domenica 3 settembre 2017

il manifesto 3.9.17
La chiesa e la cura del vivere
Il papa in psicoanalisi. Per i gesuiti l'analisi è un valido strumento di cura psichica e non esiste alcuna incompatibilità con la fede. Eppure la rivelazione di Bergoglio va ben oltre, afferma un principio di laicità e riconosce l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze
di Sarantis Thanopulos

Papa Francesco all’età di 42 anni si è fatto aiutare per un breve periodo da una psicoanalista ebrea. La rivelazione è contenuta in un libro di prossima pubblicazione in Francia (Politique et société edizioni L’Observatoire): la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton.
Il fatto non è di per sé sorprendente. Bisogna considerare prima di tutto che papa Francesco è gesuita. Per i gesuiti la psicoanalisi è un valido strumento di cura psichica e il ricorso personale ad essa può essere finanziato dal loro ordine. Parecchi degli analisti sono credenti come anche la maggior parte dei loro analizzandi. Tra la psicoanalisi e la fede non esiste alcuna incompatibilità: i conflitti psichici si distribuiscono equamente tra credenti e non credenti.
Nondimeno la confessione pubblica del papa ha una sua innegabile particolarità. Proveniente dalla massima autorità della chiesa cattolica va ben oltre ciò che un fedele o un sacerdote fanno nella loro privata.
Afferma un principio di laicità che non consiste solo nel dare a Cesare ciò che è di Cesare (un riconoscimento dell’ordinamento politico terreno che legittimò la trasformazione della chiesa in un’organizzazione di potere secolare). Riconosce anche l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze che fanno parte della nostra esistenza (e la cui elaborazione determina la sua qualità, dalla fede nei valori eterni di una vita oltre la morte). La fede non può garantire da sola una vita decente, la terra può guardare il cielo per trovare in esso una visuale superiore delle cose di questo mondo, ma questa visuale non decide il modo di vivere e di gestire i propri desideri e sentimenti.
La differenza tra la religione cattolica e la psicoanalisi sta nella centralità che quest’ultima attribuisce alla dimensione erotica dell’esistenza. Ciò non implica semplicemente la sessualità vera e propria, con tutta la sua fondamentale importanza, ma più in generale il modo profondo, radicato nei sensi, di gustare e dare senso alla propria vita. La spiritualità religiosa, che si fa carico della caducità, nella prospettiva psicoanalitica è sostituita dalla sublimazione: l’esperienza culturale, includente la religiosità, che espande il piacere dei sensi e la profondità/intensità dei vissuti oltre i confini della pura contiguità sensoriale. Questa espansione amplia i legami e la ricchezza degli scambi tra di noi al di là dei limiti temporali e trasforma l’esperienza concreta, limitata del singolo individuo in una parte dell’infinita varietà potenziale dell’avventura umana.
La prospettiva psicoanalitica e quella cattolica non sono affatto in contraddizione insanabile se la spiritualità accetta la differenza tra la vita terrena e il principio dell’eternità, se non pretende che il secondo disincarni la prima, che la svuoti di senso e di soddisfazione. Se riconosce che una persona deprivata sul piano del desiderio e delle sue molteplici forme sublimate e appiattita su una posizione di dilazione consolatoria del piacere del vivere, astratto da ogni forma di emozione vera, è ridotta alla materia del proprio scheletro. Nessuna forza la farà risorgere, la morte se ne è impadronita per sempre. I credenti che hanno rispetto di se stessi e degli altri non aspirano alla resurrezione dei morti viventi.
Papa Francesco sembra più vicino dei suoi predecessori a Sofocle, un uomo profondamente religioso. In Antigone, dopo aver detto che l’eros è in battaglia invincibile, il grande tragico ha affermato che il Desiderio siede tra le Leggi (politiche e religiose) possenti.

Corriere 3.9.17
La riforma della scuola è avere buoni professori
di Nuccio Ordine

Ora che le scuole riaprono dopo la pausa estiva, per capire la vera essenza dell’insegnamento bisognerebbe rileggere con attenzione la commovente lettera che Albert Camus — poche settimane dopo la vittoria del Nobel (19 novembre 1957) — scrisse al suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».
Adesso che i riflettori rimarranno accesi ancora per qualche giorno sull’inizio del nuovo anno scolastico, sarebbe importante concentrare il dibattito su due figure essenziali: gli studenti e i professori. Eppure — dopo i numerosi «terremoti» che hanno scosso le fondamenta del nostro sistema educativo — sembra che la relazione maestro-allievo non occupi più quella centralità che dovrebbe avere. Ai professori, infatti, non si chiede di studiare e di preparare lezioni. Si chiede, al contrario, di svolgere funzioni burocratiche che finiscono per assorbire gran parte del loro tempo e del loro entusiasmo. Le ore dedicate a riempire carte su carte potrebbero essere invece investite per leggere classici, per approfondire le proprie conoscenze e per cercare di insegnare con passione.
Dopo decenni di devastanti tagli all’istruzione, l’unico importante investimento economico (un miliardo di euro) degli ultimi anni è stato destinato alla cosiddetta «scuola digitale», con l’illusione che le nuove tecnologie possano garantire un salto di qualità. Ma ne siamo veramente sicuri, in un momento in cui mancano le risorse destinate a riqualificare la qualità dell’insegnamento? A cosa serve un computer senza un buon docente? Il caos di ogni inizio anno e le incertezze del reclutamento dei professori stanno sotto gli occhi di tutti. La «buona scuola» non la fanno né le lavagne connesse, né i tablet su ogni banco, né un’organizzazione manageriale degli istituti e ancor meno leggi che rendano l’istruzione ancella del mercato: la «buona scuola» la fanno solo e soltanto i buoni professori. Basterebbe leggere le dichiarazioni del presidente Macron per capire l’orientamento della Francia: non più di 12 alunni per classe nelle aree considerate a rischio «economicamente» e «socialmente», proprio per dare, attraverso uno straordinario potenziamento dei docenti, più centralità al rapporto diretto con gli studenti.
Dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli? La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. Non ha bisogno dell’alternanza scuola-lavoro così come viene applicata (le ore non sarebbe meglio investirle in conoscenze di base?). Non ha bisogno di commissioni che studiano la riammissione degli smartphone in classe (perché, al contrario, non aiutare gli studenti, che li usano tutto il giorno, a «disintossicarsi» e a vincere la «dipendenza»?) o che propongono la riduzione di un anno della scuola secondaria (la fretta non aiuta a formare alunni migliori: la frutta maturata con ritmi veloci non ha lo stesso sapore di quella che cresce sull’albero). La peggiore delle riforme con buoni professori darà buoni risultati. E, al contrario, la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati. C’è bisogno di un sistema di reclutamento che possa garantire un percorso chiaro e sicuro: ogni anno, a prescindere dal colore dei governi, un concorso nazionale (come si fa in molti Paesi). E non l’alea dei concorsoni decennali e dei percorsi improvvisati che hanno prodotto infinite tipologie di precari: una matassa talmente ingarbugliata che nessun miracoloso algoritmo arriverà a sbrogliare.
Decine e decine di migliaia di precari (con ormai un’età media veramente preoccupante) potranno entrare in classe con entusiasmo? Potranno insegnare con passione? Selezionare i buoni professori (eliminando completamente il precariato) e ridare dignità al lavoro di insegnante (anche sul piano economico, visto che gli stipendi italiani sono molto bassi rispetto alla media europea) è ormai una necessità. Solo così potremo riportare la scuola alla sua vera essenza, alla centralità del rapporto docente-allievo.
In alcune scuole del Nord e del Sud, ogni giorno, questo miracolo già accade. Riposa sulle spalle di singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti. Che cercano di far capire ai ragazzi che a scuola ci si iscrive soprattutto per diventare migliori e che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o per esercitare solo una professione, ma perché ci aiutano a vivere. Per fortuna, nonostante leggi e circolari assurde, non mancano fino ad oggi allievi che hanno visto cambiare la loro vita grazie all’incontro con un professore. Proprio come il maestro Germain, in Algeria, era riuscito a cambiare il destino di uno scolaro, orfano di padre e molto povero, come Albert Camus. Ma, se non si frena il declino, per quanti anni ancora la scuola potrà contare su quei docenti (ormai sempre più rari) in grado di compiere miracoli?

Repubblica 3.9.17
L’orgoglio perduto dell’università
di Valerio Magrelli

CENTINAIA di spettatori paganti, 40 sterline a biglietto, posti esauriti, un gruppo di spalla composta da fiati, proiezioni video. Il tutto, al Royal Festival Hall del Southbank Centre, uno fra i più grandi auditorium di Londra. La ragione dell’incontro? Né una rockstar, né un divo da best-seller, bensì una consegna di diplomi. Sono quelli dei Master e dei PhD, l’equivalente dei nostri dottorati, rilasciati dall’Ucl (University College of London) nelle discipline più varie, ingegneria e letteratura, management e traduzione, chimica e filosofia. Per chi provenga dall’università pubblica italiana, come nel mio caso, è un’esperienza senza precedenti. Sono stupefatto da una simile concezione della laurea, che fa letteralmente impallidire le timide corone di alloro di qualche nostro studente. Le Graduation Cerimonies rappresentano un vero e proprio rito di passaggio, grazie al quale gli studenti si trasformano in “Alumni”, continuando così a far parte della stessa comunità dalla quale si stanno congedando. E si badi, non stiamo parlando di università costosissime sul genere di Oxford, Eaton o Cambridge, ma di un’istituzione alla portata di molti inglesi e stranieri, come dimostra l’enorme quantità di iscritti provenienti dall’Asia e dall’Africa, con una piccola quota di italiani.
Dopo aver prenotato il mio posto con mesi d’anticipo, seguo una serie di interviste ad alcuni ex allievi celebri. Ma dura poco, poiché veniamo tutti invitati ad alzarci per salutare l’arrivo dei professori — proprio come quando la Corte fa il suo ingresso nelle aule di Giustizia! Sono una trentina, vestiti con abiti d’epoca, e seguono un maestro di cerimonie fino a prendere posto sul palco, dove per quasi due ore assisteranno a un’ininterrotta sfilata di laureandi. Tutti in tocco (il copricapo reso celebre da Harry Potter), tutti in toga nera (con nastri di colore diverso a seconda delle materie), attraversano la scena raggianti per dare la mano al prorettore e salutare i compagni, che rispondono ora con applausi gentili, ora con boati di giubilo.
Rispetto alla nostra università pubblica è un’esperienza unica, soprattutto in un momento in cui, dopo decenni, buona parte del corpo insegnante ha deciso di scioperare seguendo il Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria. Le cause della protesta sono note: una clamorosa, grottesca discriminazione. Basti sapere che ai professori sono stati inspiegabilmente negati gli scatti di stipendio degli ultimi anni. Il punto, però, è un altro, e riguarda la tutela e la valorizzazione del mondo accademico nel suo complesso. Me ne rendo conto davanti a questa folla festante, entusiasta. E allora penso che, seguendo il bell’esempio inglese, l’università italiana dovrebbe ritrovare l’orgoglio, visto che resta, non dimentichiamolo, tra le migliori al mondo: prova ne sia che tutte le altre ci rubano migliaia di studenti… Parlando appunto di Dignità di docenti e discenti, dovremmo intanto rivendicare il pregio che la vita accademica possiede comunque, indipendentemente dalla sua pur sacrosanta monetizzazione, per l’educazione di un soggetto Consapevole, Colto e Critico: tre belle “C” da opporre alle sciagurate tre “I” di berlusconiana memoria. Partendo dalla lezione come momento formativo, comunitario per eccellenza, bisognerebbe saper evidenziare, senza alcun malrisposto imbarazzo, l’esperienza che matura nel lungo periodo universitario. Tre o quattro anni di studio non sono uno scherzo, e non andrebbero liquidati alla leggera.
Ebbene, un’adeguata consacrazione del titolo accademico darebbe valore alle ore passate sui libri. Sì, io sarei fiero di vestirmi da pagliaccio come i miei colleghi inglesi rischiano di apparire. Sarei felice di condividere con gli studenti la liturgia della tesi — perché di un’autentica liturgia si tratta, nonostante scandali e corruzioni imperdonabili. C’è del marcio in Danimarca, si legge nell’Amleto; figuriamoci nel mondo accademico italiano. Tuttavia, da qui alla sistematica (e politicamente assai interessata) denigrazione, ce ne passa. Malgrado lo sfruttamento di assegnisti e ricercatori, malgrado il nepotismo, malgrado i tanti tagli (troppo spesso stornati verso quel finanziamento dell’insegnamento privato che, dovremmo ricordare, va contro la Costituzione), occorre ribadire che il nostro sistema universitario rimane per molti aspetti esemplare. E allora salutiamolo con le trombe, acclamiamo i meriti di chi studia, e facciamo pagare i biglietti per assistere al conferimento delle lauree.

La Stampa 3.9.17
Il piano per le medie divide la scuola
L’ex ministro Berlinguer: ci ho provato anche io 17 anni fa. Contrari i sindacati: ci sono altre priorità
di Flavia Amabile

«La scuola media? È il grande malato che avrebbe da tempo bisogno di un intervento. Un osanna alla ministra Fedeli che ha il coraggio di affrontare la questione». Parola di Luigi Berlinguer che ci provò quando guidava il ministero dell’Istruzione ma - come racconta lui stesso - «poi passò Letizia Moratti con un colpo di spugna a cancellare tutto». Berlinguer aveva tentato 17 anni fa di creare un primo ciclo di 7 anni eliminando l’ultimo anno di scuole medie e prevedendo poi un secondo ciclo di scuole superiori. Non ci riuscì ma lo spirito della riforma della scuola media ha continuato ad aleggiare nelle stanze del ministero. La ministra Fedeli ha deciso di mettersi al lavoro per raccogliere idee su che cosa sia possibile fare. L’operazione è iniziata, l’obiettivo, come ha anticipato alla Stampa ieri è «offrire una proposta che permetterà di avere gli strumenti per affrontare il tema nei tempi giusti». Ma la proposta dovrà essere il più possibile condivisa, secondo la ministra, dalle diverse componenti della società.
Via libera dal Pd. Simona Malpezzi, responsabile scuola del partito approva: «Fa bene a lanciare idee su cui riflettere».
Dal mondo dei dirigenti arriva il sì condizionato di Mario Rusconi, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Presidi. «Sono più favorevole a un ciclo di 7 anni con una reimpostazione delle elementari per armonizzare l’apprendimento che all’accorciamento di un anno delle superiori. Ma per intervenire in modo così incisivo sulla scuola ci vogliono tempo e capacità di coinvolgere gli insegnanti, attori principali delle riforme. Senza la partecipazione dei professori le riforme corrono il rischio di non essere metabolizzate e, quindi, di essere respinte dal sistema». Via libera condizionato anche dai genitori del Coordinamento Genitori Democratici. «È giusto avviare una riflessione sulle scuole medie - spiega la presidente, Angela Nava -. Sappiamo da tempo che bisogna sanare il trauma del passaggio dalla scuola primaria comprensiva e quella disciplinare del ciclo successivo. Ma vorremmo che la riflessione coinvolgesse la comunità scientifica, che ci si chiedesse quali dovrebbero essere le competenze che dovranno avere i diciottenni alla fine del percorso scolastico, e che ci si ponesse il problema di una nuova didattica rispettosa degli insegnamenti della pedagogia. Altrimenti sono i soliti spot».
Più critiche le posizioni dei sindacati. Per Francesco Sinopoli, segretario generale Flc-Cgil, «occorre un ripensamento generale delle cosiddette transizioni, dei passaggi da un livello all’altro delle fasi di apprendimento, sforzandoci di non perdere mai di vista la centralità dell’alunno e dello studente, evitando di sostituirla con la scuola centrata sulle discipline» e occorre una scuola che «non lasci indietro nessuno, e che non venga invece trasformata, come purtroppo sostiene la ministra, in un luogo prevalentemente funzionale agli interessi del mercato e dell’economia». Secondo l’Anief la ministra è malata di «annuncite».

La Stampa 3.9.17
La vera riforma che non può aspettare
di Andrea Gavosto*

Dal Dopoguerra a oggi, i ministri dell’Istruzione in Italia sono durati, in media, un anno e mezzo: troppo poco per impostare una visione di lungo periodo per la scuola.
Questo è uno dei limiti più seri del nostro sistema d’istruzione: per mettere alla prova e consolidare riforme, spesso frettolosamente definite «epocali», servono tempo e continuità d’intenti, che la politica raramente ha saputo dare.
Nell’intervista di ieri, la ministra Fedeli, anche lei ormai vicina alla scadenza del mandato, non annuncia giustamente un’ennesima riforma, ma suggerisce un’operazione interessante per dare alle politiche scolastiche un respiro meno breve e affannoso. In questa fine di legislatura, non tocchiamo l’attuale struttura dei cicli scolastici - 3 anni di scuola dell’infanzia, 5 di primaria, 3 di secondaria di primo grado (vecchia media), 5 di secondaria di secondo grado –, ma cerchiamo di far funzionare quello che c’è. Intanto, avviamo una sperimentazione in 100 classi per vedere se si riesce a ridurre di un anno la durata delle superiori, rinnovando la vecchia didattica senza intaccare i livelli di apprendimento: alla luce degli esiti di questo esperimento, ragioneremo se cambiare l’organizzazione dei cicli, facendone coincidere la durata con il termine dell’obbligo scolastico a 18 anni. Così, Fedeli evita di gettare ulteriormente nello scompiglio il mondo della scuola, uscito provato dalle incongruenze della Buona scuola. Non propone una riorganizzazione generale - ora velleitaria - che coinvolga anni di scuola, insegnamenti, esami e numero di cattedre nei vari ordini. In compenso, lascia in eredità un solido fondamento di analisi e sperimentazioni, su cui costruire una prospettiva di lungo periodo della scuola, che incontri il necessario consenso di insegnanti e famiglie.
È ragionevole riflettere seriamente sulla scansione degli attuali cicli scolastici, così come sull’innalzamento dell’obbligo a 18 anni, di cui abbiamo già parlato in queste pagine: sappiamo infatti che, dopo le primarie, la qualità degli apprendimenti perde terreno rispetto agli altri paesi avanzati, creando un danno agli studenti e una zavorra alla crescita economica. L’anello debole del sistema è la scuola media, che, senza più il mandato di completare il vecchio obbligo scolastico a 14 anni, sembra oggi mancare di una chiara missione. Per questa ragione, il ministro Berlinguer ne propose l’abolizione tout court, allungando di due anni le elementari e anticipando di uno le superiori: come noto, alla fine non se ne fece nulla. La ministra Fedeli non riprende la proposta di modificare la durata delle medie, ma, correttamente, ricorda che il passaggio fra fine della primaria e inizio delle medie nel nostro paese è segnato – caso pressoché unico in Europa – da una forte cesura fra una scuola accogliente e interdisciplinare e una modellata come un piccolo liceo, con una dozzina di docenti che si coordinano poco e male fra di loro. Di conseguenza, occorre smussare il passaggio, creando continuità didattica fra elementari e medie attraverso un maggior coordinamento fra i rispettivi docenti.
Anche se non è un problema di oggi, come si potrebbe articolare una riforma dei cicli? Una risposta univoca non c’è. Le ipotesi sul tappeto sono moltissime: da un anticipo della scuola primaria a cinque anni, a cicli immutati (che però costringerebbe a scegliere gli indirizzi delle superiori a 13 anni) alla riduzione di un anno delle superiori, che diventerebbero così di 4 anni, all’allungamento di un anno della scuola media a scapito delle elementari. Nessuna soluzione è, sulla carta, preferibile alle altre e non sembra esistere all’estero un modello che di per sé s’imponga come preferibile: questo giustifica la prudenza della ministra e la sua scelta di dar corso alle sperimentazioni, come base per decidere. Di una cosa possiamo però essere certi: cambiare la durata dei cicli senza modificare la didattica scolastica, ancor oggi legata alla lezione dalla cattedra, alle interrogazioni al banco e ai compiti a casa, non serve a nulla. La vera riforma da fare sarebbe quella delle competenze didattiche dei docenti, dei tempi e degli spazi scolastici, in modo da rinnovare il modo con cui gli studenti apprendono.
*Direttore Fondazione Agnelli

Repubblica 3.9.17
Il ministero della Salute boccia il piano sulle scuole. Dagli aspiranti cardiologi ai pediatri, in 15mila attendono il bando: “Anno accademico a rischio”. Martedì manifestazione a Roma
“Non ci fanno specializzare” i giovani medici in piazza
di Ilaria Venturi

ERA la grande riforma, avviata con la ministra Maria Chiara Carrozza, delle scuole di specializzazione di Medicina, quelle che formano i futuri chirurghi, cardiologi, pediatri, oncologi. Si è arenata, tre anni e tre ministre dopo, sullo scoglio dell’accreditamento delle scuole. Il rapporto presentato dall’osservatorio nazionale della formazione medica specialistica, che si è concluso con la proposta di bocciatura di 135 strutture su 1.433, è stato a sua volta respinto dal ministero della Salute per “deficit” nell’istruttoria. Una impasse che si è trascinata la mancata pubblicazione del nuovo bando per l’accesso alle scuole: doveva uscire a luglio, se va bene arriverà a novembre. Il ministero all’Istruzione deve infatti attendere il via libera sulle scuole accreditate per dire dove mettere i posti a concorso. Insomma, un pasticcio che agita il mondo universitario e che fa infuriare le associazioni dei giovani medici: «A rischio è il nuovo anno accademico». Per salvarlo, la corsa è contro il tempo.
Il clima di tensione si farà sentire martedì davanti a Montecitorio con una manifestazione indetta dalla Sigm e dal comitato aspiranti specializzandi, con l’appoggio di Federspecializzandi, per chiedere che si sblocchi subito l’accreditamento delle scuole e il bando per i nuovi concorrenti stimati tra i 13 e i 15mila per 6.105 borse nazionali e circa 600 contratti aggiuntivi finanziati da regioni e privati. Un’altra protesta è annunciata a breve in viale Trastevere dai giovani medici dell’Anaao che reclamano almeno duemila contratti di specialità in più.
Il segnale di un malessere diffuso che chiama in causa un sistema che sforna più laureati dei posti che li attendono in medicina generale e nelle scuole di specialità. «E poi che deve ancora arrivare l’onda lunga dei 17mila ammessi a Medicina con il maxi ricorso », osserva Andrea Silenzi, del segretariato giovani medici (Sigm). «Manca una vera programmazione sui fabbisogni. Avremo sempre più necessità, per esempio, di geriatri, oncologi, cardiologi: chi ci pensa?».
I giovani medici chiedono qualità della formazione post laurea e futuro. Negli ultimi due anni è stato avviato un lavoro di monitoraggio delle scuole di specializzazione universitarie per garantire criteri quali strutture all’altezza, tutor, un minimo di interventi chirurgici, di ricoveri o di casi da vedere in reparto. «Su questo insistiamo », spiega Stefano Guicciardi di Federspecializzandi. Una procedura voluta dai due ministeri alla Salute e all’Istruzione, ma che si è fermata sulle conclusioni a cui erano arrivati gli esperti: togliere l’accreditamento al 10% delle scuole. Il dicastero della Lorenzin ha chiesto di rifare la relazione, evidenziando “lacune” che avrebbero esposto a ricorsi. Martedì, in concomitanza con il presidio, si riunirà l’Osservatorio per studiare correttivi e trovare una via d’uscita.
«Non salterà l’anno», promette il Miur annunciando l’uscita del regolamento il 6 settembre; poi dovrà seguire il bando e dopo 60 giorni il concorso, anche questo riformato. Per la prima volta si sceglierà la specialità solo dopo aver sostenuto la prova. «Un assurdo, va cambiato il bando — contesta Domenico Montemurro, responsabile di Anaao giovani — e poi vanno rivisti i criteri per l’accreditamento, ora troppo stringenti». Sulla valutazione delle scuole Silenzi è netto: «Si vada avanti, dopo due anni è inaccettabile uno stop all’ultimo miglio».

