucumeci, il candidato del centrodestra. In uscita ci sono Piero Alongi, deputato regionale vicino a Renato Schifani, e Ciccio Cascio, uno dei due coordinatori del partito in Sicilia, che alle comunali di Palermo aveva appoggiato Fabrizio Ferrandelli (ora ritransitato nel centrosinistra con i ‘coraggiosi’ dopo un colloquio con Renzi), sostenuto dal centrodestra. Difficile però che Alfano molli il patto con Renzi. Il segretario intanto gongola. Incassata la rinuncia di Rosario Crocetta a ricandidarsi, prepara il suo tour in Sicilia. Due giorni, venerdì e sabato, per promuovere il suo libro ma soprattutto per aprire la campagna elettorale, con al suo fianco Micari.
A ringalluzzire i dem è stato Crocetta, ora trattato da eroe. Al governatore la direzione regionale ha riservato una standing ovation quando ha fatto il suo ingresso all’assise politica che ha deliberato l’ok a Micari. Poco prima Crocetta aveva incontrato i suoi. Con Renzi, il governatore non ha concordato né posti di potere né candidature blindate, ma il riconoscimento politico del suo movimento, il ‘Megafono’ e la promessa di un ruolo importante all’interno dei dem. Il ‘Megafono presenterà liste a sostegno di Micari e il governatore sarà il capolista nei collegi di Palermo, Catania e Messina, anche se in caso di elezione annuncia che rinuncerà a fare il deputato regionale.
Via libera dal Nazareno anche a liste del Megafono per le politiche. «Per me è un giorno di liberazione, ho vissuto cinque anni di violenze», si sfoga Crocetta. «Dal giorno in cui sono stato eletto, tutti sono diventati candidati, per cinque anni ho avuto a che fare non con alleati ma con dei candidati».
Tanti i momenti di scoramento. «Quattro anni fa al primo rimpasto pensai di dimettermi e di ricandidarmi da solo. Un pensiero che ho fatto altre due volte, ma non conosco l’odio e rimango leale al mio partito. Ora Micari ce la può fare, anche se i sondaggi che ho mi davano al 22-24% se correvo da solo».
E A LEOLUCA ORLANDO, che in questi anni non ha fatto altro che attaccarlo, non risparmia bordate: «I gruppi dirigenti di Palermo dei partiti sono sempre gli stessi e come mai non sono mai candidabili alla presidenza della Regione? Il sindaco a Palermo lo fa Orlando ab aeterno. Quando esce fuori dalla città però ha difficoltà, come quando si candidò con la sua lista e non raggiunse il 5%. Pensa di vincere nella sua città come sindaco e pensa di vincere le regionali, è una bella ossessione».

il manifesto 6.9.17
I morti viventi del «bipolarismo forzoso»
di Massimo Villone

A volte i morti ritornano. Ad ascoltare i rumors, sono i fan del bipolarismo forzoso di coalizione a multipartitismo estremo. Corre infatti voce di un accordo sotto traccia su alcuni punti. Premio di maggioranza alla coalizione, graduale.
Ad esempio, soglia intorno al 35% con il 51% di seggi, e crescita di 1% di seggi per ciascun 1% di voti fino al 40%. Si giungerebbe così al 55/56% di seggi, pare su base nazionale alla Camera, e regionale al Senato. Soglia di sbarramento al 2/3% per le forze coalizzate, al 3/4% per le altre. Capilista bloccati, preferenza per gli altri, con alternanza uomo-donna, in collegi piccoli.
Se i sussurri si mostrassero fondati, sorgerebbero tre domande.
La prima. Cui prodest? Anzitutto, si rafforzano molto l’appeal di un assemblaggio di coalizione, e l’argomento del voto utile.
È una soluzione gradita a larga parte del Pd e al neo-convertito Renzi. Massimizza la pressione su Pisapia e quella sinistra più disponibile verso il Pd, mantiene la porta aperta ad Alfano. Nel centrodestra, piace all’ultimo Berlusconi, meno a Salvini, che non a caso riparla – inutilmente – di Mattarellum. Anche la Meloni non può gradire il ruolo di ruotina di scorta. Ma alla fine dovrebbero allinearsi.
La seconda. A chi il danno? In generale, alle forze politiche di basso o nullo potenziale di coalizione. Così, in primo luogo, M5S. Sentiamo da autorevoli esponenti del Movimento che si voterà con quel che c’è dopo le sentenze della Corte costituzionale. Capiamo bene che il Consultellum conviene al Movimento assai più della ipotesi in campo, che non nasce per caso. Poi, dire che si vincerà con qualunque legge elettorale accarezza l’orgoglio dei militanti. Ma la realtà è che M5S potrebbe conquistare la palma di primo partito, risultando però terzo in una corsa elettorale solitaria contro due coalizioni, compresso nella rappresentanza dal premio ai vincenti.
Riceverebbero poi un colpo grave, forse mortale, la sinistra più a sinistra e le forze civiche che volessero rimanere autonome. Escluse da una coalizione con il Pd, e da questo – oltre che dal voto utile – ridotte ai minimi termini, potrebbero non superare lo sbarramento, pur basso. Dai collegi piccoli verrebbe un ostacolo ulteriore, con soglie di fatto più alte di quelle formalmente stabilite. Del resto, la conquista di un minimo obolo di parlamentari sarebbe politicamente irrilevante di fronte a maggioranze garantite dal premio.
Quindi, il ritorno al bipolarismo forzoso. Inoltre, non si avvia nel sistema politico italiano il consolidamento nel lungo periodo di forze organizzate stabilmente strutturate. Questo è un danno al paese. Proprio i meccanismi maggioritari sono stati almeno determinante concausa della frammentazione, del dissolvimento e della feudalizzazione dei partiti un tempo organizzati, e in ultima analisi della degenerazione delle assemblee elettive in forme che ricordano l’antico notabilato. Le ipotesi qui richiamate confermano i tratti degenerativi che sono stati e sono causa di instabilità e di debolezza politico-istituzionale del paese.
Infine, la terza domanda. E la Costituzione, le sentenze della Corte, il referendum? Qui siamo alla presa in giro. Non sfuggono le similarità con il Porcellum e l’Italicum, entrambi in vario modo incostituzionali. Sul premio di maggioranza reintrodotto, avremmo in partenza una soglia più bassa (35%) di quella (40%) censurata con la sentenza 1/2014. Anzi, con il crescere del premio, si potrebbe – giungendo al 40% dei voti – persino superare il tetto dei 340 seggi allora previsti. E l’eccesso di disproporzionalità tra voti e seggi lo dimentichiamo? Quanto ai capilista bloccati, le analisi ci dicono che i parlamentari a voto bloccato potrebbero giungere fino al 70% del totale. E il voto libero e uguale? Il diritto degli elettori di scegliere i propri rappresentanti?
La proposta in campo ci dimostra quanto fossero fragili gli argini eretti dalla Corte costituzionale (1/2014 e 35/2017). Molte parole e poca sostanza.
Troppo labile la definizione dei principi e dei diritti costituzionalmente protetti, troppo ampia la discrezionalità lasciata al legislatore. Il senso profondo del voto referendario è cancellato. Perciò bisogna riprendere la battaglia politica, qui e ora, nel paese e nel dibattito che si avvia in Parlamento, per un sistema di impianto proporzionale e parlamentari scelti dagli elettori. Ai morti che ritornano non daranno certo risposta quelli che saranno sepolti e rimarranno nelle tombe.

Il Fatto 6.9.17
Tutti alla festa dell’Unità tranne Bersani e D’Alema
A Imola invitati persino i 5Stelle (che non andranno): il 20 c’è Pisapia con Martina
di Wanda Marra

“Abbiamo invitato tutti quelli con cui ci interessa avere un confronto”. Maurizio Martina, vicesegretario del Pd, illustra il programma della Festa nazionale dell’Unità di Imola. L’investimento organizzativo è notevole (dura, come sempre, due settimane, dal 9 al 24 settembre), ma l’atmosfera della presentazione della kermesse, dedicata a un giornale chiuso, è piuttosto “scarica”.
Accanto a Martina, ci sono Andrea Rossi, responsabile Organizzazione, la deputata Giuditta Pini e Matteo Richetti, portavoce del Pd, che prova a spostare l’attenzione sui “contenuti”. In realtà, quello che dà la cifra politica della festa sono i partecipanti: inviti accettati, declinati e, soprattutto, non fatti. Di Mdp c’è solo Filippo Bubbico (tanto rappresentativo degli “scissionisti” da essere rimasto sottosegretario agli Interni).
A sinistra ci sono Nicola Fratoianni e soprattutto Giuliano Pisapia (mercoledì 20 con Martina). È proprio lui, il leader di Campo Progressista, quello su cui Renzi punta dall’inizio per rompere il fronte della gauche. A Imola, infatti, non ci sarà D’Alema, non ci sarà Speranza e nemmeno Bersani: nonostante la festa si svolga a “casa” dell’ex segretario Pd. Alla domanda “li avete invitati?” Martina risponde farfugliando: “Abbiamo invitato Bubbico di Mdp”. “Solo Bubbico?” “Sì”. Sono stati invitati pure Forza Italia e i Cinque Stelle (“i capigruppo e Danilo Toninelli”, ma hanno rifiutato), ma hanno declinato. Presente Giancarlo Giorgetti della Lega. E presenti tutti quelli con cui il Pd intende cercare dialogo e alleanze (anche elettorali): Angelino Alfano, Laura Boldrini, la presidente della Camera da qualche tempo difesa sui social da tutti i renziani doc, e Federico Pizzarotti, sindaco di Parma. Ci sarà anche Pietro Grasso, presidente del Senato. Prove di listone. Non mancano ovviamente i ministri: da Marco Minniti a Roberta Pinotti, da Luca Lotti a Maria Elena Boschi e Graziano Delrio. E soprattutto non manca Paolo Gentiloni, a Imola il 16 settembre. Più di un dibattito per Antonio Decaro, presidente dell’Anci. E poi, tra i “padri nobili”, ci saranno Piero Fassino e Walter Veltroni (che ha una stanza al Nazareno e pare voglia usarla spesso). Assenti, invece, Romano Prodi e Enrico Letta. Dibattiti per i leader della minoranza, da Andrea Orlando a Gianni Cuperlo, passando per Michele Emiliano. Tre filoni: #madeinitaly, #Italia2020, #Europa2020. La speranza, è che “dopo i mille giorni ce ne saranno altri mille”, spiega Richetti, nel tentativo di andare oltre il governo Renzi che fu.
C’è pure qualche presenza curiosa: dopo l’apertura, affidata a Martina, il primo giorno a parlare di Europa (con Giuliano Da Empoli) ci sarà Giulio Napolitano. Il figlio di Giorgio, che con Renzi continua ad avere buoni rapporti, tanto da essere andato alla presentazione del suo libro a Capalbio. Un dibattito pure per Benedetta Rizzo, l’ultima comunicatrice entrata in segreteria, con il compito (non ufficiale, ovviamente) di tessere le relazioni con i mondi che contano. Presentano i loro libri il vaccinologo Roberto Burioni e Simona Ercolani, già a capo della comunicazione del Sì al referendum. Un dibattito con Lotti lo fa il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Si affacciano personaggi come Costantino Della Gherardesca, conduttore di Pechino tv e autore di un libro dal titolo Punto. Aprire la mente e chiudere con le stronzate.
Logo e video (dell’agenzia di comunicazione Proforma) sono il tentativo di rivitalizzare l’immagine di un partito del quale ormai rimane ben poco. Il logo è una emoticon, a forma di U, da cui partono raggi coloratissimi. Popolare e giovane, il simbolo del Pd rigorosamente sullo sfondo.
Il video, girato tra i volontari delle feste, fotografa persone effettivamente motivate: da una passione civile generica, più che dal Pd. Appunto. “Questo video è un’affermazione politica”, dice Richetti. Peccato che la macchina organizzativa dem riesca a farne partire l’audio solo a conferenza stampa finita.

