il manifesto 27.9.17
«Ve la siete cercata», il 28 torna Non una di meno. Donne in piazza a riprendersi il diritto all’aborto
Daniela Preziosi
A un anno di distanza il prossimo 28 settembre torna in piazza il movimento di donne «Non una di meno» per la giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro . Lo slogan è «Ve la siete cercata!» e ribalta la frase che a mezza bocca una donna si sente rivolgere quando subisce violenza o violazione del diritto. Quanto all’aborto: « In Italia, seppur formalmente garantito dalla legge 194, è nei fatti progressivamente negato», si legge nella convocazione. «L’obiezione di coscienza ha raggiunto la media nazionale del 70% di medici obiettori ed è una delle forme di violenza che viene agita ogni giorno contro le donne». Un «attacco feroce» che «mai come in queste settimane ci sta riguardando», chiediamo «che l’aborto sia ovunque depenalizzato, garantito e sicuro, un diritto per le donne di tutti i paesi». A Roma appuntamento alle 18 a piazza Esquilino. Info www.28september.org
il manifesto 27.9.17
Aborto e violenza, le donne sono per strada
di Bia Sarasini
Le donne sono per strada, questa settimana. Ottima notizia, perché come diceva uno striscione a Firenze, dopo la violenza denunciata da due ragazze americane da parte di due carabinieri, «Le strade sono libere quando le donne le attraversano».
Due appuntamenti. Il primo, il 28 settembre, è la giornata mondiale per un aborto sicuro, una data preparata da tempo per combattere contro i mille ostacoli a una pratica dell’aborto che garantisca la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle donne.
In Italia l’appello è stato rilanciato da NonUnaDiMeno, la sigla che raccoglie associazioni, gruppi, movimenti e che dal 2016 ha portato anche in Italia una nuova ondata del movimento femminista, coinvolgendo e mescolando le generazioni, e anche i generi. Non pochi gli uomini e i ragazzi che partecipano.
L’altro appuntamento è per sabato 30 settembre, l’appello contro la violenza viene dalla Cgil, è stato lanciato qualche giorno fa dalla segretaria Susanna Camusso e firmato da donne diverse e con storie diverse, istituzionali e di movimento, si prevedono appuntamenti nelle diverse città.
È necessaria, la voce delle donne. Quella che nessuno raccoglie e amplifica, proprio mentre dalla metà estate abbiamo assistito sia a un crescendo di violenze, tra stupri e femminicidi, sia a un dilagare nei media di commenti benpensanti, tutti concordi nel vedere nella libertà delle donne, il problema.
Per questo NonUnaDiMeno intitola la manifestazione “ve la siete cercata”. Provocatorio, mirato a chi sembra ritenere che con un po’ di prudenza, tante aggressioni sarebbero risparmiate.
Il 28 settembre è l’occasione per fare il punto, anche in Italia, sulla possibilità di abortire. Un diritto che è garantito dalla legge 194, ma negato nei fatti. La media nazionale del 70% di medici obiettori lo rende di fatto molto difficile.
«Una delle forme di violenza che viene agita ogni giorno contro le donne» dice NonUnaDiMeno. Le manifestazioni saranno in decine di città italiane, da Roma a Genova, da Venezia a Pompei, da Torino a Milano, Bari Taranto Lecce. C’è una mappa disponibile sul sito.
Flashmob, raduni, cortei. A Roma l’appuntamento è a Piazza Esquilino alle 18, a Milano al Pirellone. Annunciano partecipazione insieme a proprie iniziative molte organizzazioni, dall’Arci alle diverse Cgil.
In Italia, vista la cronaca di questi giorni, il discorso sulla violenza si allarga.
Uno stupro è uno stupro, dice il documento di NonUnaDiMeno: «Rifiutiamo la retorica su cui si fonda: il “destino biologico” di fragilità e inferiorità a cui saremmo naturalmente assegnate. È questo che vogliono farci credere nelle corsie degli ospedali, quando schiere di obiettori ci impediscono di scegliere quando, come e se diventare madri. È questo che ci ripetono nelle aule dei tribunali, quando nei processi per stupro diventiamo noi le imputate, o quando non possiamo decidere se procedere o meno contro il nostro stalker. È questo che scontiamo senza indipendenza economica, con i salari più bassi dei nostri colleghi, con le molestie sul lavoro, con la cura della famiglia sempre più sulle nostre spalle».
E mentre si scende in strada, le violenze non si fermano. Ancora una ragazza spagnola per l’Erasmus a Rimini, ha denunciato lo stupro da parte di un italiano mentre era in stato di ubriachezza.