La Stampa 3.9.17
Il suicidio assistito in Svizzera dell’ex ingegnere depresso
Inchiesta della procura di Como sul ruolo di un amico
di Fabio Poletti

M.B., 62 anni, ingegnere, pensionato, era un meticoloso. Nella lettera fatta arrivare lunedì scorso al Comune di Albavilla vicino a Como dove abitava da 40 anni, avvisava dove si trovassero le chiavi di casa, dove fosse il testamento, come avvertire la donna delle pulizie che oramai non era più il caso che passasse. Indicava poi che avrebbe preferito essere sepolto nella nuda terra e in quale cassetto trovare la foto per la tomba. M.B a detta di tutti era un uomo gentile e dalle prime righe della lettera, si capisce dotato anche di sarcasmo: «Carissimi, se riceverete questa mia nota vuol dire che non ci sarò più (si dice così, vero?) e che ho fatto il suicidio assistito in Svizzera. Chiedo perdono per questo gesto. È stata una mia libera scelta».
Se non ci fosse quell’accenno alla Svizzera sarebbe solo un’ultima lettera. Ma la procura di Como ha aperto un’inchiesta perchè vuole capire meglio come sia andata. Il giornale “La Provincia di Como” l’ha messa in prima pagina. Perchè M.B. non era un malato terminale come i tanti italiani che scelgono di andare oltre confine per ottenere un dignitoso aiuto a morire. Era solo un uomo depresso. Molto depresso, come racconta un suo caro amico al bar del paese, in questa giornata di pioggia che sembra autunno e nella chiesa a fianco c’è giusto un funerale: «Aveva iniziato a stare male tre anni fa, quando era morta sua madre alla quale era legatissimo. Ma da quando due anni fa un tumore gli aveva tolto anche il fratello non era più lui. Non aveva moglie. Non aveva figli. Si sarà sentito solo. Gli sarà scoppiata la testa. Non aveva detto nulla delle sue intenzioni».
Il dubbio
I magistrati vogliono essere sicuri che M.B. abbia fatto tutto da solo. Lui nella lettera parla di un amico al quale rivolgersi per tutte le incombenze. L’amico che era con lui anche sabato di due settimane fa quando alla stazione di Chiasso M.B. ha preso un biglietto per Zurigo. Sola andata. Sentito dai carabinieri l’amico ha confermato di averlo accompagnato in auto, solo fino alla stazione: «Non mi ha detto dove sarebbe andato. Pensavo a uno dei suoi tanti consulti psichiatrici. Non mi aveva mai parlato dell’intenzione di suicidarsi. Prima dell’estate mi aveva addirittura chiesto se lo accompagnavo in Toscana da un suo cugino».
Il procuratore capo di Como Nicola Piacente e il magistrato Valentina Mondovì hanno aperto un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio: «Abbiamo avviato una rogatoria con le autorità elvetiche per sapere le modalità con cui è avvenuta la morte. Sappiamo che era assistito da una struttura pubblica per un grave problema di depressione. Abbiamo chiesto la cartella clinica, aspettiamo gli esami tossicologici. Alla Svizzera abbiamo anche chiesto di conoscere la normativa vigente in materia di suicidio assistito». L’articolo 115 del codice penale elvetico punisce chi istiga o aiuta una persona a suicidarsi. La pena detentiva è fino a 5 anni. Ma non c’è reato se «la persona che desidera morire prende ed esprime liberamente la decisione di suicidarsi» e se questa decisione è «ben ponderata e costante». Nessun riferimento certi sulle patologie per cui è consentito il suicidio assistito.
La perplessità
La sindaca di Albavilla, Giuliana Castelnuovo, che ha ricevuto la lettera di M.B., anche se non lo conosceva è perplessa: «Era un uomo gravemente depresso in cura nelle nostre strutture da qualche anno. La depressione è curabile. Si fatica a capire come la Svizzera aiuti a suicidarsi un malato non terminale. Siamo oltre qualsiasi dibattito sul fine vita».
Deve esserci un cavillo nel codice elvetico o nei regolamenti delle strutture sanitarie svizzere, che M.B. deve avere scoperto quando ha iniziato a pianificare la decisione di morire. Accantonando i soldi che gli sarebbero serviti per pagare la struttura, circa 10 mila euro. Pagando pure il rientro della sua salma, arrivata giovedì scorso al confine italiano, accompagnata da un referto medico elvetico: «Morte avvenuta non per cause naturali». Come aveva pianificato con gran cura l’ingegner M.B., che adesso aspetta di essere seppellito finalmente in pace.

La Stampa 3.9.17
Lo psichiatra: “In alcuni casi chi soffre di questa malattia ritiene che non sia curabile”
di Alessandro Mondo

«Il suicidio è sempre molto difficile da inquadrare. In questo caso, un suicidio assistito chiesto da un depresso, la difficoltà è doppia». Il professor Vincenzo Villari, direttore della Psichiatria ospedaliera dell’ospedale Molinette di Torino, soppesa le parole.
Perché è più difficile?
«In Belgio, Olanda, Svizzera e Lussemburgo si pratica il suicidio assistito. Ma solo Belgio e Olanda, in qualche caso la Svizzera, includono le malattie mentali tra i fattori che possono giustificare la richiesta. La prima domanda è: checché se ne pensi del suicidio assistito, queste malattie devono rientrare o no?».
Secondo lei?
«Ogni forma di depressione - una volta diagnosticata, e non è scontato - può essere aggredita con un percorso psicoterapeutico associato nelle forme più gravi a un trattamento farmacologico».
Funziona?
«Nella prevalenza dei casi, sì. Ma la prima difficoltà è a monte: spesso il depresso interpreta la propria sofferenza come uno stato oggettivo, mentre invece è il sintomo della malattia».
Quindi?
«Prescindendo da questo caso, che non conosco, può rifiutare le cure ritenendole inutili. Molti depressi non si rendono nemmeno conto di esserlo. In tutti casi - episodi depressivi innescati da un evento specifico o depressioni croniche, spesso associate a disturbi della personalità - il comune denominatore è il pensiero ricorrente della morte come approdo di una sofferenza giudicata irrimediabile. La differenza con i malati terminali, che talora ricorrono al suicidio assistito, è questa».
Si spieghi meglio.
«Il malato terminale pensa alla morte sulla base di una prospettiva concreta e irreversibile; chi soffre di depressione può arrivare alla stessa conclusione, e programmarla, sulla base di uno stato emotivo. Un dramma nel dramma».

La Stampa 3.9.17
Depressione e suicidio
Quelle vite intrecciate da fili neri
di Massimiliano Panarari

Fili neri e tragici intrecciano, purtroppo da sempre, la depressione e il suicidio. Ma nella vicenda dell’ingegnere depresso di Albavilla, andato in Svizzera in una clinica dove si pratica il suicidio assistito, ci ritroviamo a osservare una sorta di cambio di paradigma, e un passaggio di scala, sul quale è doveroso interrogarci, in maniera sommessa (come sarebbe bene fare sempre di fronte a un evento tragico), ma, al tempo stesso, nitida. Si tratta, infatti, di una storia differente da quella di «Dj Fabo» -Fabiano Antoniani (divenuto tetraplegico e non vedente all’indomani di un incidente stradale), che ha recentemente diviso e commosso l’opinione pubblica - e che, per molti versi, rimanda invece all’opzione per l’eutanasia passiva di Lucio Magri, depresso dopo la scomparsa della moglie. Avvenimenti in cui l’innesco della scelta definitiva, farsi aiutare nello spegnere la propria esistenza, è consistito nella depressione, una malattia certamente, e in taluni casi invalidante, ma non irreversibile, né irrimediabile. Un tunnel oscuro, dal quale, però, si può uscire «a riveder le stelle» e la luce, come accaduto a tante persone che, per una molteplicità di ragioni e vicissitudini, si sono trovate a percorrerlo. Ed ecco perché quest’ultimo caso pone quesiti ulteriori anche alla bioetica laica che sull’eutanasia individualistica ha una posizione diversa da quella della morale cristiana (e, più in generale, religiosa), per la quale il principio della salvaguardia della vita, sempre e in ogni circostanza, risulta prevalente e inderogabile.
Dal Rinascimento di Tommaso Moro e Francesco Bacone (inventore del termine eutanasia) all’Illuminismo, dall’utilitarismo a Émile Durkheim, fino ai filosofi analitici contemporanei, il pensiero laico ha privilegiato la dimensione della libera volontà del singolo, e così, all’insegna di sfumature differenti - e al netto di inammissibili e intollerabili «pruriti» eugenetici di derivazione tardopositivistica - ha visto nel suicidio un atto legittimo, ancorché drammatico e sconvolgente. Perché la cultura liberale, animata da dubbi e incertezze, ci insegna che le scelte individuali vanno sempre rispettate, ancor più quando tanto drammatiche e circonfuse di dolore. Tuttavia, se passiamo dal piano della riflessione filosofica alla fattispecie concreta (e ai dilemmi decisionali di un legislatore laico), il suicidio assistito quale extrema ratio appare ragionevolmente rivestito di liceità quando la buona morte solleva da una vita diventata cattiva senza via di ritorno, ovvero senza possibilità di guarigione. E, invece, dal “male oscuro”, giustappunto, si può guarire, dato che la depressione non rappresenta una patologia terminale, e può venire curata mediante una pluralità di terapie.
Una persona depressa che si spinge sino a invocare “l’exit strategy ultimativa” non possiede la completezza di quelle facoltà cognitive che consentono il pieno esercizio di una libera volontà individuale, e, al medesimo tempo, non è in una condizione di dolore fisico insostenibile. Ha solo bisogno di essere assistita, ma non certo nell’esecuzione del suicidio. Altrimenti quella cultura del limite senza la quale non esiste umanesimo autentico rischia di incamminarsi lungo una strada senza uscita.

Corriere 3.9.17
Fare giustizia, per le donne e per battere la xenofobia
di Fiorenza Sarzanini

L a decisione dei due giovani fratelli di consegnarsi ai carabinieri per confessare gli stupri della ragazza polacca e della trans peruviana avvenuti a Rimini la notte tra il 25 e il 26 agosto, è una buona notizia. Le indagini diranno se i colpevoli sono davvero loro, ricostrui-ranno che cosa è accaduto quella terribile notte, individueranno eventuali altre responsabilità. Ma intanto si intravede la possibilità di rispondere alle istanze delle vittime che da giorni invocano giustizia. Le altre aggressioni compiute in questi giorni in varie parti d’Italia hanno fatto riemergere la gravità di un problema troppo spesso sottovalutato, che invece è una vera e propria piaga. Perché — lo abbiamo già evidenziato — in Italia solo il 7 per cento delle violenze sessuali viene denunciato. E questo dato, se la percentuale fosse più alta la realtà non sarebbe diversa, dimostra che la maggior parte degli episodi avviene in famiglia o comunque nella cerchia di amici e conoscenti. Le donne hanno paura a dirlo, spesso si vergognano. Oppure temono le conseguenze. Dunque preferiscono tacere e molto spesso continuare a subire. Accade alle italiane, accade in maniera ancora più grave alle straniere, spaventate all’idea di finire loro stesse sotto accusa in un Paese che non è la propria patria. E invece è importante far sentire tutte le donne al sicuro, far sapere loro che se decideranno di ribellarsi al proprio aguzzino troveranno ascolto e aiuto. A maggior ragione se si tratta del marito, del fidanzato, dell’amico di famiglia. Nelle ultime ore il governo è tornato ad annunciare interventi con il sottosegretario Maria Elena Boschi che ha parlato ancora una volta di «un piano e di 60 milioni già stanziati». In realtà sembra l’ennesima promessa visto che i finanziamenti sono fermi da tempo e molti centri antiviolenza sono stati costretti a chiudere mentre altri non riescono a funzionare al meglio proprio perché non hanno soldi e strutture adeguate. Per combattere questo orrore bisogna avere il coraggio di uscire allo scoperto, di denunciare per tornare a essere libere. Ma bisogna anche non aver paura di segnalare che un’alta percentuale di arrestati è straniera, proviene da Paesi dove la cultura impone alla donna di essere sottomessa al maschio. E anche su questo bisogna intervenire con una campagna di informazione che coinvolga i migranti, gli operatori che hanno a che fare con chi arriva nel nostro Paese, i leader delle comunità. È la strada che serve anche a battere il razzismo, la xenofobia, il populismo di chi vorrebbe criminalizzare gli stranieri per essere poi giustificato quando dice che «bisogna cacciarli tutti».

Repubblica 3.9.17
Bufera sul manifesto razzista “Ora il Viminale intervenga”
Le accuse di Pd, Mdp e Si: “Forza Nuova incita all’odio e alla violenza” Per Matteo Renzi bisogna “ritrovare la strada della ragionevolezza”
di Paolo Berizzi

ROMA. Richieste di intervento del Viminale e della magistratura, interrogazioni parlamentari, un coro di polemiche: è bufera sul manifesto shock anti immigrati di Forza Nuova. La vicenda della locandina razzista ispirata alla propaganda fascista della Rsi - diffusa sul web per cavalcare strumentalmente lo stupro di Rimini e raccontata ieri da
Repubblica - è diventata un caso politico. Insorgono Pd, Mdp e Sinistra italiana, che parlano di “istigazione all’odio razziale” e di “grave reato”. E chiedono provvedimenti al ministro dell’Interno, Marco Minniti. «Se passa il messaggio dell’uno contro l’altro allora è un casino », è la presa di posizione del segretario del Pd Matteo Renzi, intervenuto ieri alla Festa dell’Unità di Modena. «Non deve passare un messaggio di paura e di preoccupazione. Come diceva Mitterrand - ha concluso Renzi - bisogna portare avanti la forza ragionevole, sennò non si va da nessuna parte». La provocazione lanciata dal partito di Roberto Fiore a pochi giorni dalla violenza sessuale di Rimini una riproposizione del manifesto ideato nel 1944 dall’illustratore di regime Gino Boccasile per la Repubblica sociale italiana, manifesto dove è raffigurato un soldato “alleato” di colore che violenta una donna italiana e la scritta “Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia” - ha suscitato sdegno. «Questo vergognoso manifesto istiga all’odio razziale, individuando negli immigrati gli unici soggetti dediti ad attività delinquenziali», sottolineano i deputati di Mdp Giovanna Martelli e Arturo Scotto. «Condanniamo lo stupro senza selezionare gli aggressori attribuendo un valore differente basato sul “tipo di razza d’uomo”. Per questo - aggiungono - chiediamo al ministro Minniti di intervenire per evitare che il corpo delle donne diventi, attraverso la spettacolarizzazione di un crimine odioso come lo stupro, una strategia politica specifica con fini elettorali da parte di movimenti politici fascisti». Un’azione potrebbe arrivare nelle prossime ore anche dalla Procura di Roma, nel caso i magistrati ravvisassero nella locandina postata il 29 agosto sulla pagina Fb di Forza Nuova (migliaia di condivisioni), il reato, appunto, di istigazione all’odio razziale (violazione della legge Mancino). «Il bieco richiamo alla repubblica di Salò e ai servi dei nazisti è un chiaro incitamento al razzismo - dice il capogruppo di Si Giulio Marcon -. Chiediamo al ministro dell’Interno e a quello della Giustizia se non è arrivato il momento di dire basta a questa continua ostentazione dei simboli e delle odiose parole d’ordine dei nazifascisti e quali provvedimenti intendano prendere in questo caso». Preoccupazione è espressa anche da Pippo Civati, di “Possibile”, e dalla deputata dem Claudia Bastianelli che dice: «Il manifesto è gravissimo anche da un punto di vista giudiziario. È un reato, esattamente come è reato l’apologia del fascismo in ogni sua forma. Ha ragione Orlando: l’unico vero rischio è un focolaio fascista nel nostro Paese. E a noi l’unico nero che deve fare davvero paura è quello delle camicie». Sulla locandina al centro delle polemiche - con la donna bianca aggredita dal soldato di colore - campeggia lo slogan “difendila dai nuovi invasori”. La campagna forzanovista accosta gli stupri di oggi a quelli operati dai soldati angloamericani che hanno liberato l’Italia dal nazifascismo: «I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ‘43/’45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria». Il segretario di FN, Fiore, rivendica così l’iniziativa xenofoba: «La propaganda ha il compito di mettere in luce caratteristiche particolari di una notizia e dati che altrimenti non escono con chiarezza». Sostegno al manifesto shock anche da parte di Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa-Pound Italia.

Repubblica 3.9.17
La strada maestra per vincere la sfida della povertà
Servono politiche a sostegno del lavoro e contro le diseguaglianze
Sono convinto che una pratica del genere sia di sinistra
di Eugenio Scalfari

HO MOLTO piacere di aver letto sul Messaggero di ieri il primo articolo di Luca Ricolfi che fin qui collaborò con Il Sole 24 Ore con articoli a volte più tecnici che politici. Ricolfi tocca un problema centrale per le società moderne: il lavoro e l’occupazione. È un tema della massima importanza e lo è sempre stato sia per i suoi aspetti politici sia per quelli economici e sociali. Vorrei aggiungere che Ricolfi accenna nel finale del suo articolo a questo tema senza però svilupparlo. Il lavoro e l’occupazione ovviamente non esauriscono affatto la natura di una società ma la caratterizzano con le loro diversità. È diverso il tasso di occupazione tra giovani e anziani (direi che i cinquantenni sono il punto di divisione tra le due stagioni). È diverso se il lavoro viene offerto da grandi o da medie o da piccole imprese, alcune addirittura di carattere familiare. È diverso il modo in cui lo Stato aiuta queste varie categorie imprenditoriali. È diversa la mobilità del lavoro, che in larga parte dipende dalla natura delle produzioni e dei materiali tecnici applicati. E anche il commercio, se è confinato all’interno di un’area limitata o è invece esteso al mondo intero. In sostanza lavoro e occupazione caratterizzano una società e spesso addirittura un’intera Nazione e/o un aggregato di Nazioni.
Fin qui non abbiamo ancora parlato di altri tre aspetti fondamentali, necessari per una visione d’insieme della vita sociale: la politica, l’immigrazione, la povertà.
L’ESAME di questi tre aspetti permette una visione completa della storia del mondo in cui viviamo.
Cominciamo dal tema dei poveri, il più sentito dalle religioni e da quella cattolico-cristiana in particolare.
***
Dalle religioni cristiane certo, perché Gesù di Nazareth che ne fu il fondatore era un povero che predicava ai poveri. Ma in realtà i poveri furono l’alimento di quasi tutte le sommosse, le predicazioni e le rivoluzioni nella storia d’un mondo sempre più affollato come numero d’abitanti.
La ricchezza non è quasi mai stata la condizione generale d’un Paese e neppure di una singola regione. È molto raro che ciò sia accaduto. In una società territorialmente vasta i poveri sono sempre stati la maggioranza, rivaleggiando spesso con il ceto medio. La minoranza era la classe ricca, nobile, spesso anche detentrice del potere politico. Sommosse e rivoluzioni modificavano profondamente questo stato di cose, ma in breve tempo tutto tornava come prima. Spesso la composizione sociale e politica era cambiata e i rivoltosi di ieri diventavano i potenti e i ricchi di oggi, ma il numero era fortemente rimpicciolito e la natura del ceto medio era cambiata. Questi erano i sommovimenti provocati dalle rivoluzioni. Assai meno dalle sommosse, i cui effetti sociali duravano ben poco e tutto riprendeva come prima, con qualche misura punitiva che sanzionava il fatto di essersi ribellati.
C’è un punto tuttavia sul quale converrà soffermarsi: i poveri. Possibile che ci siano sempre stati e sempre ci saranno? Il mondo va avanti, la vita sempre cambia, la tecnologia è in crescita costante, ma i poveri sono lì, senza lavoro, senza reddito compatibile, senza le forze di eliminare o almeno fortemente modificare quella loro condizione.
A volte il loro numero, in rapporto al numero totale degli abitanti di quel territorio, diminuisce e questo è un gran successo. Stabilmente? Sì, a volte stabilmente. Nella società comunista, dalla fine dell’ultima guerra (vittoriosa) ad oggi con la Russia di Putin, i poveri sono diminuiti se non addirittura scomparsi. Sono abbastanza prossimi al ceto medio. Forse è quest’ultimo che ha abbassato il proprio tenore di vita.
Comunque, in una visione d’insieme, le condizioni generali sembrano apparentemente aver eliminato i poveri. C’è però un peggioramento di altra natura ma di non minore gravità: hanno perso la libertà. Non totalmente ma sostanzialmente. Si dirà che è meglio un miglioramento sociale che un peggioramento politico. Dipende dai punti di vista.
Insomma e per concludere su questo punto, i poveri ci sono sempre. Variano le cause della loro esistenza. La causa di oggi ha come effetto l’emigrazione. Da alcune zone del mondo, per ragioni economiche e politiche, interi popoli si allontanano cercando uno stato sociale più conveniente, ma non lo trovano, anzi precipitano in sistemi peggiori, morte compresa o prigionia o prostituzione o schiavitù. Comunque suscitano problemi sociali e politici nei Paesi nei quali arrivano. La pratica di quei Paesi (di fatto l’Europa e soprattutto quella che si affaccia sul Mediterraneo, ma anche il Medio Oriente) è duplice: c’è una parte della pubblica opinione che vuole chiudere loro le porte in faccia e ributtarli a mare; un’altra parte vede il beneficio economico di farli lavorare, magari pro tempore e clandestinamente. Infine un’altra parte ancora cerca di ricondurli alla zona di partenza, mutando sul luogo le condizioni e creando lavoro e reddito compatibile.
Questa è la linea che le tre maggiori potenze dell’Europa mediterranea, Francia, Italia, Spagna, più la Germania per ragione di autorevolezza politica, stanno ora perseguendo.
Questa politica farà scomparire i poveri? Purtroppo no. Indicherà piuttosto sui territori le persone coinvolte dai suddetti programmi, ma i poveri dei Paesi africani, e non soltanto quelli ma molti di più, rappresentano a dir poco mezzo miliardo di persone dei quasi otto miliardi che abitano il pianeta.
Mezzo miliardo o, più probabilmente, ottocento milioni di poveri, derelitti, decisi ad abbandonare i loro Paesi e ad affrontare la libertà di movimento con tutti i rischi, le avventure e la morte alla quale vanno incontro.
Papa Francesco, che è per ovvie ragioni estremamente sensibile all’esistenza e alla terribile vita dei poveri, ha definito questo fenomeno con la parola «meticciato» al quale dà per molte ragioni un significato positivo.
Ne abbiamo parlato più volte su queste colonne, ma oggi torna ancora un’occasione attuale. I popoli decisi a muoversi oggi vivono in condizioni di estrema indigenza e puntano all’emigrazione possibilmente verso l’Europa. Non vengono soltanto dal Sud del mondo, ma anche dall’Est.
La Chiesa vede l’intreccio culturale, sociale e sessuale tra popolazioni profondamente diverse come un fatto molto positivo e da parte sua lo incoraggia; ne predice la positività; esorta verso politiche che favoriscano il fenomeno e ne traggano anche conseguenze religiose. Papa Francesco, come è noto, predica l’esistenza di un Dio unico che affratella tutte le razze umane e stronca i fondamentalismi religiosi che ancora insanguinano il pianeta.
Il Dio unico, per chi ha fede, e il mescolamento delle razze che dà luogo al meticciato sarebbero avvenimenti decisivi contro la povertà e a favore di politiche consone a raggiungere quei risultati. Politiche che sostengano lavoro e occupazione, specie per i giovani, aiutando gli anziani con pensioni che assicurino loro la vita, e puntino sulla lotta alle diseguaglianze, sul taglio consistente del cuneo fiscale e sul suo finanziamento attraverso imposte di natura patrimoniale.
Una pratica del genere può definirsi di sinistra? Personalmente sono convinto che sia una politica di sinistra e mi auguro un governo, dopo la naturale scadenza della legislatura, che la attui e la diffonda a livello europeo. Sarebbe un passo essenziale anche per l’unità dell’Europa, che non cesso di auspicare federale e quindi unitaria e democratica, con l’obiettivo di far diminuire o addirittura di abolire la povertà nel nostro continente.

