Il Sole 24.9.17
Nelson Mandela
E il Sole disse al vento: chi di noi è più forte?
di Martha C. Nussbaum
In
un breve apologo che risponde a questa domanda si riassume la
leadership per Mandela: un addestramento virtuoso e paziente contro le
tentazioni della rabbia e della vendetta
Negli scritti di Mandela
non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma
un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (...) La rabbia
porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco
attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è
inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è
stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status
relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa
umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che
Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo
condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva
l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un
tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla
rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che
egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di
Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente
da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli
riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di
seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono,
alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione
o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò
dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse
la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a
Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato
che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della
pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai
svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io
per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i
giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la
trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa
storia). (...)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che
la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla
“posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio
sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente
è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava
addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un
atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella
di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per
disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo
non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo
con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle
buone relazioni con le guardie - spesso inquinate dagli attriti di
classe - era «il rispetto, il semplice rispetto». Quando il suo avvocato
giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela
volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato
la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome.
L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si
comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi
strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le
guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che
erano». La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia:
egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori.
Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da
lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché
si era fatto da sé. Era indipendente e studiava».
Quindi non solo
la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era
accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con
empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto
riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva
benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che
lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla
scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in
agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla
politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un
momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di
offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti
dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio
di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato
un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi
consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono
semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma
riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La
rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta,
ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e
se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci
accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben
più utili. (...)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla
rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui
stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in
carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di
restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo
bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò . La scelta di
organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco
Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare
direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto
rapporto anche con il concetto africano di ubuntu . (...) Egli richiama
ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione
sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in
prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa
disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a
conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri
processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali
esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina
l’orientamento al futuro. (...) In generale Mandela non sembra avere mai
pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro
qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era
di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la
collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe
risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (...)
Gli
atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in
particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader
responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un
pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve
andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la
maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche
provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle
la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela
si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e
che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di
una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al
vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla
prova con un viaggiatore… una persona avvolta in una coperta. Il più
forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il
vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la
coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non
voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento
soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento
rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere,
dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi… fino a quando
l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più,
perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi
del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il
viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con
la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più
determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che
dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la
questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro
ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più
agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I
progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia
difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo
aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e
gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a
superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela,
naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la
realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare
alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con
il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto
particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte
violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti
genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della
sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata
solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla
violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non
sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi
Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole
alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla
non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un
tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per
cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere
gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così
dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è
che il suo metodo funziona. (...)
Per Mandela, rabbia e
risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la
funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e
collaborativo permette di riuscirci.
Suggeriva di fare così anche
ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento
Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la
resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e
gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più
proficuamente, con strategie non rabbiose . Molto più tardi, nei primi
tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano
di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta
compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo
profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il
popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro
aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i
sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna
afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e
permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un
momento decisivo per tutti noi […]Dobbiamo usare il dolore, il lutto e
l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica
soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo
[…]rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile
trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela
aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un
profondo dolore per la sua morte.