Eppure sono tanti gli uomini, a cominciare dal presidente del Senato Pietro Grasso, che si sentono coinvolti. E chiedono scusa.
Anche moltissimi ragazzi, che dicono apertamente – per esempio sui social – quanto siano inconcepibili rapporti con ragazze semi-inconscienti. Una bella differenza dai tempi in cui il manuale del seduttore prevedeva il far bere la preda.
Anche l’appello promosso dalla Cgil punta il dito sui rimproveri che vengono mossi alle donne. Non c’è dubbio che sia necessaria tutta la forza femminile possibile. In strada, in tante, con voci plurali. Del resto, non c’è un luogo sicuro. La maggior delle violenze è domestiche. E solo un uomo su 4 che fa violenza è straniero.
Aborto legale e sicuro. Libere di scegliere, senza sottostare a imperativi sociali.
La Stampa 27.9.17
Violenza sulle donne
Un’emergenza che non si misura con i numeri
di Linda Laura Sabbadini
Gli stupri sono in aumento, gli stupri sono in diminuzione. Chi dice una cosa, chi ne dice un’altra. E’ l’interrogativo che tutti si pongono in questi giorni. Ebbene, nessuno, dico nessuno, può rispondere a questa domanda, i dati disponibili non ce lo permettono. Vediamo perché. Parto da un esempio. Consideriamo i furti di auto. Analizzare le denunce o i dati che contengono il sommerso porta agli stessi risultati, perché tutti noi denunciamo il furto di auto, se non altro per l’assicurazione.
Per gli stupri la situazione è diversa perché la stragrande maggioranza delle donne non denuncia. Quindi, se aumentano le denunce non è detto che stiano aumentando gli stupri, potrebbe essere che più donne abbiano deciso di denunciare. Se diminuiscono le denunce non è detto che stiano diminuendo gli stupri, potrebbe essere che è aumentata la sfiducia nelle forze dell’ordine. Le denunce in questo caso rappresentano le denunce e basta. Possono dare molte informazioni importanti, quante sono state ritirate, per quante si è arrivati alla condanna dell’autore. Ma non possono essere utilizzate per dire che c’è emergenza, o non c’è emergenza, o che il 40% degli stupratori è straniero. La porzione di stupri denunciati è troppo piccola per essere rappresentativa di tutti gli stupri. Per di più le denunce non sono relative solo a stupri ma al complesso della violenza sessuale. Ma allora come si fa a capire se gli stupri sono aumentati o no? Il confronto va fatto utilizzando le rilevazioni dell’Istat che stimano anche il sommerso, chiedendo direttamente alle donne se hanno subito i diversi tipi di violenza e se li hanno denunciati. Queste rilevazioni sono state condotte nel 2006 e nel 2014. Da quei dati è emerso che gli stupri erano «inchiodati», non diminuivano né aumentavano.
L’Istat però non rileva tutti gli anni queste informazioni perché troppo costose. Dovremo aspettare il 2019 per poter sapere che cosa è successo dell’andamento degli stupri rispetto al 2014. Nel frattempo non ci sono dati per sostenere una tesi o un’altra. Cerchiamo di non piegare i dati alle nostre tesi. I numeri parlano chiaro, 1 milione 150 mila donne hanno subito stupri o tentati stupri nel corso della vita, quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica o sessuale, il 36% delle donne che hanno subito violenza da partner ha avuto paura per la sua vita. Non bastano per sottolineare quanto è grave la situazione? Si, e non da oggi.
Corriere 27.9.17
Vivere senza Dio La nostra società è orfana della fede
Non crede in nulla, se non a sé. Ne derivano pericolose turbolenze
di Roberto Calasso
Nel corso del Novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata, che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di «religioso». La società secolare, senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa. La quale può assumere le forme politiche ed economiche più divergenti, capitalistiche o socialistiche, democratiche o dittatoriali, protezioniste o liberiste, militari o settarie. Tutte da considerare, in ogni caso, quali mere varianti di un’unica entità: la società in sé. È come se l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di guardare oltre la società alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società. Passo audacissimo, che implica un formidabile alleggerimento psichico. Che però è sempre di breve durata. Vivere «al di là del bene e del male» è qualcosa che incontra una invincibile resistenza. Produrre — o comunque favorire — quell’alleggerimento è una caratteristica decisiva della democrazia. Che non riesce però a mantenerlo.
