lunedì 18 settembre 2017

La Stampa 18.9.17
Il lato oscuro delle Rems, metà dei pazienti rinchiusi prima ancora del giudizio
A solo sei mesi dalla abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari il sistema rischia di scaricare sulle nuove residenze i limiti delle carceri
di Carola Frediani

L’ultimo «internato» degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) è uscito a maggio. Gli eredi dei manicomi criminali sono stati chiusi, ma non ancora del tutto sconfitti. Aboliti nel 2014 per fare spazio alle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture più piccole, di massimo 20 persone, distribuite sul territorio, pensate come luoghi di cura e reinserimento. Posti che dovrebbero accogliere solo autori di reati giudicati infermi o semi-infermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni meno restrittive.
Insomma una extrema ratio, pensata per chi sia stato giudicato in via definitiva, come ha auspicato il Commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone, nella sua relazione dello scorso febbraio. Con ricoveri limitati nel tempo. Con il progressivo abbandono della contenzione, cioè dell’uso di mezzi fisici e chimici per limitare i movimenti di un paziente.
Dall’orrore di certi manicomi si è passati dunque a una eccellenza italiana, una rivoluzione in corso. Che però rischia di affondare. Non per suoi demeriti e neanche per colpa di ospiti dipinti caricaturalmente come tanti Hannibal Lecter, ma trascinata dalle questioni irrisolte della giustizia e della burocrazia italiane. Ne sanno qualcosa a Bra, Piemonte, dove la Rems, provvisoria, come gran parte delle trenta residenze oggi sparse per l’Italia, è nata da una convenzione con una clinica privata, la casa di cura San Michele, dopo molte resistenze della amministrazione locale. Dopo un lungo braccio di ferro ci si è accordati su 18 posti, col paradosso che ce ne sarebbero ancora un paio a disposizione che non sono stati attivati per l’opposizione del territorio. E ci sono almeno sei persone in lista di attesa in carcere che avrebbero diritto a entrare. «La Procura tutti i giorni ci chiede disponibilità di posti letto, e noi rispondiamo che non ne abbiamo. Tonnellate di comunicazione tra noi, loro e i carabinieri», ci raccontano alla clinica. La Rems di Bra è simile a un ospedale, più colorato e ricco di attività, con aree per i laboratori, una minuscola palestra. La sorveglianza esiste, ma discreta: videocamere, porte multiple, vetri infrangibili. Dentro si respira un’aria serena: educatori giocano a carte con i pazienti, molti maschi fra i 20 e i 40 anni, nel piccolo cortile. «Sappiamo di avere poco spazio, e cerchiamo di fare tante attività all’aperto», spiega lo psichiatra Luca Patria. Uscite controllate e autorizzate, naturalmente.
Per 596 ospiti delle Rems in Italia - cifra che corrisponde alla loro capienza massima - ce ne sono 289 in lista di attesa per entrare. Di questi, 205 sono però destinatari di misure provvisorie (l’analogo della custodia cautelare in carcere). Allo stesso modo, su 596 ospiti delle Rems ben 215 sono «provvisori». Una deriva rispetto alle intenzioni originarie delle Rems che rischia di farle saltare, facendo rientrare dalla finestra la logica degli ex-Opg. E il trend, sulla base delle interviste e dei dati raccolti da La Stampa, è in crescita nel 2017. A inizio agosto, in Campania, i pazienti in Rems con misure provvisorie erano 38 su 63; in Piemonte 12 su 37; in Lombardia 49 su 133. Ma se guardiamo ai nuovi ingressi avvenuti solo nel 2017, assistiamo a una crescita: in Campania 31 ingressi su 36 sono provvisori; in Lombardia 43 su 59; in Abruzzo 8 su 8; in Piemonte 5 su 11. Numeri raccolti da Giuseppe Nese, il coordinatore per il superamento degli Opg in Campania, che ha lanciato da tempo un sistema di raccolta informazioni, Smop, poi adottato anche da altre 14 regioni. Quelle citate hanno finora i dati più attendibili.
Ma perché l’arrivo di persone con misure provvisorie è un problema? «In molti casi si tratta di detenuti che manifestano comportamenti disturbanti, etichettati come psichiatrici, e poi mandati in Rems», commenta Nese. «Una volta a giudizio molte di queste valutazioni vengono meno. Ma intanto le Rems sono messe in crisi dall’invio inappropriato di persone che dovrebbero essere trattate in altro modo». Concorda con questa analisi Massimo Rosa, referente per il superamento degli Opg in Piemonte. «Oggi le Rems sono un contenitore che va dalla schizofrenia ai disturbi di personalità, comprendendo persone con cultura carceraria che hanno sintomi psichiatrici. Basta uno di loro per sconvolgere tutti gli equilibri», commenta Rosa. «E la situazione potrebbe anche peggiorare visto che ad agosto è entrata in vigore la legge 103». Si tratta della riforma Orlando che potrebbe consentire l’invio anche di chi sia stato giudicato infermo di mente dopo il reato, in carcere, o chi debba essere ancora valutato nelle sue condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari non siano idonee. Da lì a ritornare agli Opg, a riavvicinarsi più alla logica della prigione che a quella della cura, il passo potrebbe essere breve. A impedirlo finora c’è solo un fragile ordine del giorno approvato dalla Camera che impegna il governo a non sovraccaricare le residenze di detenuti. Oltre alla resistenza passiva opposta da molti operatori delle Rems.
«Molti magistrati di sorveglianza e gip non hanno fatto proprio il principio della riforma e si comportano come se le Rems fossero illimitate», commenta Michele Miravalle, ricercatore e attivista dell’associazione Antigone e della campagna StopOpg. «Certo che le patologie psichiatriche negli istituti di pena stanno montando, con detenuti che sviluppano scompensi o hanno problemi pregressi che non sono curati in carcere. Ma sono le Asl che dovrebbero occuparsi di queste persone».
Le Rems vivono su equilibri delicati. «Sono un osservatorio sulla fragilità nella nostra società», commenta Maria Grazia Gandellini, direttrice delle Rems di Castiglione delle Stiviere, un simbolo della lunga marcia della riforma. Isolata nel verde, a pochi km da Desenzano del Garda, non ci sono quasi autobus per arrivare a quello che tutti ancora chiamano l’Opg. La struttura imponente, con prati, panchine e pure una piscina, chiusi però con recinzioni sormontate da filo spinato, fino a pochi mesi fa era sovraffollata, dovendo accogliere pazienti di più regioni, in attesa che nascessero le residenze locali. E oggi conta comunque fra i 140-160 ospiti, un numero ancora lontano dalla logica delle Rems. Anche se nei prossimi anni qui dovrebbero costruire delle strutture nuove, più piccole, e ridisegnare sei unità da 20. Intanto non mancano le preoccupazioni. Ad esempio, il cambio nella tipologia di pazienti. «Negli ultimi 6-7 anni sono aumentati i giovani con storie di problemi scolastici, abusi di sostanze, smart drugs, amfetamine», spiega Stefano Pellizzardi, direttore del sistema polimodulare delle Rems all’Asst di Mantova. «Ma anche 30-40enni, adulti con alle spalle molti fallimenti». Poi immigrati, per cui a Castiglione delle Stiviere servono anche di mediatori culturali. Pazienti con bisogni complessi, in carico a più servizi, dai dipartimenti di salute mentale ai Sert, in cui le Rems fanno da anello di congiunzione. «Arrivano da noi perché spesso è mancata l’integrazione prima fra i vari servizi», specifica Gandellini. Alcune regioni si stanno muovendo per cercare di seguire queste persone attraverso unità territoriali, con competenze miste, che facciano da coordinamento. In un certo senso le Rems mettono in luce l’assenza di sostegno per chi sta fuori. Il punto è sviluppare progetti riabilitativi assieme ai servizi territoriali.
«Il problema non sono le Rems, che finora funzionano e lo si vede dai numeri: è sceso il numero di ricoverati rispetto agli Opg, e non si sono registrati problemi di sicurezza», commenta Miravalle. «Il problema è semmai: quanto sono seguite le persone fuori dalle Rems che avrebbero bisogno di cura?».

La Stampa 18.9.17
Corsi per pizzaioli, teatro
“Qui dentro i più calmi sono gli assassini”
di Giacomo Galeazzi

Dentro il recinto c’è un fazzoletto di terra, ma per fare due passi lì serve il permesso del magistrato. Così gli ospiti deambulano come zombie nei corridoi interni e si accalcano nella saletta fumatori. Solo il campo da calcetto e l’orto alleggeriscono un’architettura da caserma e la noia di giornate sempre uguali. Dentro la palazzina di due piani le tragedie personali e scarsità di mezzi uniscono i loro effetti deleteri. Qui uno degli ospiti ha dato fuoco alla propria stanza e un altro, con una testata, ha rotto il setto nasale a un operatore. La vigilanza interna è affidata a un servizio di portierato e tocca agli operatori tenere sotto controllo la situazione. Non viene trascurato alcun dettaglio e si susseguono attività riabilitative. Si è appena concluso il corso per pizzaioli (in quattro hanno conseguito l’attestato) e poi uscite di gruppo nei centri commerciali, nei paesi e nei parchi della Ciociaria, i pomeriggi al cinema a Frosinone, la pesca sportiva al laghetto, il laboratorio teatrale, i corsi di spiritualità (ci sono stati anche battesimi e conversioni). «Tutto ciò serve ad allentare la tensione interna, provocata dall’obbligo di restare nella struttura», spiega Luciano Pozzuoli, responsabile della Rems. Per ciascuno dei venti ospiti c’è un progetto di recupero terapeutico riabilitativo. «La permanenza non è detenzione ma percorso personalizzato», precisa lo psichiatra Pozzuoli che non ci sta a ridurre il suo ruolo a quello di carceriere e gira tutto il giorno per le stanze e le sale comuni. «Anche il modo in cui si risponde a un saluto conta», spiega. Paradossalmente quelli che creano minori difficoltà sono gli autori di omicidi. «Sono già abituati a stare in istituto, sono i più tranquilli». I guai maggiori li crea chi ha disturbi della personalità. «In genere hanno commesso reati di poco conto, come la resistenza a pubblico ufficiale, ma non accettano di restare, soffrono spesso di dipendenza da alcol o droghe, talvolta sono violenti con il personale e con gli altri ospiti», osserva Pozzuoli. Alcuni hanno gravi deficit cognitivi e vengono accuditi come bambini. Arrivano dagli Opg chiusi, fuori non hanno famiglie in grado di accoglierli. In lista di attesa decine di casi che cercano un sostegno in una vita devastata, non soltanto un posto letto. Prima dell’apertura si era sparso il panico tra i cittadini. Qui, però,« non ci sono mostri, ma malati che hanno bisogno di cure».

La Stampa 18.9.17
“Molti pazienti delle Asl vengono deportati inutilmente qui da noi”
Gia.Gal.

