Il Sole 24.9.17
Lettera da Samarcanda
Un gioiello infranto sulla via della seta
di Massimo Firpo
L’Uzbekistan,
al pari delle altre repubbliche asiatiche, ha il volto di una storia
millenaria e i segni della povertà del regime sovietico
Oggi come
ieri si chiama Asia centrale, un tempo Turkistan: una terra sconfinata,
delimitata a Nord dalla Russia, a Ovest dal Mar Caspio, a Sud
dall’antica Persia, l’odierno Iran, di cui comprendeva la parte
nordoccidentale, così come dell’Afghanistan e del Pakistan, a Est dal
deserto cinese del Taklamakan, superando le catene montuose del Pamir e
del Tien Shan, seconde solo all’Himalaya, per abbracciare lo Xinjiang
abitato dagli uiguri, di lingua turca e religione islamica. Tali sono
anche i kazaki, gli uzbeki, i turcomanni, i kirghisi, i tatari, i
baschiri, i ciuvasci, i karakalpaki ecc., mentre i tagiki parlano una
lingua persiana. Mondi vicini e lontani, confini mutevoli nel tempo,
spazi immensi, gelidi d’inverno e torridi d’estate, attraversati dal Syr
Daria e dall’Amu Daria, che dalle pendici di quelle montagne sfociano
dopo oltre 2mila kilometri nel lago d’Aral, oggi semiprosciugato a causa
dei dissennati prelievi di acqua da quei grandi fiumi che per secoli
hanno dato vita a queste regioni, evocate dagli antichi nomi della
Battriana, della Transoxiana, della Sogdiana, della Coresmia, ai limiti
delle grandi conquiste di Alessandro Magno.
Steppe desolate,
percorse tuttavia in lungo e in largo non solo da uomini, merci, monete,
notizie, ma da interi popoli con le loro diverse civiltà e religioni,
in un intreccio inestricabile di culture e barbarie. Decisiva fu
l’espansione araba, che islamizzò larga parte di queste terre nell’VIII
secolo, pur contaminandosi con tradizioni sciamaniche turche e
riassorbendo lentamente mazdeiti, zoroastriani, nestoriani e buddhisti.
Pochi sanno che l’algoritmo, uno dei cardini della matematica,
fondamento oggi dell’alta finanza, delle assicurazioni, di Google ecc.,
fu scoperto a Baghdad all’inizio del IX secolo dal dotto al-Khwarizmi,
nativo di Khiva, dove un grandioso monumento sovietico lo ritrae in
vesti arabe. E così anche che a Bukhara nacque allora al-Bukhari,
l’autore della principale raccolta di detti e fatti del profeta la cui
autorità è seconda solo al Corano, e 150 anni dopo il grande medico
Avicenna. Ma ancor oggi lo sport nazionale dell’Asia centrale resta il
buzkashi, il violento gioco in cui dozzine, a volte centinaia di
cavalieri si contendono senza esclusione di colpi la carcassa di una
pecora.
Incontri e scontri di popoli e culture non solo perché da
Khiva, Bukhara e Samarcanda, oggi in Uzbekistan, passava l’antica via
della seta, ma perché in queste terre aride e prive di sbocchi al mare
si sono mosse per secoli tribù nomadi con le loro mandrie e greggi,
pastori-guerrieri capaci di montare e smontare in un baleno le grandi
tende circolari, le yurte, per muoversi alla ricerca di nuovi pascoli,
di nuove terre, di nuovo bottino in perenne conflitto tra di loro e con
le popolazioni stanziali. Il suffisso -istan con cui sono denominate le
repubbliche ex-sovietiche del Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan,
Kirghisistan, Tagikistan, non significa Stato, ma territorio, paese:
paese dei kazaki, degli uzbeki ecc.
Inarrestabili furono i
mongoli, abilissimi e instancabili cavalieri delle steppe, cui l’uso
combinato della staffa e della sella, dell’arco e della sciabola,
garantì una supremazia militare capace di dar vita fra Due e Trecento a
vastissimi imperi, destinati a durare quanto la vita dei loro mitici
conquistatori, Temujin detto Gengis khan (il grande khan) e Tamerlano,
ma capaci di imporre la supremazia mongola dall’oceano Pacifico
all’oceano Indiano, dal Mediterraneo alla Siberia, di sconfiggere
l’Impero persiano e quello cinese, di circondare la Moscovia da Rjazan a
Kazan e conquistare Kiev con la potente confederazione tribale
dell’Orda d’oro, di affacciarsi sulla Polonia e minacciare
Costantinopoli, dove furono infine i turchi selgiuchidi a cancellare
dalla faccia della terra l’Impero bizantino, con i suoi mille anni di
storia, e a creare il possente Impero ottomano, esteso dall’Egitto
all’Ungheria, dal Caucaso all’Algeria. Di origini mongole fu la dinastia
cinese degli Yuan, il cui fondatore Kublai khan, nipote di Gengis khan,
ricevette Marco Polo a Pechino, e discendente diretto di Tamerlano fu
Babur, che all’inizio del Cinquecento conquistò l’Afghanistan e l’India
settentrionale, dando inizio alla dinastia dei Mughal (i gran mogol),
che avrebbero governato l’India per secoli.