Corriere 6.9.17
Ius soli senza numeri, il Pd verso la rinuncia
Minniti e Lotti: va approvato. Renzi: «Fiducia? Decide Gentiloni». Ma prevalgono realismo e sondaggi
di Maria Teresa Meli

ROMA Non sembrano esserci i numeri in Parlamento né il clima nel Paese per portare avanti a oltranza la legge sullo ius soli. Nel Partito democratico e nel governo in queste ore si sta giungendo a questa conclusione.
Certo, si tratta di una legge del Pd, fortemente voluta da Matteo Renzi, ma al Nazareno come a Palazzo Chigi si tende ad avere un approccio realistico alla delicata questione. Dalla Liguria il segretario del Pd osserva: «Credo sia un principio giusto, ma la possibilità di farlo passare fa i conti con la realtà di oggi. Deciderà Gentiloni se mettere la fiducia. Io l’ho fatto sulle unioni civili. Comunque non darò mai noia a Paolo».
Nelle loro dichiarazioni ufficiali i ministri del Pd insistono su questo provvedimento. Dice Minniti: «Un Paese che non costruisce muri ma governa i flussi e crea integrazione deve avere il coraggio di dare nazionalità a chi è nato qui da genitori che soggiornano regolarmente e lavorano nel nostro Paese». Sottolinea Lotti: «Sono convinto che il Pd porterà a casa questo risultato. Non so dire quando ma ci riusciremo».
Ma al di là delle parole e delle buone intenzioni, sono i numeri quelli che contano. Al Senato, dove finora sono 50.074 gli emendamenti previsti allo ius soli (quasi tutti presentati dalla Lega), mancano all’appello i voti di Alleanza popolare. I Cinque stelle sono contrari, il via libera di Ala appare improbabile e ancora di più quello di Gal. E questa volta, ragionano a Palazzo Chigi, Forza Italia non farà al centrosinistra la cortesia di uscire dall’Aula. Non su questo: Berlusconi non si vorrà intestare l’approvazione della legge. E il governo, per parte sua, non parrebbe proprio intenzionato a usare lo strumento della fiducia, dal momento che uno dei partiti della maggioranza, cioè Ap, ha manifestato più di una perplessità su quel provvedimento.
Luigi Zanda sembra l’unico effettivamente convinto che si possa riuscire nell’impresa, ma gli altri dirigenti del Partito democratico appaiono alquanto scettici, benché formalmente affidino ogni decisione sull’iter dello ius soli al capogruppo al Senato, che effettivamente sta agendo in piena autonomia rispetto al premier e al segretario del partito. Del resto, ai primi di agosto, dopo che il provvedimento era stato congelato a causa delle fibrillazioni interne alla maggioranza di governo, Renzi aveva manifestato le sue preoccupazioni: «Si sono ridotte le possibilità che passi in questa legislatura».
Ma i numeri sfavorevoli allo ius soli non riguardano solo il Parlamento. Ci sono i sondaggi, che parlano in maniera inequivocabile. Già prima della pausa estiva, dalle rilevazioni emergeva un dato che non poteva passare inosservato: lo ius soli faceva perdere al Pd due punti in percentuale al mese. E la situazione da allora non è migliorata: i fatti di Rimini hanno influenzato pesantemente l’opinione degli italiani sulla legge.
C’è un altro ostacolo lungo la strada del provvedimento. Quello rappresentato dall’atteggiamento degli amministratori. Ci sono infatti sindaci (non sono pochi e alcuni sono del Pd) che hanno già espresso le loro perplessità e contrarietà sullo ius soli.

Repubblica 6.9.17
La marcia su Roma di Forza Nuova “patrioti” convocati il 28 ottobre
L’iniziativa nell’anniversario della manifestazione fascista. “Per dire no allo ius soli e fermare le violenze e gli stupri degli immigrati”. Tante le adesioni su Facebook
di Paolo Berizzi

MILANO. La data è tutto un programma: 28 ottobre. Lo stesso giorno del 1922, 25mila camicie nere del Partito nazionale fascista (PNF) entrarono nella capitale e la manifestazione armata permise a Benito Mussolini di prendere il potere con la forza: iniziò così il ventennio fascista in Italia. Novantacinque anni dopo, un partito neofascista, anzi, “nazifascista”, come ha già sentenziato due volte la Cassazione, Forza Nuova, riproporrà la fatidica e tristemente nota “marcia su Roma”. Sempre il 28 ottobre. Cambia solo il nome. Si chiamerà “marcia dei patrioti”. L’evento è stato lanciato sulla pagina Facebook della formazione di estrema destra: “28 ottobre in marcia”, è il titolo del post pubblicato il 3 settembre. “Bandiere, striscioni, auto, pullman, benzina… Compatriota, la macchina organizzativa è in moto ed ha bisogno del tuo sostegno concreto”, recita la chiamata. “Il 28 ottobre Roma ospiterà la grande marcia forzanovista contro un governo illegittimo, per dire definitivamente no allo ius soli e per fermare violenze e stupri da parte degli immigrati che hanno preso d’assalto la nostra Patria”. Segue richiesta di sostegno. “Contribuisci alla marcia con una donazione all’indirizzo PayPal inmarcia@forzanuova.info”.
L’annuncio dell’iniziativa ha prodotto su fb una lunga striscia di adesioni e commenti entusiastici da parte di camerati da tutta Italia: centinaia di “presente!”, “ci siamo”, “Milano ci sarà”, “Rieti presente”, “Catania presente”. E ancora nostalgismi tipo “marciare per non morire”, “sempre fino alla morte”, “siamo fiaccole di vita siamo l’eterna gioventù che conquista l’avvenir…”. Negli ambienti del partito di Roberto Fiore, al momento, c’è riserbo sulle modalità e i dettagli della “marcia dei patrioti”: il fatto che sia stata comunicata sui social fa supporre che i dirigenti forzanovisti abbiano chiesto ed evidentemente ottenuto un’autorizzazione, almeno di massima, da parte di questura e prefettura. Nei prossimi giorni si saprà qualcosa di più preciso. Sarà interessante capire, per esempio, se davvero – vista la dichiarata e provocatoria scelta “rievocativa” del 28 ottobre, per ricalcare la marcia del PNF – andrà in scena appunto un corteo o una manifestazione statica. Prima ancora che ragioni di opportunità, ci sono di mezzo – è evidente – le leggi Scelba e Mancino. Ma tant’è: dopo gli attacchi contro lo ius soli (scontri con la polizia sotto il Senato il 15 giugno scorso: 64 denunciati), Forza Nuova continua a alzare il tiro. Gli ultimi casi – denunciati da “Repubblica” – sono di questi giorni: il manifesto sui migranti stupratori ispirato alla Rsi, e le ronde con pugili e ultras.

Repubblica 6.9.17
L’intervista. Il Presidente Anpi
Carlo Smuraglia: “Basta, superato il limite È una data tragica il Viminale li fermi
”È in atto da tempo una deriva preoccupante da parte dei neofascisti, ma ora osano l’inosabile

ROMA. Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), Forza Nuova ha annunciato una nuova marcia su Roma.
«È una cosa incredibile. Sono sconcertato. Stanno osando l’inosabile».
Si chiamerà “marcia dei patrioti”.
È in programma il 28 ottobre...
«Una data drammatica che dovremmo ricordare con orrore. Il fatto che in una ricorrenza tragica - proprio per la marcia che diede inizio al regime - un partito neofascista organizzi una manifestazione simile, è gravissimo e inaccettabile».
Che cosa farete?
«Cercheremo di impedire in ogni modo che avvenga. Faccio appello da subito a tutte le istituzioni democratiche del Paese, al Viminale, alle forze dell’ordine, alla questura e alla prefettura di Roma. Si sta superando davvero ogni limite».
Può spiegare?
«È in atto da tempo una deriva preoccupante: partiti e formazioni neofasciste che si organizzano, che fanno propaganda e iniziative sul territorio, che escono allo scoperto e si sentono legittimate a riproporre contenuti, simboli, richiami al ventennio fascista. Non sono affatto gruppi isolati ma, anzi, sempre più radicati e in grado di attrarre e fare proselitismo».
Che fare per fermare questa deriva?
«È il momento, ora più che mai, di reagire ed essere uniti. Occorre che la politica, le istituzioni, la magistratura, l’informazione - ognuno nel suo facciano argine e contrastino in ogni modo la recrudescenza fascista. Che ormai è sotto gli occhi di tutti. Ci vuole una coscienza collettiva antifascista.
Della legge Fiano lei ha già detto che è un passo avanti, ma...
«Il punto è che con una legge non si risolvono i problemi. Ripeto: dobbiamo sviluppare una coscienza comune, dalla quale si sviluppano gli anticorpi necessari per contrastare fenomeni odiosi come quelli a cui stiamo assistendo ».
I recenti fatti di cronaca testimoniano che c’è un’escalation: le formazioni neofasciste vanno all’attacco degli immigrati e di chiunque predichi e applichi l’accoglienza. La difesa della patria contro gli “invasori”.
«Il fascismo è il contrario e la negazione di quanto è scritto nella Costituzione. Perché è violenza e razzismo. Ricordo che la nostra è una Repubblica democratica e antifascista».
Già. Nata dalla Liberazione. Eppure 95 anni dopo c’è chi rilancia la marcia su Roma.
«Voglio sperare che questa vergognosa provocazione venga impedita».
( p. b.)

Il Fatto 6.9.17
Tagliare i vitalizi è costituzionale
di Nicola Ferri

Dovrebbe iniziare la prossima settimana in commissione Affari costituzionali del Senato (il condizionale è d’obbligo) l’esame del disegno di legge S. 2888, approvato dalla Camera il 26 luglio. Il primo articolo, “Abolizione degli assegni vitalizi”, precisa che la finalità della legge è “rafforzare il coordinamento della finanza pubblica e di contrastare la disparità di criteri e di trattamenti previdenziali nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini”. Per comprendere la portata innovativa del disegno di legge sarà utile ricostruire il contesto giuridico-costituzionale in cui i vitalizi vanno inquadrati, anche alla luce delle obiezioni mosse al disegno di legge nella discussione alla Camera.
Il sistema previdenziale che si intende sostituire ai vitalizi equiparando il trattamento pensionistico degli ex parlamentari a quello che dal 2012 estende ai parlamentari in carica il sistema contributivo previsto per tutti i lavoratori italiani, compresa la rivalutazione annuale, ben può essere introdotto per legge e non necessariamente mediante i Regolamenti interni delle Camere.
Se l’indennità parlamentare è stabilita per legge come prevede la Costituzione (art. 69) non si vede perché la previdenza dei parlamentari, corollario del loro trattamento economico, non possa essere disciplinata anch’essa mediante lo strumento legislativo.
Come ha stabilito la Corte costituzionale, gli assegni vitalizi dei parlamentari, anche se presentano “in parte aspetti riconducibili al modello pensionistico e in parte profili tipici del regime delle assicurazioni private… la loro diversità di natura e di regime… li distingue dalle pensioni ordinarie spettanti ai pubblici dipendenti”. Sulla stessa linea la Corte di Cassazione per la quale l’assegno vitalizio dell’ex parlamentare non è riconducibile al trattamento pensionistico ordinario, essendo piuttosto assimilabile al regime delle assicurazioni private.
L’obiezione secondo cui i vitalizi sarebbero intangibili in quanto “diritti acquisiti” è priva di fondamento: tale espressione designa i diritti di natura patrimoniale maturati e definiti nel corso del rapporto giuridico e che non possono più essere rimessi in discussione da una nuova legge o da un nuovo contratto collettivo. Se fosse approvata la nuova legge, non per questo si potrebbe richiedere agli ex parlamentari di restituire le mensilità loro erogate nei 10 anni precedenti in forza della normativa del 1954.
Il principio della salvaguardia dei diritti acquisiti spiega la sua efficacia soprattutto nei rapporti di lavoro e della previdenza pensionistica. Per i trattamenti previdenziali (categoria in cui rientrano i vitalizi quali forme di previdenza assicurativa), come ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 349/ 1985: “Se è vero che in linea di principio deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che… modifichi l’ordinamento pubblicistico delle pensioni, non può ammettersi che tale intervento sia assolutamente discrezionale per cui non è consentita una modifica legislativa che… peggiorasse senza una inderogabile esigenza, in misura notevole e in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante… ma una siffatta irrazionale incidenza va esclusa (quando) il sacrificio è determinato, secondo una valutazione legislativa che non può ritenersi irrazionale, dalla necessità di evitare, in un momento di grave crisi economica, notevoli disparità fra le diverse categorie di pensionati, con le conseguenti tensioni sociali”. Finalità che sono esattamente quelle della nuova legge.
Ugualmente infondata è l’ulteriore obiezione secondo cui la riforma contrasterebbe con il principio di irretroattività. Il principio vale in assoluto soltanto per le leggi penali e per le leggi tributarie. Non esiste un divieto generale di leggi retroattive, purché – afferma la Corte costituzionale – esse siano adeguatamente motivate “nel rispetto del principio generale di ragionevolezza e di uguaglianza”, ispirate “al fine di realizzare una uniformità di trattamento attraverso la sistematicità dell’intervento innovatore”.
La nuova legge soppressiva dei vitalizi non retroagisce sui preesistenti rapporti ma su quelli tuttora in atto (in base ai quali gli ex parlamentari continuano a percepire le quote mensili dei vitalizi). Trattandosi di rapporti previdenziali, la disciplina sopravvenuta è applicabile ai fatti, agli status e alle situazioni di fatto esistenti alla data della sua entrata in vigore, ovviamente fatti salvi i rapporti giuridici pregressi, i cui effetti non possono più essere disconosciuti.