Rispetto a tutti gli altri regimi, la democrazia non è un pensiero specifico, ma un insieme di procedure, che si pretendono capaci di accogliere in sé qualsiasi pensiero, eccetto quello che si propone di rovesciare la democrazia stessa. Ed è questo il suo punto più vulnerabile, come si dimostrò in Germania nel gennaio 1933. Così la società secolare si è rivelata agile e ingegnosa nel riassorbire al suo interno, sotto mentite spoglie, quelle stesse potenze che aveva appena espulso. La teologia ha finito per trasformarsi in politica, mentre la teologia stessa veniva relegata nelle università.
Ma il processo si applica a tutti i livelli: senza il brivido del numinoso la società secolare si rifiuta di sussistere, anche se il numinoso stesso è parola accettata soltanto in ambito accademico. Non potendo nominare, secondo le regole di un canone, ciò che adora, la società appare condannata a una superstizione nuova e insinuante: la superstizione di se stessa, la più difficile da percepire e da dissolvere. È accaduto allora che i peggiori disastri si siano manifestati quando le società secolari hanno voluto diventare organiche , aspirazione ricorrente di tutte le società che sviluppano il culto di se stesse. Sempre con le migliori intenzioni. Sempre per recuperare una perduta unità e supposta armonia. In questo Marx e Rousseau, ma anche Hitler e Lenin, ma anche il produttivista Henri de Saint-Simon hanno trovato una fugace concordia. Organico è bello, per tutti. Nessuno si azzarda a dire che la deprecata atomizzazione della società può essere anche una forma di autodifesa da mali più gravi. In una società atomizzata ci si può mimetizzare più facilmente. Non si aspetta che la polizia segreta suoni alla porta alle quattro del mattino.
Tutto questo è avvenuto in conseguenza di una lunga, tormentosa evoluzione, che non si è mai interrotta — anche se talvolta si è dissimulata. Se dovessimo stabilire, con ovvio arbitrio e per pure esigenze drammaturgiche, un punto iniziale di tale processo, nessuna immagine sarebbe più acconcia di quella di Sparta, così come Jacob Burckhardt l’ha mostrata, condensando l’essenziale in poche parole con la sua usuale sobrietà: «Sulla terra la potenza può avere un’alta missione; forse solo su di essa, su un territorio da essa protetto, possono sorgere civiltà di ordine superiore. Ma la potenza di Sparta sembra essere comparsa al mondo quasi soltanto per se stessa e per la propria affermazione, e suo pathos costante è stato l’asservimento dei popoli sottomessi e l’estensione del suo dominio come fine a se stesso».
Che queste parole di Burckhardt abbiano una particolare rilevanza e possano essere applicate non solo a Sparta ma alla storia recente e a quello che oggi avviene può essere suffragato da una curiosa circostanza editoriale. Nell’anno 1940 la Deutsche Buch-Gemeinschaft pubblicò in un solo volume la Griechische Kulturgeschichte di Burckhardt premettendole una nota, firmata «La Casa Editrice», che avvertiva: «La zavorra scientifica, le note, i rimandi alle fonti, così come certe ripetizioni e dettagli che interessano soltanto lo studioso, sono stati eliminati. In tal modo l’opera ha acquisito una maggiore leggibilità». Ora, giunto alla pagina 50, il lettore può accorgersi che un intero paragrafo è stato soppresso — ed è appunto quello che si chiude con le parole appena citate. Ma è il caso di leggere anche le righe che lo precedono, ugualmente soppresse: «Si è già accennato sopra quanto cara costasse in genere la fondazione di una città. Ma la fondazione di Sparta in particolare fu pagata a carissimo prezzo dai popoli sottomessi. Si diede loro la scelta fra tutti i generi di schiavitù, annientamento, deportazione». E Burckhardt concludeva che, seppure una tale configurazione sociale avesse una sua grandiosità, non si poteva evitare di considerarla «senza alcuna simpatia». Per un editore tedesco ligio al regime (e tutti allora erano ligi al regime) non era tollerabile che certi fatti venissero nominati con quella inflessibile precisione e «senza alcuna simpatia», come Burckhardt dichiarava.
Ci si può chiedere se la società secolare è una società che crede in qualcosa, oltre che in se stessa. O se ha raggiunto quell’alto grado di saggezza per cui si rinuncia a credere, ma ci si limita a osservare, a studiare, a capire, in una progressione indefinita e imprevedibile. Ora, questo stato, che esige sobrietà e concentrazione, non sembra corrispondere a ciò che avviene ogni giorno nella immane società secolare, estesa ormai su tutti i continenti e continuamente squassata da turbolenze di varia origine. Che ricordano quelle che accadevano ai tempi delle guerre di religione. Le quali però si fondavano appunto su scontri di credenze. Eserciti invisibili di teologie e liturgie si battevano accanto alle armate terrestri. Oggi invece sarebbe impossibile percepire quegli eserciti. I conflitti della società non hanno più come oggetto qualcosa che sta al di fuori e al di sopra, ma la società stessa. Che è innanzitutto una vasta superficie su cui intervenire, un laboratorio dove forze opposte tentano di strapparsi a vicenda la direzione degli esperimenti.