La morte dei grandi
conquistatori e la fragilità delle costruzioni politiche sulle quali si
basava la pax mongolica determinarono la fine di quegli imperi, i cui
frantumi erano destinati a sfaldarsi e ricomporsi, a trovare di volta in
volta nuovo vigore e poi esaurirsi, in un pulviscolo di guerre
ininterrotte, di precarie dinastie fratricide, di grandi e piccoli
khanati disposti su una carta geopolitica in continuo mutamento. Per
questo la rapidissima espansione della Russia zarista verso Oriente
nell’Ottocento non poté non coinvolgere queste regioni, risucchiata dal
loro vuoto politico, destando le preoccupazioni dell’Inghilterra che
vedeva minacciato da Nord il suo Impero asiatico in India. Ne scaturì
quello che, riprendendo un’espressione di Kipling, in un bellissimo
libro pubblicato alla fine del secolo scorso, Peter Hopkirk definì The
Great Game, il grande gioco: un gioco di spie, di agenti segreti, di
soldati, di avventurieri per la conquista degli immensi spazi tra Kabul e
Kashgar, tra il khanato di Khiva e il leggendario Khyber Pass. Un gioco
di contrapposti imperialismi vinto alla grande dai russi, che alla fine
dell’800 erano ormai giunti ai confini dell’Iran e alle vette
dell’Hindu Kush, mentre i britannici erano incappati nelle tragiche
guerre e sconfitte afghane.
La russificazione di queste terre non
fu nulla rispetto alla bolscevizzazione successiva al 1920, che
intervenne pesantemente sulle strutture politiche, sociali, economiche e
culturali, con conseguenze devastanti anche per quanto riguarda il
patrimonio archeologico e artistico, soprattutto là dove esso era più
ricco e prezioso, nel pacifico, tollerante, accogliente Uzbekistan, dove
imam e muezzin parlano sottovoce e la vodka gode di largo
apprezzamento, mentre il paese cerca faticosamente di sottrarsi alla
povertà cella monocultura del cotone imposta dall’Urss. Solo di recente
poderosi restauri, in molti casi veri e propri rifacimenti a partire da
miseri ruderi hanno ricostruito la spettacolare città vecchia di Khiva,
con le sue mura, i suoi palazzi, le sue moschee, le sue madrasse, i suoi
minareti, le sue cupole lucenti di verde e d’azzurro, i suoi ayvan
decorati di maioliche blu dai fitti disegni floreali, le sue mille porte
e colonne lignee splendidamente lavorate, così come è accaduto nella
Bukhara dei Samanidi e nella Samarcanda di Tamerlano.
Qui
purtroppo, vicino alla spettacolare piazza Registan, con le sue
grandiose madrasse scintillanti di multicolori maioliche a mosaico, è
stato inaugurato pochi mesi fa un imponente monumento in puro stile
staliniano dedicato a Islom Karimov, già segretario del Partito
comunista in età sovietica per mantenere poi il ruolo di padre padrone
assoluto del paese dopo l’indipendenza, regolarmente rieletto presidente
della repubblica dal 1991 al 2016, anno della sua morte, con
percentuali intorno al 90 per cento. Processi analoghi, del resto, si
sono verificati anche negli altri Stati dell’Asia centrale emersi dalla
dissoluzione dell’URSS, nella sostanziale continuità di un sistema
basato su autoritarismo repressivo e censura di ogni dissenso,
manipolazione dell’opinione pubblica e dei risultati elettorali,
endemica corruzione nell’uso delle risorse naturali del paese. Molti in
Uzbekistan, per esempio, credono che Karimov non sapesse nulla delle
voraci ruberie della bella figlia Gulnara, cantante e stilista,
arrestata nel 2014 e condannata l’anno dopo, ma con numerosi processi
ancora in corso per chiarire le origini di conti bancari per oltre un
miliardo e mezzo di dollari, di palazzi, ville e proprietà in mezzo
mondo, tra cui un castello in Francia. Poco si sa di che ne sia di lei
sotto il nuovo presidente Shavkat Mirziyoyev, già primo ministro di
Karimov, che ha tuttavia annunciato importanti riforme.
Non molto
sembra dunque essere cambiato da tempi antichi nell’esercizio del potere
in queste terre. Le fotografie degli ultimi khan di Khiva o emiri di
Bukhara alla fine dell’800, con le loro vesti sontuose, i loro colbacchi
di astrakan e i loro turbanti, le loro sciabole cesellate,
restituiscono un mondo lontanissimo dall’Europa della regina Vittoria e
di Bismarck: un mondo dove esistevano ancora migliaia di schiavi, dove i
prigionieri che cercavano di fuggire venivano inchiodati per le
orecchie alle porte delle baracche perché non potessero addormentarsi,
dove la successione al trono era spesso regolata dagli intrighi
dell’harem, dove a neutralizzare i propri avversari bastava uno spillo
incandescente piantato nelle pupille, dove le rivalità dei piccoli
potentati locali non facevano che alimentare gli appetiti delle grandi
potenze. Un mondo al suo definitivo e silenzioso tramonto, che tuttavia
portava ancora con sé l’eredità di Gengis khan e Tamerlano da cui quei
piccoli e residuali khan discendevano, e ancor prima dell’antica via
della seta, ormai del tutto esaurita, ma allora come oggi iscritta nello
spettacolare patrimonio culturale di quelle antiche città, il cui solo
nome è capace di evocare ancor oggi favolosi miti d’Oriente.