Il Fatto 6.9.17
L’ultima occasione per la Rai di tenersi Milena Gabanelli
Oggi si decide. L’ex conduttrice di Report - che doveva gestire la testata digitale - respingerà la finta offerta del dg Mario Orfeo
di Gianluca Roselli

Non sono pochi i dossier aperti sul tavolo del direttore generale della Rai Mario Orfeo alla ripresa della stagione televisiva. A partire da Bruno Vespa, il cui contratto non è stato ancora rinnovato e non si sa se Porta a Porta potrà andare in onda la prossima settimana.
Poi c’è il caso di Milena Gabanelli, col rischio concreto che la giornalista, stufa di essere tenuta in stand by, giri i tacchi e se ne vada. Infine, l’eterna questione Fazio.
Ma partiamo da Gabanelli. Nel pomeriggio di oggi il direttore generale e l’ex conduttrice di Report si vedranno per chiarire una volta per tutte la questione del sito web. Breve riassunto delle puntate precedenti: lo scorso febbraio l’ex dg, Antonio Campo Dall’Orto, chiama Gabanelli per affidarle la direzione del nuovo sito web della Rai, che si chiamerà Rai24.it.
La giornalista si mette al lavoro, forma una redazione che al completo prevede 88 redattori, crea anche una sezione specifica sul Data Journalism e, dopo circa tre mesi, è pronta a partire. Il via libera, però, non arriva. Nel frattempo Campo Dall’Orto, sempre più debole, è costretto ad andarsene e arriva Orfeo, mentre presidente resta Monica Maggioni. E secondo i boatos di Viale Mazzini sarebbe proprio lei a boicottare il progetto. Due i principali problemi: la creazione di una nuova testata (per ora Gabanelli è assunta come vicedirettore di Rainews) e il fatto che il nuovo portale web debba essere inquadrato all’interno del piano complessivo dell’informazione.
Piano che, dopo la bocciatura di quello di Carlo Verdelli, è di là da venire: Orfeo ha ventilato dicembre come data di presentazione, ma non vi è alcuna certezza. Così Gabanelli e alcuni membri del Cda hanno chiesto che il sito web potesse essere stralciato dal piano in modo da viaggiare su una corsia preferenziale e partire subito.
Ma così non sarà. “Ho chiesto a Milena di sviluppare e rilanciare subito il portale di Rainews.it, potenziato da nuove risorse e dalla struttura dedicata al Data Journalism”, ha detto Orfeo in un’intervista di fine agosto a Repubblica. Parole che hanno il sapore di un’offerta di serie B rispetto al progetto originario, che prevedeva la nascita di una testata nuova di zecca sotto la sua direzione. Se l’offerta di Orfeo rimarrà questa, è altamente probabile che la giornalista, stufa di stare in panchina, dica di no. “Gabanelli deve partire subito, non può più restare in stand by, lo farò di nuovo presente in Cda”, afferma Carlo Freccero. Questa mattina, infatti, al settimo piano di Viale Mazzini è previsto un consiglio di amministrazione per chiudere tutti i tasselli del contratto con Fabio Fazio, in particolare quello con Officina, la società del conduttore e di Magnolia che produrrà Che tempo che fa. E proprio riguardo al programma di Fazio ieri si è venuto a sapere che a fine agosto, con una lettera inviata alla presidente Maggioni, l’Anac di Raffaele Cantone ha chiesto alla Rai tutta la documentazione relativa al contratto. L’Autorità ha reso noto di aver aperto un’istruttoria esigendo una serie di chiarimenti su tutte le voci del contratto e le variazioni rispetto allo scorso anno. “La Rai deve esibire questa lettera. E mi chiedo: è opportuno aver già fissato la partenza del programma quando su Fazio stanno indagando Corte dei Conti e Anac?”, si chiede il deputato dem Michele Anzaldi.
Infine, il caso Vespa. Sempre nell’intervista agostana Orfeo aveva fatto trasparire l’intenzione di tenere in Rai il giornalista (“vogliamo festeggiare insieme i suoi 50 anni di carriera in azienda”) a fronte di un piccolo sacrificio da parte sua (“Bruno sa perfettamente che sono cambiati i tempi e ognuno di noi ha fatto delle rinunce”). Dopo una settimana (il contratto è scaduto il 31 agosto), però, ancora nulla di fatto. Se da una parte a Viale Mazzini si dà quasi per scontato il rinnovo, dall’altra pare che non vi siano ancora state concrete aperture da parte del conduttore di Porta a Porta sulla possibilità di ridurre il suo compenso. Che, per la cronaca, si aggira intorno al milione e 800 mila euro l’anno. “Se Vespa fa intrattenimento, motivo per cui il suo onorario sfonda il tetto dei 240 mila euro, allora non dovrà occuparsi di politica durante la prossima campagna elettorale”, attacca Carlo Freccero. La questione, però, va chiusa in fretta, perché il ritorno in onda di Porta a Porta è previsto per martedì prossimo, 12 settembre, su Rai1.

il manifesto 6.9.17
«Abolire il numero chiuso, medici a rischio estinzione»
Università. Test di accesso a medicina, protestano gli studenti: «Più fondi a Welfare e Sanità». Sit-in degli specializzandi a Montecitorio: «Vogliamo il bando e borse di studio»
di Roberto Ciccarelli

Diventare medici in Italia è una corsa ad ostacoli. Per iscriversi alla facoltà di medicina, l’aspirante studente deve superare le forche caudine del numero chiuso, di anno in anno inasprito. Una volta laureato, l’aspirante medico deve superare il concorso per la scuola di specializzazione, mentre si continuano a tagliare posti. Infine, una volta conseguito il titolo con tutti i crismi, deve sperare che i tagli abbiano risparmiato gli ospedali e che il blocco del turn-over sia stato sospeso nella propria regione, commissariamento permettendo.
QUESTA CATENA di cause ed effetti si ripresenta ogni anno quando si celebra il rito di massa dei test di ingresso a Medicina. Ieri sono stati 66.907 a partecipare alle prove di logica, biologia e chimica, fisica e matematica in tutto il paese. In palio c’erano 9.100 posti, più 908 posti per odontoiatria. Gli studenti della Rete della Conoscenza e di Link hanno protestato da Sud a Nord contro il numero chiuso e la progressiva diminuzione dei posti al corso di laurea (quest’anno da 9.224 a 9100). In sit-in e flash mob negli atenei hanno chiesto anche di ripensare il concorso della specializzazione attraverso l’aumento delle borse di studio e una programmazione di lungo periodo del Sistema Sanitario nazionale che nei prossimi dieci anni perderà migliaia di medici. Ci sono previsioni che parlano addirittura di 20 mila professionisti.
«LA PROGRESSIVA RIDUZIONE del nnumero di posti è inaccettabile – sostiene Andrea Torti, coordinatore Link – Va a ledere ancora il diritto allo studio, già colpito da un test iniquo». Un racconto drammatico della situazione viene dal Sud. «Gli ospedali meridionali quest’anno hanno chiuso bandi senza candidati – sostiene Asia Iurlo (Link medicina Bari) – già ora non ci sono abbastanza medici per garantire i livelli essenziali di assistenza». Dopo la sentenza del Tar che ha bocciato il numero chiuso nella facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Milano, Elisa Marchetti (Udu) chiede l’abrogazione della legge 264/99 tanto a livello locale quanto a livello nazionale. In un paese dove il tasso di passaggio all’università è troppo basso e il numero dei laureati è insufficiente, anche gli studenti del Fronte della gioventù comunista hanno chiesto a Bologna il ritiro del numero chiuso definito «una misura classista».
NELLO SPEAKERS CORNER di piazza Montecitorio a Roma un gruppo di medici neo-laureati ha manifestato in camice bianco ribadendo alle ministre Fedeli (all’Istruzione) e Lorenzin (alla Salute) la richiesta di sbloccare le procedure del bando di concorso per le scuole di specializzazione e di ripensare il sistema di accreditamento. Quello voluto dal Miur ha infatti ridotto i posti da 1500 a 1350 posti. I giovani medici sostengono di essere in attesa del bando da oltre «un anno e mezzo». «Ciò ha creato un empasse con il ministero della Salute il cui prezzo lo stiamo pagando noi e altre migliaia di giovani medici. È una situazione anomala, mai verificatasi in precedenza, assolutamente vergognosa» ha affermato Emanuele, portavoce del Segretariato italiano giovani medici (Sigm). Il Miur ha precisato che le regole del concorso – ma non la sua data – saranno pubblicate oggi in Gazzetta Ufficiale: «Un atto necessario per poter procedere con il bando. Qualsiasi altra comunicazione su date di uscita del bando o di svolgimento del concorso, non è da ritenersi ufficiale». Il ministero assicura che il concorso «si svolgerà nel 2017, la presa di servizio avverrà entro l’anno».
«SONO GRAVI I RITARDI e le inadempienze del governo sui medici specializzandi – ha detto Annalisa Pannarale (Sinistra Italiana-Possibile). «Le borse previste sono insufficienti rispetto al numero degli aspiranti medici e rispetto al fabbisogno del nostro sistema sanitario nazionale» ha aggiunto Claudia Pratelli, responsabile scuola di SI. Un’altra interrogazione è stata presentata da Rocco Palese (Forza Italia).

il manifesto 6.9.17
La doppia morte di Giulio Regeni
di Luigi Manconi

Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni – in questo caso particolarmente rare – il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti.
E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole.
Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di «doppia morte».
È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni. Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato – a sua insaputa, per carità – una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per «ragioni geo-strategiche» e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente «il povero ragazzo». Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire «ragazzo» un giovane uomo di 28 anni? E perché «studente», dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e – ahi lui – grosso modo di sinistra. E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini.
La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione.
Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. «La più affettuosa comprensione» e la «la più doverosa solidarietà», ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco. La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni.
I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche – ecco il punto – perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio.
Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda – non solo da essa, ovviamente – possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale.

Il Fatto 6.9.17
Caso Regeni, l’invenzione della memoria fatta per dimenticare tutto
di Alessandro Robecchi

Trattasi di materia intricata e nobilissima, spesso sommersa dalla retorica, una necessità umana e civile che a volte diventa trucchetto per distrarre tutti. Insomma: la memoria.
Ricordare quello che è stato, cosa è successo, perché. Mantenere vivo il ricordo delle ingiustizie passate in forma di monito per il presente. Il grido “Per non dimenticare” è uno dei più alti e dolorosi nel Paese, riguarda stragi, delitti, presunte fatalità, fa parte del sapere popolare, sono ferite aperte che potrebbero guarire se si arrivasse alla verità, cosa che accade raramente, quasi mai.
Per questo risultano strabilianti le comunicazioni del governo, nella persona del ministro degli Esteri Angelino Alfano, sul caso Regeni. Perché introducono nel discorso operativo sulla questione un bizzarro tipo di memoria: una memoria che archivia, che nasconde.
Il paradosso di una memoria costruita per dimenticare. Perché il nostro ambasciatore torna in Egitto, il loro torna qua, l’Egitto è un posto dove abbiamo molti affari, non possiamo permetterci di rompere, eccetera eccetera. In cambio – occhio che arriva la memoria – il governo si impegna a fare un sacco di cose per non dimenticare Giulio Regeni. Gli intitoleranno un auditorium. Il governo si è “attivato con il Coni” (urca!) perché ai Giochi del Mediterraneo, in Spagna, l’anno prossimo, si osservi un minuto di silenzio. E poi, se e quando si farà, potrebbero intitolargli l’Università italo-egiziana, la cui realizzazione Angelino “auspica”. Perbacco. Ecco fatto: garantita la memoria, ufficializzato in qualche modo il senso di ingiustizia che tutti provano, e quindi normalizzata l’indignazione, la missione può dirsi conclusa, il caso Regeni quasi chiuso.
Ma sì, ancora si parla (vagamente) di indagini, si allarga il campo tirando in ballo l’Università di Cambridge, addirittura (questo è Cicchitto) si insinua che l’inchiesta del New York Times – l’Italia conosce prove schiaccianti – sia stata ispirata dai Servizi americani in chiave anti-Eni.
In una parola: polverone.
È uno di quei casi in cui la memoria ostentata e cannibalizzata dal potere (da chi dovrebbe risolvere il caso, non semplicemente ricordarselo!) si rivela spaventevole ipocrisia. È una memoria come concessione, la risposta di Angelino a chi si ostina a dire che non dimentica è la seguente: ok, non dimentichiamo nemmeno noi, ma andiamo avanti, che l’Egitto è partner irrinunciabile in affari.
Non è l’unico caso in cui la memoria fa brutti scherzi. Nel Paese della Resistenza e delle sue infinite (e sacrosante!) celebrazioni, per dirne una, si assiste all’avanzata burbanzosa e impunita di alcune milizie fasciste che innalzano labari, stampano fasci littori sui manifesti, scimmiottano lo Schifoso Ventennio, accolte da scuotimenti di teste, piccoli lazzi e molta tolleranza, nonostante esistano leggi in materia (le meno applicate della Galassia).
La memoria, tra l’altro, è variabile, anche in modo veloce e repentino. Sono passati solo un paio di anni da quando si celebrava Lampedusa come terra della salvezza per molti migranti, quando la si candidava al Nobel e ci si commuoveva per le sue storie di accoglienza, quando la si indicava ad esempio. Ora che si è spostato il problema qualche centinaio di chilometri più a sud, nel deserto anziché in mare, quella memoria funziona meno, si tende a scordarla, la si rimuove un po’. Quell’esempio non serve più, non si incastra più con la narrazione corrente, che ora è “aiutiamoli a casa loro”, e quindi il luminoso esempio di Lampedusa che li salva a casa nostra non piace più. Una memoria vera, consapevole, vorrei quasi dire militante, dovrà tener conto anche di questi andirivieni della memoria, valore altissimo in balìa dei venti mutevoli delle furbizie, delle tattiche, delle convenienze del momento.