il manifesto 3.9.17
Il nostro «aiuto» è la vendita di armi
Italia-Africa. Ai vertici della spesa militare del Continente nero troviamo non a caso ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia
Francesco Vignarca
Edizione del
03.09.2017
Pubblicato
2.9.2017, 23:59
Nel distorto e problematico dibattito pubblico italiano e non solo sull’epocale fenomeno migratorio il tentativo principale della politica è quello di allontanare dalla vista dell’elettorato i problemi e le responsabilità.
Nelle poche occasioni in cui si è allargato lo sguardo verso i luoghi di provenienza delle migrazioni (in particolare penso all’Africa) lo si fa richiamando un retorico e qualunquista «aiuto a casa loro» che non ha nulla di concreto o fattivo.
LA ORMAI VECCHIE promesse, sottoscritte a livello internazionale anche dall’Italia, di destinare almeno lo 0,7% del Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo (diretto, indiretto e multilaterale) sono rimaste lettera morta. Nel 2015 l’Italia, pur con un trend in crescita, ha raggiunto solo lo 0,22% del Pil e una buona fetta dei quasi 4 miliardi impiegati è comunque rimasta nei nostri confini proprio per gestire il fenomeno migratorio.
INVECE I GOVERNI degli ultimi anni sono stati molto attivi nel far diventare l’Africa un terminale per i nostri affari, in particolare per quelli armati. Nei primi 25 anni di vigenza della legge 185/90 l’Africa subsahariana ha ricevuto 1,3 miliardi di euro di autorizzazioni armate, pari al 2,4% del totale. Occorre poi aggiungere le cifre ancora più alte relative ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo: la sola Algeria in 25 anni ha ricevuto autorizzazioni per 1659 milioni di euro. A livello globale l’Africa si attesta sul 9% delle importazioni mondiali annuali di armi sempre con Algeria in testa (il 46% continentale nell’ultimo quinquennio e Paese nella «Top5» mondiale complessiva) seguita da Marocco e Nigeria. Il 35% delle importazioni militare africane giunge al di sotto del Sahara, con principali venditori Russia, Cina, Stati Uniti e Francia. Un mercato trainato dalla spesa militare del continente nel 2016 a poco meno di 38 miliardi di dollari in aumentata del 48% in un decennio nonostante una leggera decrescita recente. Ai vertici di spesa militare troviamo ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia.
IL TENTATIVO dei nostri governi recenti è stato quello di recuperare posizioni in un mercato che (secondo il MAECI) è stato «generalmente marginale per le nostre esportazioni di materiali per la difesa, sia a causa delle limitate disponibilità economiche dei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, sia in ragione delle restrizioni imposte da situazioni di latenti conflittualità ed instabilità interne e regionali».
ESEMPIO MASSIMO di questa strategia il tour della portaerei Cavour tra novembre 2013 e aprile 2014. Un viaggio che la Difesa ha cercato anche di «vendere» come umanitario o legato ad operazioni anti-pirateria e che invece si è concretizzato in un’enorme fiera (e spot) per l’industria militare italiana. Ben presente con i suoi stand nei ponti della nave ammiraglia della Marina, che non si sarebbe potuta nemmeno muovere senza la ricca sponsorizzazione dell’industria bellica, visti gli alti costi operativi. Dopo le prime tappe in Medio Oriente il viaggio del «Sistema Paese in movimento» (questa la denominazione ufficiale) ha toccato Kenia, Madagascar, Mozambico, Sud Africa, Angola, Congo, Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco e Algeria. Sollevando subito le proteste del mondo disarmista: si trattava dei Paesi a più alta spesa militare continentale, cinque dei quali considerati «regime autoritario» dal Democracy Index dell’Economist mentre sette registravano basso «indice di sviluppo umano» con posizioni tutte al di sotto del 142esimo posto nella lista elaborata da Undp.
I RISULTATI, per l’industria militare, non si sono fatti attendere e nel 2016 sono state autorizzate vendite verso Angola, Congo, Kenya, Sud Africa, Algeria e Marocco (tra i paesi visitati) ma anche verso Ciad, Mali, Namibia ed Etiopia (paese in confitto costante con l’Eritrea). «Il caso più evidente di questa strategia è l’Angola – sottolinea Giorgio Beretta analista di Opal Brescia – un Paese a cui, così come al Congo del resto, non avevamo mai venduto armi dalla 185/90 in poi e che invece è destinatario nel 2016 di autorizzazioni per quasi 90 milioni di euro. Ma i contratti già firmati, secondo notizie diffuse dalle stesse industrie di armi, potrebbero aver già superato i 200 milioni complessivi».
GIÀ A MARGINE del Tour africano della Cavour erano circolate voci di vendita della vecchia portaelicotteri Garibaldi (anche per fare spazio alla nuova portaerei Trieste poi successivamente finanziata) proprio all’Angola. Vendita di usato non andata in porto da un lato per i problemi finanziari causati dal crollo dei prezzi petroliferi, dall’altro per il cambio di esecutivo che impedì all’allora Ministro della Difesa Mario Mauro di recarsi come previsto a Luanda (con Governo angolano infastidito).
POCO MALE, perché la nuova inquilina di via XX Settembre Roberta Pinotti ha subito cercato di riparare: l’allora Ministro della Difesa e attuale Presidente Joao Lourenço è stato tra i primi ad essere ricevuto a Roma, replicando il viaggio anche nel 2016 mentre la stessa Pinotti si è recata a Luanda nel settembre 2015. Sulla scia della visita dell’anno prima di Matteo Renzi, definita come epocale e propedeutica ad una nuova stagione di rapporti (economici e di cooperazione allo sviluppo) con i Paesi africani. Ma che pare aver soprattutto dato il via a nuovi affari di natura militare.
MOLTI RITENGONO questi dati una colpa delle dirigenze politiche africane, che preferiscono investire gran parte dei bilanci statali in armi ed eserciti anche per mantenere le proprie posizioni di comando. Ma se – dall’Italia – sai che la situazione è questa e continui imperterrito a siglare contratti puoi essere definito solo come complice. A casa loro.

Repubblica 3.9.17
Dal Marocco alla Spagna, dall’Algeria alla Sardegna. Ma anche dalla Turchia a Lesbo o a Costanza, sul Mar Nero. Così gli scafisti si attrezzano per forzare il blocco
Le nuove rotte dei migranti
Dopo la stretta in Libia cambiano i percorsi per entrare in Europa
di Alessandra Ziniti

FANTASMI IN SICILIA SULLE SPIAGGE DEL SULCIS ASSALTO AL MURO DI CEUTA RIPRESI GLI ARRIVI A LESBO IN ROMANIA VIA MARE IN BARCA A VELA FINO ALLO IONIO

CHI è in Libia, fuori dai centri di detenzione, punta ad Ovest, Tunisia e Algeria. È lì, poco oltre il confine, che si trovano i nuovi scafisti con le loro barchette di legno: rotta diretta per le spiagge della Sicilia e della Sardegna. Chi in Libia non ci è ancora arrivato, cambia strada: dall’Africa subsahariana verso il Marocco, nuovo trampolino di lancio verso la Spagna (in allarme per l’aumento del 300 per cento degli sbarchi), dalla Siria e dal Medio Oriente verso la Turchia e da qui di nuovo verso la Grecia ma anche verso nuovi porti di approdo. In meno di due mesi il blocco delle partenze dalle coste libiche ha già modificato in maniera sostanziale i flussi migratori, riaprendo rotte ormai abbandonate come quella su Lesbo ma anche aprendone di totalmente inedite, come quella che dalla Turchia ha portato quasi 2.500 persone in Romania, nell’unico fazzoletto di terra affacciato sul Mar Nero. E purtroppo si contano già i primi dispersi, cinque, al largo di Pantelleria, gettatisi in mare a poche miglia dall’isola dopo essere rimasti senza benzina sulla piccola barca con la quale quattro giorni prima erano partiti da Hammamet.
Niente più gommoni ma piccole barche in legno su cui salgono in dieci, venti, trenta alla volta. Partono dalla Tunisia e dall’Algeria, riescono ad aggirare quasi sempre la sorveglianza dei mezzi di pattuglia nel Mediterraneo e a sbarcare i migranti direttamente sulle spiagge, spesso tra i bagnanti, come accadeva fino a qualche anno fa. Sulle coste della Sicilia meridionale, da Agrigento a Siracusa, ma anche di nuovo a Lampedusa e Linosa e a Pantelleria. In Tunisia i vecchi passeur, pionieri dei viaggi nel Mediterraneo, hanno ripreso a fare affari su una rotta più breve, conosciuta e più o meno sicura: quella che da Zarzis porta sulle spiagge deserte dell’Agrigentino, da Realmonte a Torre Salsa. Li chiamano “sbarchi fantasma” perché le barche riescono ad arrivare senza essere intercettate da nessuno, si spingono fino a poche decine di metri dalla riva, lasciano i migranti che quasi sempre riescono a dileguarsi tra i bagnanti e tornano indietro. Da settimane, ormai, non c’è giorno senza sbarchi.
Anche in Sardegna non passa giorno senza uno sbarco: gli algerini hanno l’esclusiva di questa rotta che solo nel 2017 ha fatto arrivare in Italia 800 migranti, gli ultimi 107 quattro giorni fa. Il presidente della Regione Pigliaru ha scritto a Minniti chiedendo di estendere all’Algeria il metodo Libia, dunque «un forte e costante raccordo con le autorità algerine per interrompere il traffico di coloro che sbarcano direttamente sulle nostre coste, un canale potenzialmente molto pericoloso per il presente e il futuro».
Gli ultimi dati fanno paura al Paese che quest’estate ha visto triplicare il numero degli arrivi, il 300 per cento in più, due terzi per mare, un terzo con il ritorno degli assalti al muro dell’enclave spagnola di Ceuta, in Marocco. Dall’Africa subsahariana, la rotta di terra più battuta adesso sembra essere quella che porta dal Senegal alla Mauritania e al Marocco, e da qui verso la Spagna. I numeri parlano da soli: 13.000 arrivi nei primi otto mesi del 2017, il 30 per cento in più dell’anno scorso, 600 bloccati in un giorno nello Stretto di Gibilterra dalla Guardia costiera spagnola. Dopo l’Italia, la Spagna si piazza al secondo posto nella classifica degli arrivi superando la Grecia.
Nell’ultimo weekend, nell’isola greca presa d’assalto due anni, sarebbero sbarcati in 730, nonostante le promesse della Turchia che, in cambio della garanzia del blocco delle partenze, ha incassato tre miliardi di euro. Il sindaco di Lesbo Spyros Galinos accusa: «È chiaro che i turchi non stanno rispettando i termini dell’accordo».
La chiusura della rotta balcanica ha spinto i migranti in arrivo da Siria, Iraq e Afghanistan a cercare strade alternative, come quelle battute dalle piccole barche di pescatori che, partendo dalla Turchia, attraversano il Mar Nero verso il porto romeno di Costanza, ingresso a un corridoio che può portare agevolmente in Kosovo. E da qui in Albania e poi in Italia sulla rotta adriatica.
È la rotta dei “viaggi di lusso”, esclusiva degli scafisti ucraini: cinque giorni in barca a vela, al coperto e in discreta sicurezza, quasi tutti siriani, iracheni o afgani, sulle coste del Siracusano ma anche su quella della Calabria ionica e del Salento. Viaggi da 7.500 dollari a persona, con un flusso in costante incremento: almeno cinquemila le persone giunte così nel 2017 sulle coste pugliesi, della Calabria ionica e del Siracusano, e una decina gli scafisti arrestati.

La Stampa 3.9.17
Diplomazia asimmetrica in Africa
di Maurizio Molinari

La drastica riduzione degli arrivi di migranti sulle nostre coste nel mese di agosto indica che la rotta dei trafficanti di uomini nel Mediterraneo Centrale si può chiudere: è un risultato ancora temporaneo, ma comunque evidente. Ed è il frutto della diplomazia asimmetrica degli ultimi governi italiani: una novità prodotta dall’instabilità del Nordafrica e destinata ad assegnarci maggiori responsabilità. Il crollo degli arrivi di migranti non è dunque un punto di arrivo, ma di partenza per la tutela dei nostri interessi nazionali in un Mediterraneo assai mutato.
L’intervento italiano in Libia è asimmetrico perché si sviluppa, da alcuni anni, su piani paralleli con interlocutori e metodi d’azione differenti: sostegno al debole governo di Tripoli; accordi con tribù, milizie e sindaci che controllano i confini del Fezzan e le coste della Tripolitania; operazioni segrete per ostacolare i network di trafficanti e indebolire i gruppi jihadisti; trattative con i Paesi del Sahel attraversati dai flussi migratori; pressioni sui partner dell’Ue affinché condividano tale strategia.
Se la chiusura della rotta balcanica dei migranti è avvenuta nel 2016 grazie a intese fra Stati - come l’accordo Ue con la Turchia - il 2017 ha visto il debutto da parte dell’Italia di una nuova tipologia di patti in Maghreb e Sahel dove i protagonisti non sono più solo Paesi sovrani ma anche tribù, milizie, sindaci e clan locali. Ciò spiega perché all’azione del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri sul terreno diplomatico ed a quella del ministro della Difesa sul fronte militare si è affiancata, con crescente visibilità, l’opera del titolare del Viminale, anche in ragione della sua esperienza nell’intelligence.
Trovandosi a trattare con uno Stato fallito come la Libia, l’Italia ha adottato un format di relazioni in base al quale si persegue l’interesse nazionale sfruttando ogni possibile interlocutore, ricorrendo ad ogni strumento per rafforzare i propri alleati ed indebolire gli avversari. Mantenendo canali aperti con tutti.
Tale approccio è anzitutto un riflesso della situazione in Maghreb e nel Sahel dove l’indebolita sovranità degli Stati obbliga a trovare leader credibili dentro milizie e tribù, anche nelle zone più remote. Affrontando personaggi locali sovente imprevedibili, portatori di richieste specifiche e con metodi di operare più congeniali al suk che alle cancellerie. Essere riusciti a farsi spazio in una tale cornice, dove tutto può cambiare nello spazio d’un mattino, è un merito che deve essere riconosciuto agli inviati sul campo dei governi italiani. Ma è bene chiarire che siamo solo all’inizio dell’opera e che non si tratta di risultati acquisiti ma da consolidare.
La diplomazia asimmetrica comporta infatti responsabilità assai più articolate rispetto ai tradizionali rapporti fra Stati. Quando gli interlocutori non sono più solo governi o leader ma gruppi di ogni genere e fedeltà, le regole del gioco si trasformano. E riuscire a imporsi diventa assai più complesso. Ad esempio, ciò che più conta nei legami con tribù e milizie è la continuità dei rapporti personali e diretti: creato un canale, trovato un interlocutore e costruito un dialogo sulla base di reciproci interessi bisogna coltivarlo, senza soluzione di continuità. Ovvero anche con figli, nipoti e parenti del capo clan di turno. Perché al primo passo indietro, alla prima assenza, l’interlocutore penserà di essere stato abbandonato e cercherà altri per siglare accordi differenti, magari ad un prezzo più vantaggioso.
Poi c’è l’elemento della credibilità come nazione: una volta raggiunte le intese con milizie, sindaci e tribù bisogna mantenerle in tempi stretti, ed alimentarle in continuazione, perché i raiss locali hanno più urgenze di presidenti e governi. Hanno bisogno - in fretta - di proventi da distribuire a famigliari, seguaci e fedelissimi perché questa è la loro unica fonte di autorità sulla collettività.
Infine, ma non per importanza, c’è il fattore deterrenza militare ovvero la capacità di mostrare ed esercitare la forza, se necessario. Le operazioni finora condotte dal nostro Paese - quelle note, come il sostegno ai raid Usa su Sirte contro i jihadisti di Isis, e quelle coperte da riserbo come l’uso di droni e sottomarini per braccare gli scafisti - hanno creato la credibilità grazie alla quale possiamo operare in Libia e dunque, sono destinate a eguitare, con modalità in continuo perfezionamento e conseguenti investimenti, umani e finanziari.
Tutto ciò porta a dedurre che la nostra presenza in Libia e dintorni è destinata a protrarsi nel lungo termine, trasformando la proiezione strategica in Africa in una costante degli interessi nazionali. Con il conseguente rischio di alternare intese e frizioni nei rapporti con gli altri europei - a cominciare da Francia, Spagna e Gran Bretagna - che hanno propri interessi in Maghreb e Sahel. Per affrontare le nuove responsabilità nel Mediterraneo avremo dunque bisogno di più risorse da impiegare - civili e militari, economiche e politiche - e ciò significa che i nostri governi saranno chiamati ad assumersi decisioni difficili che il Parlamento dovrà vagliare e i cittadini condividere. È una strada lunga, disseminata di ostacoli, che metterà a dura prova la tempra nazionale. Farsi rispettare nel bel mezzo di un Mediterraneo in preda alle crisi costerà sacrifici.
È la risposta asimmetrica dell’Italia alla crisi dei migranti che ci ha fatto guadagnare spazio nella regione del Sahara e ciò significa essere titolari, di fatto e da subito, di maggiori responsabilità regionali. Si spiega anche così la stretta del governo nei confronti delle Ong europee impegnate nei soccorsi ai migranti nel Mediterraneo Centrale: avere maggior controllo su chi naviga e attracca significa far sapere ai trafficanti di uomini che l’esercizio della sovranità diventa più rigido anche in mare.
Se l’Italia saprà darsi una politica africana di lungo termine i temporanei successi estivi potranno essere consolidati, consentendoci anche più controllo nella gestione dei migranti. Se invece la determinazione verrà meno resteranno risultati estemporanei, e rischieremo di subire pericolosi boomerang. Perché nel deserto forza e debolezza si sovrappongono alla stessa velocità con cui si spostano le dune sulla sabbia.

Corriere 3.9.17
Sicilia, i dubbi del «civico» Micari: senza il sì di Renzi e Alfano non corro
Preoccupazione tra i dem per i sondaggi su Crocetta: «Ha i numeri per farci perdere»
di Giuseppe Alberto Falci

ROMA Starebbe meditando di fare un passo indietro Fabrizio Micari, il rettore dell’Università di Palermo, che non ha mai avuto una tessera di partito, e che Leoluca Orlando ha proposto come candidato «civico» di un centrosinistra che include il Pd di Matteo Renzi, Ap di Angelino Alfano, e forse Campo progressista di Giuliano Pisapia.
Lo strappo di Rosario Crocetta, il sostegno debole di Angelino Alfano, e le correnti interne del Pd — che da una parte lo apprezzano e dall’altra non lo supportano a sufficienza — avrebbero spinto il «civico» Micari a una riflessione sull’opportunità di andare avanti. Al punto che durante un incontro con alcuni amici si sarebbe sfogato così: «Aspetto fino a martedì, ma se quel giorno non arriva una investitura chiara da parte di Matteo Renzi e di Alfano, mi tiro indietro». E l’investitura chiara non c’è ancora stata. Venerdì da Cernobbio il ministro degli Esteri Alfano si è smarcato: «In questo momento non abbiamo ancora definito la candidatura». E anche Renzi, che secondo i retroscena gradirebbe il curriculum civico di Micari, ha risposto così a un sms arrivato dalla platea di Bologna durante la presentazione del suo libro dal titolo Avant i: «In Sicilia che si fa? Non c’è nel libro».
Il segretario democrat si tiene a debita distanza da un profilo che rimane «civico» e non immagina un impegno al fianco del candidato. «Matteo non ci metterà il cappello», rumoreggia un alto dirigente del capoluogo siciliano. Eppoi c’è un’altra questione che sta prendendo forma in queste ore. Micari non convincerebbe appieno tutte le anime scalpitanti del Pd siciliano. Tra queste c’è la corrente di Antonello Cracolici, uomo che gode di un vasto consenso in Sicilia, e che in un’intervista a un quotidiano lascia intendere che la partita non è affatto chiusa: «Parliamoci chiaro, non si può imporre una candidatura per buttarne via altre». Quali? Non è dato sapere.
La preoccupazione del gotha del Pd siciliano riporta al basso indice di popolarità di Micari e allo strappo di Crocetta. Il presidente uscente non demorde, invoca le primarie e minaccia di candidarsi da solo. Non a caso fra i maggiorenti del Pd dell’isola iniziano a veicolare messaggi che suonano così: «Crocetta non ha ben governato, ma ha i numeri per farci perdere». Secondo alcuni sondaggi, l’inquilino di palazzo d’Orleans veleggerebbe attorno 10%. Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, che lo stima al 18,4%, spiega così la sua popolarità: «Nel campo del centrosinistra Crocetta è il migliore perché è il più conosciuto. Lui ha una notorietà da leader e se continuasse ad andare in tv la sua percentuale crescerebbe». Gli fa eco Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing: «Noi stimiamo Crocetta fra il 6 e il 7 per cento. Ma ha uno zoccolo duro. È vero che il giudizio sul suo operato è negativo, ma i siciliani ritengono che la situazione non sia peggiorata».

Repubblica 3.9.17
Sicilia, caos a sinistra e Micari vacilla l’idea di ripartire da primarie lampo
Il rettore candidato dal Pd chiede l’appoggio esplicito di Renzi e Alfano per lanciare la campagna. Ma Tabacci, emissario di Pisapia: “Azzeriamo tutto e scelga la base”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Sul traballante tavolo del centrosinistra siciliano adesso spunta la soluzione dell’azzeramento. Via dalla scena le candidature divisive annunciate finora: andando di fretta (il voto è il 5 novembre) si fa in tempo anche a celebrare le primarie in modo da mettere insieme tutto il centrosinistra. Sarebbe una via d’uscita rispetto al caos attuale. Claudio Fava, candidato in pectore dei bersanian-dalemiani, appare infatti vicino al ritiro anziché alla campagna elettorale: «Non ho ancora deciso cosa fare. Voglio sentire quali argomenti useranno per convincermi», dice con sorriso scettico. E dall’isola fanno sapere che Fabrizio Micari, già presentato in conferenza stampa, vive giorni di grande agitazione. «Se Renzi e Alfano non appoggiano pubblicamente la mia corsa entro martedì, faccio un passo indietro », ha confidato agli amici il rettore. Suona come una minaccia, ma sarebbe una presa d’atto. Giovedì pomeriggio, Fava era tranquillamente seduto sulla sdraio di una piscina di Roma, insieme con Gloria Buffo, ex parlamentare della sinistra ds. Molto lontano dalla sua Sicilia, dunque, proprio mentre il centrodestra trovava un candidato unitario e i grillini proseguono una campagna cominciata un mesa fa. Chi conosce la storia dei Democratici di sinistra ha sempre nutrito più di un dubbio sulla scelta di Fava come leader di Mdp in Sicilia. Difficile dimenticare il disprezzo politico che Massimo D’Alema manifestava platealmente per la corrente di cui faceva parte Fava (e la Buffo) ai tempi delle battaglie in quel partito. E D’Alema è il dominus delle decisioni politiche di Mdp. Il fatto che Fava si tenga a grande distanza dalla contesa è comunque il segno che in quell’area ci sono molti problemi, a cominciare dalla decisione che prenderà Giuliano Pisapia.
In Sicilia invece è arrivato Bruno Tabacci, uno degli uomini più vicini al leader di Campo Progressista. Ed è lui che sta lavorando all’azzeramento delle candidature per ricostruire il centrosinistra. «Credo proprio che Giuliano sia d’accordo, abbiamo solo questa opzione per evitare il disastro », avverte Tabacci. Una volta riportato indietro l’orologio, Pisapia proporrebbe le primarie di coalizione, recuperando così Mdp e Rosario Crocetta, il governatore uscente. Governatore al quale la confusione di oggi sta facendo recuperare consensi. «E’ l’unico che segue una condotta lineare. E se prima, presentandosi da solo, poteva puntare a un risultato minimo ora sta risalendo nella considerazione popolare» spiega il suo amico senatore del pd Giuseppe Lumia agli interlocutori.
Su questa strada lavora, riunione dopo riunione, Tabacci, ambasciatore dell’ex sindaco di Milano. «È una scelta di metodo che fa un po’ di ordine e recupera tutto il centrosinistra». Dice David Sassoli, eurodeputato del Pd che mantiene un dialogo costante con Pisapia: «Non bisogna avere paura delle primarie, se in gioco c’è l’unità a sinistra». Un’operazione che ha un senso sia per recuperare il voto di tutta la coalizione, sia in chiave nazionale, come prova generale. Del resto, è esattamente quello che ha fatto il centrodestra: usare la Sicilia per sperimentare un’intesa con Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia da trasferire nel voto delle politiche nel 2018. Ma questo schema va bene a Renzi? E l’indirizzo che vuole seguire a livello nazionale ritrovando in parte gli scissionisti del Pd? La risposta a oggi è no. L’idea di coalizione oggi è lontanissima dagli orizzonti del segretario, soprattutto per quello che riguarda il voto del prossimo anno.
Il punto, lo sta spiegando Leoluca Orlando, è che Micari, il suo candidato non può e non deve passare per le primarie. Questa è la condizione. «Nel suo caso è un passaggio inutile. Lui è già in campo. E io - avverte il sindaco di Palermo riferendosi a Pisapia non sono andato a Piazza Santi Apostoli a fare una passeggiata». Ma al rettore non basta il sostegno di Orlando. E aspetta una parola definitiva di Renzi e di Alfano.

