Il Sole Domenica 24.9.17
L’ineluttabile a scuola
Il
telefonino nelle aule come strumento didattico? La logica sembra quella
del «visto che, tanto vale». Ma a cosa ci può portare?
I
telefonini nelle scuole: finora vietatissimi, da adesso in poi è
possibile che entrino a pieno diritto nelle aule come strumento
didattico innovativo.
Non è ancora detto, non è certo. Una
commissione ministeriale ci lavorerà nei prossimi giorni. Ma è
nell’aria, era da tempo prevedibile che arrivassimo a questo, nella
nostra forsennata rincorsa a essere sempre più nuovi, tecnologici,
digitali.
Ma mi sgomenta lo schema logico-argomentativo, che
sembra essere alla base del ragionamento, e mi par tipico dei nostri
tempi: lo schema del «visto che, tanto vale». Visto che il telefonino è
entrato nelle nostre vite quotidiane, tanto vale farlo entrare anche
nella scuola. Ovvero: sarebbe innaturale vietare a scuola qualcosa che,
fuori della scuola, è normalmente, proficuamente e collettivamente in
uso.
L’abbiamo già fatto, e lo faremo ancora: visto che i ragazzi
non sanno più scrivere aboliamo il tema; visto che copiano le versioni
da internet, aboliamo o riduciamo la versione dal latino e greco; visto
che non sanno più scrivere in corsivo, che scrivano su tastiera; visto
che faticano a fare i calcoli, che usino la calcolatrice.
Potremmo
continuare: visto che ai giovani piace bere birra, ammettiamola come
bevanda nell’intervallo; visto che i nostri figlioletti si mettono le
dita nel naso, tanto vale insegnar loro un metodo migliore per farlo
anche in pubblico; visto che ai ragazzini portati la sera al ristorante
piace correre tra i tavoli, inutile costringerli a stare seduti, tanto
vale installare dei semafori.
Invece di vietare, assecondare,
facilitare. Non porre barriere, non ostacolare. Agevolare, rilanciare,
superare le attese, precederle, spiazzare. Dimostrare che noi adulti,
genitori e insegnanti, siamo più avanti: comprensivi, collaborativi,
complici.
Non capisco se si tratti di una debolezza o di una vera e
propria convinzione: cioè, non ci opponiamo all’uso clandestino dei
telefonini in classe perché tanto non ce la faremo mai a scovarli,
requisirli o vietarli (la battaglia è persa in partenza, dunque inutile
combatterla)? Oppure ci crediamo veramente, siamo davvero convinti che i
telefonini siano meravigliosi strumenti di un nuovo apprendimento?
Il
telefonino ormai è entrato nelle nostre vite. Quindi, ineluttabile.
Tutto quel che oggi ci circonda – oggetti, eventi, comportamenti – ci
pare ineluttabile. Inevitabile, necessario, incontrastabile,
inesorabile: fatale. Al di là del nostro potere, di ogni nostro
eventuale intervento. Impotenti e supini come di fronte a un fiume
universale perennemente in piena che ci travolge. Non ci chiediamo più
che cosa ci sembra sensato e che cosa insensato. Forse non lo sappiamo
più. Siamo tronchi galleggianti nella corrente.
Dimentichiamo che
molto di quel che ci circonda e compone il nostro attuale vivere sociale
non è un fiume, ma il frutto delle nostre scelte. Noi esseri umani
possiamo determinare le cose, abbiamo questa facoltà. Certo non
totalmente, ma in una certa misura sì. Esempio: se i telefonini sono
entrati così pesantemente nella nostra vita, e nella vita dei nostri
figli, è perché noi genitori abbiamo deciso di dare un telefonino (o
tablet o altro) in mano ai nostri figli dai due anni in poi, e
permettiamo loro di usarlo tutto il giorno e in qualunque luogo (vedasi
ristoranti), più o meno senza limitazioni alcune. L’abbiamo deciso!
Perché così va il mondo, ma soprattutto perché ci fa estremamente
comodo: un tablet è un mirabile strumento di intrattenimento, a metà tra
il giocattolo e la babysitter a costo zero, una meraviglia che ci
permette qualche ora di pace, cioè di disconnessione dai figli e
liberazione dall’urgenza costrittiva di prendercene cura, e magari anche
di educarli.
In effetti, quelli che chiamiamo “nativi digitali”
sono in realtà, in origine, semplicemente “nativi”: cioè sono nati,
hanno solo compiuto il gesto di nascere, che di per sé è neutro e
incolore. Siamo noi che, per indifferenza, esaltazione
tecno-progressista, comodità, opportunismo, li rendiamo “digitali”
(basterebbe esentarli dall’uso dei tablet, e sarebbero dei bambini
perfettamente uguali a quelli delle generazioni precedenti).