Corriere 27.9.17
Ma riaffiora di continuo la nostalgia del sacro
di Giorgio Montefoschi
L’invisibile è ancora una volta, e non poteva essere altrimenti, al centro de L’innominabile attuale (Adelphi), il nono capitolo di un solo libro che Roberto Calasso ha concepito svariati anni fa, e comincia con La rovina di Kasch . Un secondo tema, naturalmente legato al primo, e imprescindibile, è il tema del sacrificio — anche quello presente in alcuni capitoli di questa opera, davvero unica per l’ampiezza e l’acutezza dello sguardo, la sapienza a volte stupefacente, e l’ardore (titolo di un altro capitolo dedicato alla teologia e alla religione induista) con il quale il suo autore attraversa il tempo e racconta il passato e il presente, il pensiero e le leggende, la letteratura e la pittura, le cose che appaiono e quelle segrete.
«Il frutto del sacrificio», scrive Calasso a pagina 14 de L’innominabile attuale — che prende le mosse dall’analisi del fenomeno più opaco e terribile della inconsistenza in cui viviamo: vale a dire il terrorismo islamico —, «un tempo era invisibile. L’intera macchina rituale era concepita per stabilire un contatto e una circolazione tra il visibile e l’invisibile. Ora, invece, il frutto del sacrificio è diventato visibile, misurabile, fotografabile. Come i missili, l’attentato sacrificale punta verso il cielo, ma ricade sulla terra» (l’esatto contrario, potremmo aggiungere, di quanto accade nel finale del romanzo Papà Goriot , quando il povero vecchio è ormai sbranato dalle figlie, e Honoré de Balzac, con inusitata dolcezza, scrive che le sue lacrime «cadevano in terra per salire subito in cielo»).
Oggi, quel cielo, inteso nel suo significato profondo, non in quello magari consolatorio di uno splendido tramonto, non esiste. Il processo, «di enorme portata», della sua cancellazione dalla nostra visuale, è cominciato e si è «cristallizzato» nel corso del Novecento, e ha investito tutto ciò che «passa sotto il nome di religioso». L’oltre — il termine che racchiude in se stesso l’invisibile e il mistero, la tenebra e la luce, Dio e gli dèi, e ovviamente la Parola — è sparito.
La società contemporanea, che Calasso senza mezzi termini definisce società secolare (e con lei il suo cittadino: l’ Homo secularis ) guarda se stessa. Non oltre. Mai. Ed è soddisfatta, o piuttosto disperata, così. Con la misurazione definitiva e invalicabile dei suoi confini al di là dei quali non esiste nulla, tantomeno il divino; con l’affollarsi e la concentrazione, all’interno di questi confini, di tutte le discipline che servono a stabilire l’utile, ad annientare il dubbio e a uniformare le certezze, a garantire il controllo; con un sapere enciclopedico, sterminato, accessibile premendo un tasto, che non è affatto un sapere, poiché esclude lo sforzo della conoscenza e la dialettica della mente; infine, con le rassicurazioni del progressismo e dell’umanitarismo: quel dovere di essere innanzitutto buoni qui e subito, sacrosanto e encomiabile, senza pensare all’oltre, alla vita futura, che anche la Chiesa stessa talvolta dimentica, cercando di «assimilarsi sempre più a un ente assistenziale» globale, all’interno del quale ecclesiastici e secolaristi possano parlare la medesima lingua.
Questo è quello che, secondo Roberto Calasso, sta accadendo, e che lui denuncia in un libro tagliente, implacabile, con il quale sarà impossibile non fare i conti: «Duemila anni dopo Cristo il secolarismo avvolge il pianeta»; il pensiero si è svuotato del divino; la ritualità dei gesti che evocano il mistero è incompresa dai più, e almeno in Occidente, espulsa; le religioni sono state distrutte; l’unica religione che resiste — come religione e superstizione — è la religione secolare «che risponde della sua fedeltà non più a esseri trascendenti, ma a un ente definito come umanità».