La Stampa 3.9.17
Renzi avvisa il Pd
“Se perdo in Sicilia non mi dimetto”
Il segretario: basta litigare o vincono gli estremisti
di Francesca Schianchi

«Nessuno può sapere come andrà a finire in Sicilia. Può succedere tutto. Ma io ne resto fuori: mi hanno accusato di personalizzare il referendum, figuriamoci se personalizzo le Regionali siciliane...». A ora di pranzo ormai avanzata, con i militanti della Festa dell’Unità che lo aspettano al ristorante, il segretario del Pd Matteo Renzi si alza dal tavolo su cui ha firmato centinaia di copie del suo libro. Poco prima, dal palco dell’Estragon che ha permesso di ripararsi dalla pioggia, ha parlato di immigrazione e tasse, di scuola e sanità, già proiettato verso la lunga campagna elettorale da qui alle politiche. Non ha citato invece l’appuntamento più vicino, le prove generali che si terranno nell’isola a novembre. Quelle dove il Pd, secondo i sondaggi, rischia di arrivare terzo.
«Mi hanno chiesto un candidato civico, una coalizione larga, ho preso il modello Palermo. Poi, come andrà, nessuno oggi può saperlo», scuote la testa. Potrebbe vincere la destra, o trionfare il Movimento 5 Stelle, che vorrebbe tanto fare dell’isola un trampolino per Palazzo Chigi: «Chiunque vinca, per una settimana sta sui giornali, ha uno 0,3 in più nei sondaggi, poi al 15 novembre si ricomincia tutto daccapo», minimizza. Eppure, questa settimana Renzi dovrebbe fare tappa proprio in Sicilia, nel tour per presentare il suo libro. Una trasferta che in questo momento non è come le altre, ma che lui cerca di spogliare di significato: «Vado ovunque», taglia corto, dall’Emilia ieri a Pesaro e poi la Lombardia oggi, Genova e il Friuli a inizio settimana, in un fitto calendario di presentazioni. Dalla complicata partita siciliana vuole restare alla larga, anche se è convinto che nemmeno un eventuale risultato disastroso avrà effetti sulla sua leadership: non farà come Veltroni, che si dimise nel 2009 da segretario dopo la sconfitta in Sardegna, o come l’allora premier Massimo D’Alema che nel 2000 rinunciò a Palazzo Chigi dopo la batosta alle Regionali: lui non si dimetterà comunque, «loro scelsero di fare una certa partita in quelle Regionali, mentre io me ne sto tranquillo, sono su altro».
Su cosa, lo si capisce ascoltando questi suoi interventi alle Feste dell’Unità di Bologna, di Reggio, di Modena, da questa Emilia rossa e generosa da cui decide di ripartire dopo le ferie estive per lanciare la campagna elettorale per le politiche, che entrerà nel vivo con il giro in treno di tutte le province dal 25 settembre. È già proiettato al voto - «siamo a fine legislatura, a primavera si voterà» -, deciso a dare un profilo solido e rassicurante al partito, a qualificarlo come la «forza tranquilla», ruba un vecchio slogan a François Mitterrand, il «polo del buonsenso» da contrapporre «al populismo di Grillo e all’estremismo di Salvini». Per farlo, lancia un «avviso ai naviganti»: basta polemiche e scontri, «odio i litigi perché impediscono le discussioni - cita Chesterton - se tutti i giorni litighiamo, consegniamo il Paese agli estremismi», e a queste parole arriva l’applauso più fragoroso.
Loda i risultati ottenuti finora dai governi Pd («dopo i dati Istat i gufi sono costretti a tacere: si vede che sono ancora in ferie»), le scelte sull’immigrazione, citando per un complimento sia il ministro Minniti che il collega Delrio («si è fatto bene a bloccare gli sbarchi: non c’è divisione nel Pd su questo»), ma anche l’avversario interno Andrea Orlando, «siamo una squadra», predica in modalità inclusiva.
Critica il M5S e la destra ma evita polemiche con la sinistra, lasciandosi andare solo a una battuta su D’Alema: a chi chiede un partito senza il presidente di Italianieuropei, Renzi risponde con un sorriso compiaciuto: «Fatto!».
«Abbassiamo i toni e ripartiamo insieme», si rivolge a una platea accogliente, segnata da una sola contestazione, quando una signora insorge contro il salvabanche «Voi avete rubato» e il leader Pd le risponde ruvido: «Avete rubato lo dice a sua sorella». Invoca un Pd capace di «stare in mezzo alla gente e non nei litigi di Palazzo»: lì dove, confida dietro al palco, «il vero nodo è quello delle candidature, perché per la prima volta dopo varie legislature, se non cambia la legge, si vota con le preferenze». E tutti, e anche questo è un avviso ai naviganti, dovranno essere pronti a correre per conquistarle.

Il Fatto 3.9.17
Il Nazareno è ritornato e la sinistra non si unisce
di Antonio Padellaro

Le sbandate dell’accozzaglia referendaria dicono che non esiste alternativa a un incontro Renzi-Cav.
Giuliano Ferrara. Il Foglio

Alla Festa del Fatto il pm Nino Di Matteo ci ha ricordato che “mentre Dell’Utri veniva condannato per concorso esterno come tramite della stipula e poi del mantenimento di un accordo fra Silvio Berlusconi e le famiglie mafiose più potenti di Palermo, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi discuteva proprio con Berlusconi su come riformare la Costituzione”. E che oggi quello stesso Berlusconi “è un attore importante tra i principali della politica italiana”. Infatti, di un futuro patto di governo Renzi-Berlusconi si parla apertamente, auspicato da molti (non solo Ferrara) come la soluzione più giusta per l’avvenire del Paese. È come se avessimo estratto da un perfido Monopoli politico quel cartellino rosso che dice: fate tre passi indietro con tanti auguri. Riprecipitando nel più orribile passato che pensavamo non potesse tornare più: quello appunto del presidente-padrone, delle leggi vergogna, dei patti criminali tra mafiosi e politici. Ma il peggio è che un simile allucinante scenario venga considerato con quasi divertita indifferenza (nel migliore dei casi) dal resto della politica. Innanzitutto dal Pd renziano che ha tutto l’interesse a tenere coperte le carte in campagna elettorale per poi scoprirle il giorno dopo i risultati delle politiche. Mentre non ci aspettiamo reazioni particolari dal Movimento 5 Stelle visto che ha costruito la sua fortuna elettorale sul proprio isolamento da ogni contagio esterno. Che si sostanzia nella regola del tanto peggio (per tutti gli altri) tanto meglio (per noi). Ci sorprende invece l’atteggiamento della cosiddetta sinistra-sinistra che venerdì scorso, alla Versiliana, ha schierato alcuni autorevoli esponenti. Quando Di Matteo e Scarpinato avevano appena terminato di esporre un quadro impressionante dell’immenso potere finanziario che la mafia-mercatista controlla assoggettando politici e amministratori. Le parole di Gad Lerner, Tomaso Montanari, Rosy Bindi e Pier Luigi Bersani ci hanno ispirato un certo scoramento e in qualche caso una sorta di addio alle armi. Eccellenti persone che mosse dalle migliori intenzioni non hanno tuttavia trasmesso la sensazione che si possa costruire in tempi rapidi una sinistra unita in grado di offrire un’alleanza a quel Pd (che pure esiste) che ai patti del Nazareno non vuole più tornare. C’è sembrato anzi che qualche pezzo di quella sinistra meditabonda, non potendo vincere, si accontenti, intanto, di far perdere Renzi. Ma forse siamo noi che abbiamo capito male.

Corriere 3.9.17
D’Alema scettico sulla scelta di Fava
L’ipotesi di virare sul governatore
di Maria Teresa Meli

A breve un incontro Mdp-Pisapia
ROMA «Claudio Fava non è il mio candidato...lo hanno voluto i siciliani...non è proprio una mia scelta»: parla così Massimo D’Alema, interpellato da collaboratori e amici.
Il leader scissionista sembra prendere le distanze dalla candidatura di Fava, anche se in pubblico si guarda bene dal dire qualcosa. La verità è che la candidatura di Fava oltre a non convincere gli uomini di Giuliano Pisapia, che ormai, alle regionali siciliane sembrano puntare a entrare nella lista civica di Leoluca Orlando, non persuade nemmeno gli esponenti di Mdp.
Beccarsi l’accusa di aver favorito la vittoria del centrodestra nell’isola in nome di un candidato che non viene ritenuto forte, potrebbe essere un boomerang per gli scissionisti del Pd. Perciò c’è chi vorrebbe tentare un’altra operazione, ben più insidiosa per il Partito democratico, cioè quella di appoggiare Crocetta.
Mdp si appresta già alla campagna elettorale, ben sapendo che dal Nazareno verrà agitato contro il movimento il tema del voto utile. Al quale l’ex premier D’Alema replica con queste parole: «L’unica salvezza per il Partito democratico siamo noi. Se siamo forti il Pd cambierà, l’ho detto a Cuperlo che noi lo facciamo anche per lui».
Ma D’Alema, da politico di lungo corso quale è, sa bene che questo suo ragionamento non basterà a stoppare la campagna sul voto utile. Perciò gli scissionisti studiano mosse e contromosse.
La Sicilia rappresenta una prima tappa della rincorsa di Mdp verso le elezioni politiche. Che diventano tanto più delicate dal momento che Pisapia (il quale torna oggi dalle sue vacanze) sembra prendere le distanze dai toni e dalle scelte degli scissionisti. Il clima quindi non è dei migliori. «In Sicilia — accusa Marco Furfaro, uno degli uomini dell’ex sindaco di Milano — hanno preso una decisione unilaterale: non si costruisce così un progetto». Ma Mdp sa che andare alle elezioni senza Pisapia sarebbe come andarci senza un leader (a meno di non affidarsi nuovamente ai «vecchi», come D’Alema e Bersani). Perciò si sta cercando il riavvicinamento: è in programma a breve un incontro con l’ex sindaco, come ha annunciato Bersani. Un altro tassello della campagna elettorale di Mdp consiste nel tentativo di cercare di stringere un patto non scritto di non belligeranza con i grillini. Anche per questo motivo Bersani l’altro giorno è andato alla festa del Fatto (e, per la verità è anche stato un po’ contestato da quella platea). E D’Alema, per non essere da meno dell’ex segretario del Pd, ha fatto subito sapere di essere stato invitato anche lui a quella festa, ma che aveva dovuto rifiutare per un «precedente impegno». Insomma, per Mdp meglio il dialogo con i «Cinque stelle» che con Matteo Renzi.
Ma è l’ultimo tassello della campagna elettorale il più importante: non votare la legge di Bilancio, rompendo con Paolo Gentiloni e obbligando il governo a chiedere i voti a Forza Italia per poi fare campagna elettorale gridando all’inciucio e neutralizzando così la polemica sul voto utile. L’idea è del vero stratega di Mdp, D’Alema, ma lui in pubblico non la racconta così. È Enrico Rossi a essere più esplicito anche ufficialmente: «Dobbiamo far sul serio e se è il caso, rompere».

Corriere 3.9.17
Non possiamo aiutare tutti i migranti»
Renzi: Pd unito. Basta liti, c’è il voto. Una signora lo contesta. E lui: ladri sulle banche? Lo dica a sua sorella
di Dino Martirano

Bologna « Siamo una squadra unita che sa fare un grande gioco... E ora che siamo a fine legislatura il Pd deve smetterla con i litigi inutili al proprio interno e pensare solo a vincere le elezioni altrimenti le vincono i nostri avversari populisti», dice Matteo Renzi agli affezionati militanti dem che per assistere al rientro in campo del loro segretario sfidano la pioggia e la location periferica della Festa dell’Unità . Lui prova a fare un passo indietro («Ho fatto molti errori, di referendum non voglio più sentir parlare per i prossimi 70 anni») e quindi una volta tanto passa a sponsorizzare il «collettivo dem», citando «il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il ministro Graziano Delrio» e pure un oppositore interno come «il ministro Andrea Orlando che ha fatto bene sul processo civile». Ma le parole più efficaci di Renzi sull’operato del governo vanno all’indirizzo del ministro dell’Interno Marco Minniti: «Giusto bloccare i flussi, siamo all’inizio della soluzione per limitare gli sbarchi e su questo punto il Pd è unito, non c’è divisione, anche se è normale che in un grande partito ci siano sensibilità e valutazioni diverse. Abbiamo bisogno — spiega — di una visione molto seria. C’ è un limite massimo di persone che puoi accogliere. Devi salvarli tutti te, ma non puoi aiutarli tutti te».
Camicia bianca, jeans Roy Roger’s a tubo, fisico asciutto. Renzi si presenta così alle Feste dell’Unità di Bologna, Reggio Emilia e Modena e si sottopone alle domande inviate per sms dalla platea. Quando le legge si meraviglia che pochi puntino sull’immigrazione ma lui sa che quello è un cavallo di battaglia in vista delle elezioni. E quindi insiste: attacca con il fioretto l’«avversario Berlusconi» che quando era al governo ha «firmato il patto di Dublino sul primo approdo nella Ue dei rifugiati e sostenuto l’attacco alla Libia» e cita Angela Merkel che «vuole ridiscutere il trattato di Dublino». Ecco, «propongo di togliere i fondi Ue a quei Paesi dell’Est che non accettano la redistribuzione dei rifugiati».
L’accoglienza riservata al segretario in Emilia è calda ma non travolgente. A Reggio un signore gli manda a dire via sms: «Vorrei un partito senza più D’Alema». E lui non resiste: «Fatto!». Per il resto dice che «i gufi sono ancora in vacanza» e non li cita. Renzi si sottopone volentieri al rito della firma delle copie (450 solo a Bologna) del suo libro «Avanti». Applausi, selfie e una contestazione solitaria e disperata della signora Giovanna Mazzoni che inveisce contro il decreto salva banche urlando «Ladri, avete rubato, abbiamo perso tutto». Qui Renzi scivola: «Che qualcuno ha rubato lo dica a sua sorella...». Poi si riprende, «Signora resti con noi, ne parliamo...», ma lo fa quando è troppo tardi e la signora è fuori. Il tour di Renzi prosegue (presto sarà anche in Sicilia per presentare il libro, senza bandiere del Pd, però), poi si parte con il treno delle 100 città per una interminabile campagna elettorale: «Quando chiudere la legislatura lo decide comunque il presidente Mattarella. Ma si vota in primavera», chiosa il segretario del Pd .

Il Fatto 3.9.17
Renzi insulta chi contesta: “Rubate lo dici a tua sorella”
Tour in Emilia - Un gruppo di risparmiatori che hanno perso tutto col salva-banche viene lasciato fuori, ma una signora riesce a entrare e si scaglia contro il segretario
di Davide Vecchi | 3 settembre 2017

Ha “tagliato le tasse”, creato “quasi un milione di posti di lavoro”, ridotto “notevolmente i flussi migratori” e fatto “ripartire l’economia” ma “certo si deve fare di più”. Matteo Renzi ha scelto tre feste dell’Unità in Emilia per il suo ritorno in pubblico dopo quasi un mese di vacanza: Bologna, Reggio Emilia e, in serata, Modena. In tutte e tre le tappe ha ripetuto gli stessi concetti. Stesse frasi, stesse battute, stesse pause.
Una sorta di format che, per sua stessa ammissione, sarà ripetuto fino al 24 settembre quando, dalla festa nazionale di Imola aprirà la campagna elettorale “e poi partiremo in treno per l’Italia” fino “a primavera, quando si voterà”. Che sia un format studiato è evidente sin da subito, quando a mezzogiorno sale sul palco della festa di Bologna: “Ora vi leggo un numero di cellulare e voi se volete mandare le vostre domande, poi risponderò da qui”. A gestire il telefonino è Franco Bellacci, storica spalla di Renzi sin dai tempi delle prime Leopolde. Ma alla selezione sfugge qualcosa. E quando arriva una domanda sulle banche dalla platea si sente gridare: “150 mila risparmiatori truffati, noi non abbiamo rubato, voi avete rubato”. Sarà forse l’interruzione improvvisa della narrazione, il fuori programma che interrompe il format, sarà l’effetto sorpresa ma il segretario del Pd si fa trovare impreparato e risponde bruscamente: “Avete rubato lo dice a sua sorella”. Qualcuno applaude. La signora viene raggiunta dalla sicurezza. Alzandosi rilancia: “Rivoglio i miei soldi”. E Renzi risponde: “Quello anche io”. Lei viene accompagnata fuori. Si chiama Giovanna Mazzoni ed è una pensionata ferrarese che ha perso i propri risparmi a seguito del decreto salvabanche del 2015 che ha coinvolto anche l’ istituto del quale era cliente, la Cassa di Risparmio di Ferrara. “Siamo arrivati qui in cinquanta ma ci hanno vietato di entrare”, dice la signora al Fatto. “Io sono riuscita a intrufolarmi, non mi aspettavo una risposta così cafona”. Intanto Renzi dal palco abbozza una risposta sulla vicenda salvabanche. “Io ero contrario al bail-in – dice – ma abbiamo dovuto recepirlo dalla Ue, noi però ci siamo impegnati a tentare di salvare i risparmiatori e a punire gli amministratori”. Tra questi figura anche il padre di Maria Elena Boschi, recentemente sanzionato anche da Consob. Ma nessuno ha modo di farglielo notare. E la signora è ormai stata scortata fuori dai cancelli della Fiera di Bologna. Soltanto a Modena, in serata, Renzi, letto che la notizia aveva avuto estremo risalto sui siti, si è deciso a precisare: “Contestare è legittimo, ma chi dice che abbiamo rubato ne risponderà nelle sedi opportune. Sono bugie. Per questo le ho risposto male”. Per rilanciare: “Nessuno può mettere in dubbio le qualità morali degli uomini e delle donne del Pd. E io aspetto sempre la vicenda Consip, perché vedrete come andrà a finire”. Così riprende la narrazione. Dei propri successi. E degli insuccessi altrui. “Abbiamo due avversari: i Cinque Stelle e il centrodestra, due estremismi che dobbiamo sconfiggere e possiamo farlo se noi riusciamo a essere il polo del buonsenso”. Per questo, prosegue, “dobbiamo smetterla di litigare; ora c’è una campagna elettorale da affrontare e dobbiamo affrontarla uniti”.
Tra una stoccata all’ex alleato e coautore del Patto del Nazareno, Silvio Berlusconi (“è tornato con Salvini, son cose belle, tipo Beautiful: si prendono, si lasciano, si riprendono”) e critiche al Movimento 5 Stelle (in particolare al sindaco di Roma, Virginia Raggi: “Se penso che ha rinunciato alle Olimpiadi mi mangio le mani, abbiamo perso 2 miliardi”) c’è spazio anche per un mea culpa sul referendum, seppure in stile renziano: impercettibile. Dice infatti: “Di referendum io non voglio più sentir parlare per almeno 70 anni”.
Dopo un’ora ringrazia, saluta e firma le copie del suo libro, Avanti. Politicamente rimane quell’invito all’unità. La campagna elettorale per Renzi inizia da qui. “Poi andremo tra le persone, gireremo l’Italia in treno per parlare con tutti, senza comizi: dobbiamo essere il polo del buonsenso, la forza tranquilla”, ripete più volte citando François Mitterrand. Così come più volte ripete quelli che ritiene i suoi successi, a partire dal Jobs Act che è “un provvedimento di sinistra” e “ha creato lavoro, è stato un successo; il lavoro non si sostituisce con i sussidi come vuol fare Grillo col reddito di cittadinanza”. Dietro al palco c’è il tesoriere, Francesco Bonifazi ed è automatico ricordare che i dipendenti del Pd sono stati appena messi in cassa integrazione. Ma questo, Renzi, non lo cita tra i suoi successi.

Corriere 3.9.17
Germania-Turchia, è il momento di svelare il bluff di Erdogan
di Danilo Taino

Berlino si avvia a «ripensare la relazione» con Ankara e a reagire «in modo deciso» alle provocazioni di Recep Tayyip Erdogan. Lo ha detto Angela Merkel dopo che, venerdì, altri due tedeschi sono stati arrestati in Turchia per ragioni politiche, arresti «senza fondamento», ha aggiunto la cancelliera. Le misure prese in considerazione sono il blocco dei colloqui per l’estensione dell’unione doganale tra Ue e Turchia proposta dalla Commissione di Bruxelles e un avviso formale di pericolo ai tedeschi che intendono viaggiare sul territorio turco. L’azione di provocazione nei confronti della Germania che Erdogan porta avanti da mesi sta dunque arrivando a un punto di svolta potenzialmente gravido di conseguenze: Ankara fa parte della Nato e in questo momento sta intensificando i suoi rapporti con Mosca; e in teoria è ancora candidata a entrare nell’Unione Europea. Una rottura politica, che riguarderebbe l’intera Ue, sarebbe una nuova ragione di destabilizzazione del quadro geopolitico attorno all’Europa. Nei mesi scorsi, Merkel ha cercato di non arrivare al punto di rottura, a costo di essere accusata di appeasement. Per ragioni strategiche e anche perché la cancelliera stessa ha voluto l’accordo tra Bruxelles e Ankara per fermare il flusso di profughi del 2015-2016. Ora, però, la situazione è arrivata a livelli difficili da sostenere. Erdogan produce provocazioni su basi settimanali. Soprattutto, nelle prigioni turche ci sono oltre 50 tedeschi, 12 dei quali accusati di sostenere il movimento di Fetullah Gülen, che Ankara ritiene all’origine del colpo di Stato tentato l’anno scorso (secondo il settimanale Der Spiegel , la Turchia avrebbe anche chiesto a Berlino, che ha rifiutato, di bloccare i conti correnti dei presunti sostenitori di Gülen in Germania). Un po’ tutti i politici tedeschi, in piena campagna elettorale, ora accusano Erdogan di estorsione, di ricatto. Se però, come minaccia, egli riaprisse ai rifugiati la rotta balcanica, ogni porta dell’Europa gli si chiuderebbe in faccia, con pericoli per il suo stesso regime. Forse è bene svelare il bluff.