Quindi,
bizzarro che ora si portino i telefonini nella scuola per il fatto che
tanto li usiamo fuori. Chiediamoci perché li usiamo in modo così
massiccio fuori, e se non sarebbe invece il caso di diminuirne l’uso…
Siamo
di sicuro tutti molto agevolati dall’uso di telefonini e tablet nella
nostra vita quotidiana, e mai penseremmo di farne senza. Ma è anche vero
che ne siamo oppressi e imprigionati. Viviamo schiavi di una
connessione perpetua, vittime del chiacchiericcio sui social, drogati da
una frequentazione continua e spossante su internet. I nostri ragazzi,
li vediamo?, vivono digitando e navigando, in casa, sul pullman, in
auto, per strada, in treno, al mare, al bar. Esisteva per loro un’isola
protetta, un’oasi di silenzio digitale e sereno spegnimento della rete:
la scuola. E ora invece, forse, non avranno più nemmeno quelle cinque
ore al giorno di pace de-connessa.
Perché vogliamo questo?
Pensiamo di diventare più attraenti, motivanti, interessanti? Abbiamo
così poca fiducia nelle naturali fascinazioni della scuola: leggere ad
alta voce un racconto, commentare una poesia, risolvere un problema alla
lavagna, usare la nostra voce, la nostra passione, il nostro entusiasmo
per fare una meravigliosa lezione di storia, filosofia, biologia?
Abbiamo davvero così bisogno, per fare una scuola buona, di supporti
elettronici, di far vedere un video, di entrare in un sito, digitare un
link, chattare in rete, scaricare una app? Arriveremo anche a proporre
la musica tecno come sottofondo in classe perché i ragazzi si sentano
più a loro agio, più nel loro mondo? E siamo sicuri che, posti davanti
al loro amato iPhone anche durante le ore di lezione, saranno più
attenti, interessati allo studio, più… “motivati”? Davvero li
consideriamo così ingenui e sprovveduti? Abbiamo così poca fiducia in
loro? O siamo noi tanto ingenui da pensare di abbindolarli?
Esiste
ormai da una decina d’anni una rigogliosa letteratura che mette in
guardia dall’uso smodato di internet e social. È un’onda contraria, un
pensiero critico, in controtendenza, forse l’inizio di una vera e
propria ribellione, che spesso parte proprio da coloro che sono stati i
più convinti fautori dell’innovazione tecnologica. Si vedano, solo per
dirne tre, J. Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori 2010; N. Carr,
Internet ci rende stupidi?, Cortina 2011; e M. Spitzer, Demenza
digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio 2012. E,
ultimissimo, un saggio appena uscito di Jean Twenge dal titolo iGen: why
today’s super connected kids are growing up less rebellious, more
tolerant, less happy and completely unprepared for adulthood (Atria
Books), in cui l’autrice, docente di Psicologia alla San Diego State
University, sostiene che l’iPhone abbia distrutto una generazione.
È
altresì ormai provato, da numerosi studi scientifici, che scrivere a
mano è molto diverso che scrivere su tastiera, e che leggere su pagina è
diverso che leggere su schermo: si attivano altre zone del cervello, e
lo studio, che è un lento e complesso processo mentale, si avvantaggia
di molto con la scrittura a mano e la lettura sui libri. È stato anche
provato che il multitasking non è affatto quella nuova strabiliante
capacità intellettiva che ci piace attribuire ai nuovi giovani, ma
piuttosto un limite, un difetto che rende più difficile organizzare in
modo logico i pensieri; e che esistono problemi gravi connessi al
sovraccarico di informazioni: si veda la sindrome da stress denominata
IAD, Internet addiction disorder.
Ceronetti ha scritto che:
«nell’insegnamento elementare la comunicazione elettronica deve essere
responsabilmente bandita». Steve Jobs proibiva ai suoi figli, da
piccoli, l’uso di iPad, iPod e iPhone. E Evan Williams, fondatore di
Twitter, ha educato i figli abituandoli alla lettura dei libri e
cercando di tenerli il più possibile lontani dagli smartphone e iPad.
Quindi,
perché certi segnali, dal Ministero, sull’opportunità di usare i
telefonini in classe? Gradiremmo atteggiamenti più dubbiosi...
Mi
pare che commettiamo sempre lo stesso errore: perché la scuola sia
sempre più alla portata di tutti e soprattutto di chi ha difficoltà,
perché risponda sempre più alle richieste dell’utente (cliente!), la
svuotiamo della sua vera sostanza, culturale, e la rendiamo sempre più
simile a quel che c’è fuori, a quel che “scuola non è”. Così è più
accogliente, fa meno paura, sembra meno aliena. Ci adeguiamo a quel che
pensiamo che i giovani vogliano, ci mettiamo noi al loro livello invece
di portarli al nostro, scendiamo nel loro campo, usiamo i loro
linguaggi, i loro segni: in poche parole, diamo loro sostanzialmente
quel che hanno già. Usate i telefonini tutto il pomeriggio e sera? Bene,
allora ve li facciamo usare anche al mattino, non sia mai che la scuola
sia un’isola appartata e sconnessa, aggiungiamo altre 4 o 5 ore alle 7
ore che già dedicate a internet e social.
