mercoledì 6 settembre 2017

il manifesto 6.9.17
«Via gli africani da Israele»
Tel Aviv. Alimentata dai proclami anti-migranti del premier Netanyahu e dalle politiche della destra cresce la rabbia degli abitanti dei quartieri poveri di Tel Aviv contro eritrei e sudanesi
di Michele Giorgio

Tel Aviv Il Caffè Shapira è solo una casetta di legno con sette-otto tavoli all’ombra degli alberi in un piccolo parco di via Ralgab. Nulla di paragonabile con i locali della movida di Tel Aviv. È però uno dei rari luoghi nel quartiere Shapira, nella periferia meridionale e povera di Tel Aviv, dove si incontrano un po’ tutti: i giovani hipster tatuati e con piercing come l’anziano ebreo di origine mediorientale che da quelle parti ci vive da decenni. Qualche volta si vede anche qualche migrante eritreo o sudanese. Non sono molte le occasioni in cui gli abitanti della periferia di Tel Aviv, israeliani e stranieri, hanno la possibilità di ritrovarsi seduti nello stesso posto. Da un po’ al Caffè Shapira ci vengono solo gli hipster. «La gente del posto non ha voglia di incontare gli africani che da parte loro hanno paura, preferiscono non farsi vedere in giro e restano nella loro zona» spiega Roni, uno studente universitario, indicando via Levinsky e la vicina stazione centrale degli autobus.
In verità anche in via Levinsky si incontrano pochi eritrei e sudanesi. Gli africani provano a rendersi invisibili. Gli ultimi tempi sono stati carichi di tensione in quella zona e le recenti “visite” del premier Netanyahu nei quartieri meridionali di Tel Aviv, per rassicurare gli israeliani che vi abitano, hanno rimesso al centro dei problemi i “mistanenim”, gli “infiltrati”, come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo. «Molti di loro non sono rifugiati, ma gente che cerca soltanto lavoro» ha detto il primo ministro accrescendo il risentimento fra i tanti israeliani disoccupati ed emarginati di Neve Shaanan, Tikva, Shapira e altre aree periferiche che vedono nei “clandestini” dei concorrenti temibili perché pronti ad accettare lavori a giornata per pochi shekel e a nero. Le leggi israeliane approvate per combattere l’immigrazione non lo consentono ma il lavoro più a basso costo comunque finisce anche agli africani, che giungono in Israele scappando da conflitti vecchi e nuovi nei loro Paesi. «Bisogna salvaguardare le nostre frontiere» ha aggiunto Netanyahu annunciando la prossima formazione di un team ministeriale «per restituire i quartieri (meridionali) ai cittadini e rimuovere gli stranieri illegali che non appartengono al posto». Il governo, ha garantito il premier, rafforzerà il Muro costruito lungo il confine con l’Egitto e chiederà alla Knesset di approvare leggi più dure per chi darà lavoro agli “infiltrati”. Sotto accusa da diversi giorni è la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che ha bocciato la detenzione a tempo indeterminato decisa dal governo per gli “infiltrati” che si oppongono al rimpatrio volontario e assistito in Africa.
«Naor ci viva lei assieme ai neri» dice Noga, una signora sulla cinquantina. «Mangiano e dormono in strada e di notte non possiamo più andare in giro con tranquillità, abbiamo paura», prosegue la donna sulla porta del suo appartamento di pochi metri quadrati in una palazzina grigia. Interviene un giovane. «In questo stabile ci sono quattro ragazzi – ci spiega – io ho già fatto il militare, gli altri lo faranno presto. Facciamo il nostro dovere ma il lavoro poi va a quelli che vengono dall’Africa. Netanyahu ha ragione, Israele è solo degli israeliani». I migranti sono il capro espiatorio per chi fa i conti con una vita quotidiana difficile, lontana dalle luci colorate e dalla musica di Tel Aviv capitale del divertimento. I migranti perciò sono come i palestinesi, gli arabi. Nemici, senza diritti, da combattere e allontanare. A dare voce a questa rabbia è soprattutto Sheffi Paz, la leader del cosiddetto “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” nato per cacciare via i richiedenti asilo. Paz, 62 anni, era una pacifista negli anni Ottanta e Novanta e un’attivista dei diritti degli omosessuali, ora è passa gran parte del suo tempo a spiegare, davanti a telecamere e registratori, che Israele «deve liberarsi di un pericolo che a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». A gettare benzina è anche l’astro nasscente dell’estrema destra sociale May Golan che alle manifestazioni contro i migranti, urlando nel megafono, proclama «sì, sono una razzista». L’opposizione resta muta, timorosa di perdere consensi denunciando il clima che la destra sta alimentando nel sud di Tel Aviv.
«Occorre riconoscere che il premier e i suoi ministri sono espressione di una società israeliana nazionalista e che non sembra avere interesse per la difesa anche soltanto dei principi minimi della democrazia», ci dice Dror Ektes, un attivista di sinistra. «La situazione si è fatta esplosiva ed è grave che il premier sia andato alla periferia di Tel Aviv non a promettere lavoro, case migliori e la fine del degrado agli abitanti ma ad alimentare la loro rabbia contro i richiedenti asilo, allo scopo anche di guadagnare l’appoggio degli strati popolari in un momento per lui difficile», aggiunge Ektes riferendosi ai guai con la giustizia che sta affrontando Netanyahu, al centro di inchieste giudiziarie che lo interessano direttamente o indirettamente. Senza dimenticare quella che coinvolge la moglie Sarah che presto potrebbe essere incriminata per frode.
Jibril Diraije, un rifugiato sudanese di 26 anni, entrato clandestinamente in Israele tre anni fa, dei guai di Netanyahu non sa nulla. Sa solo che deve evitare l’arresto e l’espulsione. Con una frase spiega tutto. «Se torno in Sudan sono morto».