In Campania il paradosso è che sono definitive le strutture, mentre chi ci sta dentro non è chiaro chi debba restarci. Nell’unica regione ad aver reso stabili le Rems, su 59 persone lì ospitate 36 sono in attesa di giudizio. E cioè non è dimostrato né che abbiano commesso un reato né che soffrano di una malattia psichiatrica né che siano socialmente pericolose.
Per 25 di loro i dipartimenti di salute mentale che li hanno in carico aspettano ancora che venga autorizzata dalla magistratura una misura alternativa. Emblematici i casi di un malato costretto a letto da un tumore incurabile che solo dopo un anno dalla richiesta ha ottenuto di essere dimesso dalla Rems e ricoverato in una struttura specializzata. E quello di un ex internato all’Opg di Napoli che dal 2011 ha una misura detentiva provvisoria che viene rinnovata ogni sei mesi malgrado la Asl da anni chieda di farlo uscire dalla Rems e di curarlo in una comunità terapeutica. Da un anno a Calvi la Rems è in pieno centro, in una residenza per anziani per quasi un decennio inutilizzata. «In Campania abbiamo realizzato tutte le Rems definitive e programmato il riutilizzo di quelle provvisorie - spiega lo psichiatra Giuseppe Nese, coordinatore regionale per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari -. Con alcuni comuni della provincia di Caserta, tra cui quelli di Calvi e Mondragone, è stato siglato un protocollo. Alla riabilitazione e al reinserimento dei pazienti della Rems si sono resi disponibili famiglie e istituzioni. Offrono occasioni e luoghi reali di socializzazione, ricreazione, attività lavorative, come la piscina comunale, la ditta di catering, il laboratorio di ceramica e ciò apre le Rems al territorio e ne fa occasione di sviluppo invece che di allarme». A Calvi il tasso di dimissioni è tra i più alti in Italia, il turnover è continuo: da gennaio sono uscite 18 persone e altre 8 sono in attesa di essere dimesse. Il problema sono quelli che non dovrebbe stare lì, inclusi i pochi che scappano. «Non sono malati psichiatri, sono persone capaci di intendere e di volere che cercano di tornare a una vita ai margini della legalità e che hanno alcun bisogno di interventi sanitari», osserva Nese. In lista di attesa per entrare in una Rems ci sono 29 persone, 21 delle quali già in cura nei servizi sanitari della Campania. «Potrebbero continuare quel percorso terapeutico restando nello propria comunità senza essere “deportati” in una Rems come succedeva coi manicomi», garantisce Nese.
Gia.Gal.

La Stampa 18.9.17
“Ogni caso è diverso non c’è una cura unica” Shiatsu, teatro e sport

Un giovane africano dai capelli rasta fissa la campagna l’intero pomeriggio. Si rianima solo per fuggire l’obiettivo. «No foto», si copre il volto. In Italia ci sono 600 ospiti nelle Rems e 300 in lista d’attesa. Quanto sia complicato occuparsi di loro lo dimostra questa ex scuola alle porte di Parma riconvertita nel 1999 in residenza per patologie psichiatriche croniche e poi ristrutturata e divenuta nell’aprile 2015 una delle prime Rems istituite dalla legge 81 del 2014 che ha chiuso gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Vetri antisfondamento alle finestre, una recinzione perimetrale ed impianti di videosorveglianza lungo la recinzione e negli spazi comuni interni, 23 operatori che si alternano in un programma personale di cura e di riabilitazione che dura in media un anno. La responsabile Giuseppina Paulillo ha sulla scrivania il piano delle attività interne, delle uscite di gruppo e delle licenze individuali degli ospiti autorizzate dalla magistratura. Cinque cooperative sociali alternano attività di escursionismo, shiatsu, laboratori teatrali, informatici e sportivi. Attorno villette monofamiliari e campi di mais. Davanti al municipio e al bar-ritrovo dei tifosi del Parma, poca voglia di parlare della Rems. Un anno e mezzo fa un tunisino arrivato qui dalla casa di reclusione di Piacenza ha scavalcato la recinzione e nessuno lo ha più ritrovato. Il vicinato si è allarmato, molti hanno protestato. Per lo psichiatra Giovanni Francesco Frivoli e lo psicoterapeuta Pietro Domiano, nessuno dei 26 malati psichiatrici è finito tra queste mura per un crimine commesso nel raptus di un istante. «Hanno tutti un vissuto doloroso che li ha portati qui», chiariscono Ivana Molinaro e Sandra Grignaffini rispettivamente tecnico della riabilitazione e coordinatrice infermieristica. In una stanza un sacco da boxe, nel giardino l’orto e un biliardino. Qui c’è chi ha commesso un omicidio o uno stupro, chi ha indirizzato la violenza verso i propri familiari. «Siamo un luogo di cura più che di detenzione- spiega Paulillo-.Collaboriamo con i servizi sociali per i progetti riabilitativi, il sostegno socioeconomico e la reinclusione sociale». Ridurre l’uso di psicofarmaci e non far ricorso alla contenzione sono scelte che richiedono un’attenzione continua al singolo. «Ci affidano persone sole e prive di mezzi, non esistono percorsi validi per tutti, ognuno ha bisogni e disagi differenti», allarga le braccia Frivoli.
Gia.Gal.

La Stampa 18.9.17
Una fuga ha rovinato il rapporto con la città
“Ora serve un progetto”
di Matteo Indice

La data che ha fatto da spartiacque è stata domenica 22 aprile. Quando dalla Rems di Genova Pra’, l’unica della Liguria, è scappato l’ex capo ultrà del Genoa Pietro Bottino: condannato per aver lanciato la fidanzata dalla finestra nel 1998 (tentato omicidio) e per una strage sfiorata in autostrada nel 2006, quando si mise a sparare a caso sulle auto dopo che aveva gambizzato un tifoso rivale in un club. Su di lui s’era scatenata per mezza giornata una specie di caccia all’uomo, ma Bottino si schiantò in moto in autostrada, morendo sul colpo. Il suo caso aveva (definitivamente) rinfocolato le polemiche su una struttura che gli abitanti del quartiere avevano accolto con freddezza, da cui s’erano registrate altre due evasioni nello spazio di poche settimane. E però i rivolgimenti dei mesi successivi dimostrano che è utile sia lanciare l’allarme, sia usare il buon senso per drenarlo. «Ci sono stati momenti critici - spiega oggi il direttore sanitario Giuseppe Berruti -.Abbiamo adottato i doverosi correttivi prima della demonizzazione. Sono state rinforzate le protezioni, è stato perfezionato il collegamento in tempo reale con le forze dell’ordine. Ciò non significa che la possibilità d’una fuga sia esclusa a priori, poiché queste sono strutture sanitarie e non carceri. Ma da aprile in avanti non se ne sono più registrate e si è normalizzato pure il rapporto con la cittadinanza».
La Rems di Genova, come le altre, è al top della capienza con 20 ospiti, 15 italiani e 5 stranieri, tra loro soltanto una donna fino a poche settimane fa. Dodici operatori, quattro i medici, si alternano su vari turni, l’intero servizio è gestito dal consorzio “Il Fiocco” del gruppo Fides su accreditamento della Regione e la pittura è uno dei mezzi più usati in funzione rieducativa. Soprattutto: doveva (dovrebbe) essere il supporto d’una struttura più attrezzata a Calice al Cornoviglio (provincia della Spezia), che però non si è ancora concretizzata ed ecco che a Pra’ hanno dovuto stringere i tempi e gestire pressione doppia. Berruti non lo nasconde eppure ci crede: «Partenza difficile, ma il rodaggio è servito eccome. Siamo in contatto con altri centri, specie quello di Parma, tra gli operatori c’è la volontà di non mollare. Se s’investe in progetti e li si pianifica senza drammatizzare le prime difficoltà, possono rappresentare una vera svolta».

Corriere 18.7.17
Orlandi, il giallo del dossier
Un dossier che circola negli uffici della Santa Sede. Un giallo che avvalora l’ipotesi che i «corvi» siano tornati in Vaticano e che chiama in causa le gerarchie ecclesiastiche sulla scomparsa di Emanuela Orlandi nel 1983. E sembra voler accreditare la pista che sia morta nel 1997
di Fiorenza Sarzanini

ROMA Un nuovo, inquietante mistero segna la ricerca della verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983. E avvalora l’ipotesi che i «corvi» siano tornati in Vaticano. Perché un dossier che circola negli uffici della Santa Sede chiama in causa le gerarchie ecclesiastiche sulla fine della giovane sparita a 15 anni nel 1983 e sembra voler accreditare la possibilità che sia morta nel 1997. Elenca le spese che sarebbero state sostenute Oltretevere proprio per gestire la vicenda. L’esame del carteggio non fornisce alcun riscontro che si tratti di un documento originale perché non contiene timbri ufficiali, ma appare verosimile che venga utilizzato nell’ambito dei ricatti incrociati che hanno segnato la vicenda Vatileaks ed evidentemente non sono ancora terminati. Per questo la famiglia Orlandi torna a chiedere alla Segreteria di Stato di «sgomberare il campo da ogni dubbio» e attraverso le avvocatesse Annamaria Bernardini De Pace e Laura Sgrò insiste «per avere accesso a tutti i documenti e comunque poter incontrare il segretario di Stato Pietro Parolin: il caso non è e non può essere chiuso».
Il furto nella cassaforte
Si torna alla notte tra il 29 e il 30 marzo 2014 quando viene scassinata la cassaforte che si trova nella Prefettura vaticana e contiene l’archivio della commissione Cosea, della quale facevano parte monsignor Balda e Francesca Chaouqui, entrambi finiti sotto processo con l’accusa di aver divulgato documenti segreti relativi alle finanze vaticane. Nel libro Via Crucis di Gianluigi Nuzzi, che svela una parte di quelle carte segrete, vengono pubblicate le fotografie della misteriosa irruzione.
Durante le indagini su Vatileaks il promotore di giustizia della Santa Sede interroga il capo ufficio monsignor Alfredo Abondi che a verbale dichiara: «Nella sezione riservata della Prefettura venivano conservati i documenti sulla sicurezza e sulle situazioni rilevanti relative all’Amministrazione. Nei giorni successivi al furto nel dicastero ci fu recapitato un plico con i documenti sottratti». Non entra nel dettaglio ma specifica che «si tratta di materiale che riguarda pratiche risalenti a 10 o anche 20 anni fa». Poco dopo comincia a circolare l’indiscrezione che tra quei dossier ce ne sia anche uno sulla scomparsa della ragazza.
I milioni di Apsa
Sei mesi fa Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, rilancia questa possibilità, entra nel dettaglio parlando di «cinque fogli, mostrati anche a papa Francesco che proverebbero che non sarebbe morta subito, perché datati fino al 1997». È il plico che viene adesso fatto circolare. Si intitola «Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi».
È datato 28 marzo 1998, firmato dal cardinale Lorenzo Antonetti, all’epoca presidente dell’Apsa, l’amministrazione del Patrimonio della sede Apostolica, e indirizzato al sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato il cardinale Giovanni Battista Re e al sottosegretario Jean Louis Tauran. Elenca spese per circa 500 milioni di lire sostenute tra gennaio 1983 e luglio 1997. Si chiude con il pagamento di 21 milioni di lire per «attività generale e trasferimento presso città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali».
Ricatto o depistaggio
Le «voci» e i relativi pagamenti accreditano la possibilità che la giovane sia stata ospitata in alcuni conventi e appartamenti in Italia e all’estero, ricoverata in almeno due strutture sanitarie in Gran Bretagna, trasferita più volte. Specifica che una parte dei soldi è stata versata a «fonti investigative», e cita il pagamento per l’attività relativa a un episodio di «depistaggio».
Il documento — dattiloscritto con un carattere risalente a vent’anni fa — contiene nomi e luoghi realmente esistenti, parla dell’attività investigativa svolta anche dall’allora responsabile della gendarmeria, si riferisce ad «allegati» su «quantità di denaro autorizzate e prelevate per spese non fatturate». Il fatto che la prima data sia gennaio 1983, cioè sei mesi prima della sparizione, sembra voler avvalorare la possibilità che Emanuela fosse sotto il controllo di autorità vaticane già da quel periodo. Potrebbe trattarsi di un documento che contiene circostanze vere, fatto circolare proprio da chi continua ad esercitare il proprio potere di ricatto contro le gerarchie ecclesiastiche, visto che mai è stato fugato il sospetto sul loro ruolo in questa vicenda. Oppure un depistaggio. «In ogni caso — chiariscono le due avvocatesse — la famiglia ha diritto a ottenere chiarimenti e per questo torniamo ad appellarci direttamente a papa Francesco affinché voglia ascoltare la loro supplica. Lui stesso ha detto che “la verità non si negozia”».