Repubblica 3.9.17
L’ultradestra tedesca sogna il terzo posto
I populisti dell’Afd sono all’11%, secondo gli ultimi sondaggi, dopo la Cdu della cancelliera Merkel e la Spd Merito della coppia al vertice del partito che, in vista del voto del 24, corteggia l’anima più nera e razzista dei suoi
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. L’unico refolo che si percepisce nell’aria ferma della campagna elettorale tedesca è quello dei partiti che si contendono l’ultimo gradino del podio. Nei sondaggi, l’imprendibile Cdu/Csu di Angela Merkel è attorno al 37%, la Spd un filo sopra la soglia d’allarme del 20%. La vera corsa è per il terzo posto. E gli ultimi dati sono allarmanti: i populisti di destra dell’Afd starebbero all’11%, davanti ai liberali, alla Linke e ai Verdi. Un risultato raggiunto grazie al gioco delle parti del tandem che guida il partito, Alice Weidel e Alexander Gauland.
I due sono un po’ “la Bella e la Bestia” della nuova destra tedesca. E Gauland, di recente, è tornato a stuzzicare l’anima più nera dei suoi — e di una parte del Paese — con parole d’ordine razziste e una difesa a oltranza dei colleghi più controversi. A cominciare dal noto antisemita Björn Höcke, uno che è riuscito a dire che «Adolf Hitler non è il male assoluto», che bisognerebbe apprezzarne le sfumature, i «toni di grigio». Gauland ha candidamente raccontato alla
Bild
che il leader dell’Afd in Turingia «è amato pazzamente da 20-30% del partito, anche a ovest». È «l’anima» dell’Afd.
Vecchia conoscenza della politica tedesca, giurista, ex politico della Cdu ed ex giornalista, invariabilmente in giacca tweed verde o marrone, Alexander Gauland ha deciso da tempo di dedicarsi alla “pancia del Paese”, per così dire. Co-fondatore dell’Afd, l’ha definito «il partito della piccola gente» e pensa di interpretarne lo spirito più profondo sostenendo, come ha fatto di recente, che la ministra dell’Integrazione di origine turca, Aydan Özoguz, andrebbe riportata in Turchia ed «entsorgt », in sostanza, «eliminata».
Un ex giudice lo ha denunciato, Merkel ha duramente condannato le sue esternazioni «razziste». Lui non si è mai scusato. La “Bestia” dell’Afd, che i giornalisti tedeschi cercano di pungolare con frasi un po’ patetiche tipo “ma lei una volta non era così, cosa ci fa con quelli”, si nasconde dietro un dito. Il partito è «anarchico», dice. Pazienza se a qualcuno scappa qualche frase contro gli ebrei o i neri. Gauland stesso aveva conquistato una discreta notorietà internazionale, anni fa, sostenendo che «nessuno vorrebbe essere il vicino di casa» del campione mezzo ghanese, ma nato e cresciuto a Berlino, Jerome Boateng.
Chi ha preso le distanze da alcuni eccessi del partito è l’altra metà del duo, Alice Weidel. Lontana anni luce dall’ala destra, è esponente tipico della corrente “dei professori”, un genere di militanti della prima ora attirati dalla proposta dell’uscita della Germania dall’euro, spesso accademici e professionisti. Weidel, economista e manager, porta con sé anche un certo cosmopolitismo inedito, ai vertici dell’Afd Lesbica dichiarata, legata a una donna originaria dello Sri Lanka, due figli, doppia residenza tedesca e svizzera, asso della finanza, è la “Bella” volta a conquistare elettori più moderati (un po’ come la leader del partito Frauke Petry, estromessa mesi fa dalla corsa alla cancelleria con un “putsch” dell’ala destra). La scorsa settimana ha preso le distanze da un manifesto in cui si vede una donna incinta e lo slogan “Nuovi tedeschi? Ce li facciamo da soli”. E nelle sue apparizioni in tailleur costosi, spesso con i capelli biondi legati in una severa coda, tende ad arrotondare gli slogan più destrorsi e a rassicurare sulla razionalità delle proposte dell’ultra destra tedesca.
Ma quando si vedono certi manifesti dell’Afd, come una cartina dell’Europa attraversata da una scia di sangue e lo slogan “le tracce della cancelliera in Europa”. O i militanti che si presentano ai comizi di Merkel urlando “vattene”, e danno sfogo a un odio che sembra giustificato, piuttosto, verso un sanguinario dittatore, viene spontaneo chiedersi se esista ancora, un’anima moderata dell’Afd.

Repubblica 3.9.17
Bernie, lo sconfitto vincente che gira gli Usa e si fa sentire
di Arturo Zampaglione

NEW YORK. Un chiaro segnale della rivincita di Bernie Sanders era già venuto dal congresso di Chicago del Dsa (Democratic socialist of America). Tra bandiere, pugni alzati, riferimenti a Marx e a Gramsci, i 700 delegati, un mese fa, avevano festeggiato l’esplosione degli iscritti (triplicati in due anni, a 25mila), inneggiando al loro leader di riferimento: Sanders, per l’appunto. Sconfitto da Hillary Clinton nelle primarie dell’anno scorso, il settantacinquenne senatore del Vermont continua a essere sulla breccia. Gira in lungo e in largo per contrastare la contro-riforma sanitaria sognata da Donald Trump e proporre in alternativa un sistema nazionale. Ha scritto un libro indirizzato ai teenager (“La guida di Bernie Sanders alla rivoluzione politica”). E facendo leva sulla popolarità che si è conquistato nella campagna elettorale, quando ha trascinato centinaia di migliaia di americani ai suoi comizi, lancia una sfida al partito democratico perché cambi.
La tesi di Sanders è che sia perdente, rispetto alle politiche conservatrici della Casa Bianca e alla diffusa sfiducia sul presidente, rincorrere i repubblicani sul terreno moderato. Occorre invece che il fronte progressista punti a obiettivi sociali ed economici più ambiziosi, senza aver paura di sfidare i poteri forti e Wall Street. Una linea, questa, che spaventa l’establishment democratico, ancora dominato da una ideologia centrista. D’altra parte l’effetto Sanders — secondo i politologi — è destinato ad avere ripercussioni sugli equilibri interni del partito e sull’esito delle elezioni del 2018. Molti esponenti del partito temono di dover fare i conti con una leva di candidati più liberal, sostenuti da organizzazioni locali create durante la campagna di Sanders.
Sanders non ha mai fatto mistero di considerarsi un “socialista democratico” ed è stato eletto al Senato come indipendente, non come democratico. D’altra parte lo spauracchio del socialismo non è più quello della guerra fredda: il 35 per cento degli americani (e il 55 per cento dei giovani) ne ha un’opinione favorevole. Comunque Sanders non si scompone: «Ormai sono in molti a capire i benefici del programma socialista che promette l’accesso per tutti alle cure mediche, salari decenti, affitti e l’università statale gratuita».

Repubblica 3.9.17
L’America di Clooney
“Presidente io? Non scherziamo Ma il mio paese si rimetta in piedi”
intervista di Silvia Bizio

VENEZIA. È la loro prima apparizione pubblica dalla nascita dei gemelli Ella e Alexander, e il primo ritorno a Venezia dopo il fotografatissimo matrimonio di tre anni fa: i coniugi George e Amal Clooney sono arrivati da Londra per la Mostra. Gemelli di tre mesi al seguito. Clooney presenta la prima mondiale della sua ultima regia,
Suburbicon,
scritto da lui stesso insieme al socio Grant Heslov, adattato da un copione scritto 25 anni fa dai fratelli Coen. Il titolo, chiaro riferimento a
Satyricon
di Fellini, era stato scelto proprio dai Coen, e Clooney ha deciso di lasciarlo così.
Suburbicon
(gioco di parole con “suburb”, i quartieri periferici lower-middle class delle metropoli americane) uscirà negli Usa il 27 ottobre e in Italia il 14 dicembre. Del cast fanno parte Matt Damon, Julianne Moore e Oscar Isaac.
Matrimonio e paternità devono aver giovato a Clooney, affascinante in abito chiaro, sempre generoso sia quando si parla di politica e questioni umanitarie che quando affronta i temi legati ai suoi film, in questo caso una tragicomica satira sociale. Lo incontriamo in una saletta privata dell’Excelsior il giorno prima della première, e la prima cosa che dice è: «Sentito il temporale ieri sera? I gemelli si sono spaventati moltissimo, poverini, urlavano come dannati!».
Ci sono voluti 25 anni per fare questo film, dalla prima stesura dei fratelli Coen. Cosa è successo nel frattempo?
«Loro avevano scritto il copione pensando a una “murder comedy” ambientata negli anni 80. Cercavo da tempo un altro film da dirigere: ho letto almeno 80 copioni senza trovare qualcosa di convincente. Poi durante la campagna presidenziale non si faceva altro che parlare di minoranze e muri da erigere, frasi che avevamo già ascoltato nel nostro passato, nulla di nuovo. Gli americani hanno la tendenza a prendersela con le minoranze, i bianchi temono di perdere il loro posto nella società. Non volevo fare un documentario, così mi sono ricordato di quel copione e ho pensato di ambientarlo nel 1957 invece che nell’85. E ho cominciato a lavorare sull’idea di una famiglia disfunzionale e di una nera dirimpettaia. E tutti guardano dalla parte sbagliata!».
Nei suoi film, come regista, lei rivolge spesso lo sguardo al passato. Perché?
«Vero. Tranne che nelle Idi di marzo. Ma non c’è nulla di nuovo. Un paio di anni fa ci fu il documentario della HBO Nixon on Nixon: beh, ogni volta che pensiamo che Trump dica qualcosa di nuovo andiamo a risentire come parlava Nixon, quando diceva che voleva bandire Walter Cronkite o altri giornalisti. Non sono cose nuove, lo sembrano solo perché ci illudiamo di averle superate. Quando ci sono state le sommosse di Los Angeles non ci eravamo resi conto di quanta rabbia sotterranea ci fosse. Pensi a Charlottesville».
Perché ambientare il film nel ’57?
«Noah, il bambino del film, ha esattamente l’età che Donald Trump aveva all’epoca. E quando lui dice “Rifacciamo l’America grande” si riferisce agli anni 50 di Eisenhower e poi al boom economico. Certo era fantastico: se eri bianco e eterosessuale, altrimenti mica tanto. È interessante scostare la tenda e scoprire i casini che succedevano anche allora; ma non tutto era rosa e fiori in tante parti d’America».
Com’è cambiato il suo modo di vedere la vita con la paternità?
«Non molto. Sento molta responsabilità, ovvio, perché pur sapendo che i miei figli sono due privilegiati la vita resta comunque una sfida. Non è facile essere bambini e crescere sotto la lente d’ingrandimento per via della celebrità, e credo che sia importante che lo capiscano al più presto. Lasciatemi dire una cosa sui gemelli, è buffa la natura: lui è già il doppio della sorella e mangia sempre; lei è delicata e tutta occhi, tutta sua madre. Sono già diversissimi».
È felice?
«La felicità è una condizione che inseguiamo perennemente. Ma oggi su noi americani grava una sorta di nuvola oscura. Non mi era mai capitato di dovermi quasi vergognare di essere americano. Ma sono fiero di vedere che le nostre istituzioni stanno cominciando a reagire e il paese tira fuori senso di responsabilità. Mi fa pensare che in fondo siamo brave persone».
Si sente ottimista?
«Sì, lo sono, perché le cose si muovono. Pensi alle Corti che rifiutano di applicare il divieto d’ingresso ai musulmani. La ragione prevarrà. E credo nel giornalismo e nella stampa libera, che sta facendo un ottimo lavoro in difesa della democrazia. Perfino il Wall Street Journal, il Washington Post e il New York Times stanno cambiando. È eccitante ricomincia- re a vedere un buon giornalismo d’inchiesta. Mi entusiasma vedere che non si lasciano intimidire dalla demagogia di una persona».
Matt Damon parla di “rabbia bianca” nel film.
«Ancora oggi molte persone pensano che il loro mondo stia cambiando e attaccano le minoranze: immigrati o rifugiati che siano. Niente di diverso da quello che succedeva in Germania nel 1934. Ma il mondo sta cambiando e la globalizzazione ne è in gran parte responsabile. Io sono cresciuto negli anni 60 e 70, il momento di maggior cambiamento nel nostro paese. Quando abbiamo visto la fine della segregazione al sud abbiamo pensato che ci stavamo muovendo nella giusta direzione. E invece ci siamo fermati. Abbiamo un presidente che dovrebbe essere il presidente di tutti noi, che dovrebbe spiegare, anche a chi non l’ha votato, come stare insieme. Non si possono paragonare i Black Lives Matter con il KKK. Anche quando usano la violenza i Black Lives Matter lottano per l’eguaglianza razziale, mentre il KKK invoca la supremazia razziale; questi due gruppi non dovrebbero mai venire equiparati, e il presidente americano dovrebbe ribadirlo con forza. Il KKK non rappresenta l’America, rappresenta solo una piccola minoranza di imbecilli e non dovrebbe essere paragonato a nessun altro dal presidente degli Stati Uniti».
Qui a Venezia all’incontro con Jane Fonda e Robert Redford qualcuno ha ricordato a Redford che vent’anni fa lui aveva definito il sogno americano una grande bugia. Cosa significa oggi questa espressione per lei?
«Penso che tanti nel mondo, a partire dalla Seconda guerra mondiale, abbiano spesso visto l’America come un posto di speranza. Io sono un ottimista. Il mio Suburbicon è un film dark, ma nell’ultima scena i due bambini giocano insieme con una palla da baseball. Fa pensare che questi due ragazzini ce la faranno. Non credo nell’eccezionalità dell’America, però mi piace l’idea che ci riprenderemo di nuovo. Abbiamo forza e volontà, e ho la speranza che torneremo a vivere quel sogno, ma per farlo dobbiamo prima andare fino in fondo nella comprensione dei nostri problemi: dobbiamo affrontare il razzismo, il bigottismo, il futuro. Non si elimina il carbone senza che qualcuno decida che fra dieci anni non ci saranno più auto con il motore a combustione! Dobbiamo circondarci di persone che guardino avanti, non indietro. Siamo in una curva difficile, ma penso che ce la faremo».
Questo significa che si presenterà come presidente?
(Sorride): «Sono preoccupato dalla mancanza di personalità che ci colpiscano fino al cuore nel fronte democratico. È responsabilità dei democratici trovare quel giusto candidato e io farò tutto quello che posso per far eleggere quella persona quando salterà fuori. Un paio di giorni fa ho incontrato Obama, e proprio di questo si parlava al telefono con Joe Biden. Tutti noi siamo alla disperata ricerca di una figura dotata di testa e cuore che ci porti fuori dal guado. Ma non sono io la persona giusta per questo lavoro ».
Perché?
«Perché non mi sembra affatto divertente. E, scusi, ma non ho alcuna intenzione di rovinarmi la vita!». Ride.

Lettura del Corriere 3.9.17
L’aldilà sembra l’aldiquà e l’aldiquà in Cina è già l’aldilà

«La mia cremazione era fissata per le nove e mezza». Proprio così: «Era un giorno importante, il mio primo giorno da morto, e io non avevo l’abito funebre». A Yu Hua — uno dei più importanti autori cinesi contemporanei e uno dei pochi di rilevanza internazionale — non manca il talento per gli incipit fulminanti. L’avvio de Il settimo giorno sprofonda il protagonista (e il lettore) in un aldilà che riproduce grottescamente, come un’impronta rovesciata, l’aldiquà. Il dubbio è se l’aldiquà non sia in realtà l’aldilà e l’aldilà non sia l’aldiquà. Nella sequenza di incontri che capitano al suo personaggio Yang Fei c’è infatti tutto il campionario delle storture della Cina di oggi, cibo adulterato, confessioni estorte, demolizioni delle abitazioni. Il lato oscuro di una seconda potenza economica mondiale dove diseguaglianza e arbitrio paiono inestirpabili. Nel 2013, quando uscì in patria, il libro venne attaccato da critici allineati e stampa: i panni sporchi si lavano in famiglia.
Yu Hua, lei aveva già descritto il suo Paese e i guasti della società nel saggio «La Cina in dieci parole». Questo romanzo ne è una specie di sequel?
«Avevo parlato di queste cose già nelle 600 pagine e passa di Brothers ma pensavo ancora di non aver detto tutto. Quindi ho continuato con La Cina in dieci parole . Che però non mi bastava ancora. E allora mi sono concentrato sulle storie assurde degli ultimi 30 anni, dopo la Rivoluzione Culturale. Un giorno mi è venuto in mente un attacco brillante: un uomo muore, le pompe funebri telefonano per dirgli che tocca a lui... Così ho cominciato a scrivere Il settimo giorno ».
Nel romanzo si ritrovano fatti recenti. Il caso del personaggio di Li «Due Testicoli» ricorda la vicenda di Yang Jia (2007-2008) che uccise sei poliziotti dopo aver subito gravi abusi e contro la cui condanna a morte si mobilitarono in tanti, intellettuali compresi. La storia dei neonati e dei feti nel fiume di cui leggiamo nel libro rimanda a quelli ritrovati in Shandong, nel marzo 2010...
«Esatto. Pur giocando con l’assurdo, Il settimo giorno incorpora fatti reali. Desideravo offrire un testo che avesse un peso sociale, oltre a quello letterario. Considero questo libro come una raccolta di storie esemplari. Per orientarci in una città cinese abbiamo sempre bisogno di fare riferimento a degli edifici: allo stesso modo certi episodi di cronaca, come quelli citati, sono i punti di riferimento sociali e storici degli ultimi 30 anni. Spero che fra cent’anni chi leggerà Il settimo giorno possa capire cosa è accaduto in questa epoca storica».
E perché la storia di un uomo che scende nell’aldilà per raccontare la Cina di oggi?
«Il mondo dei morti è l’escamotage per condensare queste storie dentro un libro da poco più di 200 pagine. La mia prospettiva è come l’occhio che lancia lo sguardo su un mondo intero. Se però si raccontasse da “qui”, ci sarebbero volute oltre 600 pagine, come Brothers ».
Yang Fei è umano, buono. Ed è morto. Simboleggia una Cina autentica che non sa sopravvivere nel presente?
«Il tono del romanzo è freddo, a volte addirittura opprimente. Serve dunque il calore dell’umanità per dar forza al mio racconto: senza, non ce l’avrei fatta. Mentre scrivevo non credevo che il protagonista potesse essere metafora di una Cina autentica ma, sì, qualcuno leggendomi ci ha pensato».
Il libro è del 2013. Come è cambiata la Cina in questi anni?
«Il maggior cambiamento è la campagna anticorruzione. Sentiamo spesso che qualche funzionario importante finisce sotto inchiesta, per non parlare di quelli locali. Una campagna anticorruzione così vasta sarebbe stata inconcepibile per me quattro anni fa».
Che cosa significa?
«I problemi emersi in Cina negli ultimi 30 anni sono molto più complessi rispetto a quanto raccontato in Brothers e La Cina in dieci parole . Quando la nostra stampa esalta i meriti della campagna anticorruzione (lanciata dal leader del Partito e presidente Xi Jinping, ndr ) sono triste. La campagna anticorruzione ha esposto solo la punta dell’iceberg».
Il padre del protagonista non è il genitore biologico ma i due hanno un legame fortissimo. I sentimenti e l’onestà creano legami veri, al di là di quelli familiari?
«In Cina c’è un detto: la nascita conta meno del mantenimento. Yang Fei fin dalla nascita è stato mantenuto da Yang Jinbiao, il quale ha sacrificato la propria vita per Yang Fei che a sua volta ha ricambiato l’educazione di Yang Jinbiao. Nella Cina di oggi sono emersi tanti casi in cui i fratelli, o figli e genitori, diventano nemici per soldi. I sentimenti prescindono dai legami biologici».
Nel 2013 il libro fu criticato per motivi estetici o stilistici o perché imbarazzava le autorità?
« Il settimo giorno ha venduto oltre un milione di copie. Sulla libreria online Dangdang.com dei quasi 140 mila commenti dei lettori il 99,3% era positivo. Nel 2013 sul web c’erano in pratica solo articoli critici ma ho capito che i commenti positivi erano stati tutti cancellati perché criticavano il governo».
Ha avuto problemi con le autorità? Come si dice in Cina, l’hanno invitata a prendere una tazza di tè?
«No. Non so che sapore abbia il loro tè».
Rispetto a quattro anni fa, in Cina le possibilità di discutere di temi sensibili si sono ridotte?
«Sì. Si vedono raramente su WeChat (il social più diffuso, ndr ) discussioni su argomenti sensibili ma vengono cancellate subito. A volte mi sembra di essere cieco e sordo. Non so più niente».
Quali sono le sue preoccupazioni maggiori per la Cina di oggi?
«La mia preoccupazione maggiore è l’assenza di una fluida circolazione delle informazioni. Se neanche una persona normale come me riesce ad apprendere le opinioni del popolo con precisione, come fanno a conoscerle i funzionari di alto livello?».
E le sue speranze?
«Che ci facciano vedere ciò che dobbiamo vedere, sentire ciò che dobbiamo sentire».
Il protagonista alla fine rimane nel paese delle persone senza sepoltura, mentre la ragazza Topina riesce a partire perché il fidanzato le compra la tomba vendendo un rene (e morendo): l’unica resistenza a una società sempre più ingiusta viene dagli individui e dal loro sacrificio? Dalla società non si può sperare nulla di buono?
«“Morire senza un posto dove farsi seppellire” in Cina è una maledizione. Nel mio romanzo è invece il posto più bello. Come l’utopia, ma non è utopia. Ho rovesciato il significato di “morire senza sepoltura”. Nel mondo dei viventi non tutti sono nati uguali ma nel mondo dei morti non sepolti tutti sono morti uguali».

Corriere 3.9.17
Chi sei, se non hai un’anima? La parola creativa di Ceronetti
Un «poeta della prosa» mette a nudo la vacuità del nostro tempo
di Mario Andrea Rigoni

L’ ultima pubblicazione di Guido Ceronetti non è propriamente un libro, ma piuttosto una composita rapsodia di versi suoi, di traduzioni e di citazioni incentrata sulla più essenziale, torturante, cieca e delusa delle attese, personali e universali: l’attesa del Messia, del Messia che non verrà e tuttavia resta, in quanto tale, l’unica fonte di vita e di consolazione in un mondo degradato e sconvolto come quello di oggi ma, in realtà, di sempre: donde la varietà delle espressioni che il messianismo religioso o laico assume, si tratti dei testi sacri o di Dante, di Marx o di Kafka, di Dostoevskij o di Beckett, come documenta il volume Messia (Adelphi).
Ho sentito parlare per la prima volta di Ceronetti da Elémire Zolla nel 1969, quando presentò insieme con Carlo Diano, nella sede della Farmitalia a Padova, i primi numeri della rivista «Conoscenza religiosa», alla quale anch’io avrei collaborato.
«Conoscenza religiosa», edita da La Nuova Italia e diretta da Zolla, era una rivista (diversissima dalle altre in circolazione, tutte variamente afflitte dal morbo dell’accademia) nella quale un esoterico interesse religioso e simbolico includeva squisite presenze letterarie: vi si potevano leggere, di volta in volta, insieme con una conferenza di Marcel Griaule o un articolo di Marius Schneider, una poesia di Auden o di Borges, di Djuna Barnes o di Cristina Campo.
In quell’occasione Zolla elogiò in privato, con espressioni di ammirata sorpresa, un poco noto scrittore, appunto Ceronetti, di cui, nel quarto numero, si pubblicava uno scritto intitolato Genesi, religione, luna (successivamente raccolto in Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre , Rusconi 1971): un corrusco manifesto antiumanistico e antimoderno, che prendeva spunto dall’«amara esplosione di stupidità pura» rappresentata dal recente allunaggio dell’Apollo 11 per denunciare l’estinzione definitiva del sacro e ricostituire, al di là di ogni ortodossia teologica o metafisica, la sconvolgente e tragica scena dell’apparizione sulla Terra dell’Adamo distruttore, quale Ceronetti decifrava nei primi capitoli della Genesi e in altri testi biblici.
Benché avesse già pubblicato traduzioni in versi di Marziale, dei Salmi , di Catullo e dell’ Ecclesiaste , edite da Einaudi, Ceronetti era allora proprio agli esordi della sua carriera. Ma in quello scritto vi erano già in nuce molte delle sue caratteristiche: l’estensione indefinita del campo di osservazione, dalla Genesi alla cronaca quotidiana; l’unione di scavo filologico e illuminazione liberatrice; la visione dello gnostico capovolto, non irretito da alcuna forma di «nero ottimismo» e persuaso non meno di Leopardi o di Sade dell’enormità ed eternità del male nel mondo; l’invenzione di un originalissimo tono da profeta, tramato di lampeggianti metafore e accostamenti inauditi. Nessuna pedanteria universitaria; nessuna superstizione erudita; nessuna concessione al luogo comune.
Nel corso degli anni ho scambiato con Ceronetti solo qualche lettera e qualche cartolina, ho avuto con lui non più di uno o due fuggevoli incontri, ma non ho mai smesso completamente di seguirlo e ogni volta che torno ai suoi libri, fra i quali alcuni capolavori, come la raccolta di aforismi Il silenzio del corpo (Adelphi), attingo sempre un fremito conoscitivo, una sorpresa vitale, dato che egli discende, al pari degli scrittori che ama, che cita e che commenta, da una tradizione non semplicemente filosofica o letteraria, ma sapienziale .
Se anche non si volesse aderire alla sua visione e ancora meno ad alcune sue manie, come quelle che Cioran ventilava con divertita malizia in uno dei suoi Esercizi di ammirazione (Adelphi), bisognerebbe pur sempre riconoscere e ammirare in Ceronetti le doti di un superbo creatore di linguaggio — un merito che appartiene a pochi.
Credo che Ceronetti, come capita spesso a coloro che ambiscono al nome di poeta, tenga molto ai suoi propri versi, per i quali sospetto che sarebbe magari capace di dare in cambio tutto il resto. Ma non avrebbe alcun bisogno di cedere a questo frequente abbaglio, dal momento che la poesia non conosce distinzione di mezzi ed egli è già un grande poeta della prosa , anche se non sempre del verso , magia per la quale sembra meno predisposto, forse intralciato o sopraffatto dalla violenza che la sua straripante ricchezza di immaginazione e di pensiero esercita sulla felicità della pura forma.
Il miracolo linguistico, intraducibile come tutti i miracoli, si nota invece in qualsiasi altro momento e di qualunque cosa egli parli: e Ceronetti parla di tutto, di letteratura, di storia, di medicina, di cronaca (preferibilmente nera), di politica, di teatro, di cinema, di viaggi, per il nostro conforto e la nostra delizia.
Sarebbe tuttavia un imperdonabile errore e una grave perdita attribuire ai suoi saggi e ai suoi aforismi un semplice carattere di novità e singolarità espressiva. Ceronetti non sommuove solo le parole e le immagini e neppure solo il cervello. Il suo merito ancora più grande è che, nel contempo, ridà anima all’anima , la cosa più preziosa della vita, della quale abbiamo smarrito, non che l’esperienza, forse anche il ricordo. Chi sei, se non hai un’anima? Salvatore della lingua e salvatore dell’anima: così vorrei salutare e onorare Ceronetti per i suoi gloriosi novant’anni