Corriere 6.9.17
Egitto, il governo oscura il sito web degli avvocati dei Regeni
Censurata la Ong che assiste la famiglia. Un parlamentare: dopo le aperture italiane, per Il Cairo caso chiuso
di Viviana Mazza

«Me lo aspettavo, dopo le dichiarazioni del vostro ministro degli Esteri, l’altro ieri, al Parlamento italiano», dice Ahmad Abdallah al Corriere . Abdallah è il presidente del consiglio d’amministrazione della «Commissione egiziana per i diritti e le libertà», organizzazione non governativa che offre consulenza ai legali della famiglia di Giulio Regeni. Alle 7 del mattino di ieri la sua Ong si è vista bloccare il sito Internet dalle autorità egiziane: «un nuovo attacco» contro la libertà di espressione, la prova «non solo che il governo rifiuta ogni critica ma anche che le sue argomentazioni sono deboli», si legge in un comunicato inviato ai media locali e stranieri.
Lo stesso Abdallah è stato arrestato il 25 aprile 2016 ed è rimasto in carcere per 4 mesi e mezzo con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione di proteste che miravano a rovesciare il regime. Dallo scorso maggio, il governo di Al Sisi ha censurato centinaia di siti, considerati spazi di dissenso, inclusi portali di informazione e pagine che offrono VPN gratuite per aggirare il blocco. Ma Abdallah non considera casuale il fatto che il sito della «Commissione egiziana per i diritti e le libertà» sia stato oscurato proprio all’indomani del discorso del ministro Angelino Alfano, che ha definito l’Egitto un «partner ineludibile» per l’Italia e difeso la decisione di rimandare l’ambasciatore al Cairo il 14 settembre. «Il governo italiano ha dato a quello egiziano il segnale che il caso Regeni è chiuso, e dunque quest’ultimo può vendicarsi contro di noi che siamo stati dall’inizio dalla parte di Giulio», sostiene il referente dei familiari del ricercatore ucciso al Cairo. La ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Italia è stata accolta come un «passo importante» dal portavoce del ministero degli Esteri egiziano Ahmed Abu Zeid. Nonostante Alfano abbia ribadito che Roma vuole «giungere alla verità vera», un parlamentare egiziano, Hassan Omar, ha detto ieri al sito Al Bawabhnews che «il ritorno dell’ambasciatore indica che entrambi i Paesi considerano chiuso il caso Regeni». «Ma non è finita, continueremo a lavorare e a credere nella giustizia», promette Abdallah. La Ong continuerà a pubblicare i propri rapporti su Facebook e altre piattaforme.

Corriere 6.9.17
Trump cancella il sogno dei migranti
di Giuseppe Sarcina

Si spezza il sogno americano di migliaia di giovani immigrati giunti illegalmente negli Usa. Il presidente Trump ha avviato lo smantellamento del programma che li proteggeva dall’espulsione e consentiva loro di lavorare con permessi temporanei. Molte le voci critiche, da Barack Obama ai giganti dell’ hi-tech .

WASHINGTON Dal sogno all’incubo. Circa 800 mila giovani rischiano di essere espulsi dagli Stati Uniti il 5 marzo 2018, quando scadrà la copertura legale del programma Daca, «Deferred action for childhood arrivals».
Ieri il ministro della Giustizia Jeff Sessions ha annunciato che il provvedimento emanato da Barack Obama nel giugno del 2012 è «abrogato». La norma protegge le persone entrate illegalmente negli Stati Uniti, quando erano bambini con meno di 16 anni. A loro viene garantita la possibilità di «vivere il sogno americano». Nel concreto significa ottenere un permesso di lavoro valido due anni (rinnovabile), a patto di soddisfare sette requisiti, tra i quali: avere avuto meno di 31 anni nel giugno del 2012; risiedere negli Usa dal giugno 2007; frequentare o aver frequentato le scuole.
La decisione è stata annunciata con un tweet da Donald Trump: «Congresso, preparati a fare il tuo lavoro-Daca». Camera dei Rappresentanti e Senato hanno sei mesi di tempo per elaborare un altro schema di tutele. Se non si troverà un accordo, i «sognatori» verranno spediti nei Paesi di origine.
Il presidente dice di aver tenuto fede a un impegno preso nella campagna elettorale. Sessions mette in bella copia le motivazioni. La prima è giuridica: «Il potere esecutivo aveva agito in modo unilaterale, creando grande incertezza sul piano legale». La seconda, di merito: «La nazione deve poter fissare il limite di quanti immigrati accettare ogni anno e questo significa che non tutti possono essere ammessi».
Lo stesso Obama replica con un lungo post su Facebook: «È una scelta sbagliata, autolesionista, crudele».
Da oggi, dunque, gli uffici amministrativi non accetteranno altre domande, ma la situazione non è affatto chiara.
Nei giorni scorsi i procuratori generali di dieci Stati hanno minacciato il ricorso alla Corte Suprema contro il Daca. Nello stesso tempo Trump ha ricevuto l’appello «a favore dei dreamer s», firmato dai manager di General Motors, Hewlett Packard, Wells Fargo e Marriott. Il New York Times segnala il calcolo di Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analitics: a questo punto il Prodotto interno degli Stati Uniti potrebbe diminuire di 105 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
È una vicenda in cui si mescolano interessi materiali, memoria, identità. Il fronte anti Trump tiene insieme l’ex ministro della Difesa, il democratico Leon Panetta, figlio di immigrati italiani, e Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che sceglie più o meno le stesse parole di Obama: «giornata triste e crudele per l’America».
Il presidente afroamericano si misurò nel 2012 con il problema forse più difficile. Il 5 giugno 2012, durante le elezioni, trovò l’ufficio di Denver, in Colorado, occupato da un sit-in contro la sua politica migratoria. Il 15 annunciò la nascita dello «scudo per i figli degli irregolari».
Anche ieri c’è stata una manifestazione di protesta: due-trecento attivisti si sono radunati davanti alla Casa Bianca. Ma per Trump quelle voci non contano: il presidente guarda alla sua base elettorale, rocciosa e ostile con gli stranieri. Ancora una volta, però, l’operazione è parziale. Come è successo con l’Obamacare, The Donald distrugge, ma non offre soluzioni alternative. I consiglieri dello Studio Ovale sono divisi, i repubblicani, se possibile, ancora più confusi. E l’agenda parlamentare di settembre è già disseminata di trappole: dalla discussione sul tetto del debito alla riforma fiscale.

Repubblica 6.9.17
L’ex presidente ha deciso di scrivere un post su Facebook subito dopo l’annuncio di Sessions. Ecco il testo
Una decisione crudele contraria al nostro spirito e al buon senso
di Barack Obama

QUELLO dell’immigrazione può essere un tema controverso. Tutti desideriamo dei confini sicuri e un’economia dinamica, e le persone possono legittimamente nutrire opinioni discordi su come correggere il nostro sistema di immigrazione affinché tutti si attengano alle regole. L’iniziativa presa oggi dalla Casa Bianca però non si basa su questi presupposti. Stiamo parlando di giovani che sono cresciuti in America: bambini che studiano nelle nostre scuole, giovani adulti che stanno muovendo i primi passi nel mondo del lavoro, che giurano fedeltà alla nostra bandiera. Questi dreamers sono americani nel cuore, nella mente, e in tutti i modi ad eccezione di uno: sulla carta.
Sono stati portati in questo Paese dai loro genitori, in alcuni casi quando erano ancora neonati. Magari non conoscono nessun altro Paese al di fuori del nostro. Forse non parlano un’altra lingua. Spesso nemmeno sanno di essere senza permesso sino al momento in cui presentano una domanda di lavoro, si iscrivono all’università o fanno domanda per prendere la patente. Nel corso degli anni i politici di entrambi i fronti hanno lavorato insieme per preparare delle leggi che dicessero a questi giovani — ai nostri giovani — che nel caso in cui i tuoi genitori ti abbiano portato qui da bambino e tu abbia trascorso qui un certo numero di anni, se sei disposto ad andare all’università o ad arruolarti nelle forze armate hai la possibilità di rimanere qui e guadagnarti la cittadinanza. Per anni, quando ero presidente, ho chiesto al Congresso di inviarmi una simile proposta di legge. Quella proposta non è mai arrivata. E poiché non aveva senso espellere dei giovani di talento e pieni di entusiasmo dall’unico Paese che conoscevano esclusivamente a causa dell’operato dei loro genitori, la mia amministrazione si è data da fare per fugare l’ombra della deportazione che incombeva su questi giovani, affinché essi potessero continuare a dare il loro contributo alle nostre comunità e al nostro Paese. Lo abbiamo fatto basandoci sul principio legale, ben fondato, della discrezionalità dell’accusa, a cui sia presidenti democratici che repubblicani hanno fatto ricorso, perché le agenzie che si occupano di mettere in atto le leggi sull’immigrazione dispongono di risorse limitate, ed è sensato impiegare tali risorse per coloro che giungono in questo Paese illegalmente per nuocerci. Le deportazioni dei criminali sono aumentate. Circa ottocentomila giovani si sono fatti avanti: hanno soddisfatto requisiti stringenti e il controllo della loro fedina penale. E grazie a questo l’America è diventata più forte. Oggi quell’ombra è tornata nuovamente a gravare su alcuni dei migliori e dei più brillanti dei nostri giovani.
Prendere di mira questi ragazzi è sbagliato, perché essi non hanno fatto nulla di sbagliato. Equivale ad un autogol, poiché intendono lanciare nuove attività, lavorare nei nostri laboratori, arruolarsi nel nostro esercito e contribuire in altri modi al Paese che amiamo. Ed è crudele. Cosa accadrebbe se l’insegnante di scienze di nostro figlio, o la nostra gioviale vicina di casa si rivelasse essere una dreamer? Dove dovremmo spedirla? In un Paese che non conosce o di cui non ha memoria, in cui si parla una lingua che magari nemmeno conosce?
Sia chiaro: l’iniziativa che è stata presa oggi non è imposta dalla legge. Si tratta di una decisione politica e di una questione morale. Quali che siano le preoccupazioni o le rimostranze che gli americani possono nutrire nei confronti dell’immigrazione in generale, noi non dovremmo minacciare il futuro di questo gruppo di giovani che si trovano qui non per colpa loro, che non rappresentano alcuna minaccia, che non tolgono nulla a tutti quanti noi. Sono quel lanciatore della squadra di softball di nostro figlio, quel paramedico che aiuta la sua comunità dopo un disastro, quel cadetto riservista che non chiede altro che di poter indossare una divisa del Paese che gli ha offerto un’opportunità.
È proprio perché questa iniziativa è contraria al nostro spirito e al buon senso che gli esponenti del mondo del lavoro e della religione, gli economisti e gli americani di ogni schieramento avevano fatto appello all’amministrazione affinché non facesse ciò che ha fatto. E adesso che la Casa Bianca ha trasferito al Congresso la responsabilità che ha nei confronti di questi giovani, toccherà ai membri del Congresso proteggere loro e il nostro futuro.
Infine, si tratta di elementare moralità. Si tratta di vedere se siamo un popolo che caccia dall’America i giovani che sono determinati a farsi strada. È questione di definire che popolo siamo — e che popolo vogliamo essere. A renderci americani non sono le somiglianze, o l’origine del nostro cognome, o il modo in cui preghiamo. Ciò che fa di noi degli americani è la fedeltà verso un insieme di ideali: siamo creati uguali; tutti meritiamo la possibilità di fare della nostra vita ciò che desideriamo; tutti abbiamo il dovere di farci avanti. È questo ciò che ha permesso all’America di fare così tanta strada. Ed è così che, continuando su questa strada, perfezioneremo la nostra Unione.
(Traduzione di Marzia Porta)

il manifesto 6.9.17
Incubo “Dreamers”, con Trump 800 mila americani a rischio
Il "falco" dell'amministrazione Jeff Sessions annuncia la fine del «Daca», il programma di Obama per i migranti arrivati da bambini e cresciuti negli Stati uniti. Nei giorni scorsi gran via vai di consiglieri alla Casa bianca. Alla fine ha prevalso l’ala più estremista. La reazione dell'ex presidente: «Colpire questi giovani è sbagliato e crudele, non hanno fatto niente di male»
di Marina Catucci