La Stampa 18.9.17
Parla di sesso nell’ora di religione
La Curia: niente cattedra al prof

Niente cattedra per aver parlato di sesso nelle ore di religione con gli alunni della scuola media. Ma il professore Giovanni Siotto, 32 anni nuorese, a cui la Curia non ha confermato l’incarico per questo anno scolastico non ci sta e replica «all’ingiustizia» denunciando l’Ufficio Irc (insegnamento religione cattolica) della Curia e le scuole in cui ha insegnato. Nell’ esposto Siotto spiega: «Presentare denuncia per mobbing, nomine farlocche e fuori legge all’Ufficio Irc della Curia e per abuso d’ufficio, appropriazione indebita (da parte di una scuola media nuorese, ndr) del programma personale del docente (furto) prima che venisse caricato nel registro elettronico, nonostante avessi invitato la vice dirigente di non farlo avere a nessuno, ma che doveva essere visto solo dal collegio docenti e genitori».

Il Fatto 18.9.17
In cammino con il ‘Cortile di Francesco’ per riscoprire le tappe del linguaggio
Si è conclusa la terza edizione della manifestazione organizzata ad Assisi e occasione di dialogo tra credenti e non
di Pietrangelo Buttafuoco

La preghiera non è geografia ma ha una direzione. Il Cortile di Francesco ha chiuso, ieri, ad Assisi, le sue quattro giornate d’incontri. Un’edizione – quella di quest’anno, la terza – dedicata al cammino. Un tema che procede dall’indicazione data ai frati del Sacro Convento dal papa regnante di tre specifici luoghi: testa, cuore e mani. Sono le tre tappe del linguaggio in cammino, forse una variante rispetto ai tre stadi di conoscenza spirituale, e cioè cuore, spirito e anima ma l’incamminarsi nella vita fatta di carne e sangue approda all’essenza di tutte le cose nell’abbandono: “Non fu che il tocco di un attimo,” – insegna la dottrina mistica – “eppure per l’eternità.”
Non c’è fatica più dolce del liberare la preghiera dalle sue scorie e riportarla alla sua essenza. Questo è il senso della povertà professata da Francesco, il testimone del Jihad – il combattimento contro il sé infero – nel segno di Cristo. È il linguaggio che muove il passo. Il linguaggio oltrepassa. E quando ognuno al termine di un cammino non cessa il desiderio della meta – quando si giunge all’adorazione, quanto più ci si smarrisce nell’intima prossimità spirituale – il guadagno in commozione è tutto nel rinnovare, con la preghiera, il cammino fatto di scarpe, calze o perfino piedi nudi.
Tutto un muoversi in cerca di una direzione per come si vede ancora nei luoghi del Sud del Sud dei Santi dove i popoli, non ancora piegati al dettato dello spirito del tempo, si muovono all’alba per arrivare ai tabernacoli, alle chiesette, recidendo cespi di alloro per San Vito a Regalbuto, ceri per la Madonna della Catena a Leonforte promesse nei santuari, come a Pompei o a Tindari, affinché ogni muro di profonda oscurità si sbricioli nella visione: “Ei viene,” insegna ancora la dottrina mistica, “luna quale il cielo non vide mai, nella veglia e nel sonno.”
Il concetto che in lingua tedesca recita l’ur-Sprache, ovvero la lingua originaria, nel sentimento corrente è lingua madre. È l’idea stessa di una voce che preesiste in ognuno in virtù del sangue, della memoria e dell’impronta remota perfino al ventre materno se per esempio, già nella prima invocazione di Dio, secondo la formulazione coranica, le parole Bismillah al-Rahman al-Rahim svegliano inconsciamente il ricordo della venuta al mondo. Corrispondono, in assonanza ritmica e fonetica, il subbuglio carnale del ventre quando si fa l’amore.
Ed è cammino, ed è linguaggio. “Muoviti!”, per esempio, nella lingua di Luigi Pirandello significa “stai fermo!”. Ancora più preciso è “Muoviti là”. Passo dopo passo nella direzione. Per arrivare alla meta e desiderare ancora la meta. “Il suo amore”, recita Bayazid, “entrò e allontanò tutto all’infuori di sé e non lasciò traccia di null’altro, così che rimase solo così come Egli è solo”. Come una goccia d’acqua gettata nell’Oceano. Il tocco di un attimo, eppure per l’eternità.

Repubblica 18.9.17
l retroscena
Palazzo Chigi vuol far votare la legge sulla cittadinanza in ottobre, dopo il Def. “Al Senato numeri sul filo, devono essere sicuri al 100%”
Il patto tra Gentiloni e il Vaticano “Alfano ascolti la Chiesa, sia coerente”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Smuovere Alfano. «Se i centristi non ascoltano la Chiesa, chi dovrebbero ascoltare?» , dicono a Palazzo Chigi. Paolo Gentiloni confida molto nella sponda del Vaticano per sbloccare lo ius soli.
Le gerarchie fanno pressing sul mondo di riferimento di Ap, come dimostra la prima pagina del quotidiano della Cei Avvenire di ieri. Il governo marca stretto il ministro degli Esteri per costringerlo a trovare i numeri in grado di dare il via libera alla legge sulla cittadinanza.
Ma smuovere Alfano non è facile, nonostante la tenaglia. Il leader di Alternativa popolare segue la strada opposta sul tema dei nuovi italiani: immobilismo assoluto. Per paura che il partito esploda. Se fa un passo avanti sullo ius soli, il castello crolla. Tre senatori siciliani, Torrisi, Pagano e Mancuso, hanno già scelto di appoggiare Nello Musumeci in Sicilia, antipasto di una fuga a destra. Altri tre, Formigoni, Albertini e Sacconi, sposano il progetto di Stefano Parisi, costola del berlusconismo in vista delle elezioni. Sono questi i numeri certi che mancherebbero a Palazzo Madama, dove già si balla sul filo. E non è assolutamente detto che altri non siano pronti a negare il loro voto, anche senza guardare ad Arcore. Come Paolo Bonaiuti, per esempio. In più, ci sono forti dubbi sulla tenuta del gruppo della Volkspartei, voti che oggi sono ascritti alla maggioranza di governo. Ambasciatori del premier lo hanno spiegato ai vertici del Vaticano: noi ci proviamo, ma i numeri sono numeri.
Avvenire va in tutte le parrocchie italiane. La copertina di ieri quindi era in bella vista sui banchi della messa domenicale. A Palazzo Chigi contano sul fatto che la pressione vada avanti nelle prossime settimane. La sintonia assoluta tra la Cei e Gentiloni non è un mistero. Il sostegno della Santa sede alla politica sull’immigrazione di Marco Minniti è un altro tassello del puzzle. Per tentare la strada della fiducia si aprono due finestre. Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento al Def che cade a fine mese. Ottobre potrebbe essere il momento giusto per rimandare la legge in aula, prima delle votazioni sulla manovra economica. Oppure, si dovrà aspettare l’elezione siciliana (che potrebbe far cambiare idea ai senatori isolani di Ap) e il primo passaggio della legge di bilancio al Senato (metà novembre). Questi sono gli spazi e i tempi. Ma la richiesta fatta da Gentiloni a Luigi Zanda, capogruppo del Pd a Palazzo Madama, è stata netta: «Dobbiamo sapere in anticipo i senatori favorevoli. Uno per uno, nome per nome ».
Angelino Alfano aveva già detto sì a luglio. Lo direbbe di nuovo adesso, tanto più che il suo partito ha votato la legge alla Camera. Il punto è che il partito non regge o sta in piedi con una colla di scarsa presa. A prescindere dalla volontà del ministro degli Esteri. Il 26 è fissata una direzione di Ap. Sono previste scintille. Il bivio è quello solito per una forza composta da ex berlusconiani: come schierarsi alle prossime politiche? Chi vota lo ius soli non avrà chance di tornare alla casa madre o nella formazione satellite che stanno componendo Raffaele Fitto, Enrico Costa e Gaetano Quagliariello. In più, Ap è divisa per territori. La trazione sudista fa l’alleanza con il Pd in Sicilia, la componente del Nord punta all’alleanza con Maroni in Lombardia, dove si vota lo stesso giorno delle politiche 2018.
Gentiloni vuole usare tutte le armi. Compresa la sponda operativa del Vaticano. I vescovi devono farsi sentire con i loro contatti tra i centristi, non mollare la presa. Anzi, sono chiamati ad alzare il tiro nelle prossime settimane. Pubblicamente, come ha fatto il quotidiano della Cei. E in via riservata. Il Vaticano ha anche individuato la figura adatta al “dialogo” con Alfano. È monsignor Rino Fisichella, vicino al centrodestra in molte battaglie sui temi etici, oggi “convertito” alla chiesa di Francesco, dove ha un ruolo chiave: presidente del Consiglio pontificio per l’evangelizzazione. A lui il compito di portare a termine la missione, anche in extremis, come ultimo atto della legislatura: smuovere Alfano in modo da reclutare il massimo dei consensi possibili nelle sue fila.
Alla stessa sponda si affida Zanda, laico di ferro, ma con rapporti ottimi Oltretevere dopo la sua esperienza a capo del Giubileo del 2000. Il suo compito principale però è il pallottoliere: garantirsi numeri certi e fidati. Perchè le strade alternative alla fiducia, ovvero qualche modifica del testo, un voto del Senato che rinvii la legge alla Camera, sono state tutte simulate nella stanza del capogruppo di Palazzo Madama. «Ma sono impossibili, con 50 mila emendamenti della Lega», osserva Zanda.

Corriere 18.9.17
Minniti e Ravasi sui migranti: sì allo ius soli entro la legislatura
di V. Pic.

ASSISI «Ci sono due diritti fondamentali: quello di chi è accolto e quello di chi accoglie. Una democrazia che ascolta solo l’uno o l’altro non sta in un giusto equilibrio». Nel «Cortile di San Francesco» il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha difeso ieri la sua linea dura contro gli sbarchi. E, in un confronto con il cardinal Ravasi, ha auspicato una rapida approvazione dello ius soli: «Bisogna fare ogni sforzo per approvarlo entro la legislatura». Ma, ha precisato Minniti, «gli sbarchi sono cosa ben diversa». Di fronte alla provocazione di Corrado Formigli («Ha dimenticato il sentimento umanitario patrimonio della sinistra?») Minniti ha rivendicato: «Sono il ministro dell’Interno, non posso lasciare le chiavi della nostra democrazia ai trafficanti di uomini. Il 97% dei migranti viene dalla Libia, ma non c’è un libico negli sbarchi. Vuol dire che c’è una gestione criminale che devo sconfiggere. E devo tener presente che esiste un limite all’accoglienza: la capacità di integrare». Idea sulla quale è intervenuto Ravasi: «L’accoglienza è una realtà complessa e delicata, non è l’accumulo di persone. Deve assicurare all’altro la possibilità di conservare le sue memorie. Dobbiamo abbandonare il luogo comune, lo stereotipo, della volgarità del populismo e avere una comprensione dei problemi. I problemi complessi non possono essere risolti con una battuta estremamente buonista e neppure con vacuità e brutalità delle risposte». A Formigli, che chiedeva dei campi in Libia dove i migranti vengono bloccati in condizioni disumane, Minniti ha risposto: «Per 66 anni nessuno ha visto che la Libia non applicava la Convenzione di Ginevra. Io ho riportato lì l’Unhcr che ha selezionato bambini, donne e anziani da ricollocare. Sono già stati fatti rimpatri assistiti dando un budget a chi voleva ricostruirsi una vita nel suo Paese. Se funziona saremo presi a modello». Soddisfatto padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa di Assisi: «L’auspicio di voler “intelligere”, comprendere, di monsignor Ravasi, condiviso dal ministro Minniti, è quello che vuole la gente. Qui l’ha avuto».

La Stampa 18.9.17
Salvini: “Mano libera alla polizia”
Ignorato Berlusconi. Sicurezza e sovranismo: il piano è prendere i voti della destra
di Alb. Mat.