Lettura del Corriere 3.9.17
La resistenza del corpo secondo Hegel
di Donatella De Cesare

Oltre ad essere una delle più note teoriche femministe, l’americana Judith Butler è certamente anche una voce originale nel panorama della filosofia continentale. Meno nota forse al pubblico italiano è invece Catherine Malabou, più concentrata sulle neuroscienze e sulla psicoanalisi, che da qualche anno ha lasciato la Francia per trasferirsi in Inghilterra. Insieme hanno dato vita a una sorta di dialogo a distanza — scambiandosi dapprima i testi, poi aggiungendo ciascuna una risposta — intorno alle pagine forse più celebri della Fenomenologia dello spirito di Hegel, quelle sulla dialettica tra servo e padrone, o meglio su Signoria e servitù . Ebbene, sì, sembrano lontani i tempi in cui uscì, per la prima volta nel 1970, quindi in una seconda edizione nel 1977, il provocatorio saggio Sputiamo su Hegel della mai dimenticata Carla Lonzi (il libro è stato ristampato dall’editore et al. nel 2010). Già da anni il pensiero femminista ha scelto la via del confronto e si misura con i classici.
Tuttavia nel dialogo tra Butler e Malabou Che tu sia il mio corpo. Una lettura contemporanea della signoria e della servitù in Hegel , appena pubblicato da Mimesis a cura di Giovanbattista Tusa (pagine 120, e 10), la questione affrontata dalle due filosofe va ben al di là delle interpretazioni classiche della Fenomenologia .
Non si tratta di capire se e in che modo il servo, con la sua celebre capriola dialettica, diventi padrone del padrone. Piuttosto l’attenzione si concentra sul corpo e sull’imperativo che il padrone rivolge al servo: «Che tu sia il mio corpo!». Che cosa vuol dire? Se il padrone rinnega non solo il proprio lavoro, ma anche il proprio corpo, come strumento di lavoro, quali sono per lui le conseguenze? E quali per il servo? Impossibile, certo, essere il corpo di un altro. Ma Butler in particolare si chiede quale resistenza si celi nel corpo, sempre inappropriabile (anche per il servo che del suo corpo non può disporre a piacimento), e quale complicata relazione di potere ne emerga.



La Stampa 3.9.17
Hawking e la caccia agli alieni
“Captati 15 segnali misteriosi”
Scoperta del team del cosmologo più famoso del mondo “Ma attenti, ci tratterebbero come fece Colombo con gli indios”
di Vittorio Sabadin

Stephen Hawking, il genio dell’astrofisica che occupa a Cambridge la cattedra che fu di Isaac Newton, ha forse scoperto nell’Universo quello di cui ha più paura: tracce di vita aliena. Da una galassia nana distante 3 miliardi di anni luce arrivano 15 nuovi e misteriosi segnali radio, che potrebbero essere stati emessi da una civiltà extraterrestre. Hawking da tempo sconsiglia all’umanità di mettersi in contatto con gli alieni: «Avrebbero per noi - ha detto - lo stesso interesse che noi abbiamo per i batteri, e se ci andasse bene ci tratterebbero come Cristoforo Colombo trattò gli indigeni che incontrò nel nuovo mondo».
In questo caso, un incontro appare del tutto improbabile. I segnali radio viaggiano alla velocità della luce e quelli appena captati sono stati dunque emessi 3 miliardi di anni fa, quando la Terra aveva 2 miliardi di anni e ospitava solo forme di vita unicellulari. Se un alieno li ha inviati è morto da un pezzo e, se invieremo una risposta, la nostra civiltà sarà ridotta in polvere quando verrà recapitata. Ma i nuovi segnali sono comunque considerati molto strani e interessanti. Sono stati scoperti nell’ambito del Breakthrough Listen Project, un’iniziativa finanziata con 100 milioni di dollari dall’uomo d’affari russo Yuri Milner, il cui nome di battesimo fu scelto nel 1961 in omaggio a Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio. Milner era amico del fisico dissidente Andrei Sacharov, che ha ispirato la sua passione per lo spazio.
Il progetto, cui Hawking ha dato la propria adesione e la propria consulenza, «affitta» il tempo di alcuni grandi osservatori terrestri per cercare forme di vita in un milione di stelle vicine alla Terra. Sintonizzandosi su 10 miliardi di frequenze diverse, gli scienziati stanno esaminando le 100 galassie più vicine a noi con l’aiuto di 9 milioni di volontari, che in tutto il mondo mettono a disposizione i loro computer per aiutare il centro di ricerca a esaminare i dati.
I segnali misteriosi sono stati captati dal Green Bank Telescope della West Virginia da una fonte scoperta nel 2012 che emette Fast radio bursts, lampi radio veloci che durano solo qualche millisecondo. Nel 2015 e 2016 la fonte era ancora al suo posto e dunque bisognava escludere che gli impulsi provenissero dalla casuale esplosione di una supernova. L’Università della California ha ora esplorato la stessa galassia ad una frequenza più alta, captando 15 nuovi segnali che potrebbero essere stati emessi da forme di vita evolute e intelligenti. «Non abbiamo idea da dove i segnali provengano - ha detto con prudenza Vishal Gajjar, del Berkeley Research Centre -. Ci sono solo 30 sorgenti di questi segnali nell’Universo e una sola che si ripete. Dobbiamo studiarla ancora. Ci sono più teorie che fonti di segnali, più domande che risposte. Più studiamo e più troviamo cose strane».
I segnali captati potrebbero essere dovuti, si ipotizza, a fonti di energia utilizzate dagli alieni per muovere i loro veicoli, ma si sta studiando anche l’ipotesi che provengano da una stella di neutroni, uno dei corpi celesti più strani dell’Universo. Queste stelle hanno una densità pari a 100 mila miliardi quella della roccia e un cucchiaino della materia di cui sono composte peserebbe come tutti i mammiferi della Terra, esseri umani compresi. Ruotano su se stesse 100 volte al secondo ed emettono lampi radio. L’astrofisica irlandese Jocelyn Bell Burnell scoprì la prima stella pulsante nel 1967 e anche lei pensò subito agli alieni: chiamò i segnali che riceveva LGM-1, Little Green Men, piccoli uomini verdi.
Hawking, il cui corpo è paralizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica, ha deciso di dedicare gli ultimi anni della sua vita alla ricerca di forme di vita intelligenti che devono esistere da qualche parte nelle galassie. Solo la Via Lattea ha da 200 a 400 miliardi di stelle, ed è impossibile che la vita si sia sviluppata solo sulla Terra. Se si costruisse un modellino con un diametro di 130 km che rappresentasse la nostra galassia, il sistema solare occuperebbe appena 2 millimetri. C’è dunque qualcosa là fuori e bisogna cercarlo. Ma l’importante, secondo Hawking, è non farsi scoprire: gli alieni potrebbero venire a trovarci, e non ci piacerebbe per niente.

La Stampa 3.9.17
Cento galassie sotto osservazione e l’aiuto di nove milioni di volontari

Il Breakthrough Listen Project è il più ampio programma di ricerca scientifica mirato a trovare tracce di vita extraterrestre. Guidato da Stephen Hawking, è stato finanziato con 100 milioni di dollari da Yuri Milner. Tramite alcuni grandi osservatori terrestri, gli scienziati, sintonizzandosi su 10 miliardi di frequenze, stanno esaminando le 100 galassie più vicine con l’aiuto di 9 milioni di volontari, che mettono a disposizione i loro computer per esaminare i dati.

La Stampa 3.9.17
Così Mountain View cerca l’intelligenza extraterrestre

Seti, acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence (Ricerca di intelligenza extraterrestre), è un programma dedicato alla ricerca della vita aliena abbastanza evoluta da poter inviare segnali radio nel cosmo. Si occupa anche di mandare segnali della nostra presenza ad eventuali altre civiltà in grado di captarli. Il Seti Institute è nato ufficialmente nel ’74 e ha sede a Mountain View, in California.

Repubblica 3.9.17
La nuova pubblicità Motta con una mamma (e poi un papà) travolti da un asteroide è lontana anni luce dalla famiglia in stile “Mulino Bianco”. E dichiaratamente ironica: ma a molti sfugge
Buondì contro buonisti se lo spot trasgredisce la regola dell’happy end
di Stefano Bartezzaghi

IL buon giorno si vede dal mattino, il Buondì si vede dal martirio. Vi ricordate il Mulino Bianco? Quello, quando è sorto, era l’opposto non solo cromatico del Moulin Rouge: famiglia contro libertinismo; donne angelicate contro donne di perdizione; bambine contro lolite, nuova verginità contro l’ormai invecchiata trasgressività sessuale. Bene, rovesciate tutto un’altra volta perché, tanti decenni dopo, siamo all’antidoto cattivista del Mulino Bianco stesso: siamo cioè al Buondì contro il buonismo. «Mamma, mamma!»: il parco di una villa sontuosa, una tavola imbandita, una bambina petulante e leziosa che arriva dal prato e reclama «una colazione leggera e decisamente invitante che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità». Decisamente, leggera/ leggerezza, golosità: ‘sta smorfiosa si esprime in un italiano aulico, velleitario, inverosimile (e, purtroppo, sintatticamente fallace). Con dolcezza non esente da perfidia, la mamma — bella signora — ribatte che una colazione così «non esiste », ma l’asteroide che evoca a controprova arriva poi davvero, e la annichilisce. Infatti il dolciume leggero eppure goloso esiste: è proprio il Buondì. La storia resta aperta, lasciandoci così nel dubbio: la bambina si dispererà per la scomparsa della mamma o esulterà per la comparsa della sognata merendina? Un secondo spot, di fatto, la mostra indifferente: un altro asteroide farà fuori anche il papà. Basterà questa pur debole sinossi linguistica a far capire che siamo in un universo perfettamente parodico, dove l’istantanea cancellazione della Madre (e poi del Padre) dal registro dei viventi non sfiora neppure da lontano il tragico di Edipo, il trauma di Bambi o il patetismo di Anna Magnani. Eppure in Rete, il celebre, e usualmente spassoso, account delle “frasi di Osho” ironizza a sua volta sulla fraseologia inverosimile della bambina, e mille altri account commentano caustici, quasi che lo spot potesse essere interpretato letteralmente. E dunque, più che lecito, il dubbio diventa oramai doveroso: in Rete peschiamo o siamo pescati? La suprema legge universale dell’ironia scopre il suo confine naturale: è ironia solo quando la faccio io. Se non l’ho fatta io, è qualcosa di serio, su cui devo obbligatoriamente ironizzare. Malgrado tutti i segnali, tali che più espliciti non si potrebbero desiderare, scatta la gara a denigrare la bambina cretina, la mamma che l’ha messa sbadatamente al mondo, il papà che non sa mai nulla, l’asteroide a favore di una merendina, la vanità del tutto. Ribattere con pazienza, account per account, «guarda che l’hanno fatto apposta» non basta, anzi non serve proprio. Il fatto è che una volta che si decide di usare l’arma del ridicolo, il ridicolo intenzionale si confonde con quello involontario. Un messaggio pubblicitario del genere funziona perché dà a ciascuno l’illusione di trovare qualcosa di ridicolo in chiunque, fuorché in sé stesso.
Vista in sé stessa, quella del Buondì è una pubblicità come un’altra. Ma considerato l’effetto che ha ottenuto occorre dire: bravi tutti. Davvero. Anche perché, in questi primissimi giorni dopo la rentrée estiva, la grande parte dei commentatori non l’avrà presumibilmente vista in tv ma, appunto, in Rete. Tutti ne parlano e allora vediamo cosa è. Il risultato economico è ragguardevole e qui bisogna capire che il prodotto non è più il “Buondì”: è la pubblicità stessa. L’indotto industriale di indignazione, sarcasmo, ironia che viene mobilitato a valanga dalla moltiplicazione delle condivisioni, dei retweet, dei mi piace, dei commenti (il presente incluso) impone agli utenti del web di guardare lo spot per comprenderne le conseguenze: che siano parodie o biasimi. La «vecchia» e «inguardabile » tv si prende una rivincita sullo snobismo web. Scusare tanto se viene anche a noi da chiamare mamma e papà.

Repubblica 3.9.17
Viviamo il tempo della retrotopia
L’utopia di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile
di Zygmunt Bauman

Ecco — per chi le avesse dimenticate — le parole con cui all’inizio degli anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, commentava l’Angelus Novus — da lui ribattezzato “ angelo della storia” — dipinto nel 1920 da Paul Klee: “L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. A quasi un secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità, a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “ che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin — un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate.
La nostalgia — dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard — “è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia”. Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma “ nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia”. Boym conclude diagnosticando “ un’epidemia globale di nostalgia” e avverte: « Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria » . […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il proprio giro. A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate, privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi vittoriosamente cercato di negare. Dalla doppia negazione dell’utopia in stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “ retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa — legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla protezione dello Stato. Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati. Mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “ riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara.
Il fenomeno che definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “ perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità ( e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori. Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “ ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “ retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente intrecciata all’oblio selettivo. Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia “ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso della Rivoluzione francese del 1789 “ non fu solamente l’ancien régime a produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e un alone di rispettabilità”. Fu invece il crollo del comunismo a far nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — , quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.
In ogni caso, la scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta. ?
l libro
Il brano è tratto dall’ultimo libro di Zygmunt Bauman (1925-2017).
In Retrotopia (Laterza, traduzione di Marco Cupellaro), in uscita il 7 settembre, il sociologo polacco recentemente scomparso, sostiene che nella società contemporanea l’utopia guarda a un passato che consideriamo più rassicurante

Repubblica 3.9.17
Ma ci serve ancora un mondo ideale
Reddito garantito, frontiere aperte alle migrazioni e riduzione dell’orario di lavoro: l’autore di “Utopia per realisti” Rutger Bregman spiega le ragioni per cui è necessario tornare a immaginare una società diversa (e possibile). “La narrazione della sinistra è sempre contro qualcosa.
Ma Luther King diceva di aver fatto un sogno, non un incubo”
di Simonetta Fiori

Era impensabile fino a qualche anno fa che l’utopia potesse diventare bestseller. E fa riflettere che a firmare questo piccolo miracolo editoriale sia uno studioso non ancora trentenne. Il nuovo Mister Utopia si chiama Rutger Bregman, è nato nel 1988 in una piccola città turistica della Zelanda (Paesi Bassi) e vanta una formazione storica tra l’Accademia di Utrecht e l’Università di Los Angeles. Fisico asciutto e barbetta bionda, tiene lezioni- spettacolo in giro per l’Europa. Se gli domandi perché abbia pensato di cimentarsi con un modello ideale un tantino desueto, consegnato dal Novecento nel retropalco degli orrori, la sua risposta rivela un cambiamento nello zeitgeist contemporaneo. «Sono nato un anno prima della caduta del Muro. E sono cresciuto in un’epoca in cui la gente cominciava a pensare che la storia fosse finita, la stagione delle grandi narrazioni tramontata. E che essere di sinistra significasse occuparsi soltanto della crescita economica e del prossimo iPhone. Ho sempre avuto la fastidiosa sensazione che ci fossimo perduti qualcosa». Dalla ricerca di questo qualcosa è nata la sua nuova filosofia.
Qual è l’appello lanciato da Utopia for realists, uscito inizialmente sul giornale olandese De Correspondent e tradotto ora in Italia da Feltrinelli? Il male di oggi, la passione triste che ci accompagna nell’Occidente dell’abbondanza, è la totale assenza di nuovi orizzonti. Oggi siamo più ricchi, più longevi, più colti, più sani rispetto a cinquant’anni fa ma non siamo più capaci di sognare. «Nel Paese della Cuccagna non c’è spazio per le utopie», sostiene Bregman. «Ci accontentiamo del benessere raggiunto senza aspirare a nuovi traguardi. Ma le utopie sono necessarie perché spalancano le finestre della mente. E alla stregua dell’umorismo e della satira accendono l’immaginazione». Naturalmente Bregman sa bene che — a differenza dell’umorismo e della satira — le utopie sono terreno fertile anche per litigi, violenze, genocidi. « La storia è piena di varianti orribili di utopismo — il fascismo, il nazismo, il comunismo — proprio come ogni religione ha generato le sue sette fanatiche. Ma se un fanatico religioso invita alla violenza, dobbiamo automaticamente scartare l’intero credo? Dovremmo smettere definitivamente di sognare un mondo migliore? » . Senza l’utopia, in sostanza, siamo perduti. E se non fosse stato per i sognatori del passato, oggi saremmo tutti più poveri, affamati, sporchi, stupidi, malati, brutti e spaventati. «Ci pensi un momento: le pietre miliari del progresso civile una volta erano soltanto fantasie. La fine della schiavitù. La democrazia. La nascita del welfare state. Cos’erano un tempo se non un’accensione utopica? L’aveva già detto Oscar Wilde: il progresso altro non è che il farsi storia delle utopie».
Non sappiamo se Utopia for realists diventerà la bibbia di un nuovo credo. Sappiamo però che in Olanda ha dato vita a un movimento politico. E in Gran Bretagna è stato accolto con curiosità, ricevendo gli elogi di Zygmunt Bauman, che l’ha letto proprio mentre lavorava al suo ultimo saggio. «Quando ho finito di scrivere il libro, mi sono procurato la sua mail per farglielo leggere » , racconta Bregman. « Il giorno dopo nella mia posta elettronica c’era già il suo messaggio: “Grazie! Ora alla mia diagnosi della malattia potrò affiancare la tua prescrizione per la terapia…”. Il saggio a cui si stava dedicando era proprio Retrotopia. Il problema del pensiero utopico contemporaneo è quello di guardare al passato, non al futuro. Retrotopia, appunto. Ed è esattamente l’impostazione che ho cercato di cambiare con il mio libro».
La nuova utopia celebrata da Bregman aspira a sradicare la povertà con il reddito universale di base. E a ridurre la settimana lavorativa a quindici ore per permettere a uomini e donne di occuparsi della famiglia e della collettività. E vagheggia soprattutto l’abbattimento di confini e barriere per accogliere i popoli migranti. Tutte proposte che alla fine del libro lo stesso autore non esita a definire «folli», benché supportate da una nutrita galleria di esempi storici anche inediti. Non sarà, mister Bregman, che valgono più come provocazioni che come indicazioni concrete? «So bene che politicamente parlando, e a breve termine, le mie idee potrebbero risultare non molto realistiche. Ma penso che il compito dell’intellettuale sia proprio rendere realistico l’irrealistico, e inevitabile l’impossibile. Gandhi ammoniva: prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci». Ma non crede che nei paesi colpiti da crisi economica e disoccupazione il sogno più grande sia ottenere un lavoro più che la settimana corta? « No » , replica Bregman. « Il sogno più grande sono i soldi e la dignità che un lavoro ti garantisce. Ma purtroppo il nostro sistema economico ti costringe a lavori mal pagati che non ti danno sicurezza né dignità».
Al di là della realizzabilità o meno delle proposte, l’interesse di Utopia for realists è soprattutto nel ritorno alla politica da parte d’una generazione che lo stereotipo vorrebbe apolitica. Perché l’utopia configurata nello spigliato pamphlet olandese altro non è che l’invocazione d’una politica intesa come passione ideale e non amministrazione dell’ordinario. «La politica è stata annacquata fino a diventare gestione dei problemi » , dice Bregman. « E gli elettori oscillano non perché i partiti siano diversi tra loro ma perché si stenta a distinguerli l’uno dall’altro». Il vero bersaglio di questa nuova bibbia utopica è la sinistra che «sembra essersi dimenticata l’arte della politica», ossia la capacità di immaginazione. «Siate realisti, chiedete l’impossibile » era il grido di battaglia del Sessantotto. «Oggi la sinistra mette a tacere le idee più radicali per la paura di perdere voti. È quello che io definisco il fenomeno del socialismo perdente». L’idea portante del socialista perdente, aggiunge lo studioso, è ritenere i neoliberisti imbattibili sul piano della ragione e delle statistiche, così alla sinistra rimangono solo le emozioni. «Il suo cuore è sempre nel posto giusto, ma quando il gioco si fa duro il socialista perdente si piega sistematicamente alle tesi del suo oppositore, accetta sempre le sue premesse».
Il guaio più grande del socialista perdente è che risulta « terribilmente noioso » . Non ha una storia da raccontare, né un linguaggio per narrarla. « Ma attenzione, con questo non intendo una narrazione che stuzzichi qualche fighetto. Intendo dire che oggi la sinistra europea sa dire solo cosa non è. E contro chi è. Contro l’austerity. Contro l’establishment. Contro l’omofobia. Contro il razzismo. Contro ogni cosa! Noi invece abbiamo bisogno di essere a favore di qualcosa. Abbiamo bisogno di immaginare una società diversa e di dare alla gente una speranza. Martin Luther King non diceva: “ Ho avuto un incubo”. Diceva: “ Io ho fatto un sogno” » .
Se è vero che ogni utopia nella storia ha sempre rivelato qualcosa sull’epoca in cui è stata pensata, cosa rivela di noi l’utopia di Rutger Bregman? «Un mondo con una profonda crisi di senso. Pensi al numero crescente di persone che percepiscono il proprio lavoro come superfluo, sostanzialmente inutile. Un antropologo della London School of Economics li ha definiti “ lavori burla”. Addetto al telemarketing, social media manager, consulente di pubbliche relazioni… E questi mestieri inutili sono generalmente i più pagati » . Il suo malumore deve essere condiviso da molti se i diritti del libro sono stati comprati da ventuno paesi, tra cui il Brasile, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Corea.
Lei come spiega il successo internazionale di Utopia for realists?
«Fino a pochi anni fa mi sentivo intellettualmente isolato, ma oggi sono milioni di persone nel mondo a pensare a un’alternativa radicale. Specialmente dopo l’ascesa di Trump e la rottura di Brexit è evidente che non possiamo restare attaccati allo status quo. Ogni crisi è un’opportunità. Ed è nei momenti di crisi che attecchiscono nuove idee». ?
Il libro
Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale (Feltrinelli) è il nuovo libro dello storico ventinovenne Rutger Bregman, che invita a recuperare la capacità di immaginare cambiamenti radicali nella società. Domenica 17 settembre lo presenterà a Pordenonelegge (Auditorium Vendramini, ore 15)

Repubblica 3.9.17
Il senso comune intende la parola “utopia” come qualcosa di irrealizzabile
Ma in realtà questa idea ha fatto parte della nostra storia non come fantasia ma come qualcosa di possibile
di Massimo Cacciari