NEW YORK Donald Trump ha deciso alla fine di chiudere il programma di Obama sull’immigrazione, il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals), che proteggeva gli immigrati irregolari arrivati negli Stati uniti da bambini, al seguito dei i propri genitori, che erano immuni dalle espulsioni e, da adulti, avevano ottenuto il permesso di lavoro. L’idea era che questi bambini cresciuti in America, immersi in questa cultura, sono a tutti gli effetti americani, Dreamers, sognatori, li aveva chiamati Obama.
«Sono americani nel cuore, nello spirito, in ogni altro modo a eccezione di uno solo, i documenti», ha reagito l’ex presidente Usa,  definendo «crudele» la decisione. Un «autogol», ha rincarato Obama in serata: «Colpire questi giovani è sbagliato, non hanno fatto nulla di male. Vogliono avviare nuove imprese, lavorare nei nostri laboratori, servire nelle nostre forze armate…».
ORA, INVECE, TRUMP ha chiesto al Congresso di sostituire il programma Daca con una nuova legge entro il 5 marzo 2018. A comunicarlo non è stato Trump, ma il procuratore generale Jeff Sessions, con un annuncio brevissimo dopo il quale non ha accettato domande.
La Casa Bianca quindi non accetterà nuove richieste di protezione sotto il Daca, ma al momento gli attuali 800mila iscritti del programma non corrono rischi immediati di deportazione in paesi che di fatto non conoscono, e dopo aver dato volontariamente i propri dati all’amministrazione precedente, quella attuale li sta usando come elenco di deportazione che smembra famiglie e interrompe percorsi di vita.
Il provvedimento è stato definito il più crudele della presidenza Trump fino ad ora, e tuttavia la mossa del presidente che fa inorridire la sinistra e la destra moderata, è probabile che sia accolta con scetticismo da molti dei sostenitori più conservatori di Trump, che volevano non un rinvio al Congresso, ma la fine definitiva di quello che è considerato un abuso da parte di Obama.
UNA SOLUZIONE CONTROVERSA che scontenta tutti, in pratica, e spacca ulteriormente il Partito repubblicano, già diviso dalla battaglia che è stato il voto fallimentare sull’Obamacare.
Non è nemmeno chiaro, infatti, se il Congresso controllato dai repubblicani sarà disposto a votare per annullare o meno il Daca; anche nei dibattiti più aspri dell’ultimo decennio, i bambini portati illegalmente negli Stati uniti, che hanno studiato o sono diventati militari, hanno sempre attirato più empatia che critiche. In questi giorni in cui il Texas è devastato dal passaggio dell’uragano Harvey, per la posizione geografica di questo Stato di confine si sono visti molti Dreamers nei vari corpi di soccorso, mettere la propria vita a rischio per salvare quelle dei texani, o perderla, come nel caso di Alonso Guillen, nato in Messico è cresciuto in America, la cui barca si è capovolta mentre stava salvando i sopravvissuti delle inondazioni nella zona di Houston.
ORA, INVECE, chi non è già protetto dal programma è a rischio, chi ha un permesso Daca che scade tra oggi e il 5 marzo 2018, può richiedere un rinnovo ma solo di due anni; per altri, lo status giuridico termina già il 6 marzo 2018. «Non è chiaro cosa significhi ritardare questo provvedimento di sei mesi – ha detto al New York Times Mark Krikorian, a capo del Centro per gli studi sull’immigrazione -. Trump è stato tirato in molte direzioni diverse, e siccome non ha nessuna ideologia forte, o una vera conoscenza del problema, finisce per non sapere cosa fare».
LA PRIMA REAZIONE politicamente pragmatica è arrivata dal governatore democratico dello stato di New York, Andrew Cuomo, secondo il quale lo Stato della Grande mela difenderá i suoi Dreamers e porterà in tribunale la decisione di Trump. Intanto sono state organizzate manifestazioni in tutti gli Stati uniti, sin dalla mattina si sono visti picchetti di centinaia di persone davanti alla Casa Bianca, sotto le Trump tower sparse in tutta America. Una veglia era stata fatta durante la notte sotto casa di Ivanka Trump e di suo marito e consigliere del presidente, Jared Kushner, e altre più grosse manifestazioni sono attese in serata.
«ERA UN DISASTRO annunciato – dice William, avvocato newyorchese che ha preso un giorno libero per manifestare sotto la Trump tower -. Trump deve dare un segnale ai suoi, non ha mantenuto nessuna delle promesse elettorali, forse non riuscirà a costruire nemmeno un metro di muro col Messico. Questa è una mossa più facile per dimostrare fedeltà alla propria base, fa niente che sia crudele, inutile ed economicamente dannosa».
In effetti il fine settimana di Trump ha visto un via vai di consiglieri avvicendarsi e ha prevalso l’ala più estremista, capeggiata proprio da Jeff Sessions, in disperato bisogno di tornare tra le grazie del presidente dopo le frizioni legate alle indagini sul Russiagate nelle quali era troppo coinvolto.
OGNUNO ha, evidentemente, una serie di personali ragioni di credibilità che lo portano ad affrontare e ad usare come mezzo il Daca. Come se migliaia di vite non ne venissero coinvolte.

il manifesto 6.9.17
Arrestati quattro militari membri del neonazista National Action
Gran Bretagna. Cresce l'allarme per la presenza nei ranghi dell'esercito di suprematisti bianchi. Il gruppo mescola riferimenti al fascismo locale a quelli più esplicitamente nazisti, antisemiti e omofobi. Diverse le aggressioni e le minacce
L'uomo che uccise Joe Cox faceva riferimento alla National Action
di Guido Caldiron

L’intelligence britannica seguiva le loro mosse da tempo e ha deciso di bloccarli quando ha capito che potevano essere sul punto di passare all’azione.
In una operazione combinata dell’esercito, dei servizi di sicurezza interni e della polizia, quattro appartenenti alle forze armate sono stati arrestati ieri in diverse località dell’Inghilterra centrale perché sospettati di far parte del gruppo neonazista National Action, sciolto nel dicembre dello scorso anno dalle autorità di Londra in base alla legislazione antiterrorismo.
Dopo la minaccia jihadista, la Gran Bretagna torna così a scoprire il pericolo del terrorismo interno di matrice suprematista, spesso colpevolmente sottovalutato.
Originari rispettivamente di Birmingham, Powys, Ipswich e Northampton, tre compresi tra i 22 e i 24 anni, uno di 32, gli arrestati prestano tutti servizio in una unità dell’esercito e avrebbero dimestichezza sia con le armi che con gli esplosivi, anche se non è ancora chiaro se oltre al materiale di propaganda neonazista, la cui presenza è già stata confermata, nelle loro abitazioni siano stati trovati anche elementi che possano far pensare alla costruzione di ordigni.
Rifiutandosi di commentare ulteriormente l’indagine un portavoce del British Army ha dichiarato che «l’intelligence militare ha partecipato all’inchiesta».
Già prima di questi arresti, la stampa locale aveva lanciato l’allarme sulla possibile presenza di neonazisti e suprematisti bianchi tra i ranghi dell’esercito, già registratasi in passato, mentre un’inchiesta condotta la scorsa primavera dalla rete televisiva Itv aveva rivelato come malgrado la messa al bando, la National Action avesse continuato ad organizzare, in particolare nei dintorni di Londra, dei “campi” di addestramento per i propri aderenti.
Segnalatasi inizialmente nelle università a partire dal 2013, la National Action mescola riferimenti al fascismo locale, in particolare alla figura di Oswald Mosley, a quelli più esplicitamente nazisti, antisemiti e omofobi. Mentre il profilo di “avanguardia” violenta rivendicato dai suoi membri non ha tardato ad emergere, anche grazie a diverse aggressioni e minacce in cui il gruppo è stato coinvolto.
A questa formazione faceva riferimento anche Thomas Mair, l’uomo che è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso lo scorso anno la parlamentare laburista Jo Cox a pochi giorni dal voto sulla Brexit e che ha sostenuto di aver agito per difendere la supremazia della razza bianca e in odio agli stranieri.
Secondo il ricercatore Gerry Gable, già responsabile della rivista antifascista Searchlight, il gruppo godrebbe inoltre di finanziamenti provenienti dal neonazismo statunitense e starebbe cercando da tempo «dei giovani pronti anche a morire in nome dell’odio razziale».

Repubblica 6.9.17
Il conflitto in Ucraina
Sul fronte dimenticato d’Europa
di Rosalba Castelletti

YAGHOBZADEH Al confine con la Russia si spara ancora. Gli accordi internazionali non funzionano e i cessate-il-fuoco sono una farsa. Nelle città in guerra, tra miliziani checkpoint e blindati, c’è anche chi prova a vivere una vita quasi normale

MOSCA C’È un conflitto dimenticato nel cuore dell’Europa. Il più sanguinoso dalla guerra nei Balcani negli anni Novanta. Tre anni e mezzo dopo l’inizio del conflitto e un anno e mezzo dopo gli accordi di “Minsk II”, nell’Est dell’Ucraina si continua a combattere. Nelle città lungo la linea del fronte, come Mariinka e Avdiivka, la guerra è sempre presente. I cessate-il-fuoco sono una farsa. I combattimenti sono meno intensi sì, ma si bombarda quasi ogni giorno. Soldati ucraini e separatisti filorussi si accusano a vicenda delle continue violazioni. E si continua a morire.
Nei primi sette mesi dell’anno, 88 civili sono stati uccisi e 280 sono rimasti feriti, secondo le stime dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (Osce). È gente che muore «non su carri armati o veicoli corazzati», ma «nelle proprie case, nei propri letti». «Sono nelle strade e nei loro giardini e sono totalmente esposti a questi rischi. Bisogna riconoscerlo. È per loro che bisogna porre fine», ha commentato Aleksandr Hug, vice capo della missione Osce in Ucraina. «Questo non è un conflitto congelato, questa è una guerra calda, è una crisi immediata che dobbiamo affrontare il più presto possibile», gli ha fatto eco il neo-inviato statunitense per i negoziati di pace in Ucraina Kurt Volker dopo aver visitato la regione del Donbass per la prima volta lo scorso luglio.
Il conflitto in Est Ucraina affonda le radici lontano. Nel 1991 quando, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Ucraina proclamò l’indipendenza. Ne risultò un Paese profondamente diviso tra l’Est che ambiva a restare nell’orbita di Mosca e l’Ovest che cercava di avvicinarsi alla Nato e all’Unione Europea. Le tensioni montano nel novembre 2013 quando il presidente Viktor Janukovych, appoggiato dal Cremlino, rifiuta un accordo per una maggiore integrazione con l’Ue. Inizia la Rivolta di Majdan che nel febbraio 2014 rovescia il governo. La Russia risponde con l’annessione della Crimea. Poco dopo i separatisti filorussi autoproclamano l’indipendenza delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. L’Ucraina lancia un’offensiva militare per riconquistare le regioni secessioniste. È l’inizio del conflitto. In settembre Ucraina e Russia e le due repubbliche autoproclamate siglano il Protocollo di Minsk nella capitale bielorussa. Il 12 febbraio 2015, un nuovo tentativo, “Minsk II”. Ma i due accordi «sono sempre stati destinati al fallimento », ha osservato Ian Bond, direttore della Politica estera presso il Centro per le riforme europee. «Primo, la Russia continua a far finta di essere un mediatore piuttosto che una delle parti del conflitto. Secondo, le due parti contestano i termini degli accordi. Il risultato è che non li portano a compimento».
Le foto di Rafael Yaghobzadeh, vincitore del Premio Città di Perpignan, non parlano però degli interessi di Washington, del Cremlino o delle potenze europee. Raccontano una storia diversa. Quella della gente che sopporta le quotidiane sofferenze della guerra. Le sparatorie di giorno e il rimbombo dei mortai la notte, le città deserte, i checkpoint lungo le strade, le interruzioni delle forniture di acqua e corrente elettrica, i muri crivellati, i vetri infranti come le vite di decine di migliaia di persone. Oltre 10mila persone sono morte e tra 2 e 3,5 milioni hanno abbandonato le loro abitazioni. Chi resta è troppo vecchio, fragile, impoverito o testardo per andarsene. Sulla carta non c’è un confine che divida in due l’Ucraina. Nella pratica vi sono decine di posti di frontiera attraversati ogni giorno da chi vive nelle Repubbliche separatiste ma lavora o deve sbrigare pratiche burocratiche nella parte controllata da Kiev. Una “Siria nel cuore dell’Europa”, l’hanno chiamata, ma che il mondo non vuole vedere.