Abbiamo l’idea,
sbagliata, che una scuola tanto più diventi democratica quanto più si
adegui alle esigenze-desideri-preferenze (presunte) della maggioranza.
Il risultato è una scuola che insegue i like, vuole follower, stellette,
punti. Patetica infinita captatio benevolentiae che ha l’aria di una
indagine di customer satisfaction. Penoso blandire le peggiori debolezze
dei nostri giovani, invece di dirottarli su comportamenti più virtuosi,
verso mete cognitive più alte.
Non si potrebbe fare esattamente
il contrario? Non si potrebbe dire: visto che coi telefonini smanettate
già un bel numero di ore al giorno, almeno a scuola vi daremo altro? La
scuola come altro possibile uso del tempo, altra possibile vita, altro
modo di vedere le cose, di pensare, di entrare in relazione col mondo.
Vi daremo, guarda un po’, sempre più libri, invece di ri-darvi i
telefonini! I libri non sono nella vostra vita? Benissimo! A scuola
troverete solo libri! (solo libri: così, con questo coraggio anche un
po’ drastico, estremo!). Saranno un’alternativa, un’aggiunta, una cosa
in più a cui magari non avreste pensato, un’opzione diversa che non
avreste cliccato mai, dunque un arricchimento, una chance in più per la
vostra vita.
Potremmo fronteggiare l’onda-orda dei telefonini,
invece di cavalcarla assecondando, e di fatto anticipando, il maremoto.
Potremmo, proprio partendo dalla scuola, cominciare una lenta opera di
disintossicazione e progressiva disconnessione, invece di incrementare
l’irretimento nella rete fin dalla più tenera età!
Mi si dirà che
l’uso dei telefonini in classe non intaccherebbe per nulla l’uso dei
libri. Può darsi che nelle intenzioni sia così. Ma nella realtà? Tra
lavagna elettronica, computer in classe, tablet personale, la scuola si
va digitalizzando. Questo è il piano (Piano Nazionale Scuola Digitale,
della Buona Scuola), e il telefonino è solo l’ultimo tassello. La
brevità, l’immediatezza, la velocità, l’appeal visivo, la luminescente
fascinazione dei mezzi digitali per forza di cose avranno la meglio.
Vedo difficile, da lì, tornare alla lunghezza e alla grigia omogeneità
di una pagina stampata, che richiede tempo, attenzione, indugio,
capacità riflessive astratte.
Leggere-studiare un libro è
un’esperienza cognitiva complessa. Se a lungo andare i ragazzi
perderanno la capacità di stare su un testo, di comprenderne il senso,
se diventeranno sempre più inabili allo studio astratto, sarà unicamente
a causa delle scelte che noi adesso stiamo compiendo, non certo a causa
del deterioramento del loro cervello, o di mutazioni antropologiche di
cui tanto ci piace fantasticare. Cito Alberto Contri, il quale nel suo
ultimo libro (McLuhan non abita più qui?, Bollati Boringhieri, 2017),
dopo aver ricordato che il nostro “neocervello” risale a circa 200
milioni di anni fa, scrive: «Davvero risibile, quindi, anche solo
immaginare – come sostengono alcuni - che il cervello dei ragazzi si
stia modificando grazie allo sviluppo delle tecnologie avvenuto negli
ultimi vent’anni. In realtà sta reagendo come meglio può alle violente
accelerazioni e allo stress cui viene sottoposto, e già cominciano a
vedersi i primi danni, come una palese destrutturazione del pensiero, un
impoverimento complessivo del linguaggio e della scrittura. L’essere
continuamente connessi dà ai nativi digitali e millennial l’illusione di
essere al centro della realtà, mentre rischiano di rimanerne al di
fuori, perché sempre altrove e costantemente distratti».
Ecco,
bisognerebbe dunque invertire l’ordine causale: non è che noi dobbiamo
adeguare il sistema dell’istruzione al nuovo cervello dei nuovi giovani;
è che il loro cervello si sta sforzando, faticosamente e talora
dolorosamente, di adeguarsi alle nostre attuali pericolose scelte!
Il
telefonino in classe potrebbe agevolare l’ormai iniziata, lenta,
progressiva dismissione dei libri, che abbiamo sotto gli occhi e che
ipocritamente continuiamo a negare. Un ulteriore, durissimo colpo al
valore della concentrazione, dell’introspezione, della memoria,
dell’attenzione, della riflessione. Dispiacerebbe che fosse proprio la
scuola a contribuire in modo così massiccio a relegare i libri negli
ombrosi, umidi e ammuffiti scantinati delle nostre esistenze. Proprio la
scuola che dovrebbe essere l’ultimo baluardo, l’isola di resistenza da
cui, semmai, far ripartire una battaglia culturale.