Sul sacro pratone di Pontida ci sono, a occhio, 5 mila leghisti, il solito folklore padano, i «Noi con Salvini» calabresi che vendono peperoncino e ‘nduja, molto fango e un fantasma. Il fantasma ha anche nome e cognome, Silvio Berlusconi, ed è uno dei due innominati di giornata (l’altro è Umberto Bossi, e a Pontida colpisce anche di più).
Nel suo pur lunghissimo discorso, Matteo Salvini cita Berlusconi una sola volta, e solo per ammonirlo che di recuperare dei «poltronari» alla Alfano non vuol sentire parlare. Per il resto, Silvio è come la minima di Campobasso: non pervenuto. Non lo citano Roberto Maroni e Luca Zaia e nemmeno Giovanni Toti, primo non leghista invitato a parlare qui, che pure è di Forza Italia. Tutti sanno, anche prima che da Fiuggi comincino ad arrivare dichiarazioni poco digeribili, che a nominare Berlusconi si rischiano fischi. Uno dei capi più venduti della collezione autunno-inverno leghista è la maglietta con la scritta «Berlusconi basta! Ti prego fatti da parte». Uno di quelli più indossati, la felpa con lo slogan «Salvini premier». L’unico punto sul quale Silvio e Matteo concordano, sia pure a distanza, è che a entrambi non piace Di Maio. Solo che per il primo è «un meteorino», per il secondo «un funghetto».
Non è solo questione di persone. Anche sui contenuti non sarà facile trovare la quadra, concesso e non dato che lo si voglia. Gli spot per i referendum autonomisti del 22 ottobre sono affidati a Maroni & Zaia, e così il comizio di Salvini diventa un vero programma di governo. Unica concessione «moderata», l’«ultima chance» lasciata all’Europa: «O cambia, o addio». Per il resto, una serie di proposte poco moderate e molto di destra, scandite interpellando la folla, «siete d’accordo, sì o no?», secondo un modello di dialogo con la piazza che in Italia ha già un illustre precedente, per la verità non molto rassicurante.
Nei progetti c’è, intanto, una raffica di abolizioni: delle leggi antifascio Mancino e Fiano («Le idee non si processano»), degli studi di settore, della buona scuola, del decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori, e l’abolizione dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Fra le proposte, i giudici eletti dal popolo, una radicale riforma della giustizia da affidare all’ex magistrato Carlo Nordio, l’introduzione di un salario minimo orario, la difesa dei prodotti italiani, anche reintroducendo i dazi doganali, la «mano libera alle forze dell’ordine», un referendum sull’autonomia per tutte le regioni, sei mesi di servizio civile o militare e, ovviamente, «prima gli italiani».
Manca la risposta «eclatante» al sequestro dei conti correnti della Lega disposto dai giudici di Genova, «entrati di notte a ripulire le vostre tasche» (e giù fischi). Era stata annunciata, non è arrivata. Difficile trovarne una convincente? No, giura Salvini, la deciderà oggi il Consiglio federale. La situazione è seria. Il verde sarà anche il colore della Lega, ma la Lega al verde è un problema. Intanto sul pratone è già partita la colletta.

La Stampa 18.9.17
L’etica della Repubblica nel caso Consip
di Vladimiro Zagrebelsky

L’indagine della Procura napoletana su possibili fatti di corruzione nella attività di Consip ha da tempo ormai rivelato gravi deviazioni da correttezza e capacità professionali, le quali sono state scoperte dallo scrupolo dei magistrati della Procura di Roma. Invenzione di interferenze dei servizi segreti, creazione di una prova a carico di un indagato (il padre dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi) con la alterazione del risultato di una intercettazione telefonica.
Ciò ad opera di personale del reparto dei Carabinieri incaricato dalla Procura di Napoli, senza che i magistrati delegati per la conduzione dell’indagine esercitassero il controllo di cui poi furono capaci i magistrati romani. Per vedere la estrema gravità dell’accaduto non c’è nemmeno bisogno di pensare ad un complotto politico per disarcionare il presidente del Consiglio, così dando ai protagonisti della vicenda la dignità politica dei golpisti. Le dichiarazioni della dirigente della Procura di Modena al Csm sull’atteggiamento degli ufficiali dei Carabinieri - che aveva ricevuto in una indagine collegata a quella napoletana - offrono una chiave di lettura più semplice, che basterebbe però per allarmare e chiedersi quale controllo abbiano esercitato i magistrati napoletani sugli ufficiali di polizia giudiziaria che avevano delegato per l’indagine. E interrogarsi sul senso della conferma della delega a quel reparto di Carabinieri anche quando la Procura di Roma l’aveva esautorato. Ogni ipotesi è ormai legittima: fiducia mantenuta, condivisione di metodi e risultati, stretta collaborazione non ostanti le deviazioni? C’è da augurarsi che chiarezza venga fatta e che nell’indagine penale e in quella aperta dal Csm non venga meno la obbligatoria lealtà tra deleganti e delegati e la regola per cui in ogni caso chi dirige è responsabile della condotta dei subordinati. La direzione dell’indagine spetta per legge ai magistrati della Procura della Repubblica, la responsabilità dell’accaduto anche.
L’episodio, per il contesto e i protagonisti, ha un evidente carattere politico e come tale viene discusso. Ma bisognerebbe anche cercare di capire come una simile vicenda sia potuta accadere e come le varie istituzioni siano coinvolte ed abbiano reagito. Purtroppo il quadro è negativo e, se non corretto, promette repliche nel futuro dando anche spazio a inquietudini per il passato. Ciò che è stato qui possibile potrebbe già essersi verificato altre volte. In ogni caso produce devastanti dubbi, lesivi della fiducia da cui dipende l’efficacia delle istituzioni. Ora divengono noti contrasti interni alla Procura della Repubblica di Napoli sulla conduzione di quell’indagine ed anche sui criteri seguiti per la sua assegnazione a questo o quel magistrato. Conflitti e violazioni di regole interne nei rapporti con i superiori sono emersi nell’ambito dell’Arma dei Carabinieri. La prima domanda che si pone riguarda la condotta dei responsabili dei vari uffici. Nelle Procure c’è un titolare dell’ufficio, responsabile della sua organizzazione. Visto quel che ora si viene a sapere c’è da chiedersi come sia stato possibile il mantenimento della designazione dei sostituti. Si può però capire: il fiancheggiamento di cui essi godevano da parte di organi di stampa avrebbe sollevato l’accusa di voler impedire l’emergere di verità scomode per il potere. È questo un ricatto cui i dirigenti degli uffici sono soggetti. Il risultato è di assegnare ai sostituti una posizione di potere insuperabile. Ma ciò è contro le norme che regolano il funzionamento delle Procure, che sono uffici unitari sotto la direzione del titolare: norme chiare anche se da molti anni svuotate da interpretazioni del Csm attente ai desideri dei (molti) sostituti piuttosto che alle prerogative dei (pochi) dirigenti. Altrettanto sconcertante è la mancanza di controlli e la esistenza di lotte e conflitti interne ad un corpo militare come i Carabinieri, cui non hanno fatto seguito in questo caso misure di cautela amministrativa. L’eco amplificato da parte della stampa, questa volta chiaramente orchestrato, aumenta il potere interno di chi dovrebbe agire sotto la direzione dei titolari degli uffici. Non si tratta qui di mettere in discussione la pubblicazione di notizie comunque di interesse pubblico da parte della stampa che le ottiene, ma di segnalare che il passaggio alla stampa di notizie riservate non è solo illegale; esso può stravolgere le posizioni di forza interne agli uffici, rendendoli ingovernabili.
Più volte si è avuta l’impressione di timidezze e di sottovalutazione dei doveri direttivi da parte di dirigenti di Procure della Repubblica. Talora tentativi di Procuratori di esercitare i loro poteri (e doveri) per correggere disfunzioni non sono stati sostenuti dal Consiglio superiore della magistratura. È ben chiaro che ogni potere discrezionale consente abusi, ma la attuale tendenza ad enfatizzare automatismi e a nascondere il potere sotto l’ipocrita etichetta dell’atto dovuto (o, per le Procure, dell’obbligo dell’azione penale), non impedisce gli abusi e però non permette di riconoscerne i responsabili. Si tratta di una tendenza anche prodotta dalle leggi: l’incredibile promozione di un ufficiale dei Carabinieri indagato per fatti gravissimi è stata spiegata come effetto automatico di una legge.
La fuga dalle responsabilità e il rinvio ad atti di altri o ad eventi automatici è generale. Anche a livello politico ove, strumentalizzando il principio di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, si evita di valutare le accuse sulla base dei fatti emersi e di prendere misure politiche di allontanamento o sospensione per compagni di partito o componenti di organi politici. Ci si sottrae così al dovere di scelte di etica politica e ci si assoggetta (poi lamentandosene) allo sviluppo di procedure giudiziarie. Il filo che lega e spiega tutto questo è la fuga dalle responsabilità e l’ossessiva ricerca di criteri oggettivi, automatici, nelle mani di altri, che consentano di allontanare da sé l’onere e la responsabilità delle scelte.

Corriere 18.9.17
Il caso Consip non diventi alibi
di Goffredo Buccini

Più si scava, più il caso Consip svela contorni inquietanti per la nostra democrazia. Che serva maggior rigore nella gestione delle indagini è la richiesta minima da rivolgere tanto alla magistratura inquirente quanto agli organi di polizia giudiziaria a essa collegati con criteri non sempre lineari.  F ascicoli trattenuti indebitamente, flussi informativi non dovuti, intercettazioni «border line», bersagli politici che diventano target investigativi, falsificazioni: il catalogo degli errori e degli orrori, agli atti del Csm, ha finito per vestire da indagato un pm famoso come il napoletano Woodcock e sta sporcando l’immagine di un onorato reparto dei carabinieri, il Noe (con un ufficiale inquisito e il suo comandante, il leggendario Ultimo, sospettato di manovrarlo in modo opaco).  Un quadro tale da giustificare l’allarme a prescindere dal fatto che sotto tiro qui ci siano politici o loro familiari: nessun cittadino può sentirsi tranquillo se le regole del gioco vengono alterate. La campana Consip suona per tutti. La politica però nel suo insieme commetterebbe un errore se schermasse i propri fallimenti dietro le anomalie delle indagini, come è già accaduto. E’ umano che chi è legato a Renzi gridi al complotto. Ma è ragionevole sostenere che l’eventuale complotto abbia abbattuto il governo? Fu così nel 1994 con Berlusconi? E nel 2008 con Prodi? Vediamo.  Berlusconi nel ‘94 non cadde per il discusso invito a comparire ricevuto a Napoli: vi sarebbe politicamente sopravvissuto se avesse avuto una maggioranza coesa. Quel primo centrodestra teneva insieme ancora a fatica postfascisti e aspiranti secessionisti; non era amalgamato come poi fu, per merito di Berlusconi stesso: era nato caoticamente sul bisogno di impedire la vittoria alla «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Umberto Bossi si sfilò per problemi di tenuta nella sua base ancora pregna di giustizialismo e per l’incolmabile distanza da Fini.  Così Prodi nel 2008 non cadde davvero per il colpo dei magistrati contro Clemente Mastella, allora suo Guardasigilli. Cadde perché aveva una maggioranza fragile, con ministri comunisti che manifestavano contro il loro stesso governo. E, soprattutto, perché il profilo di un esecutivo composto da 13 sigle politiche (!) era in contrasto con quello del suo principale dante causa, il neonato Pd di Veltroni, a vocazione maggioritaria.  Il calendario ci dice che Renzi non è caduto sulla Consip: l’inchiesta deflagra dopo il referendum del 4 dicembre. L’ex enfant prodige del Partito democratico cade per l’allergia anche caratteriale al gioco di squadra e perché non riesce a spiegare agli italiani il senso vero di quel referendum. Abbagliato dalla propria hybris. E certo danneggiato, sul piano dell’immagine, da un babbo perlomeno ipercinetico.  Intendiamoci: sarebbe da ingenui sostenere che le vicissitudini penali non abbiano pesato. Il caso Consip è quel verminaio investigativo di cui ancora stiamo definendo i contorni; l’inchiesta su Mastella fu una cantonata presa confondendo una trattativa politica con una concussione; e l’invito a comparire a Berlusconi (mentre rappresentava l’Italia a una conferenza internazionale) fu perlomeno un errore di tempistica così grave da sollevare il sospetto, crediamo ingiusto, che si volesse screditare il premier.  E tuttavia è una politica debole o inadeguata quella che tende, nelle ore amare, a strillare all’attacco giudiziario: facendosene scudo davanti all’opinione pubblica e dimenticando che i magistrati, quasi tutti, fanno solo il loro mestiere e semmai sbagliano in buona fede. Errori o attacchi che siano, gli effetti sarebbero comunque ridotti se il quadro politico fosse più solido.  Dopo Consip, sarebbe ragionevole ad esempio rivedere in via normativa i legami tra pubblici ministeri e polizia giudiziaria, per evitare che una sana fiducia professionale diventi un patto di fedeltà perlomeno «praeter legem». Ma quale politico avrebbe l’autorevolezza di proporlo senza essere sospettato di tirare la volata a ladri e grassatori?