il manifesto 6.9.17
«Via gli africani da Israele»
Tel Aviv. Alimentata dai proclami anti-migranti del premier Netanyahu e dalle politiche della destra cresce la rabbia degli abitanti dei quartieri poveri di Tel Aviv contro eritrei e sudanesi
di Michele Giorgio

Tel Aviv Il Caffè Shapira è solo una casetta di legno con sette-otto tavoli all’ombra degli alberi in un piccolo parco di via Ralgab. Nulla di paragonabile con i locali della movida di Tel Aviv. È però uno dei rari luoghi nel quartiere Shapira, nella periferia meridionale e povera di Tel Aviv, dove si incontrano un po’ tutti: i giovani hipster tatuati e con piercing come l’anziano ebreo di origine mediorientale che da quelle parti ci vive da decenni. Qualche volta si vede anche qualche migrante eritreo o sudanese. Non sono molte le occasioni in cui gli abitanti della periferia di Tel Aviv, israeliani e stranieri, hanno la possibilità di ritrovarsi seduti nello stesso posto. Da un po’ al Caffè Shapira ci vengono solo gli hipster. «La gente del posto non ha voglia di incontare gli africani che da parte loro hanno paura, preferiscono non farsi vedere in giro e restano nella loro zona» spiega Roni, uno studente universitario, indicando via Levinsky e la vicina stazione centrale degli autobus.
In verità anche in via Levinsky si incontrano pochi eritrei e sudanesi. Gli africani provano a rendersi invisibili. Gli ultimi tempi sono stati carichi di tensione in quella zona e le recenti “visite” del premier Netanyahu nei quartieri meridionali di Tel Aviv, per rassicurare gli israeliani che vi abitano, hanno rimesso al centro dei problemi i “mistanenim”, gli “infiltrati”, come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo. «Molti di loro non sono rifugiati, ma gente che cerca soltanto lavoro» ha detto il primo ministro accrescendo il risentimento fra i tanti israeliani disoccupati ed emarginati di Neve Shaanan, Tikva, Shapira e altre aree periferiche che vedono nei “clandestini” dei concorrenti temibili perché pronti ad accettare lavori a giornata per pochi shekel e a nero. Le leggi israeliane approvate per combattere l’immigrazione non lo consentono ma il lavoro più a basso costo comunque finisce anche agli africani, che giungono in Israele scappando da conflitti vecchi e nuovi nei loro Paesi. «Bisogna salvaguardare le nostre frontiere» ha aggiunto Netanyahu annunciando la prossima formazione di un team ministeriale «per restituire i quartieri (meridionali) ai cittadini e rimuovere gli stranieri illegali che non appartengono al posto». Il governo, ha garantito il premier, rafforzerà il Muro costruito lungo il confine con l’Egitto e chiederà alla Knesset di approvare leggi più dure per chi darà lavoro agli “infiltrati”. Sotto accusa da diversi giorni è la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che ha bocciato la detenzione a tempo indeterminato decisa dal governo per gli “infiltrati” che si oppongono al rimpatrio volontario e assistito in Africa.
«Naor ci viva lei assieme ai neri» dice Noga, una signora sulla cinquantina. «Mangiano e dormono in strada e di notte non possiamo più andare in giro con tranquillità, abbiamo paura», prosegue la donna sulla porta del suo appartamento di pochi metri quadrati in una palazzina grigia. Interviene un giovane. «In questo stabile ci sono quattro ragazzi – ci spiega – io ho già fatto il militare, gli altri lo faranno presto. Facciamo il nostro dovere ma il lavoro poi va a quelli che vengono dall’Africa. Netanyahu ha ragione, Israele è solo degli israeliani». I migranti sono il capro espiatorio per chi fa i conti con una vita quotidiana difficile, lontana dalle luci colorate e dalla musica di Tel Aviv capitale del divertimento. I migranti perciò sono come i palestinesi, gli arabi. Nemici, senza diritti, da combattere e allontanare. A dare voce a questa rabbia è soprattutto Sheffi Paz, la leader del cosiddetto “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” nato per cacciare via i richiedenti asilo. Paz, 62 anni, era una pacifista negli anni Ottanta e Novanta e un’attivista dei diritti degli omosessuali, ora è passa gran parte del suo tempo a spiegare, davanti a telecamere e registratori, che Israele «deve liberarsi di un pericolo che a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». A gettare benzina è anche l’astro nasscente dell’estrema destra sociale May Golan che alle manifestazioni contro i migranti, urlando nel megafono, proclama «sì, sono una razzista». L’opposizione resta muta, timorosa di perdere consensi denunciando il clima che la destra sta alimentando nel sud di Tel Aviv.
«Occorre riconoscere che il premier e i suoi ministri sono espressione di una società israeliana nazionalista e che non sembra avere interesse per la difesa anche soltanto dei principi minimi della democrazia», ci dice Dror Ektes, un attivista di sinistra. «La situazione si è fatta esplosiva ed è grave che il premier sia andato alla periferia di Tel Aviv non a promettere lavoro, case migliori e la fine del degrado agli abitanti ma ad alimentare la loro rabbia contro i richiedenti asilo, allo scopo anche di guadagnare l’appoggio degli strati popolari in un momento per lui difficile», aggiunge Ektes riferendosi ai guai con la giustizia che sta affrontando Netanyahu, al centro di inchieste giudiziarie che lo interessano direttamente o indirettamente. Senza dimenticare quella che coinvolge la moglie Sarah che presto potrebbe essere incriminata per frode.
Jibril Diraije, un rifugiato sudanese di 26 anni, entrato clandestinamente in Israele tre anni fa, dei guai di Netanyahu non sa nulla. Sa solo che deve evitare l’arresto e l’espulsione. Con una frase spiega tutto. «Se torno in Sudan sono morto».

il manifesto 6.9.17
Visite vietate per 2 anni alla moglie di Barghouti. L’Anp arresta Issa Amro
Territori Occupati. Fadwa punita per il ruolo nello sciopero della fame dei prigionieri. Il noto attivista, detenuto per una critica a Ramallah su Facebook, inizia lo sciopero della fame
di Chiara Cruciati

Non potrà incontrare il marito fino al 2019: è la punizione che le autorità israeliane hanno comminato lunedì a Fadwa Barghouti, moglie del leader palestinese Marwan, condannato a cinque ergastoli e detenuto dal 2002. A comunicarglielo è stata l’amministrazione del carcere di Hadarim, vicino Haifa, quando si è presentata per la visita.
La decisione è stata giustificata dal portavoce dell’Israeli Prison Service, Assaf Liberati, con un’espressione tristemente nota alla popolazione palestinese: «ragioni di sicurezza».
Una formula vaga che nel caso di Fatwa Barghouti, va tradotta nel sostegno dato allo sciopero della fame dei prigionieri politici palestinesi dello scorso aprile. Una protesta durata 41 giorni e che ha coinvolto quasi 2mila detenuti politici. E guidata da Marwan Barghouti.
Ora, per il ruolo giocato in una forma di protesta nonviolenta, per le lettere a papa Francesco e l’attenzione mediatica (poca, a dire il vero, da parte della stampa occidentale) generata intorno allo sciopero, non le saranno dati i permessi per spostarsi dalla Cisgiordania nello Stato di Israele e raggiungere la Galilea, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta di detenere i residenti di un territorio occupato al di fuori di questo.
Nelle stesse ore, a sud della Cisgiordania, un altro simbolo del movimento di liberazione veniva incarcerato. Stavolta non da Israele – sebbene nelle prigioni di Tel Aviv ci sia passato molte volte – ma dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Issa Amro, storico attivista, fondatore dell’associazione di Hebron Youth against Settlements, nominato dall’Onu nel 2010 «difensore dei diritti umani dell’anno», lo conoscono tutti: chi visita i Territori Occupati ha modo di incontrarlo per le strade di Hebron, alle manifestazioni popolari, come guida tra le vie strette della città vecchia occupata.
Su di lui pesano oggi 18 capi di accusa spiccati da una corte militare israeliana, spada di Damocle per cui protestarono a maggio Bennie Sanders e 32 parlamentari Usa. Questa volta, però, il carcere in cui è stato condotto è palestinese, per le organizzazioni di base l’ennesima prova delle conseguenze della cooperazione alla sicurezza tra Israele e forze di polizia palestinesi.
La ragione è un post su Facebook in cui Amro criticava l’Anp per l’arresto, avvenuto domenica, di Ayman Qawasmeh, direttore della radio Manbar al Hurriya chiusa tre giorni prima dall’esercito di Tel Aviv. Qawasmeh è stato poi detenuto dall’Anp per aver pubblicamente attaccato la leadership palestinese e chiesto al presidente Abbas e al primo ministro Hamdallah di dimettersi.
L’ultimo di una serie di giornalisti imprigionati, collaboratori di 29 siti di informazione chiusi dall’Anp perché accusati di vicinanza a Hamas o al rivale di Abbas, l’ex leader di Fatah Mohammed Dahlan.
A garantire spazio di manovra è la Cyber Crimes Law, decreto firmato dal presidente palestinese a fine giugno: all’articolo 51 prevede i lavori forzati per i responsabili di crimini online che mettono in pericolo l’unità nazionale e all’articolo 20 punisce con almeno un anno di carcere o una multa tra mille e 6mila euro chi «crea o gestisce un sito che danneggia l’integrità dello Stato e l’ordine pubblico».
Una dicitura vaga che ha permesso di zittire reporter e semplici cittadini, utenti della rete. «Ci sono giornalisti minacciati dalle forze di sicurezza per aver pubblicato la notizia dell’arresto di Qawasmeh – aveva scritto Amro – Nessuno può creare una legge e uno Stato per sé. La legge è chiara. Le forze di sicurezza dovrebbero proteggere la legge, non violarla». Parole dure.
Ramallah ha reagito, arrestando anche Issa Amro. E lui, dalla cella, annuncia: sciopero della fame fino al rilascio.

La Stampa 6.9.17
“Alle Hawaii reddito di cittadinanza contro le macchine intelligenti”
di Paolo Mastrolilli

La rivoluzione è cominciata. Preoccupate dall’avanzata dei robot, che minacciano di togliere il lavoro agli esseri umani, le Hawaii sono diventate il primo Stato americano a considerare uno stipendio basilare garantito per tutti i suoi abitanti. Un «reddito di cittadinanza», se vogliamo, che sta già provocando polemiche, ma inizia ad emergere come rete di protezione per chi non riuscirà a sopravvivere all’innovazione tecnologica in corso.
Negli Stati Uniti la rivoluzione robotica procede con rapidità e infatti il numero degli americani senza laurea occupati è già sceso al 55% del totale. Tutti concordano sul fatto che le risposte giuste a questo cambiamento sono due: primo, fare in modo che le nuove tecnologie producano anche nuovi lavori; secondo, riqualificare chi perde un posto superato affinché possa ritrovarne uno richiesto e necessario. Non tutti però ce la faranno e, quindi, si pone il problema di cosa fare con chi resterà comunque emarginato. Il deputato delle Hawaii Chris Lee ha risposto presentando una proposta di legge, che impegna il suo Stato a studiare nei prossimi mesi l’introduzione di un «universal basic income». La sua idea parte dal fatto che l’economia delle isole dove era cresciuto l’ex presidente Obama si basa soprattutto sul turismo e il settore che fornisce questi servizi viene già colpito duramente dall’automazione. Siccome, però, le bellezze naturali delle Hawaii che attirano i visitatori sono un patrimonio di tutti i loro abitanti, è giusto che i residenti ricevano un «dividendo delle spiagge», un po’ come chi vive in Alaska riceve una frazione dei profitti del petrolio.
I critici rispondono sottolineando due problemi: primo, dove prendere i soldi, considerando che per dare 10 mila dollari all’anno a tutti gli abitanti delle isole servirebbero 10 miliardi; secondo, come evitare il rischio che questo reddito garantito spinga la gente a smettere di lavorare o attiri pigri e scrocconi nello Stato. Un’ipotesi per risolvere il primo punto sarebbe introdurre una tassa proprio sulle proprietà e le attività turistiche, da redistribuire, mentre gli studi richiesti dalla proposta di legge di Lee dovrebbero trovare la risposta al secondo.
L’amministrazione Trump non è incline ad appoggiare simili idee, ma Stati e città possono realizzarle di loro iniziativa. Anche l’area di San Francisco, ad esempio, le sta considerando, mentre progetti pilota sono partiti un po’ ovunque, dal Kenya alla Finlandia. Peraltro lo stesso presidente repubblicano Nixon aveva proposto qualcosa di simile negli Anni 70, senza però convincere il Congresso a seguirlo. Trovare la soluzione dunque non sarà facile, ma il dibattito è cominciato.