Che il senso comune intenda “utopia” come sinonimo di fantasia o vano desiderio rivela tutta la sua attuale miseria, la nostra impotenza a concepire un qualsiasi fine che appena si discosti dalla domanda di individuale benessere. Lo “spirito di utopia” ha agitato tutta la nostra storia: non non-luogo, come invece si continua a ripetere, ma luogo realmente possibile nel senso che noi, il soggetto della storia, siamo chiamati a renderlo possibile.
Un’etica dell’assoluto dovere è quella di utopia, nient’affatto contraddittoria con quella del potere. Tuttavia, è l’“ Io Devo” che in essa risulta prioritario; è il dovere a condurre il potere: il soggetto deve con ogni mezzo perseguire quella potenza che gli permetta di compiere ciò che deve. E ciò che deve è il suo intelletto a definirlo: la ragione elabora un paradigma della società e dello Stato in cui si potranno realizzare condizioni di vita buona ( eu- topia) che sembrano essere relegate alla mera impossibilità dai regimi politici vigenti. La primissima di queste condizioni riguarda lo sviluppo dell’intelligenza stessa, la diffusione universale delle sue conquiste. L’intelletto generale non deve subire freni ed essere al servizio della universale felicità. Tutti gli altri aspetti della forma dell’utopia sono accessori di questo suo ultimo fine.
Ce ne siamo disincantati per sempre? Può darsi; ed ecco allora l’utopia farsi dis-topia. Il luogo che ci attende viene immaginato come un’apocalisse senza Giorno del Signore, oppure — ciò che tutti sembrano sperare — nulla ci attende, nessun fine, soltanto il cattivo infinito del procedere avanti, giorno dopo giorno. Un progresso senza nemmeno quel vago ricordo della forma dell’utopia, che ai suoi inizi pure l’ideologia progressista conservava. Ma sradicata da cuore e mente ogni idea di felicità e ogni paradigma di “vita buona”, è del tutto “logico” che neppure l’infelicità e la sofferenza si sappia più riconoscere e tantomeno soccorrere.
L’autore è filosofo e politico. Con Paolo Prodi ha scritto “ Occidente senza utopie” (Il Mulino)

Il Sole Domenica 3.9.17
Spinoza
Gli ultimi barbari educati dai talk show
L’odio degli indignati da fake news
In politica (e non solo) ci si serve di notizie false per delegittimare moralmente gli avversari evitando di ragionare
di  Marco Santambrogio

Secondo Spinoza, è compito della democrazia «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione, affinché vivano nella concordia e nella pace». Acuto come sempre, Spinoza vede un nesso strettissimo tra democrazia, ragione e pace. Invece, è una tecnica collaudata degli autocrati quella di soffiare sul fuoco delle passioni - soprattutto passioni negative come odio, paura e indignazione. Niente di meglio di una guerra contro un nemico esterno o interno per salvare un trono.
Dopo l’odio nazionalistico e razziale del Novecento, l’indignazione è oggi la passione più diffusa in politica, non solo in Italia. In Spagna ha dato nome a un intero movimento. Come mai? È semplice. Noi non ci indigniamo per un torto o un’ingiustizia qualunque. Immaginate che Arsenio Lupin, ladro gentiluomo, vi rubi i gioielli dalla cassaforte. È ingiusto e potete protestare, dispiacervi, arrabbiarvi. Ma sarebbe inappropriato indignarsi. Lupin è un ladro dichiarato, non c’è malafede da parte sua.
Infatti l’indignazione presuppone sempre una particolare forma di disonestà: la malafede. Ci indigniamo solo con chi commette scientemente un’ingiustizia e fa finta di agire per alti ideali. A questo punto ci sentiamo in diritto di fargli qualsiasi cosa. A bandito, bandito e mezzo - come si suol dire. Per questo l’indignazione è così utile in politica: squalifica gli avversari e abbassa il livello dell’autocontrollo.
Ci sono diversi modi per scatenare l’indignazione contro gli avversari politici. In Numero zero, Umberto Eco ne ha illustrati alcuni, ma si tratta di metodi d’altri tempi, che cercavano di salvare le apparenze e si avventavano su avversari che avevano un nome e un cognome. Da allora si sono fatti grandi progressi. Oggi c’è gente che diffonde spudoratamente, non so se attraverso Youtube, Facebook, Twitter o Instagram, la notizia che i vaccini sono pericolosi («Sono fatti con plutonio, zinco, polifosfati!») e raccoglie mezzo milione di visualizzazioni. Altri scrivono che gli «immigrati» hanno festeggiato la strage di Manchester in un bar di Pioltello.
Queste sono fake news: notizie false diffuse allo scopo di scatenare odio, paura e indignazione. Chi le diffonde non ha bisogno di fare nomi e cognomi dei presunti colpevoli perché chi le legge pensa di sapere già a chi attribuire la responsabilità di tali nefandezze. (Chi ha messo il plutonio nei vaccini? Per la destra sarà stato il PD, per la sinistra, Renzi.) Si evita il reato di calunnia o di procurato allarme e intanto l’indignazione cresce. Tanto più si eccitano le passioni, tanto più si abbassano le difese della ragione e si riduce il prezioso capitale della fiducia nei concittadini e nelle istituzioni. Dovremmo introdurre regole più severe per contenere le fake news sul web? Beppe Severgnini pensa che il diritto penale sia stato preveggente e gli strumenti giuridici esistano già ma manchi la volontà di procedere, perché continuiamo a «considerare il web una sorta di Grande Stadio dove tutto è permesso».
A me sembra ottimistico. La volontà di procedere è mancata anche quando fake news e post-verità circolavano liberamente nei programmi di discussione politica in tv. Circolano ancora. Se Spinoza vedesse quei programmi resterebbe inorridito. Altro che «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione». C’è poco di razionale in quelle discussioni. Non sono ammessi ragionamenti che durino più di venti secondi. È invece consentito gettare il sospetto di malafede sugli avversari per suscitare l’indignazione degli spettatori.
Quali sono invece le regole della discussione razionale? Un bellissimo libro, il Robert’s Rules of Order, lo spiega anche a chi non ha mai letto Spinoza. Henry Roberts era un ingegnere dell’esercito degli Stati Uniti che un giorno si trovò a presiedere l’assemblea di una chiesa battista e restò molto insoddisfatto del modo in cui si era comportato. Decise che prima di farlo di nuovo avrebbe studiato a fondo le procedure parlamentari. Per fare cosa utile a tutti coloro che si trovano a partecipare a assemblee, consigli o comitati, decise di scrivere un breve manuale sull’argomento.
Oggi il Pocket Manual of Rules of Order for Deliberative Assemblies è l’autorità indiscussa in materia e le sue regole sono seguite in tutte le assemblee degli Stati Uniti, dalle associazioni sportive alle società per azioni. Se avete mai partecipato all’assemblea del vostro condominio, saprete che per procedere con ordine e fare in modo che tutti si sentano trattati con equità, non si può fare di testa propria: bisogna seguire regole prestabilite e accettate da tutti. Di sicuro avrete sentito la mancanza di uno strumento di questo tipo, poiché in Italia non esiste niente del genere.
Tutte le regole di Robert sono violate in un «normale» dibattito televisivo. Ad esempio, una regola fondamentale stabilisce che il tema di un dibattito, cui è obbligatorio tenersi, non siano mai le persone presenti, ma la mozione sul tappeto o l’argomento fissato. Si può criticare il ragionamento di un avversario, mai l’avversario personalmente. Non si possono attaccare o mettere in questione nemmeno le motivazioni per cui un avversario sostiene quello che sostiene. Qualunque riferimento personale va evitato. «Menzogna», «bugiardo» e simili sono termini da evitare. Perché? Perché è vietato insinuare che l’avversario sia in malafede.
Un’altra regola dice che i moderatori non possono dare o togliere la parola a loro piacimento. I dibattiti sulle nostre tv sono spettacoli per un pubblico indifferente al fair play e alla pacatezza di cui l’intelligenza ha bisogno per capire chi ha ragione e chi ha torto.
Servono ad accendere le passioni. L’indignazione è la più politica delle passioni. Ci sono paesi in cui si seguono le regole di Robert e paesi in cui non si seguono. Perché la differenza? Forse nei primi si possono seguire le regole della fairness perché ci sono meno mascalzoni che le violano, mentre i secondi sono afflitti da livelli di mascalzonaggine così alti che è impossibile affrontarli in politica indossando i guanti? O è vero invece il contrario e proprio quando le regole esistono e molta gente per bene cerca di farle rispettare ci sono meno mascalzoni in giro? Non so rispondere ma sono sicuro che là dove le regole sono rispettate si vive meglio. Inversamente, quando si assume di default che gli avversari politici siano in malafede e si soffia sul fuoco dell’indignazione, può succedere come in Olanda nel 1672. Johan de Witt, un bravo matematico che per vent’anni aveva governato il paese con moderazione, fu linciato insieme al fratello dalla folla aizzata dagli orangisti, massacrato, appeso a testa in giù, squartato. Le sue viscere arrostite furono divorate dalla folla. «Ultimi barbarorum» commentò Spinoza.

Il Sole Domenica 3.9.17
Genetica delle popolazioni
La radici micenee dei greci
Il Dna indica una continuità anche tra i minoici e gli abitanti attuali. Davvero già lo sapevamo?
di Guido Barbujani

Misteri scientifici da indagare ce ne sono tanti, ma non si può certo dire che la Grecia è misteriosa. Dai tempi di Heinrich Schliemann e Arthur Evans riconosciamo nella civiltà minoica dell’isola di Creta (fra il 2000 e il 1450 a.C.) e in quella micenea della Grecia continentale (fra il 1600 e il 1000 a.C.) i fondamenti della nostra civiltà. È da lì, da Creta, che provengono i primi testi scritti europei, e sulla Grecia storici e archeologi hanno lavorato tanto, e spesso benissimo. Omero; Atene, Sparta e Tebe; Platone e Aristotele; Maratona, le Termopili, Salamina e Mantinea; Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide, Erodoto e Senofonte: cos’altro ci sarebbe, da sapere? Be’, parecchio, in realtà. Per esempio: chi erano i greci antichi? Da dove venivano? E siamo sicuri che siano loro gli antenati dei greci di adesso? Hanno cercato risposte nel DNA, con seguito di polemiche su cui torneremo, Johannes Krause del Marx Planck di Jena e un genetista di Seattle, George Stamatoyannopoulos, il cui cognome basta a spiegare perché si sia tanto appassionato alla faccenda (http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature23310.html).
Nel 2015 un gruppo di Harvard aveva dimostrato che Luca Cavalli-Sforza, tanto per cambiare, aveva visto giusto: il DNA dei greci neolitici assomiglia a quello dei primi agricoltori anatolici, gli iniziatori della rivoluzione neolitica. Dunque, l’agricoltura è arrivata in Europa da sudest (questo ce lo dicono i reperti archeologici), e in Grecia ci è arrivata per migrazione (e questo ce lo dice il DNA). Poi, con le civiltà minoica e micenea, si passa dall’età della pietra a quella del bronzo, e dunque ci sono due possibilità: o le novità tecnologiche le ha portate un’altra migrazione (e allora minoici e micenei non assomiglieranno ai greci neolitici), oppure si sono sviluppate localmente (e allora troveremo molto DNA in comune fra minoici, micenei e neolitici). Naturalmente questi sono due estremi, fra cui si possono immaginare tante sfumature. Ma formulare le ipotesi in questa forma aiuta a capirsi.
Krause e i suoi hanno confrontato i DNA di greci neolitici, cretesi minoici e postminoici, e micenei. Hanno trovato che non sono identici, ma si assomigliano molto: hanno in comune tre quarti delle varianti del loro DNA (cioè tre quarti di quell’uno per mille del DNA in cui ci sono differenze fra noi umani). Questo fa pensare che il passaggio dall’età della pietra a quella del bronzo non sia stato accompagnato, in Grecia, da profondi cambiamenti demografici, e quindi da grandi movimenti migratori. È interessante il confronto fra minoici e micenei, questi ultimi subentrati a Creta con il declino della civiltà minoica. Quel quarto di varianti del DNA che i due gruppi non condividono assomiglia, a Creta, a quello di popolazioni asiatiche, del Caucaso e dell’Iran; viceversa, a Micene si trova una componente tipica del nordest europeo. Dunque, sembra che minoici e micenei abbiano avuto gli stessi antenati nel neolitico, ma poi abbiano ricevuto migranti di origini diverse, diventando così a loro volta un po’ diversi.
Altro dato interessante: i greci attuali sono più vicini ai micenei, di cui quindi sembrano discendenti più o meno diretti. Non è un risultato banale: nell’Ottocento uno storico austriaco (e un po’ nostro compatriota, di Bressanone), Jakob Phillip Fallmerayer, sosteneva che i discendenti degli antichi greci non ci sono più, si sono estinti nel medioevo: Krause, quindi, ha provato che si sbagliava. Insomma, lo studio del DNA dimostra come da millenni in Grecia si conservi la traccia di una continuità genealogica, ma anche come poi sia arrivata tanta gente diversa, e non la stessa in tutti i posti.
C’è motivo di credere che lo stesso valga per tante altre popolazioni. Anche chi ha vissuto per generazioni in condizioni di relativo isolamento, per esempio perché stava su un’isola, non è rimasto immune da fenomeni di immigrazione, magari minuscoli, ma frequenti. In questo modo, di regola le popolazioni umane sono diventate un mosaico genetico: con un po’ di fortuna, possiamo ancora riconoscere le tessere portate da tanti antenati differenti.
Dicevamo che il lavoro di Krause e collaboratori ha suscitato polemiche. Solo in Italia, a dire il vero; ma parliamone. «I risultati confermano quel che si sapeva già», dichiara ai giornali un filologo classico, Lorenzo Perilli. E come faceva? Cosa ne sapeva delle somiglianze e delle differenze fra minoici e micenei, prima di leggere lo studio di Krause? Mistero. Ma i suoi pregiudizi sono condivisi da altri colleghi. «Nel Mediterraneo, in epoca paleolitica, ci sono stati spostamenti enormi di popolazioni. È successo di tutto, e penso che le informazioni che ci arrivano dalla genetica siano irrilevanti» sentenzia bellicosamente un etruscologo famoso, Mario Torelli. Boh. Proprio perché può essere successo di tutto, proprio perché la gente migra, ma le fonti storiche non ci dicono (e non possono dirci) in quanti si sono spostati e se hanno lasciato qualche discendente, sembrerebbe utile servirsi anche (anche!) dei metodi e dei dati della genetica. No?
Senza dubbio, anche dopo questa bella analisi genetica, restano tante domande inevase sull’origine della civiltà minoica. Non c’è da preoccuparsi: nessuno in possesso delle proprie facoltà mentali proporrebbe mai di rimpiazzare lo studio della storia con quello del DNA. Tantissime questioni fondamentali, dalle origini della lingua e della scrittura di questi popoli, alle cause del loro successo e del loro declino, possono essere affrontate solo con i metodi dell’archeologia e della ricerca storica. C’è, insomma, lavoro per tutti. Detto questo, se gli anestesisti avessero avuto la stessa apertura mentale di questi accademici nostrani, saremmo ancora al sorso di whisky e al laccio di cuoio da stringere fra i denti, come nei film di cowboy. Gli studiosi del mondo antico avranno maggiori soddisfazioni quando, anche in Italia, capiranno che il progresso tecnologico non è un babau da esorcizzare.

Il Sole Domenica 3.9.17
Gaetano Salvemini (1873 – 1957)
Un classico contro le «filofesserie»
di Gaetano Pecora

Cos’è un «classico»? Un classico – ha spiegato Norberto Bobbio – è un autore «sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il bisogno di rileggerlo». Queste parole tornano alla mente ora che siamo profondati in un cafarnao di confusioni da cui, forse, la lezione di Gaetano Salvemini, pur a sessant’anni dalla morte, può ancora tirarci fuori. Non per caso, Bertrand Russell una volta disse di lui: «Quando parlano gli italiani colti mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco, e quello che pensa lo penserei anch’io». È una considerazione molto bella perché, veramente, pochissimi altri furono convinti che «chiarezza nell’espressione è probità nel pensiero e nell’azione». E però nella scrittura viva di Salvemini c’è qualcosa di più. C’è che la solida quadratura della parola gli veniva per la diritta via del suo credo democratico. «Io – confidò in uno scritto – mi mettevo dal punto di vista di un operaio, magari di un contadino analfabeta, convinto che essi avevano il diritto di capire, se volevamo essere democratici per davvero e non sacerdoti di riti arcani».
Il suo stesso socialismo non si fregiò mai del blasone di un qualche sistema filosofico compiuto, perfezionato (e doviziosamente astruso). Era invece il socialismo che si prodigava per un «po’ di bene per tutti», che denunciava il sopruso e avversava i privilegi, tutti i privilegi, anche quelli che gli operai del Nord difendevano pervicacemente a danno dei cafoni del Sud. «Il mio – puntualizzò – era il socialismo degli ultimi, non dei penultimi». Il suo ansito di giustizia, dunque, muoveva da un’esigenza schiettamente morale, e mai Salvemini tollerò che questa limpida sorgente di umanità venisse inquinata dal diluvio delle «filosofesserie» con le quali i socialisti erano usi infarcire i loro programmi politici.
«Ormai – annotò nel suo diario – credo solo nel Critone e nel Discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo». Vero è che negli ultimi tempi Salvemini arrotondò le punte delle sue censure coi vecchi compagni di partito e al momento del riepilogo, così volle riassumersi: «Sono un socialista democratico all’antica... Questo vuol dire che non sono comunista per le stesse ragioni per cui non fui mai fascista, e non sono mai stato né sono oggi, né sarò mai clericale». Sono parole del 1954, quando già da qualche tempo era ospite a Sorrento di donna Titina Ruffini che lo volle con sé nella villa «La Rufola».
Quando la strada della sua vita andava ormai declinando, Sorrento – nelle intenzioni di Salvemini - avrebbe dovuto essere un’oasi di pace dove raccogliere le forze superstiti per perfezionare quelle opere in cui, tanto tempo prima, il talento dello storico aveva profuso i tesori più preziosi della sua intelligenza. Solo che Salvemini non era uomo da restarsene segregato negli studi; la scintilla della passione divampò ancora una volta. Ed eccolo allora, precisamente come nel 1913, «buttarsi allo sbaraglio, anche senza speranza alcuna». Non vi fu birbonata che sfuggisse alle sue requisitorie; non evento di costume che mancasse di segnalare su «Il Ponte» di Calamandrei e «Il Mondo» di Pannunzio.
Ne venne fuori qualcosa di più che un libro di storia. Fu una lezione morale dove troviamo tutte le ragioni, espresse come solo lui sapeva esprimerle, con sfavillio di arguzie e la felicità dello sberleffo, tutte le ragioni troviamo che militano a favore dello Stato liberale contro la clerocrazia nera e il totalitarismo rosso. Ma soprattutto risaliamo alla tempera da cui escono riscaldate le virtù di un pensiero autenticamente democratico. E che per Salvemini si riassumevano tutte nel rispetto per l’umanità dei propri simili; una umanità non più fatta da «pecore cieche … bisognose di cani mastini e pastori infallibili», ma vivificata da uomini diritti che ricusano di consegnare a terzi l’esito dei loro giorni.
Certo: le moltitudini sono sono quelle che sono, balorde e squilibrate; non per questo però il democratico sincero eleva ad ideale l’arte di governo che sfrutta la brutalità umana anziché sviluppare più che sia possibile le forze dell’intelligenza e della moralità. «Noi – spiegava Salvemini - pur sapendo quanta parte di pecora, e di cane, e di lupo, e di suino, c’è nell’uomo riteniamo che l’uomo sia capace di diventare meno brutto, grazie alla educazione di quella intelligenza che lo distingue dal bruto. E il solo metodo disponibile per educare quella intelligenza è la discussione».
Già: la discussione. Su tutto, e con tutti. Purché condotta con la certezza che anche nella melma delle idee più confuse, anche lì, si può sempre setacciare una pagliuzza d’oro. Precisamente come avveniva a Sorrento. E fu per questo, che ai vecchi nuovi amici si aggiunsero, anche i più diversi e lontani dai suoi convincimenti. Non ultimo don Rosario Scarpari, il buon prete che quasi ogni giorno era lì, a casa di donna Titina e col quale Salvemini, già sfibrato e prossimo alla morte, intrattenne un dialogo le cui battute finali prendono colore di attualità per molti dibattiti dei giorni nostri. «Ma perché – chiese Salvemini - la gente ha tanto paura della morte che costringe ad aspettare chi vorrebbe morire?» Don Rosario rispose: «Per la semplice ragione che nessuno si ritiene padrone della vita di un altro; è una forma di rispetto e di affetto». «Rispetto ed affetti ingiusti, caro don Rosario. Se potessi anticiperei il mio ultimo sonno, perché la morte è forse come un sonno, un riposo che non finisce mai. Lei non può far nulla per accelerare la sua venuta? Non può darmi una pastiglia? Preghi il Padreterno che mi faccia morire presto, veramente mi farebbe un gran favore».
Salvemini fu esaudito tre giorni più tardi. Era il 6 settembre del 1957. Don Rosario ne ricorderà per sempre il sorriso che – disse – era sorriso «da bambino e da contadino insieme, gratuito come l’innocenza e la spontaneità».