Corriere 18.9.17
Lo show di Prodi e Letta: Matteo stai sereno
Intervista satirica ai 2 ex premier, che cantano: il Pd era un bel sogno ed è già svanito. Il Prof: la tenda? L’ho persa
di Monica Guerzoni

CESENATICO È solo un gioco, uno show per chiudere con il sorriso la Summer School della Scuola di politiche di Enrico Letta. Eppure fa effetto vedere due ex presidenti del Consiglio, stimati in Europa e nel mondo, che davanti a 300 giovani aspiranti leader si sottopongono allo «StaiserenoQuiz» di Enrico Bertolino, Luca Bottura e Marco Damilano. Scherzano sul passaggio della campanella nel 2014 e, sulle note di Despacito , canticchiano un motivetto sulla fine prematura del Partito democratico: «Era un bel sogno ed è già svanito / Ad aprile rischia il benservito».
Si gioca al «RischiaLetta» e la domanda è per Prodi: cosa pensava Enrico mentre passava il testimone del governo a Renzi? Romano va dritto alla risposta A: «So io dove gli metterei il batacchio della campanella». E giù risate, tanto che lo staff del Professore pregherà i giornalisti di sottolineare il «tono scherzoso della mattinata», così che non si pensi che Prodi abbia davvero dimenticato l’anno di fondazione del partito. «Quando è nato il Pd? Boh...». E in che anno si scioglierà? «Beh, qui è più facile».
I due «camperisti», come Letta definisce l’ex tandem presidenziale, non hanno dimenticato, no. Ma certo hanno preso distanza dal Pd a trazione renziana. Non hanno più la tessera e usano la metafora del camping. «La mia tenda? L’ho messa nello zaino e l’ho perduta», dichiara Prodi riferendosi al viaggio che lo sta portando lontano dal Nazareno.
E c’è anche il tempo di ricordare gli anni a Palazzo Chigi. «Non contavo niente anche quando ero premier», si schermisce Letta. E Prodi: «A me invece piaceva stare in quel Palazzo e piaceva anche a te stare nella stanza vicino».
Fosse per Letta, toccherebbe di nuovo a Gentiloni: «Un bis sarebbe la cosa migliore per l’Italia». Ma Prodi sospetta che Renzi non sarà così generoso. Domanda: Gentiloni non scrive #Matteostaisereno o proprio non lo pensa? «Non lo scrive!», risponde malizioso il Professore. Si fa satira e si fa politica. Il leader dell’M5S? Tra Luigi Di Maio, Roberto Fico e Alessandro Di Battista, Letta sceglie «Dibba tutta la vita». E nel centrodestra? «Sarà Tajani il candidato premier, sta facendo bene il presidente del Parlamento europeo».
Se c’è una cosa (un’altra) che Letta non perdona a Renzi è l’aver resuscitato Berlusconi: «È incredibile, ma giocherà un ruolo centrale alle prossime elezioni». Prodi ricorda lo scandalo suscitato dall’uomo di Arcore quando diede del kapò a Martin Schulz: «Fu una roba devastante, al peggio non c’è mai limite». Avanti così, da una gag all’altra. Ecco il filmato di Renzi che si aggroviglia in inglese e Letta che ride, piegato in due sulla poltrona. Ma le elezioni si avvicinano e i due allievi di Beniamino Andreatta, al quale la Scuola è intitolata, non nascondono la preoccupazione. Letta teme «il caos, un Paese ingovernabile e un Parlamento ridotto come la Somalia, in una guerra per bande». Prodi, che a seguire è intervistato da Monica Maggioni sui massimi sistemi, si mostra altrettanto angosciato: «Cosa ci facciamo con questa legge elettorale? Un casino pazzesco».
Dalla contesa che dilania i dem Letta si considera fuori. Ha ripreso a tessere una fitta tela di relazioni, ragiona di un Partito europeo e si dedica ai giovani, convinto che tra i ragazzi della Summer School ci sia il futuro presidente del Consiglio: «Cosa voglio fare io? Tenere una candela accesa, perché si sappia che da qualche parte in Italia esiste ancora una fiammella di valori e di buon senso».

Corriere 18.9.17
L’offerta dem a Pisapia sul sistema di voto per sganciarlo da Mdp
di Maria Teresa Meli

ROMA Salvini è sceso in campo. Lo stesso ha fatto Di Maio. E ora tocca al Pd fare la sua mossa. L’obiettivo è quello di agganciare Pisapia o, meglio, il mondo che l’ex sindaco di Milano rappresenta, per accrescere i consensi. E per farlo, secondo la dirigenza del Nazareno, occorre dimostrare che il Partito democratico è la vera casa della sinistra: abbatterne le fondamenta farebbe il gioco del centrodestra e dei grillini.
La linea ieri l’ha data il presidente del partito Matteo Orfini: «Alle elezioni sfideremo il Pd, dice Pisapia. Noi invece sfideremo la destra e i populisti perché sono questi gli avversari della sinistra». Un modo per fare entrare in contraddizione quel mondo e per minare l’alleanza (già precaria) tra Pisapia e gli scissionisti.
E qualche risultato in realtà il Pd sembrerebbe averlo già ottenuto. Il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, in strettissimi rapporti con l’ex primo cittadino di Milano, afferma: «Non può esistere il centrosinistra senza Pd. Il vero obiettivo deve essere quello di sconfiggere le destre». E in un’intervista al Manifesto il senatore Luigi Manconi, che ha partecipato martedì scorso all’incontro tra le delegazioni di Mdp e Campo progressista, rivela che Pisapia ha posto delle «condizioni» per l’intesa con gli scissionisti. E tra queste condizioni ce ne sono due significative. La prima: «Non spetta certo a noi dimettere il segretario del Pd, Renzi, eletto con una procedura democratica come le primarie». La seconda: «Il rapporto con il Pd è ineludibile».
Dunque, nonostante le polemiche pubbliche e le dichiarazioni ufficiali, la partita tra Pd e una parte della sinistra in realtà è tutt’altro che chiusa. Lo dimostra anche il fatto che tutto il partito è mobilitato su questo fronte. Lo stesso Paolo Gentiloni si è lasciato volentieri coinvolgere nell’«offensiva». E l’altro ieri alla Festa dell’Unità di Imola ha pronunciato parole chiare: «Noi abbiamo un bisogno enorme che la sinistra prenda le sue responsabilità di governo. Nel mondo c’è un’attrazione fatale per restare all’opposizione che noi non possiamo condividere. Spero che non ci sia anche in Italia». Il messaggio a Pisapia è chiaro.
Ma c’è di più. Per dimostrare che il Partito democratico fa sul serio e che non vuole soltanto assorbire l’ex sindaco di Milano e i suoi in un listone (una condizione, questa, che Pisapia ha già rifiutato nei suoi colloqui con gli ambasciatori del Nazareno), dal Pd hanno inviato un altro segnale a Campo progressista. Il Partito democratico sarebbe anche disposto a rivedere la legge elettorale, riprendendo in mano il Rosatellum. Cioè quella riforma che nella primavera scorsa il capogruppo alla Camera dei deputati Ettore Rosato aveva elaborato sulla base di un accordo siglato tra il Pd e Pisapia. Un Mattarellum corretto, senza lo scorporo, con una parte dei seggi assegnati secondo il sistema maggioritario nei collegi e il resto invece con il proporzionale.
Una riforma, questa, alla quale, a suo tempo si era opposta Forza Italia, mentre aveva trovato il «via libera» della Lega. Al Nazareno ritengono che Silvio Berlusconi potrebbe anche ripensarci. Certo, la strada, come spiega un renziano d’alto rango, «è molto stretta, ma è anche l’unica per fare la riforma». Una riforma che, particolare tutt’altro che secondario, consentirebbe all’ex sindaco di Milano di allearsi con il Partito democratico alle prossime elezioni e di sfuggire all’abbraccio di D’Alema e Bersani.

Corriere 18.9.17
Quei malaccorti sfidanti a sinistra
di Claudio Magris

«S fidiamo il Pd», leggo sui giornali. Sarebbe logico che a lanciare questo guanto fosse un avversario — Salvini, Berlusconi o Di Maio, che legittimamente vogliono abbattere il governo di centrosinistra e legittimamente cercano di indebolirlo e prenderne il posto alla guida del Paese.
M a a proclamare quella baldanzosa sfida è Giuliano Pisapia, già valente sindaco di Milano vittorioso contro la destra e che ora, senza accorgersene e senza volerlo, oggettivamente aiuta la destra ad andare al governo, cercando di sgretolare l’unica forza politica che può impedirlo ovvero il Pd. Non è certo il solo in questa febbre di autogol. Se chi parla così si fosse convertito al verbo della destra, non ci sarebbe nulla da ridire; è legittimo cambiare idea. Ma non è il caso di Pisapia né degli altri che, come lui, illudendosi di lavorare per la vittoria di una sinistra non sembrano consapevoli di renderla sempre più improbabile. Anche nei partiti di destra ci sono vistosi contrasti, inimicizie, diversità di opinioni e di progetti su come governare l’Italia, ma il fronte resta sostanzialmente solidale, organicamente coerente con la sua battaglia. La destra vuole battere la sinistra ossia in primo luogo l’unica sua formazione politica che possa governare. Simpatie, antipatie, aspre differenze, tensioni al suo interno non minano la sua forza d’urto. A sinistra i litigi, i risentimenti, le critiche e autocritiche, i generosi ma inconsistenti vagheggiamenti di una sinistra migliore e più avanzata provocano scissioni, contraddizioni che sbriciolano giorno per giorno l’unico possibile partito di governo della sinistra. Un’adolescenziale smania di discutere sfilaccia la lotta concreta. Sagunto cade e a Roma si discute, in una libido loquendi che è stata quasi sempre perdente. Nessuno sogna un partito totalitario retto da un pugno di ferro che reprime le discussioni e le critiche, ma un’ossatura friabile al primo diverbio ti impedisce di vincere e di governare. In una forza politica vigorosa i contrasti permangono e sono pure fecondi, ma si compongono nell’unità di una comune battaglia per fini che sono sentiti superiori alle diversità di opinioni e di tendenze. Chi, come me, vorrebbe un governo di centrosinistra e uno stile di governo come quello di Gentiloni è allibito dinanzi a questo disfattismo oggettivo. Le varie ragioni dei gruppi centrifughi possono essere in molti casi valide, ma la dispersione è obiettivamente alleata dell’avversario. In tanti casi può esser necessario votare non, come ovviamente ognuno di noi vorrebbe, per un partito ideale, ma per il male minore. Oltre un certo limite, la rabbia anche soggettivamente nobile diventa autolesionismo, come nella vecchia e abusata barzelletta del marito che si evira per fare dispetto alla moglie.