Corriere 6.9.17
A Rizzolatti il Nobel della Lombardia Per lo scienziato un milione di euro
Scoprì i neuroni a specchio. Due terzi del premio della Regione da investire nella ricerca
di Adriana Bazzi

Milano Giacomo Rizzolatti diventerà, fra poco, uno scienziato milionario. A lui è appena stato assegnato il premio «Lombardia è ricerca», istituito dalla Regione Lombardia, del valore di un milione di euro, superiore a quello del Nobel.
«Il riconoscimento va alla sua scoperta dei neuroni specchio — commenta Alberto Mantovani dell’Istituto Humanitas di Milano, presidente di una giuria composta da altri 13 membri, fra i migliori scienziati italiani — cioè di quel meccanismo neuronale attraverso il quale entriamo in comunicazione con chi ci sta di fronte e che è alla base dell’empatia». Un esempio: quando vediamo una persona che prova dolore, capiamo che sta soffrendo perché si attiva anche nel nostro cervello il centro del dolore.
«È una scoperta che risale a qualche tempo fa, ma è oggi universalmente riconosciuta, ha implicazioni nello studio di malattie come l’autismo e le avrà, in futuro, anche nella robotica se si pensa alla possibilità per l’uomo di dialogare con le macchine» aggiunge Mantovani. Il professore Giacomo Rizzolatti, classe 1937, è nato a Kiev, ma si è laureato a Padova e, dopo alcune esperienze all’estero, è approdato all’Università di Parma dove è rimasto a lungo come direttore del Dipartimento di Neuroscienze. Raggiunto per telefono a Barcellona, dove sta partecipando a un congresso scientifico, ha dichiarato: «Sono molto orgoglioso perché è un premio che non è aperto a tutti, ma è molto selettivo e tiene conto del merito».
È proprio così: le nomination dei candidati, italiani e stranieri, sono state una ventina, tutte proposte da ricercatori di origine italiana fra i più citati al mondo per i loro lavori scientifici; in semifinale sono arrivati sei ricercatori di diverse discipline scientifiche e in finale tre, fra cui appunto il neuroscienziato italiano.
Che dovrà destinare i due terzi dell’ammontare del premio a progetti di ricerca nel territorio lombardo.
«Questo riconoscimento capita a pennello — aggiunge Rizzolatti — anche perché abbiamo già avviato una collaborazione con l’ospedale Niguarda di Milano dove, con i neurochirurghi, studiamo, nei pazienti con epilessia candidati all’intervento chirurgico di asportazione del focolaio epilettico, come funziona il loro cervello nel tempo, quando, cioè, interagisce con l’ambiente esterno. Sarà come avere un film dell’attività del cervello invece di una semplice fotografia come quelle che ci offrono esami come la risonanza magnetica e la tomografia».
Ecco, l’obiettivo del premio è proprio quello di favorire la ricerca e l’innovazione nella Regione che si candida a essere, in questo settore, un modello non solo per l’Italia, ma anche per l’estero.
«Il premio non è uno spot — precisa Luca Del Gobbo, assessore all’Università, Ricerca e Open Innovation della Regione —. Avrà continuità nel tempo perché è stato istituito con una legge, la 29 del 2016; la nostra è la prima Regione italiana ad approvare una legge simile. L’obiettivo non è solo quello di sostenere lo sviluppo in questi settori, ma anche di fare della Regione un punto di riferimento nazionale e internazionale e di Milano la capitale, appunto, della ricerca e dell’innovazione».
La cerimonia di consegna si terrà il giorno 8 novembre alla Scala e verrà condotta dal direttore del Corriere della Sera , Luciano Fontana. La data dell’8 novembre non è casuale: è il giorno che la legge 29 ha istituito come «Giornata della ricerca» ed il giorno in cui ricorre il primo anniversario della scomparsa di Umberto Veronesi cui è dedicato il premio.

Corriere 6.9.17
Chi si rafforzerà con la crisi? I mercati puntano su Pechino (che in Borsa sbaraglia tutti)
di Federico Fubini

Nel 1909 lo statistico inglese Francis Galton trasse da una fiera di campagna una lezione che ancora oggi vale per la crisi nordcoreana. A quella sagra venne chiesto a ottocento avventori di indovinare il peso di un bue; fallirono tutti, eppure la media delle risposte si rivelò praticamente perfetta. È quella che lo scrittore newyorkese James Surowiecki chiama la «saggezza delle folle»: la capacità di una moltitudine di persone, una volta messe insieme, di indicare nel complesso qualcosa che nessuna di loro singolarmente conosce.
Se la «saggezza delle folle» conta qualcosa, essa oggi dice che la Cina emergerà più forte dalle tensioni attorno al regime di Pyongyang e si dimostrerà l’attore decisivo nel superarle. Questo è l’esito che i mercati finanziari sembrano prevedere da quando, all’inizio di agosto, la Corea del Nord è entrata nel radar di milioni di investitori in tutto il mondo. Poiché in queste settimane le minacce di Kim Jong-un sono il principale fattore di guida dei mercati, il primo segnale sugli sbocchi possibili viene proprio dall’andamento dei listini. Gli operatori sembrano vedere nella Cina l’unica potenza indenne, malgrado i venti di guerra che spirano dal suo confine con la Corea del Nord. Nell’ultimo mese lo Shanghai Composite, l’indice principale delle aziende della seconda economia del mondo, è salito del 3,2%; soprattutto, ha fatto meglio del S&P 500 di New York di quasi il 4%, meglio dello Eurostoxx50 europeo di circa il 5% e molto meglio del Kospi di Seul o del Nikkei 225 di Tokyo (surclassati del 6%).
Di per sé la tenuta della Borsa di Shanghai potrebbe non rivelare molto; dopotutto, è riservata principalmente a capitali che si muovono solo all’interno della Repubblica popolare. Eppure la tendenza della piazza cinese a reagire meglio degli altri grandi mercati si conferma in tutti i punti di snodo di questa crisi geopolitica estiva. Tre eventi in particolare hanno scosso gli indici azionari di recente: la notizia dell’8 agosto di nuovi progressi di Pyongyang nei missili a lunga gittata e la reazione del presidente americano Donald Trump («fuoco e fiamme» sulla Corea del Nord); il lancio di un missile di Kim a sorvolare il Giappone il 28 agosto; e il test di una bomba all’idrogeno, che ha prodotto una scossa sismica nella penisola coreana domenica scorsa. Come mostra il grafico in pagina, in tutte e tre le occasioni le Borse negli Stati Uniti, in Europa, a Seul e in Giappone hanno prevedibilmente reagito con incertezze e cadute. Invece nelle tre occasioni, la Borsa di Shanghai ha fatto molto meglio e in due casi ha persino guadagnato terreno.
Milioni di investitori sembrano pensare, nel complesso, che la Cina emergerà vincente da questa crisi. La sua influenza in Asia crescerà. Molti analisti pensano che solo Pechino possa forzare o indurre un compromesso in Corea del Nord, tramite un’invasione o un accordo con l’esercito di Pyongyang. Del resto a volte la saggezza delle folle, letta nei listini di Borsa, non sbaglia: fra il 2009 e il 2011 una crescita del 90% del Dax di Francoforte — il doppio delle medie europee — aveva già segnalato che la Germania si sarebbe imposta come l’egemone del continente negli anni successivi. La razionalità collettiva espressa nei mercati, a volte, indovina in anticipo persino il peso geopolitico di un bue.

La Stampa 6.9.17
intervista a Michael Caine
“Noi ribelli Anni 60 contro le classi sociali con l’arma dello stile”
L’attore dà voce a una ricostruzione della Swinging London e di chi la popolava
intervista di F:C.

Tratti nobili e origini proletarie. Piglio scanzonato e impareggiabile ironia. È il giovane Michael Caine che attraversa, nel documentario di David Batty My Generation (ieri fuori concorso alla Mostra e poi nei cinema con I Wonder), le strade della Londra Anni Sessanta dove tutto poteva accadere. Per esempio incrociare David Bowie, commesso in un negozio di King’s Road, oppure assistere all’incontro, a Charing Cross, tra i Beatles e i Rolling Stones.
Ma è anche sir Michael Caine di oggi, 84 anni, oltre cento film all’attivo, tra cui Youth di Paolo Sorrentino, un’agenda densa di impegni e un passato da ricordare senza nostalgia: «Non ho mai guardato indietro con rabbia, altrimenti non sarei mai arrivato dove sono. Rimpiangere le cose non fatte non serve, meglio rimpiangere quelle fatte. E poi sono sempre stato convinto che la giovinezza non sia un momento della vita, ma una condizione mentale».
Che cosa l’ha spinta a realizzare «My Generation»?
«Ho sempre voluto raccontare quel periodo, è capitato che un produttore me l’abbia chiesto e così l’ho fatto. Sono stati anni speciali perchè, per la prima volta nella storia, i giovani, come ero io allora, ebbero la possibilità di plasmare la realtà in cui vivevano».
In che cosa consisteva principalmente il cambiamento?
«Eravamo gente venuta dal nulla e ci fu possibile realizzare i nostri sogni. Io, per esempio, dopo aver fatto il servizio militare, lavoravo in una fabbrica di burro, ma volevo fare l’attore. Mi fu consigliato di acquistare una rivista, “The Stage”: sull’ultima pagina c’erano gli annunci degli spettacoli. Ho cominciato così, prima facendo l’assistente di scena, poi pronunciando una battuta, due, tre. Una volta ho fatto la pubblicità di una birra e mi hanno dato 20 sterline».
Qual è la cosa che rende più diversa la nostra epoca da quella di allora?
«Sicuramente la possibilità di essere continuamente informati e connessi con gli altri. Noi siamo cresciuti senza sapere che cosa ci succedeva intorno, avevamo una tv con un telegiornale alle 4 del pomeriggio, adesso, invece, ci sono i computer, i social, i telefoni, tutte cose utilissime di cui anche io mi servo».
Dal punto di vista politico quale fu, secondo lei, il mutamento più importante?
«La nostra ribellione non aveva niente a che vedere con la politica, provavamo a distruggere il sistema delle classi, che in Gran Bretagna era molto rigido e strutturato, in un modo diverso, realizzando uno stile di vita alternativo, a iniziare dalle occasioni di svago. Era un momento particolare, c’erano autori come Osborne e Pinter che nelle loro opere parlavamo per la prima volta della classe operaia».
Oggi, invece, siamo nell’era Brexit. Che cosa ne pensa?
«Sono a favore, preferisco essere povero, ma padrone del mio destino, piuttosto che esserlo sottostando alle decisioni di Bruxelles». [f.c.]