Il Sole Domenica 3.9.17
I salariati del Medioevo
La condizione dei lavoratori dipendenti e a contratto nell’età di mezzo, attivi nelle campagne o nelle botteghe artigianali
di Gianluca Briguglia

L’attenzione degli storici per il lavoro, i mestieri, i rapporti lavorativi nel mondo medievale, sembrava essersi rarefatta negli ultimi decenni, almeno se la confrontiamo con l’esplosione degli studi dagli anni ’60 agli anni ’80. Ha pesato in questo il cambiamento di clima generale, l’affermarsi di nuovi modelli storici e di nuove domande da porre al passato in funzione della nostra idea del presente. Un corposo volume, curato da Franco Franceschi, dell’università di Siena, ha l’ambizione di rilanciare l’interesse per il concreto mondo del lavoro nel medioevo, sulla base di metodi rinnovati e più avvertiti e di nuovi punti prospettici. Il volume presenta una serie di contributi di sintesi di vari specialisti su aspetti specifici del tema e ogni contributo è un utile punto di partenza e stato dell’arte per chi volesse approfondirlo. Questo non vuol dire che si tratti di saggi divulgativi da cui prendere le mosse per farsi un’idea. Al contrario, si tratta di una lettura che pretende attenzione. In molti casi lo stile di scrittura è quello felice dell’ottimo manuale universitario (sia detto come apprezzamento), e i vari contributi hanno però a volte la capacità di accendere l’interesse anche del neofita. Forse il sottotitolo del libro non è dei più azzeccati, perché non ne descrive esattamente la parabola concettuale, che è più ampia e calibrata sugli aspetti storici e sociali, ma anche sulle rappresentazioni del lavoro. Si tratta insomma di un volume consigliabile a ogni buona biblioteca universitaria e comunale.
Donata Degrassi introduce trasversalmente alcuni dei grandi temi di indagine capaci di informarci sul lavoro: il diritto, le pratiche contrattuali, gli statuti cittadini e corporativi, senza dimenticare la riflessione teologica. Paolo Cammarosano si concentra sull’alto medioevo, tra Longobardi e Franchi, e sul lavoro nelle campagne, alludendo a vari tipi di fonte. Il Colloquium, che è un dialogo didattico tra un maestro e uno studente, ci fa gettare uno sguardo su quella campagna. Ne risulta un mondo che pullula di contadini, bovari, uccellatori, pescatori, pellai... Sono gli stessi secoli in cui il lavoro è oggetto di riflessione e di pratica innovativa presso i monaci, come mostra Anna Maria Rapetti. La regola valorizza il lavoro manuale e quello intellettuale, orientando anche le rappresentazioni e l’immaginario di chi non è monaco. Saranno più tardi i Certosini e i Cistercensi a elaborare un’organizzazione complessa del lavoro, garantendo le diverse vocazioni, spirituali e contemplative, o manuali e organizzative, di monaci e conversi e riprogettando lo sfruttamento dei territori. Soprattutto le attività lavorative della città (che Claudio Azzara studia nelle sue evoluzioni istituzionali e normative altomedievali) e la campagna (indagata per lo stesso periodo da Paolo Nanni) sono i grandi poli della ricerca. Vasco La Salvia utilizza le tombe dei lavoratori del metallo come fonte per comprenderne il lavoro e lo statuto sociale. Le tombe infatti contengono a volte i loro strumenti e danno indicazioni sulla centralità del loro ruolo ad esempio presso i Longobardi. Francesco Panero fa il punto sul lavoro non libero, urbano e rurale, il lavoro dei servi. Le tipologie sono davvero molte e sorprendenti: servi prebendari, servi casati, prestatori di corvées, manenti, ascrittizi, villani... Tra i secoli XI e XV il paesaggio italiano cambia, anche quello delle campagne dell’Italia contadina di cui parla Gabriella Piccinni. La popolazione italiana dall’XI al XIII secolo passa da 5,2 a 12,5 milioni e forse il ronco, l’attrezzo agricolo che serve a disboscare, cioè a fare spazio alla coltivazione perché questi milioni di abitanti si nutrano e a ricavare legname perché si scaldino, può essere uno dei simboli di questa rivoluzione. Nello stesso tempo l’uso su vasta scala dell’energia idraulica consente un notevole sviluppo di artigianato e industria, lo spiega Andrea Barlucchi. Nascono i mulini per pestare i panni, una delle fasi di lavorazione più delicata, che fanno il lavoro che 50 persone facevano con i piedi. Un macchinario idraulico simile batte i metalli con i magli, altri fanno soffiare i mantici, o segano il legno. Franco Franceschi approfondisce lo sguardo sulle attività degli artigiani, calzolai, orefici, fornai, sarti, che spesso sono indipendenti e sono proprietari della loro bottega, capaci di investire sulla propria attività. Interessante la relazione tra mercante e artigiano, che spesso conduce nel tempo a un assorbimento dell’artigiano in un’organizzazione più ampia. Nelle città italiane della lana, dove un panno lavorato necessita di decine di operazioni i mercanti-imprenditori investono nell’attività produttiva ingenti capitali e la trasformano, la riorganizzano. Sergio Tognetti delinea con grande chiarezza la geografia delle attività lavorative dispiegandone tipi e caratteristiche sui vari piani delle città italiane, ed evocando anche un punto approfondito da Amedeo Feniello, quello dei mestieri legati al mare. I porti aumentano e sono infrastrutture da difendere, salvaguardare, sviluppare. Maestri d’ascia, lavoratori specializzati nella pulizia dei fondali, costruttori di macchine per l’estrazione di detriti dal mare, operai per chiuse e dighe in porti fluviali, marinai e tecnici sono i protagonisti del mare e delle sue rive. In un tessuto di questo tipo non stupisce allora che una serie di professioni liberali, studiate da Roberto Greci, accompagnino lo sviluppo della civiltà comunale. Giuristi, notai, maestri sono le indispensabili e sempre più importanti figure del sapere laico e cittadino. Certo non può essere dimenticato che le tensioni del lavoro e il suo sfruttamento, ma anche la natura stessa di certi gruppi e lavori, portano a volte al conflitto aperto e violento: lo documenta Valentina Costantini, che evoca non solo la nota rivolta dei Ciompi, ma anche il caso delle rivolte dei macellai.
Maria Paola Zanoboni sottolinea invece il ruolo delle donne, che sono presenti in quasi tutte le attività lavorative, che non sono escluse dalle corporazioni, che sono pagate secondo le loro capacità e non necessariamente meno degli uomini: alcuni luoghi comuni sembrano infrangersi. Maria Giuseppina Muzzarelli indaga invece alcuni elementi simbolici del consumo, come quello degli abiti. Vestirsi è un'attività simbolica e l’abito un bene di consumo: esiste già nel XIII secolo una forma cosciente di consumismo?
Storia del lavoro in Italia. Il medioevo. Dalla dipendenza personale al lavoro contrattato , a cura di Franco Franceschi, Castelvecchi, Roma,
pagg. 606, € 47

Il Sole Domenica 3.9.17
Colonialismo
Africa italiana vista dai civili
di David Bidussa

A proposito dell’impero coloniale e in particolare della storia della presenza italiana in Etiopia, si è scritto molto sulla vicenda militare, come pure in anni recenti sulle brutalità o sulle violenze. Qualcosa, ma molto marginalmente è stato raccontato dell’immaginario coloniale. Il volume di Ertola dà conto della storia sociale, dell’emigrazione maschile e soprattutto quella femminile. Un aspetto, quest’ultimo che Emanuele Ertola tratta, giustamente con molta attenzione.
Il bilancio di questa vicenda peraltro breve - in tutto poco meno di sei anni (dal maggio 1936 al marzo 1942) conclude Ertola - non è sostanzialmente contrassegnato da successo, ma nemmeno da una particolare nostalgia da chi scelse di andare a tentare la fortuna in Etiopia. Difficile contraddirlo per i dati che presenta. È una condizione, quella che documenta Ertola in questo suo libro che in molti casi riflette una convinzione che non è conseguente alla parabola dell’Impero italiano in Africa Orientale, ma che emerge velocemente già nei primi mesi della presenza italiana.
«Finalmente sono nella capitale – scrive Giuseppe Rondoni, nel maggio 1937 - Vedessi che magnificenza! Capanne molto peggiori di quelle dei nostri contadini, tucul che sono come i nostri pagliai (sono le abitazioni di questa gente) nauseanti, neri, sporchi,.. vie sconnesse e pressoché impraticabili, il tutto nella completa oscurità, fatta eccezione di qualche lampada a gas in quello che si chiama il centro: ho preferito tornare nel mio camion a dormire».
L’impero all’indomani della vittoria del 5 maggio 1936 si presenta come un investimento per molti che provano a cambiare la loro vita, salvo andare incontro molto velocemente alla delusione. Quella di Giuseppe Rondoni è solo una delle tante storie di quei petis blancs, degli uomini e delle donne comuni che decisero di trasferirsi in Etiopia per tentare di iniziare lì una nuova vita e che spesso, e ben presto, si trovarono a giungere alla medesima conclusione. È significativo, per esempio, il caso di operai coinvolti nella costruzione d’infrastrutture – più spesso ristrutturazione di centri urbani, o di strade. La loro presenza è significativa nel primo periodo, quello immediatamente successivo alla conquista, ma è un fenomeno destinato presto a scemare perché il loro costo era troppo alto rispetto al possibile utilizzo di manodopera locale.
Altrettanto significativo è il caso dei coloni-agricoltori, stimolati a emigrare da un regime che pensava di ripercorrere la stessa strada già sperimentata con le bonifiche nella prima metà degli anni ’30. In realtà anche questa emigrazione non risulta riuscita: gli insediamenti agricoli si avviarono con lentezza, anche per la carenza o l’insufficienza delle infrastrutture.
Ma particolarmente significativo è il dato relativo all’emigrazione delle donne. Diecimila sono le donne che emigrano verso l’Etiopia. È un’emigrazione che risponde a varie esigenze tra cui quella relativa alla politica famigliare. In conformità con la politica natalista e costruita sulla forza della famiglia che Benito Mussolini ha enunciato nel maggio 1927 alla Camera (è il cosiddetto Discorso dell’Ascensione, il testo traccia la fisionomia culturale e ideologica della politica del regime sul rapporto tra demografia, benessere e sviluppo), la prima preoccupazione del regime è fare in modo che le famiglie dei funzionari (militari, di partito, dell’apparato pubblico), si ricongiungano, per limitare e stroncare un fenomeno già diffuso nei primi mesi dell’occupazione italiana dell’Etiopia, ovvero il concubinaggio, con le giovani etiopi. Il tema è il rischio del meticciato. Lo stesso tipo di politica corrisponde anche all’obiettivo di non lasciare soli gli emigranti senza famiglia ancora insistendo sulla funzione procreativa della donna. Un processo migratorio che dunque rispondeva alla visione fascista della donna italiana che prima di tutto doveva essere “madre”. Un profilo che, sottolinea Ertola, assegna alle donne, più che agli uomini, la difesa e il controllo della rispettabilità, per cui la presenza della donna era volta «a sorvegliare i costumi e i comportamenti dell’uomo».
Ma anche una preoccupazione che contemporaneamente ha una funzione di regolamento dei comportamenti che cresce con la costruzione della legislazione razziale che inizia a prendere forma tra 1937 e 1938 e che nasce anche in seguito alle violenze dei coloni dei confronti degli indigeni nel febbraio 1937 dopo il fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani. In breve, l’incapacità di promuovere una qualche forma di coabitazione nella società coloniale, fenomeno che è testimoniato sia dalle violenze dei coloni italiani rispetto agli indigeni, ma anche dalla rapida fine dell’impero, intravisto da molti come un errore, tanto da far dire «maledetta Africa ed il giorno che ci sono venuto».
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Emanuele Ertola, In terra d'Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero , Laterza, Roma-Bari, pagg. XVI-246, € 20

Il Sole Domenica 3.9.17
Artisti & fede
All’anima di Michelangelo
Un libro indaga la complessa religiosità michelangiolesca, e allarga il campo a iconografia e Riforma
di Giulio Busi

È nell’orto di casa, la notte è serena. Prega. Quando alza gli occhi, nel cielo c’è una stella. Grande, enorme, con tre code. Il raggio d’oriente ha colore dell’argento. O forse è una spada lucente, torta alla sommità come un uncino? L’altro raggio, quello che si proietta su Roma, è vermiglio come il sangue. Il terzo strale s’incunea tra settentrione e occidente. È così lungo che arriva di sicuro fino a Firenze. In cima si biforca, ed è infuocato. Lui corre in casa, prende un foglio, torna fuori nell’orto, butta giù un’immagine. Disegnare è il suo mestiere.
Vorreste vederlo, questo schizzo misterioso? Il frate Benedetto Luschini, che ha raccontato tutta la storia, ci indica dove andare: «Se pure tu ti contenti di vederlo, va et truova el decto scultore, che al presente si truova et lavora in Firenze. Et lui benignamente ti mostrerrà la cosa, et humilmente ti dirà la verità del tucto, et così resterai satisfacto et troverrai che io non t0ho decto alcuno mendacio». Chi è lo scultore? Ha un nome facile da ricordare. Michelangelo.
Frate domenicano, grande sostenitore di Girolamo Savonarola, Luschini ha avuto guai con la giustizia. Mentre scrive, s’è già fatto un bel po’ d’anni di prigione per un omicidio, sembra preterintenzionale. È autentica la storia della stella, e il disegno, lo ha visto davvero? Sappiamo così poco, sul mondo interiore di Michelangelo, soprattutto durante la giovinezza e la prima maturità, che ogni indizio è prezioso.
Attese e paura di punizione celeste, speranze di trasformazione epocale. Le prediche dell’ossuto Savonarola, Michelangelo le ha sentite con le proprie orecchie, prima di partire per l’Urbe nel giugno 1496. Come quasi tutti i fiorentini, ne è rimasto impressionato, esaltato, turbato. Un’esaltazione di cui ancora si ricorderà nella vecchiaia, ma che non gli ha impedito di starsene al sicuro a Roma, e di lavorare per cardinali e banchieri, proprio mentre la stella di Savonarola, tanto più fragile della cometa celeste, sale al dominio della città e poi cade a precipizio, fino alla morte sul rogo.
La religione di Michelangelo è un tema profondo e contradditorio come tutto l’uomo. Generoso e taccagno, idealista e crudamente pragmatico, malinconico e ironico. Della sua tendenza a dar credito a profezie e attese millenariste si fanno beffe i familiari. E lui, permaloso, si risente: «Io non vo drieto a favole e non sono però pazzo afacto chome voi credete», scrive polemico, nel 1515, al fratello Buonarroto, che lo ha accusato di lasciarsi prendere da «frati e favole».
Favole – se le vogliamo chiamare così – ma quali? Al voluminoso dossier sulla religiosità michelangiolesca, Ambra Moroncini aggiunge ora un'indagine su poesia, iconografia e Riforma. La triade del titolo disegna il percorso di tutto il libro. Spirituali, evangelici, luterani, eretici: le possibili sfumature lessicali e storiche sono molte, ma il significato di fondo è univoco. È la ricerca di un Michelangelo che, nascostamente, fra amici - Vittoria Colonna, innanzitutto - o dietro il velo simbolico delle proprie opere, è in polemica con la Chiesa del potere e della pompa ed è lambito, o preso in pieno, dal grande vento che ha cominciato a soffiare a Wittenberg, il 31 ottobre 1517, quando Lutero ha deciso di proporre alla discussione pubblica le sue 95 tesi sulle indulgenze. E poiché le date, per i visionari, contano, eccovi una coincidenza importante. Il 31 ottobre 1541, per i vespri alla vigilia d’Ognissanti, papa Paolo III inaugura, nella Cappella Sistina, il Giudizio Universale di Michelangelo. Ottobre è il più crudele dei mesi? No, il più eretico. Secondo Moroncini, dietro l’apoteosi di santi e dannati, tutti egualmente svestitissimi, sotto la procace galassia di corpi che vortica attorno al Cristo risorto del Giudizio sistino, vi sono le simpatie evangeliche di Michelangelo, la sua polemica anti-ecclesiastica. Sulla scorta del commento al Vecchio e Nuovo Testamento del luterano Antonio Brucioli, s’ipotizza nel volume che i nudi vogliano rappresentare la condizione di peccato, dal quale la sola fede può salvare e non l’umana ipocrisia e le cerimonie esteriori della Chiesa. Vien da chiedersi se sia questa l’unica spiegazione possibile per la fastosa, e provocatoria, nudità del Giudizio. Che l’esibizione di carni desse ad alcuni subito fastidio, è risaputo, giacché le prime critiche sono dello stesso 1541, e provengono dall’ambiente di due potenti cardinali e futuri papi, Marcello Cervini (Marcello II) e Gian Pietro Carafa (Paolo IV). Alla fine, ma solo più d’un ventennio più tardi, la revanche copritiva avrà la meglio, e all’ottimo allievo e amico di Michelangelo, Daniele da Volterra, detto poi il Braghettone, verrà affidato il compito di stendere pietose pennellate pudiche. Non ci voleva però la Riforma protestante per far dipingere sodi e sensuali corpi al Buonarroti. Già qualche anno dopo l’affrescatura michelangiolesca sul soffitto della Sistina, papa Adriano VI aveva storto il suo naso fiammingo, e aveva definito la Volta, proprio per quelle pudende bene in vista, «una stufa d'ignudi», o bagno termale che dir si voglia.
Perché, allora, i nudi? E perché proprio nella cappella pontificia? È domanda religiosa d’importanza. Quali le ragioni, oltre, naturalmente, alla coerenza dell’artista, che comincia a scolpire nudi da ragazzo, nella Zuffa dei centauri, e mai si ferma per tutta la sua lunghissima vita? Credo carnis resurrectionem, dice il catechismo cattolico. Carnis, della carne, e non in tunica e camicia. Ma anche a voler azzardare qualche fonte più particolare, basta prendere una predica, tenuta nel Duomo di Firenze durante l’Avvento del 1493 (Michelangelo è quel giovanotto in fondo, tra la folla?) e poi pubblicata in volgare: «Nella resurrettione noi saremo nudi et semplici, cioè spogliati di queste superfluità del mondo». Chi è il predicatore? Ha un nome facile da ricordare. Savonarola.
Ambra Moroncini, Michelangelo’s Poetry and Iconography in the Heart of the Reformation , Routledge, London – New York, pagg. 171, € 122

il manifesto 3.9.17
L’arte fragile di contare la realtà
Codici aperti. La complessa e variegata biografia intellettuale del matematico Alan Turing, dall’invenzione della macchina astratta alla sua morte, descritta da Jack Copeland nel libro tradotto da Mondadori
di Teresa Numerico


Se Alan Turing avesse saputo quanto successo gli avrebbe riservato la storia a poco più di cento anni dalla sua nascita, forse non si sarebbe così tanto affrettato a lasciare questo mondo poco prima di compiere quarantadue anni, nel 1954. C’è una vera e propria «Turing mania», anche se non tutti hanno veramente letto i pochi fondamentali articoli che ci ha lasciato.
A giudicare dalla sua produzione scientifica probabilmente se vivesse in Italia di questi tempi non avrebbe neanche ottenuto l’abilitazione da professore associato. Secondo gli attuali parametri avrebbe scritto troppo poco, molta letteratura grigia, priva di un contesto prestigioso di pubblicazione e soprattutto, non sarebbe stato chiaro a quale disciplina attribuire i suoi lavori: matematica, logica, crittografia, computer science, intelligenza artificiale, genetica matematica.
Anche l’Inghilterra del dopoguerra non fu molto tenera con lui. Gli riservò un famoso processo per atti osceni, legato alla sua omosessualità, di cui fu «reo confesso» per non mentire in un’indagine su un furto subito che coinvolgeva uno dei suoi amanti. Fu condannato a un anno di libertà vigilata e a un trattamento di castrazione chimica basato sulla somministrazione di ormoni femminili. Furono brutali con uno dei loro eroi di guerra. Turing aveva decodificato a Bletchley Park l’Enigma Navale, una formidabile macchina elettromeccanica tedesca per l’invio di messaggi criptati, considerata indecifrabile.
UNO DEI PADRI del calcolatore, forse ne fu il principale ideatore quando nel 1936 progettò una macchina astratta il cui modello costituì il disegno teorico che ispirò, poco meno di dieci anni dopo, il calcolatore elettronico a programma memorizzato, cioè il computer.
La complessa e variegata biografia intellettuale di Turing dall’invenzione della macchina astratta alla morte viene descritta con grande precisione ed eleganza da Jack Copeland – uno dei suoi massimi esperti mondiali– in un libro dal semplice titolo Turing, appena tradotto in italiano (Mondadori, pp.334, euro 24).
Il capitolo finale investiga sulla sua morte misteriosa archiviata come suicidio per aver ingerito una mela avvelenata dal cianuro. La scomparsa di Turing sollevò dubbi fin dal principio; sua madre Sara scrisse una biografia del figlio alla fine degli anni Cinquanta per contestarne il suicidio, considerato da lei una tragica fatalità: la conseguenza di un esperimento chimico conservato in frigo che avrebbe poi inavvertitamente avvelenato la mela.
Ma potrebbe anche essersi trattato di un delitto. Turing conosceva molti segreti dai tempi del lavoro come crittografo durante la guerra e veniva sicuramente sorvegliato dall’intelligence inglese, e sospettato di un possibile tradimento a causa delle sue tendenze omosessuali. Potrebbe essere stato avvelenato o indotto al suicidio. Un uomo tanto intelligente e insieme fragile, impossibilitato a vivere liberamente la propria sessualità nella pruriginosa e puritana società inglese.
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IL TEMA dell’orientamento sessuale deve aver giocato un ruolo importante nel progettare uno dei più famosi metodi per scoprire se le macchine potessero essere considerate intelligenti. Il Test di Turing, o gioco dell’imitazione, come lo chiamò Turing in un suo articolo del 1950, si proponeva come un metodo per mettere alla prova le macchine e scoprire se fossero capaci di farsi scambiare per esseri umani.
L’idea consisteva nel riprodurre il gioco dell’imitazione in cui un uomo e una donna nascosti dovevano rispondere alle domande dell’intervistatore. L’uomo doveva mentire, la donna dire la verità e l’intervistatore doveva scoprire il sesso dei partecipanti. Al posto dell’uomo, nel gioco proposto da Turing, doveva essere messa la macchina, che avrebbe cercato di ingannare l’intervistatore in modo da fargli credere che fosse umana.
Se un intervistatore inesperto di macchine sbagliava almeno nel 30% dei casi allora era possibile sostenere che la macchina avesse superato il test. Il libro di Copeland rende conto, attraverso una dettagliata discussione, del gigantesco dibattito intorno al funzionamento e alla discussione sull’efficacia e sul significato del Test di Turing per l’intelligenza meccanica.
TURING non aveva in mente di fornire una definizione operativa di cosa significhi intelligenza – è questa la tesi condivisibile di Copeland.
L’idea di Turing, espressa in diverse occasioni, non solo nell’articolo del 1950, era che sarebbe stato inutile cercare di definire esplicitamente cosa fosse l’intelligenza per poi attribuirla alle macchine nel caso possedessero quelle caratteristiche.
Ciò che consideriamo intelligente dipende non solo dalle caratteristiche dell’agente che prendiamo in esame, ma anche e soprattutto dalla disposizione e dal posizionamento di chi investiga, dalle sue competenze e dalle credenze che condivide con la società. Quindi la tesi di Turing era che in cinquant’anni da quel momento (ma in un’intervista alla Bbc dell’anno successivo propose di aumentare la soglia a cento anni) le persone avrebbero modificato così tanto la propria idea di intelligenza da includere le macchine tra i soggetti a cui attribuirla.
IL SISTEMA domanda e risposta era stato scelto non tanto per investigare sulle capacità della macchina ma su quelle dell’interrogante. Durante il 1939 Turing aveva seguito le lezioni di Wittgenstein sui fondamenti della matematica. Sebbene nel corso delle lezioni i due uomini si trovassero spesso in disaccordo, è possibile che il pensiero del filosofo austriaco avesse spinto Turing a riconoscere che la capacità linguistica fosse l’unica sulla quale basare la comprensione dell’intelligenza dell’interlocutore. Secondo Wittgenstein non c’è un modo per penetrare nell’interiorità di un altro essere umano, si può però riscontrare di condividere con l’altro parlante comuni abitudini espressive e giochi linguistici che ci inducano a ritenere che l’altro partecipi alla nostra stessa forma di vita (Lebensform). Il test linguistico, al sicuro dall’incontro in carne e ossa per la macchina, le avrebbe permesso di trarre in inganno l’interlocutore, facendogli credere di maneggiare i suoi stessi giochi linguistici e, quindi, una forma di vita comune.
La tesi interessante di Turing sull’intelligenza come caratteristica definita socialmente, frutto di una decisione collettiva e soprattutto dipendente dalle competenze dell’interlocutore è cruciale anche per interpretare quello che sta succedendo attualmente con il grande successo delle applicazioni dell’intelligenza artificiale in molti campi della conoscenza. Questo spiega anche l’importanza di Turing e l’interesse che la sua biografia intellettuale ancora suscita in noi: l’inventore dell’intelligenza macchinica ci parla da visionario del presente.
LO SCENARIO in prospettiva è descritto in un film come Lei (Her, diretto da Spike Jonze, 2014) in cui il protagonista Theodore, un uomo sensibile che per lavoro scrive lettere d’amore, piene di affetto, per conto di clienti ormai incapaci di esprimere i propri sentimenti ai loro cari, s’innamora, dopo un divorzio, di un sistema operativo dotato di un assistente virtuale «Samantha», che ha la voce sensuale di Scarlett Johansson, un piccolo inganno della macchina.
Ma senza scomodare la fantascienza possiamo pensare a come noi interroghiamo Siri di Apple, Cortana di Microsoft, Alexa di Amazon Echo, o l’assistente di Google home. Da un sondaggio condotto da Comscore sul primo trimestre del 2017, risulta che il 60% del campione di coloro che negli Stati Uniti usano gli assistenti digitali, ammette di fare loro domande generali. Grazie all’interfaccia vocale tendiamo a porre loro domande di ogni genere, convinti che ci possano fornire le risposte che stiamo cercando, senza pianificare nessun double-check per metterne alla prova pertinenza e rilevanza.
La fiducia cieca predomina anche nel caso dei servizi di GPS, come Google Maps: determinano la scelta dei nostri itinerari di viaggio e persino i percorsi a piedi delle passeggiate turistiche in città d’arte.
A sessantasette anni dalla previsione di Turing abbiamo già modificato tanto la nostra idea di intelligenza da essere trasformati e decisi a includere dispositivi opachi, sul cui funzionamento poco o nulla sappiamo, nella lista dei nostri consiglieri privilegiati. Tuttavia la fiducia negli assistenti virtuali, nei Gps, negli strumenti a supporto della presa di decisione nel business, tra breve, nelle macchine a guida autonoma è una scelta politica sulle cui conseguenze dovremmo riflettere bene.
Purtroppo il genio di Turing non può aiutarci a determinare il nostro posizionamento politico e nemmeno una macchina: è nostra la responsabilità della scelta.