Corriere 18.9.17
«Vita fa schifo» Giù dalla finestra una dodicenne

Un messaggio audio lasciato sul telefonino, accanto un biglietto con il pin per sbloccarlo. «La vita fa schifo» è stato il suo ultimo pensiero. Poi una ragazzina di 12 anni dell’entroterra di Genova si è avvicinata alla finestra di casa e si è lasciata cadere per oltre 20 metri. Genitori separati, la madre e il fratello maggiore erano fuori. Da poco aveva iniziato la seconda media, nessun segnale che potesse far presagire una tragedia del genere.

La Stampa 18.9.17
Per questo assassino ci può essere solo pietà
di Ferdinando Camon

Facevano tenerezza, i due fidanzatini minorenni, e la tenerezza era mostrata dall’uso del diminutivo: non fidanzati ma fidanzatini. Quindi si amavano di un amore innocente perché infantile-minorile. Non potevano farsi del male, come i fidanzati adulti, i coniugi, i compagni. La vita dei minorenni sta prima del bene e del male. Poi lui l’ha uccisa con crudeltà, con furore, con (uso la parola più urtante) odio. L’ha malamente sepolta, quanto bastava perché non fosse trovata subito, almeno dagli uomini. E questo delitto getta una luce sinistra sull’amore preesistente: era così innocente? Era prima del bene e del male? O non era una manifestazione del male? Questo ragazzino non era forse un demonio mascherato? Come tale, ha ingannato tutti, anche noi, che credevamo alla tenerezza. Anche noi sentiamo l’impulso di partecipare all’opera di giustizia. L’assassino è in carcere, non si può toccarlo. Ma ci sono i suoi genitori. È così che arrivano tre molotov sulla casa dei genitori. È la vendetta. È giusta? Si può spiegare, ma non si può accettare. Da adesso la casa dei genitori sarà piantonata, cioè vigilata da agenti dello Stato, che è come dire da noi, a nostra cura e a nostre spese. È giusto? Sì, è giusto.
I delitti feroci sono quelli che suscitano più forte l’istinto vendicativo, e che scacciano come oltraggiosa la richiesta di perdono. Oltraggiosa per la vittima. Pare che, più è ingiustificabile l’assassino, più abbiamo diritto alla vendetta, più crudele dev’essere la vendetta, e più colpevole diventa il perdono. È difficile esprimerlo, e non so se ci riuscirò, ma è vero il contrario. L’assassino sragiona, non è più un uomo, e più è crudele, più è disumano. Questo 17enne dà spiegazioni pazzoidi, non era in sé. Se incrudelire è dell’animale e non dell’uomo, questo era fuori della condizione umana. Perdono è una parola difficile. Non usiamola. Ma pietà è una parola più facile, specialmente nella sua forma latina, “píetas”. Che significa pietà per lui e per noi, per la nostra condizione umana.

Il Fatto 18.9.17
L’assassinio di Noemi e il familismo esasperato che alimenta le tragedie
di Selvaggia Lucarelli

Cara Selvaggia, ti scrivo perché il caso dell’omicidio della giovane Noemi mi ha molto colpita. Anzi, mi ha sconvolta. Non tanto per l’efferatezza o la giovane età dei due ragazzi ma per le ostilità delle due famiglie dei due giovani fidanzati che anziché provare a parlarsi, si sono fatte reciprocamente la guerra, col finale che sappiamo. Mi ha sconvolta perché è capitato qualcosa di simile alla mia famiglia ormai sei anni fa. Ora è tutto finito ma io ho ancora i postumi della battaglia. Mia figlia ha conosciuto il suo primo fidanzato in terza media. All’inizio sembrava una storiella adolescenziale, lui veniva il sabato pomeriggio a casa nostra, al massimo un cinema insieme la domenica pomeriggio. Dopo due anni, quando frequentavano entrambi il secondo anno delle superiori, sono iniziati i problemi. Mia figlia, che è sempre stata una ragazzina carina ma magrolina e poco appariscente, è letteralmente sbocciata. Non perché è mia figlia, ma è diventata davvero bellissima. E naturalmente corteggiatissima. Ha cominciato a postare delle sue foto sui social, foto normali, ma molto apprezzate da amici e compagni di scuola.
Lui che era sempre parso un ragazzo tranquillo ed equilibrato ha iniziato a farle delle scenate di gelosia. Lo sentivo urlare al telefono, vedevo spesso mia figlia piangere, notavo che non pubblicava più sue foto su Facebook e se lo faceva e qualcuno le faceva un complimento lui interveniva seccato. Mia figlia stava perdendo la serenità. Io le dicevo di lasciarlo, lei diceva sí ma rimaneva insieme a lui, come schiava di quel gioco sadico e così poco sano. Poi sono iniziati gli schiaffi. L’ho scoperto una sera, vedendola tornare a casa con una guancia gonfia. Allora ho chiamato la madre di lui, raccontandogli cosa era successo. Da lì è iniziata la guerra. La sua famiglia ha cominciato a far girare voce che mia figlia fosse una mitomane e che lo provocasse, io ho fatto una segnalazione ai carabinieri (non ho avuto un marito a darmi una mano, purtroppo sono vedova da molti anni). Morale: i due ragazzi si vedevano di nascosto, ogni volta che uno di noi genitori lo scopriva rimproverava l’altra famiglia di non fare abbastanza per impedirlo, ci insultavamo e nel frattempo le scenate di lui contro mia figlia e i pianti andavano avanti.
Alla fine, dopo un altro anno di agonia in cui se mia figlia tardava a tornare anche solo 4 minuti io pensavo al peggio, ho accettato un trasferimento di lavoro a 350 km dalla mia cittadina. Sceneggiate, minacce di suicidio, preghiere disperate, ma alla fine mia figlia è dovuta partire con me e suo fratello. E piano piano, si è rifatta una vita nella nuova città. Lui l’ha cercata a lungo, è venuto due volte a trovarla accusandola di fare la puttana con le nuove conoscenze, ma alla fine erano ragazzini e per fortuna la distanza li ha allontanati. Per questo la storia di Noemi mi ha sconvolta. Perché al di là dell’amore malato tra due adolescenti, io e la famiglia del suo fidanzatino sadico e con molti problemi mentali, non siamo stati capaci di giocare dalla stessa parte del campo. Non abbiamo mai collaborato, non li abbiamo protetti, almeno finché io non ho deciso di portarla via. Mi sembra che a Specchia sia accaduta la stessa cosa. E non posso fare a meno di pensare che a essere Montecchi e Capuleti nel 2017, il rischio è quello che i morti, ancora una volta, possano essere i nostri figli.
Gaia
Credo che sì, la conflittualità tra le famiglie, nel caso di Specchia, abbia avuto un ruolo determinante. C’è poi da dire che quando le segnalazioni a forze dell’ordine e assistenti sociali cadono nel vuoto come nel caso citato, non solo non proteggono la vittima, ma creano un danno ulteriore: alimentano le ostilità tra i protagonisti e i comprimari. “Tu hai denunciato mio figlio, maledetta!”. Insomma, chi non interviene è responsabile due volte: per aver sottovalutato il pericolo e per averlo alimentato. Spero se ne tenga conto, in futuro.
Vittorio Feltri si prende gioco di noi, altro che rincoglionito
Ciao Selvaggia, ho letto il tuo attacco a Vittorio Feltri. Sono un lettore del Fatto da sempre e quindi ti parrà cosa chiara che non condivido nulla del suo pensiero e del suo stile. Come a te, anche a me certi titoli di Libero sembrano raccapriccianti, populisti e talvolta razzisti e ho anche protestato più volte inviando mail al giornale.
Però il tuo articolo mi è parso troppo ingenuo. Se davvero Feltri per te inizia a perdere colpi, se ti sembra un po’ andato, se ritieni che sia rincoglionito, mi dispiace dovertelo dire ma forse quella un po’ andata sei tu. Altro che andato. Feltri si sta prendendo gioco di tutti quelli come te. Tu immagini le riunioni di redazione in cui lui spara titoli a caso, io invece me lo immagino col ghigno satanico che dice: “Come li facciamo arrabbiare oggi?”. È furbo, non è rincoglionito. E tu, adorata Lucarelli, sei l’ennesima dimostrazione che lui ha ragione, perché sei furba pure tu e ti ha fregato. Ci caschiamo tutti. Dovreste diventare amici, altro che.
Gabriele
Amici? Ti rispondo con un titolo alla Libero: “Tu mi vuoi vedere morta!”.

Corriere 18.9.17
Parcheggia la Ferrari nel posto per disabili «Io me ne frego di te»
Via Montenapoleone, spinte al papà del ragazzo col permesso
di Gianni Santucci

MILANO «Io me ne frego di te e della polizia», urla il proprietario della Ferrari blu mentre risale in macchina; poi sbatte lo sportello, mette in moto e accelera; il motore della sua «FF coupé» rimbomba davanti alle vetrine della boutique Cartier , tra i passanti che si sono fermati per capire cosa stia accadendo. Là in strada, nel cuore del quadrilatero della moda di Milano, resta un uomo interdetto: è stato insultato e spintonato davanti a suo figlio, un ragazzo minorenne con un grave handicap, che ora è preoccupato e spaventato (perché ha assistito a tutta la scena dalla macchina). La fuoriserie era ferma a cavallo di due posteggi riservati ai disabili; il padre è arrivato in auto con suo figlio e ha semplicemente chiesto al guidatore della Ferrari se poteva spostarsi di un paio di metri. Doveva parcheggiare e far scendere il ragazzo: per questo è stato aggredito. Mancavano pochi minuti alle 18, sabato pomeriggio, di fronte al civico 16 di via Montenapoleone.
Storia miserabile di arroganza. Forse anche peggiore di quel cartello di offese gratuite lasciato a metà agosto vicino a un posto per disabili, nel parcheggio di un centro commerciale a Carugate, in provincia di Milano (il cartello diceva: «A te handicappato che ieri hai chiamato i vigili per non fare due metri in più vorrei dirti questo: a me 60 euro non cambiano nulla, ma tu rimani sempre un povero handicappato»). Stavolta il rigurgito di inciviltà è esploso in strada, di persona, più sfacciato, se possibile anche più ignobile: tanto che qualcuno ha chiamato la polizia, segnalando l’aggressione. La Ferrari s’era già allontanata. Qualcuno però aveva annotato la targa.
Così i poliziotti si sono occupati prima di tranquillizzare il padre, e soprattutto di rassicurare il figlio, che era molto scosso. Tra gli agenti arrivati in via Montenapoleone c’era un poliziotto esperto, Marcello Di Tana, al suo ultimo giorno di lavoro in Volante (ha da poco superato la selezione per passare a un altro reparto): si è staccato dalla divisa lo scudetto con «la pantera» e lo ha regalato al ragazzo. Un piccolo gesto di umanità, mentre erano già partite le ricerche per individuare l’uomo in Ferrari.
La «FF coupé» aveva una targa svizzera, del Ticino. È intestata a un imprenditore milanese, 59 anni, residente a Lugano. Un nome con una storia che si sdoppia a cavallo del confine. Perché in Italia l’imprenditore ha una serie di precedenti per lesioni, minacce, percosse, oltraggio a pubblico ufficiale. Non potrebbe guidare, perché la patente gli è stata revocata (come il porto d’armi), anche se da un paio d’anni ha una licenza di guida svizzera. E proprio da Lugano partono altre tracce che portano nel mondo grigio della finanza internazionale: il nome dell’imprenditore e un paio d’aziende a lui collegate (con sede alla Isole vergini britanniche) compaiono infatti nei «Panama papers», il gigantesco archivio dello studio legale panamense «Mossack Fonseca», che per decenni ha creato e gestito decine di migliaia di società offshore in cui sono confluiti patrimoni e ricchezze da mezzo mondo.
È probabile che fosse proprio lui a guidare in Montenapoleone, su quella macchina che costa più di 250 mila euro. Il padre di quel ragazzo aveva diritto a lasciare la sua auto in quel posteggio riservato, aveva chiesto semplicemente di spostare la Ferrari di qualche metro, ha ricevuto una risposta infastidita, è iniziata una discussione, finita con una violenta spinta. Il ragazzo era in auto e ha seguito l’aggressione a suo padre.