Repubblica 6.9.17
Il regista ricorda il fratello Giuseppe Alla Mostra un documentario dedicato all’artista
Bernardo Bertolucci “Eravamo troppo figli per diventare padri”
intervista di Arianna Finos

VENEZIA BERNARDO Bertolucci non è alla Mostra: «Sarei voluto assolutamente essere lì, per mio fratello e per la proiezione di
Novecento restaurato. Ma un infame stafilococco mi ha impedito di venire», il tono del regista è dolcemente affranto, con un tocco della consueta autoironia, al telefono dalla casa di campagna.
A ricordare Giuseppe Bertolucci, scomparso nel 2012, nel bel documentario di Stefano Consiglio Evviva Giuseppe (il titolo da un’esclamazione di Cesare Zavattini, amico della famiglia Bertolucci), sono Bernardo e tanti amici: Nanni Moretti elenca le tante cose che ha conosciuto grazie a Giuseppe, Roberto Benigni gli dedica una poesia, Fabrizio Gifuni ne interpreta i testi. E ancora, accanto allo stesso Giuseppe in interviste di repertorio, anche Marco Tullio Giordana, Lidia Ravera, Laura Morante, Stefania Sandrelli e molti altri.
Bernardo, quando è nato Giuseppe lei aveva sei anni.
«Sì. Vidi la mamma, bellissima, con un altro bambino: Giuseppe. Mi pareva che lei non mi guardasse più. Usciti dall’ospedale a Parma, iniziò a cadere la neve, mio padre guardava in alto: iniziò a saltare, e io con lui, gridando “è nato Giuseppe!”. Quello è stato il nostro incontro».
Nel documentario ci sono anche le riflessioni che Giuseppe ha fatto sui versi di vostro padre Attilio, da cui si sentiva “definito”.
«Ci sentivamo proprio come i due rami di un albero, del suo albero ».
Sentirvi figli vi ha condizionato nel non diventare padri?
«Sì, eravamo talmente figli, lo eravamo stati tanto a lungo, che è stato impossibile, per tutti e due, riuscire ad accettare di diventare padri. Mio padre ci ha fatto sentire fin troppo sotto la cupola paterna».
Quando vi siete liberati di quella cupola?
«In effetti mai. Fino alla sua morte. È chiaro che ne siamo usciti nella quotidianità, ma quella sensazione di infinito Eden è rimasta sempre».
L’amore di Giuseppe per il cinema nacque quando le fece
da aiuto regista per “La strategia del ragno”.
«Aveva avuto una grande delusione d’amore. Era depresso e allora l’ho portato con me e questo trasformò la sua delusione d’amore in innamoramento per il cinema. E ha cominciato a fare i suoi film, e non ha mai cercato la totale comunicazione con il pubblico, come è successo a me con qualche volta. Giuseppe voleva essere in un universo a parte».
Benigni racconta che una volta, insieme a casa sua, lei disse “che meraviglia è mio fratello”. Ha sempre sentito la straordinarietà di suo fratello.
«Lui per un certo periodo, fino ai quindici anni, dipingeva molto bene. Anzi una volta Roberto Longhi, il grande professore, storico dell’arte amico di mio padre, ha visto una cosa di Giuseppe e ha detto “Eh però, come macchia bene Giuseppe”. Dopo i quindici anni non ha più macchiato e ha iniziato a scrivere poesie, e le ha scritte bene. E poi dopo ha iniziato a fare cinema, e ha fatto le cose perbene. Aveva tante sfaccettature. Era talentuoso in tutte le cose che faceva. E questa è una qualità molto rara».
Quale talento gli invidiava?
«La capacità di navigare sulla superficie della storia che stava vivendo malgrado il suo peso fisico. La sua grande leggerezza».
Che effetto le ha fatto vedere il documentario?
«Rivedendo il film ho sentito un grande senso di colpa per non avergli dato abbastanza spazio».
Quanto il suo ricordo di “Novecento” è legato a lui?
«È un ricordo fresco, ancora oggi. Lui era lì perché avevamo scritto il film insieme. E a un certo punto gli è venuta voglia di fare anche il suo piccolo Novecento e allora ha fatto questo, non so come chiamarlo, making of, ABCinema.
Ma l’ha fatto senza pensare a cosa stava facendo, come una sua cosa».
A vedervi insieme quando immaginavate “Novecento” lei e Giuseppe sembravate molto amici, oltre che fratelli.
«Infatti, eravamo amici, diventò un triangolo perfetto con il grande Kim Arcalli. Un’amicizia a tre, un rapporto che si basava su un lavoro comune. È per questo che ci abbiamo messo poco a scrivere il film. Perché eravamo in uno stato, tutti e tre, di grande ispirazione».
Giuseppe era anche la sua guida nel rapporto con il partito.
«Sì, spesso lo chiamavo il mio commissario politico, in certi momenti in cui trovavamo i punti di polemica con il nostro partito di riferimento, ci incontravamo e lui era molto bravo a spiegarmi la politica, come io non ero capace di capirla. E chiamavano sempre lui ad aiutarmi a capire certi snodi delle questioni politiche che non riuscivo a interpretare. Pensa te».
Giuseppe aveva anche una grande passione della tecnica del cinema.
«Sì. È riuscito per anni e anni a essere presidente della Cineteca, lavorando alla conservazione dei film, regalando spessore e garanzia di grande qualità: la prova è che la famiglia Chaplin ha affidato alla Cineteca la conservazione di materiali preziosissimi».
“Novecento” viene proiettato alla Mostra, è arrivato anche Depardieu a sorpresa. Lo vedranno ragazzi nati in un altro secolo. Cosa vuol dire loro?
« Novecento è un melodramma, l’affresco di un secolo trascorso, la rivoluzione contadina nelle terre in cui sono cresciuto, la grande utopia. Ma testimonia anche il periodo in cui è stato girato: gli anni Settanta, Berlinguer, il compromesso storico e quella gigantesca bandiera rossa che ho sognato di portare in America. Ecco, vorrei che i ragazzi guardassero al film anche da questo punto di vista».

La Stampa TuttoScienze 6.9.17
Tra buchi neri e altri misteri la Nuova Astronomia è realtà

La scoperta delle onde gravitazionali l'aveva annunciata e ora la Nuova Astronomia diventa realtà: esplorerà alcuni dei fenomeni più misteriosi dell'Universo, come i buchi neri. A confermarlo è l'analisi dei segnali registrati nel 2015 e nel 2017: pubblicata su «Nature», si deve al gruppo dell'italiano Alberto Vecchio, dell'università di Birmingham, e dell’americano Ben Farr, dell'università di Chicago. «La nuova disciplina è importante - spiega Vecchio - perché permette di osservare fenomeni che non possiamo vedere in altro modo»: i buchi neri, infatti, sono oggetti fatti di pura gravità e le onde gravitazionali sono il linguaggio della gravità stessa.

La Stampa TuttoScienze 6.9.17
Le nostre vite in balìa degli algoritmi
È ora di inventare nuove idee e nuove leggi
Le macchine ci osservano, ma questo rapporto senza precedenti non è privo di pericoli
di Nello Cristianini

A 13 anni passavo molto tempo al computer e questo non sarebbe strano se non fosse stato il 1981. Il massimo che potevo fare con il mio ZX80 era scrivere programmi di poche righe, giochi semplici o piccole formule matematiche, che poi si perdevano quando lo spegnevo.
Giunto al ginnasio, un vecchio salesiano del convento vicino mi dava ripetizioni di greco. Si chiamava don Antonio e un giorno venne a sapere del mio strano passatempo e mi chiese di poter vedere un computer, di cui aveva tanto sentito parlare alla televisione. Così organizzammo una visita a casa mia e, non appena vide la piccola scatolina bianca con la tastiera blu, collegata a un televisore in bianco e nero, la guardò con aria sospettosa.
Chiedigli: «Quando è nato Alessandro Magno?». Cercai di spiegare che non era quello il modo di usare un computer, ma lui insistette e mi fece scrivere la domanda per esteso. La risposta fu inevitabile: «Syntax error». Deluso, don Antonio fece per andarsene, quando gli proposi: «Se aspetta cinque minuti, posso programmarlo». Era una cosa semplice. A qualsiasi domanda scritta rispondeva sempre: «356 avanti Cristo».
La reazione non fu quella che mi aspettavo. Vista la risposta corretta, disse quasi arrabbiato: «Per forza adesso lo sa, glielo hai detto tu. Lo saprebbe anche un bambino, adesso». Mentre spiegavo che i computer non possono sapere cose che nessuno gli ha detto, il prete si voltò concludendo: «Queste cose non saranno mai meglio di noi».
Anni dopo, quando vidi Siri per la prima volta, fu questa la mia prima domanda e la risposta giunse puntuale: «Alessandro Magno è nato a Pellas nel 356 a.C.». Don Antonio era morto da decenni e io ero diventato un ricercatore nel campo dell’Intelligenza Artificiale, avevo lavorato in California e in Inghilterra, avevo scritto libri importanti e capivo abbastanza bene come Siri avesse risposto a quella domanda. Mi venne voglia di andare indietro nel tempo, anche per poco, per spiegare a don Antonio quella meraviglia. Ma, se anche fosse stato possibile, come sarebbe andata quella conversazione? Pensiamoci un attimo.
«Tra circa tre anni qualcuno inventerà Windows che consentirà a tutti di usare i computer; tra 13 anni tutti avranno un computer e si inventerà un modo semplice di collegarli alle linee telefoniche per scambiarsi informazioni; tra 15 anni migliaia di persone collaboreranno per creare un’enciclopedia alla quale si può accedere solo mediante questa rete di computer. E tra 25 anni tutto questo si farà mediante computer potentissimi ed economici, contenuti nel telefono, solo che i telefoni saranno collegati alla rete via radio e li terremo in tasca. E tra 30 anni - usando metodi di statistica - dei supercomputer riusciranno a comprendere le domande ed estrarre le risposte appropriate. In particolare, la data di nascita di Alessandro Magno, che qualcuno avrà già scritto nell’enciclopedia online».
Chi mi avrebbe creduto, nel 1981? Un computer nel telefono che legge un’enciclopedia accessibile via telematica e che comprende il linguaggio? È stata un’evoluzione rapidissima, in una direzione interamente improbabile. Avendo preso parte alla ricerca in «machine learning» e Intelligenza Artificiale per oltre 20 anni, posso garantire che tutti sono stati sorpresi dall’accelerazione degli ultimi anni.
La chiave dell’Intelligenza Artificiale moderna è proprio nel «machine learning», la mia disciplina, che crea algoritmi in grado di imparare dagli esempi. Ma il vero ingrediente essenziale sono gli esempi stessi, i dati. Le macchine intelligenti di oggi possono imparare a tradurre, a trascrivere, a riconoscere i volti, a raccomandare i libri o a bloccare email moleste, se hanno accesso a milioni di esempi. E qui la storia dell’«AI» - l’«Artificial Intelligence» - si combina con la storia di Internet e della convergenza che ha consentito tra servizi bancari, telefonici, postali e di intrattenimento. È mediante questa infrastruttura che le macchine intelligenti possono osservarci e imparare a comportarsi: quali raccomandazioni sono appropriate, quali lettere sono sgradite, quali pagamenti sono improbabili e quindi le possibili frodi e avanti così.
E qui nascono anche i problemi legati a questo spettacolare successo: il combustibile che consente agli algoritmi intelligenti di funzionare è rappresentato da masse enormi di dati e spesso questi sono dati personali. Solo lavorando a stretto contatto con noi, e osservandoci continuamente, queste macchine possono imparare. Questo è possibile perché i servizi online (motori di ricerca, reti sociali, negozi) si propongono come mediatori di tutte le nostre interazioni - osservandole da vicino - e ricordano tutto.
Questo fatto apre la porta a un nuovo tipo di problemi, che abbiamo incominciato a vedere. Da un lato ha reso possibile la sorveglianza di massa, come abbiamo scoperto con il caso Snowden, su una scala che sarebbe stata impensabile prima. E dall’altro ha creato opportunità commerciali: lo scorso anno la compagnia assicuratrice Admiral ha proposto di usare quello che scriviamo su Facebook per inferire aspetti della nostra personalità e poi calcolare se abbiamo diritto a uno sconto; la compagnia Cambridge Analytica ha usato le stesse informazioni per scegliere i più efficaci messaggi elettorali per convincere ciascun utente; notizie false sono state diffuse durante le elezioni americane da algoritmi che possono capire se una storia diventerà popolare, ma non se è vera; sempre negli Stati Uniti degli algoritmi vengono usati per decidere quali detenuti possono essere rilasciati, per esempio con il sistema «Compas» usato in Wisconsin. Tutto grazie al «machine learning» e ai dati.
Questo è avvenuto così rapidamente che non abbiamo fatto in tempo a maturare dei concetti etici, culturali e legali. Ci sono molte domande a cui dovremmo rispondere prima di poter usare con fiducia queste nuove tecnologie. Che cosa facciamo se un algoritmo ci nega la libertà su cauzione, o un mutuo, o l’ammissione a una scuola? E che cosa facciamo se l’opinione pubblica viene influenzata da algoritmi che decidono che notizie leggiamo?
La risposta non è chiara, ma dovrà venire da tutti, non solo dagli ingegneri, ed è giunto il momento di coinvolgere studiosi di ogni disciplina. Qui, almeno, don Antonio avrebbe saputo dire la sua, da buon classicista: qualunque soluzione troviamo dovrà mettere l’Uomo al centro di questi nuovi meccanismi.