Repubblica 18.9.17
Luca Serianni.
Parla il linguista che guiderà la task force istituita dal ministero per arginare le carenze degli studenti
La svolta di Mister italiano “Dalle medie alla maturità meno temi e più riassunti”
di Ilaria Venturi

MENO TEMI e più riassunti in classe. Per «allenare i ragazzi a strutturare un testo». E dare loro più parole a disposizione per «aumentare il loro lessico» ora compresso in un tweet e nel linguaggio abbreviato dei social e degli smartphone. Luca Serianni, tra i maggiori linguisti italiani, lancia la sfida nel suo nuovo incarico ministeriale come consulente per l’apprendimento della lingua italiana. «Per me sono queste le carenze più gravi a cui porre rimedio». Il docente di storia della lingua italiana a La Sapienza guiderà una task force del Miur, composta anche da esperti di Invalsi e insegnanti di liceo, per arginare le carenze linguistiche degli studenti alle medie e superiori, dopo l’allarme dei 600 intellettuali e universitari lanciato lo scorso febbraio: «Scrivono male in italiano, servono interventi urgenti».
Quali obiettivi vi siete dati professore?
«Partiremo dalla fine e cioè lavoreremo sulla rivisitazione delle prove d’esame: prima lo scritto di italiano di terza media, poi quello della Maturità. L’idea è quella di introdurre la tipologia testuale del riassunto».
Che senso ha riformare gli esami e non prima i programmi di italiano?
«Partiremo dalle prove d’esame perché è la condizione per orientare il percorso formativo degli insegnanti. Non posso fare l’elogio del riassunto se poi all’esame non c’è, indebolirebbe la sua introduzione nel programma scolastico».
Perché il riassunto secondo lei è la chiave da cui partire?
«Il riassunto non è un esercizio banale, ma ha un peso importante. Si tratta di rendere in modo efficace un testo di partenza senza sbrodolare, gerarchizzando le informazioni. Gli studenti hanno l’ingenua convinzione, quando fanno un tema, che più si scrive e meglio è. La sintesi invece è una dote importante, anche perché in genere il risultato di quanto scriviamo non è “Guerra e pace” di Tolstoj».
Dunque allenare i ragazzi alla sintesi di un testo per alzare il loro livello di scrittura?
«Voglio essere chiaro: non è che tutti i ragazzi devono diventare scrittori o usare la scrittura per professione. Saranno piuttosto chiamati a interpretare ciò che li circonda nel mondo, a comprendere un testo, sia esso un modulo, una circolare, un documento. La capacità di strutturare un discorso e di riconoscere se è ben fatto è fondamentale, ci sottrae dall’essere in preda del primo imbonitore. Per me un’urgenza è questa: daremo indicazioni su come sviluppare le capacità di argomentazione e cioè su come dominare i connettivi del discorso, l’uso dei quindi, degli infatti e dei perché ».
Come si può fare?
«Intanto occorre evitare di caricare i testi letterari di un compito che non hanno: non si fa il riassunto dell’Infinito di Leopardi. Semmai vanno introdotti testi differenti, anche articoli di giornali ».
I ragazzi mediamente leggono poco, è anche questa una causa della loro in capacità di scrittura?
«Non solo. È ingenuo pensare che leggendo molto si impari a scrivere e a riflettere sulla lingua, questo vale per adulti colti non per i ragazzi».
Lei parla anche di un’altra urgenza: il lessico.
«I ragazzi hanno un bagaglio limitato di parole. Conoscono forse il significato di evincere o di tergere? Non credo. Su questo occorre lavorare, ci sono esercizi specifici per abituarli a un lessico più centrato e ricco. Senza per questo demonizzare i nuovi linguaggi. Ma la scuola deve essere il luogo dove gli studenti vengono allenati a riflettere su quello che scrivono, cosa che nemmeno gli adulti fanno quando scrivono in Facebook. E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti».
E l’ortografia non è un’urgenza?
«L’errore ortografico ti espone alla presa in giro, fa scattare una sorta di sanzione sociale. Non interverremo su questo nello specifico, daremo piuttosto qualche indicazione per fissare con nettezza quali regole, da apprendere alla primaria, sono irrinunciabili: penso all’uso degli accenti e dell’acca non fonetica, all’eliminazione di alcune forme dialettali. Da Roma in giù, per esempio, può capitare di scrivere legittimo con due “g”. Ma è un lavoro da fare alla scuola primaria ».
Nel parlare di declino dell’italiano si è arrivati, a cascata, a dare la colpa proprio ai maestri di primaria.
«Trovo poco divertente il gioco dello scaricabarile. Ci sono più fattori che chiamano in causa un po’ tutti. La giornata tipo di un adolescente è più ricca di impegni e attività, dobbiamo accettare che il tempo tradizionale di scuola si è ridotto. E si è allargata la platea di chi frequenta le superiori: questo ha qualche costo in termini di preparazione. Ma non parlerei di sfascio o declino, piuttosto di elementi di criticità che possono essere corretti. Per farlo ci siamo dati il tempo di un anno di lavoro».

Repubblica 18.9.27
Svolta di Hamas: pronti a lasciare Gaza
Riconciliazione con Fatah. L’Egitto media un accordo che potrebbe sanare una frattura lunga 10 anni
di Francesca Caferri

DOPO dieci anni di tensioni, la frattura fra Hamas e Fatah che ha condizionato la vita e la politica dei Territori palestinesi dal 2007 potrebbe avviarsi verso una conclusione. Il movimento islamista ha annunciato ieri di essere pronto a dissolvere il governo ombra che controlla la Striscia di Gaza e la vita dei suoi due milioni di abitanti e a cedere il potere all’esecutivo di Ramallah, accettando di partecipare poi alle prossime elezioni nazionali. Hamas controllava Gaza dal 2007 dopo che un violento braccio di ferro aveva portato alla cacciata degli uomini del movimento rivale. Le tensioni con Fatah, che gestisce il resto dei Territori palestinesi, in questi dieci anni non hanno fatto che moltiplicarsi: l’ultima crisi, qualche mese fa, aveva portato a un taglio degli stipendi per i dipendenti pubblici e degli stanziamenti erogati da Ramallah per la Striscia, provocando un ulteriore impoverimento in quella che è già una delle zone più misere del Medio Oriente.
L’accordo è stato raggiunto grazie all’intervento diretto dell’Egitto, che ha mediato fra le due parti: se fosse applicato rappresenterebbe una svolta per la situazione nei Territori palestinesi e per i rapporti fra questi ultimi e Israele. Ma la prudenza in questo caso è d’obbligo: già in passato le due parti avevano annunciato riavvicinamenti che non si sono mai tradotti in fatti. E soprattutto restano ancora tutte da discutere alcune questioni chiave da cui dipende la sopravvivenza di Gaza e dei suoi abitanti: dalla riapertura stabile del valico di Rafah che collega la Striscia all’Egitto e che è il suo principale punto di collegamento con il mondo esterno. Al ripristino delle sovvenzioni necessarie per pagare i conti dell’elettricità che approvvigiona la zona. Alla fondamentale questione del controllo dei valichi di frontiera con Egitto e Israele.
Tutti temi su cui la parola fondamentale spetterà al presidente palestinese Abu Mazen, che ha annunciato che studierà il dossier al ritorno da New York, dove si trova per l’Assemblea Onu.

Repubblica 18.9.27
Assad e i suoi alleati mettono alle corde l’Isis E Israele si avvicina all’Arabia Saudita contro gli ayatollah
Il nuovo Medio Oriente
Dall’Iran alloYemen la crisi siriana ridisegna i fragili equilibri di una regione chiave
di Alberto Stabile

DUE notizie sono emerse con forza negli ultimi giorni dal bollettino di guerra mediorientale: una è la (presunta) visita segreta in Israele dell erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, con annesso incontro con il premier Benjamin Netanyahu; l’altra è la (quasi) liberazione di Deir az Zour, la capitale della Siria Orientale, strappata ai miliziani dell’Isis delle Forze Armate Siriane dopo tre anni di assedio. Le due notizie sono evidentemente correlate.
La riconquista di Deir az Zour, l’ex avamposto sulle rotte verso l’Asia fondato alla metà dell’Ottocento dall’Impero Ottomano e diventato, oggi, il presidio della regione petrolifera siriana, rappresenta per il regime di Bashar el Assad un’ importante vittoria sui suoi nemici interni ed esteri. Con Deir az Zour, Assad torna ad estendere il suo controllo sulla parte più ricca e popolosa del Paese, la Siria delle grandi città, industrializzata ed economicamente evoluta. Per completare l’impresa manca soltanto Idlib, trasformata nell’ultima trincea delle formazioni ribelli in rotta.
Ma la capitale della Siria Orientale non è strategicamente importante soltanto per la sua prossimità ai campi di petrolio e di gas. Deir az Zour è l’avamposto del regime a guardia della frontiera con l’Iraq e di quella via naturale di comunicazione e di traffici (nonché essa stesso linea di confine con la Turchia) rappresentata dall’Eufrate. Infine, la guerra ha reso Deir az Zour fondamentale per un altro motivo: l’asse che collega Teheran a Damasco, via Bagdad passa da qui.
Di contro la riconquista di Dei az Zour segna una pesante sconfitta per lo Stato Islamico e per l’insieme delle forze jihadiste ribelli. Ma lungi dal ricompattare le parti che si sono dichiarate in guerra contro il terrorismo jihadista, la crisi siriana continua a dividere. Il ruolo assunto dalla Russia, di puntello del regime di Damasco e di pilastro dell’alleanza militare Siria-Hezbollah-Iran, risulta agli Stati Uniti difficile da digerire, almeno sul campo di battaglia, dove, secondo le più recenti direttive di Trump, i generali americani hanno l’ultima parola.
E così Deir az Zour non può dirsi pienamente liberata perché l’esercito siriano e le milizie alleate (Hezbollah, guardiani della Rivoluzione iraniani e analoghe formazioni sciite irachene) subiscono la pressione delle Sdf (Syrian Democratic Forces), l’alleanza militare creata da Washington e appoggiata dalle truppe speciali americane, formata dai curdi delle Unità di autodifesa popolare, Ypg, che hanno maturato una notevole esperienza di combattimento contro gli jihadisti dai tempi di Kobane, e gruppi di cosiddetti ribelli “moderati” appartenenti al redivivo Fsa (Free Syrian Army) o Libero Esercito Siriano, composto da disertori dell’Esercito di Damasco scrutinati dalla Cia. Ieri l’ultimo incidente alle porte di Deir Az Zour, con le Sdf che accusano i Russi di avere bombardato le loro linee, causando sei feriti.
Detto questo, gli Stati Uniti non sembrano disposti a mettere in campo una strategia che preveda un loro più ampio coinvolgimento in Siria. Trump sembra averne abbastanza della crisi attuale con la Corea del Nord.
Parallelamente anche altri giocatori esterni, come la Francia e l’Inghilterra, dopo aver alimentato l’incendio siriano sembrano adesso pronte soltanto ad influenzare a proprio vantaggio gli effetti di un’ipotetica pace.
Stando così le cose, a far rullare i tamburi di guerra a scopo non soltanto dimostrativo, contro il ruolo preminente assunto dall’Iran nella crisi siriana restano Israele e Arabia Saudita, formalmente nemici dal 1948, ma legati, a suo tempo, dall’avversione contro la strategia dell’ex presidente Usa Barack Obama sul Medio Oriente, considerato troppo attendista e irresponsabile, specialmente nel favorire il negoziato con Teheran sul nucleare, invece che bombardare gli impianti.
L’incontro, ancorché non provato, ma celebratissimo dai giornali israeliani, può esserci stato. Le acque del Maro Rosso, tra Aqaba e Eilat, potrebbero aver fornito la cornice dello storico meeting, la cui vera utilità, se mai ha avuto luogo, è consistita nel fatto di essere avvenuto.
Per l’ambizioso principe saudita, in procinto di ricevere lo scettro dalle mani malferme del padre, re Salman, un altro anello da aggiungere alla catena di passi falsi compiuti in politica estera, come l’aver finanziato la rivolta contro Assad nella speranza di vederlo cadere, l’aver scatenato la guerra contro le tribù Houthi dello Yemen, guerra che ha provocato 15mila morti e la più grave epidemia di colera che si sia vista da anni in quelle zone, e l’aver deciso, d’accordo con Egitto, Bahrain e Emirati Arabi il boicottaggio internazionale imposto al vicino Qatar, accusato di appoggiare il terrorismo, il che detto dal governante di un paese che ha dato i natali a 18 su 21 attentatori dell’ “11 Settembre”, oltre a una serie di complicità a vari livelli, è tutto dire. Ma in entrambi i casi, Yemen e Qatar, il vero obbiettivo del giovane principe era ed è l’Iran. Adesso la diplomazia segreta con Netanyahu cui lo unisce la stessa avversione verso Teheran, avversione accentuata dall’esito dall’andamento della guerra in Siria.
Pochi hanno notato che all’indomani del presunto incontro, gli aerei israeliani sono andati a bombardare un centro di ricerche militari siriano vicino alla città di Hama.

Il Fatto 18.9.17
Hamas si arrende, cede Gaza ad Al-Fatah e accetta le elezioni per la Palestina unita
Inevitabile - Scelta dettata dalla perdita di consensi nella Striscia per la stretta di Egitto, Israele e Anp
Hamas si arrende, cede Gaza ad Al-Fatah e accetta le elezioni per la Palestina unita
di Roberta Zunini

A dieci anni esatti dalla guerra lampo tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese, che diede il via al governo del movimento islamico palestinese nella Striscia di Gaza, le autorità dell’enclave, spinte dalle minacce egiziane, hanno dichiarato di essere pronte a smantellare il comitato che governa la Striscia e ad accettare i rappresentanti del governo di unità nazionale in attesa di nuove elezioni generali nei Territori.
Le ultime consultazioni si erano tenute nel 2006. Il gruppo islamista, che espulse fin da subito i rappresentanti del partito rivale Al-Fatah (laico e su posizioni più dialoganti con Israele) si è dichiarato disponibile a nuovi colloqui con il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen. Presidente che ha fatto sapere agli esponenti di spicco di Fatah di esserne contento, ma che prima di tutto va ricostruita la fiducia reciproca.
Si tratta di una considerazione da leggere in filigrana: in realtà Abu Mazen sta posticipando le elezioni da un lustro con il pretesto che non vi sono le condizioni a causa proprio del dispotismo degli islamisti al governo della Striscia che non lascerebbero liberi gli elettori di esprimere le proprie preferenze. La verità è che teme la vittoria della fazione a lui avversa all’interno del suo stesso partito, con rappresentanti più giovani e carismatici. Anche la “clamorosa” decisione di Hamas non è dovuta a un sussulto democratico, bensì dall’accerchiamento messo in atto non solo da Israele, ma piuttosto dall’Egitto e dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese.
Da mesi , infatti, la popolarità di Hamas nella Striscia sta precipitando vertiginosamente, perché i quasi due milioni di abitanti ammassati in poche decine di chilometri vivono in condizioni sempre più difficili a causa del blocco economico messo in atto da Abu Mazen e dal presidente egiziano al Sisi. L’Anp non paga più il gasolio per l’unica centrale elettrica di Gaza e pertanto lungo tutta la Striscia c’è elettricità solo tre ore al giorno. Gli impianti di depurazione rimasti in piedi dopo la guerra lampo di tre anni fa non funzionano e c’è scarsità d’acqua.
A livello geopolitico, Hamas, che è legata ai sunniti della Fratellanza Musulmana, ma è anche sostenuta dagli sciiti iraniani e libanesi di Hezbollah. Non può far altro che scendere a compromessi con l’Egitto che ha imposto per motivi di sicurezza veri o presunti lo sbarramento della sua frontiera meridionale dove passavano merci, persone e animali, fondamentali per la sopravvivenza degli abitanti di Gaza. Ma il vero motivo dell’imposizione-mediazione egiziana sarebbe da ricercarsi nel fatto che l’Egitto di al Sisi ha messo fuorilegge la Fratellanza e condannato all’ergastolo l’ex presidente Morsi, deposto quattro anni fa con un golpe e suo massimo rappresentante nella terra dei Faraoni.
Dietro il Cairo c’è la ben più potente Arabia Saudita con gli Emirati e il Bahrain, che hanno messo in atto tre mesi fa il boicottaggio del Qatar, paese guidato dalla Fratellanza Musulmana e sponsor, con la Turchia di Erdogan, di Hamas. Non si può continuare ad accusare Israele di essere lo strangolatore dell’organizzazione islamica finora signora e padrona del destino di Gaza.

Repubblica 18.9.27
Il tempio glocal della fecondazione assistita dall’alto
Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, a Napoli, è la chiesa dove migliaia di donne accorrono da tutto il mondo sperando nel miracolo della fertilità. Un viaggio tra oggetti appartenuti alla beata, rituali di “ostetricia miracolosa”, crocieristi e sfogliatelle
di Marino Niola

«Ci siamo recate con una mia amica, e l’emozione è stata tanta! super organizzati, chiesetta piccolina ma particolarmente bella. Da non perdere». Lo scrive Fede X su TripAdvisor. La chiesa in questione non è quella di Nostra Signora della Recensione. Ma quella di Santa Maria Francesca
delle Cinque Piaghe, a Napoli, dove migliaia di donne accorrono da tutto il mondo per sottoporsi all’ultimo rito di fertilità dell’Occidente. Siamo nel cuore dei Quartieri Spagnoli, a pochi passi dall’affollatissima via Toledo dove impazza lo street food. D’altra parte si sa che a Napoli si viene anche per nutrirsi di stereotipi. Che siano pizza e babà, o che siano miracoli. Per questi ultimi basta chiamarsi fuori dalla pazza folla, risalire vico Tre Re a Toledo. E mescolarsi alla lunga fila di coppie che salgono la scaletta ripida che conduce al sancta sanctorum della procreazione.
La chiamano la casa della santarella. Qui Maria Francesca ha speso la sua vita tra preghiera e ricamo, ricamo e preghiera. Ora et labora H24 per una vera figlia del popolo. Che non poteva entrare in convento perché il suo lavoro di tessitrice a domicilio era troppo importante per la sopravvivenza della famiglia. Così aveva optato per l’abito terziario francescano e una clausura tra le mura domestiche. Da queste parti, quelle come lei, le chiamano monache di casa, altrove beghine. Aveva il dono della profezia tanto da predire la Rivoluzione francese con molti anni di anticipo. Tra i tanti prodigi che le vengono attribuiti c’è anche quello di aver convinto una statua di Gesù bambino ad animarsi per farsi vestire con gli abitini che lei stessa gli aveva cucito. E quando morì, il 6 ottobre 1791, aveva al suo attivo un portfolio miracolistico di tutto rispetto. Con una vera e propria specializzazione in ostetricia soprannaturale. Cosa che, in un’epoca in cui la mortalità infantile era elevatissima e il parto un mistero doloroso, oltre che pericoloso, spiega la sua popolarità. Che paradossalmente è in crescita. Perché è vero che oggi la gravidanza è un percorso supermonitorato e ipermedicalizzato, ma è anche vero che l’infertilità ha raggiunto cifre da capogiro. Solo in Italia affligge il trenta per cento delle coppie. Risultato, la casa santuario di Maria Francesca è diventata un tempio contemporaneo della fecondità. Dove si celebra una liturgia femminile che rimodella un fondo misteriosamente arcaico per consegnare alla santa l’eredità delle Grandi Madri, signore numinose e luminose delle nascite e dei destini. Come le greche Demetra e Hera. O come le romane Lucina e Anna Perenna, la nutrice dell’universo, venerata dalle donne senza figli. E soprattutto Mater Matuta, patrona degli stati aurorali della vita. Il suo tempio, nel Foro Boario di Roma, era stato consacrato da Romolo in persona. Ma l’epicentro del suo culto era proprio in Campania, nell’antica Capua, la città delle prodezze di Spartaco e degli ozi di Annibale. Il santuario della dea custodiva una folla muta di madri di pietra dagli occhi d’abisso. Che troneggiano ancora in una sala del Museo Campano di Capua. Tengono appoggiati sulle braccia bambini in fasce come se fossero spighe di grano. Questi ciclopici blocchi di tufo erano ex voto offerti alla genitrice primigenia e grande consolatrice delle gestanti. È una vera e propria sacralizzazione del ciclo riproduttivo, che dopo il crepuscolo degli dei pagani, tracima sulle Madonne cristiane e sulle sante come Maria Francesca. Il cui culto conserva qualcosa che ricorda i rituali propiziatori che le donne sterili compivano in onore di queste antiche dee. Dove il contatto fisico con il simulacro della divinità o con uno dei suoi oggetti o attributi, era condizione necessaria per la concessione della sospirata gravidanza. Perché si pensava che provocasse un contagio positivo, una forma d’induzione magnetica dell’energia fecondatrice. Un’idea che si è trasferita in quelle pratiche cultuali del cristianesimo dove i devoti assorbono la potenza divina strofinando i fazzoletti sulle immagini della Vergine o dei santi taumaturghi. O, come avviene a Loreto, bevendo la polvere della Santa Casa di Maria sciolta in acqua. Alla base c’è l’idea molto semplice, e al tempo stesso poetica, di un corpo a corpo con il sacro. Che in molti casi effettivamente funziona. Forse perché colpisce dei recettori emotivi in grado a loro volta di risvegliare delle potenzialità che dormono. Il grande antropologo Claude Lévi-Strauss ha inventato il concetto di efficacia simbolica per spiegare questi fenomeni che, in forme diverse, sono presenti in tutte le culture. Prima o poi i neuroscienziati che studiano l’effetto placebo ci diranno come e perché tutto questo avviene. Per ora bisogna tenersi amico il mistero.
È quel che fanno le devote di Maria Francesca che ritengono fondamentale toccare le cose appartenute alla santa e, soprattutto, accomodarsi fiduciose sulla sua sedia miracolosa. Sarebbe il caso di definirla gestatoria, visto che nell’antichità le puerpere partorivano da sedute. E le divinità specializzate in fecondazione assistita, come Lucina, come Hera, venivano raffigurate assise in trono. E così pure le Madonne. In maestà, come la Vergine di Duccio di Buoninsegna. O, nel caso di Raffaello, sulla proverbiale “seggiola” che dà il nome al celebre dipinto. Un meccanismo semplice, quasi un automatismo simbolico di sicuro effetto emotivo. E non solo. Visto l’elevatissimo numero di fiocchi rosa e azzurri che adornano la casa della santarella. Si spiega anche così il pellegrinaggio della speranza che risale vico Tre Re in cerca di una fecondazione assistita dall’alto. Nato come devozione locale e diventato una liturgia glocal. Donne e uomini arrivano anche dall’Europa, dall’America Latina, dagli Stati Uniti. E da qualche anno si è aggiunto il flusso dei crocieristi che approfittano dello scalo napoletano per infilarsi in un “very pittoresco” vicolo della storia, dove i riti propiziatori convivono con le sfogliatelle. E chi non può andare di persona, frequenta i siti che hanno trasferito il culto sul web. Su rosarioonline è possibile scaricare perfino una “Novena a Santa Maria Francesca per la gravidanza”. Insomma, se una santa doveva raccogliere il testimone dalle mani delle antiche divinità pagane, questa santa non poteva che nascere nella città di Filumena Marturano. Dove i figli so’ piezz’ ‘e core.
5. Fine