Ma, se in un pomeriggio londinese autunnale e freddo, lasciamo i viale cosparsi di foglie ingiallite e ci infiliamo al British Museum, e, oltrepassate le sale «egizie» e «assire» entriamo nella sala in cui «colonne, rilievi e alcune statue di esseri femminili acefali» in una strana costruzione ricompongono una tomba licia del Quarto secolo avanti Cristo, proveniente da Xantos, nella Turchia meridionale, siamo colti da un improvviso stupore e da una emozione profonda. Cosa evocano quelle linee morbide, quella leggerezza adombrata che allude a un’altra leggerezza, se non il pensiero, mai morto, che si rivolge altrove, e, proprio come quella tomba silenziosa, è custodito ancora oggi dagli ultimi monaci invisibili che vivono nei conventi, dai contemplanti vedici che vagano nelle foreste?
La Stampa 27.9.17
Culto del Superuomo e finanziamenti oscuri
Alle radici del “miracolo azzurro” dell’AfD
Cosa si nasconde dietro il partito che fa tremare la Germania e Bruxelles
di Francesca Sforza
Azzurri i cartelloni elettorali, azzurri i palchi dei comizi, azzurre le bandiere, azzurro «il miracolo», come dicono fra loro i sostenitori di Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra che vuole cambiare il volto politico della Germania. La scelta del colore è avvenuta molto tempo fa, quando ancora il movimento non aveva la forma di un partito - fondato ufficialmente a Berlino nel 2013 - ma si muoveva nel magma delle subculture di destra, tenute sempre a distanza dalla pubblicistica mainstream. Tra i primi a utilizzarlo c’è stato Felix Menzel, classe 1985, nato a Karl Marx Stadt, e fondatore nel 2003 della rivista «Blaue Narzisse», il Narciso Azzurro. Inizialmente si trattava di un foglio scolastico per i giovani di Chemnitz, angusta provincia della Sassonia, ma in breve tempo si è ingrandito fino a diventare una rivista prima cartacea, poi online, e oggi è considerato un punto di riferimento nell’informazione più avanzata dell’AfD.
I temi? Superomismo, Leitkultur - l’eterno dibattito delle destre sulla cultura dominante - inferiorità dell’Islam, ma anche interventi su Nietzsche, sull’animalismo o sulle guerre asimmetriche. Da ieri però la confusa fumisteria di Narciso Azzurro si è concentrata sull’attualità politica, e mostrando il suo volto tattico, ha dato la linea: «Il gesto di Frauke Petry ha un lato positivo: l’AfD ha una dialettica interna come un vero partito. Allo stesso tempo - e qui l’indicazione alla dirigenza si fa più chiara - ci sono errori che vanno evitati: bisogna essere forti sulle cose («in der Sache»), ma moderati nei toni».
Da oggi in poi la grande politica, i grandi giornali, le cancellerie diplomatiche dovranno spezzare l’embargo e parlare con loro, confrontarsi con i loro temi, familiarizzare con nuovi volti e nuovi nomi. Già ieri a Berlino molti hanno ordinato il nuovo numero del mensile «Compact. Il magazine sulla sovranità» (40 mila copie destinate ad aumentare), che dedica la sua copertina ad Alice Weidel, con il titolo «Der Blaue Wunder», il miracolo azzurro, e lo correda con un dossier su Steve Bannon («Il Trump migliore?»). Volker Weiss, autore di un libro uscito nel marzo scorso «La rivolta autoritaria. Nuove destre e tramonto dell’Occidente», è uno dei massimi esperti di estremismo tedesco: «Da anni lavorano a una battaglia culturale, che si incardina sull’orientamento del nazionalismo radicale di Weimar, e ha i suoi antenati in Carl Schmitt, Oswald Spengler e Ernst Jünger, con qualche influenza della Nouvelle Droite francese - spiega -. Oggi hanno spazi e luoghi ben precisi, penso a riviste come “Tumult” o a istituzioni come “l’Istituto per la politica di Stato” di Schnellroda e la “Biblioteca del Conservatorismo” a Berlino».
Tra gli elettori dell’Afd il 7 per cento ha una specializzazione post laurea, l’11 per cento è laureato, mente il 31 per cento è composto da diplomati. La maggioranza degli elettori è compresa tra i 30 e i 44 anni; sbaglia quindi chi immagina le loro file piene di anziani poco acculturati. Tra i dati meno «azzurri» la presenza delle donne, che in Parlamento saranno solo 11 (su 94) e che, fatta eccezione per figure da proscenio come Petry e Weide, sono poco numerose nei ranghi politici e intellettuali dell’Afd.
Ma chi c’è dietro le camice azzurre e la costosa campagna elettorale condotta a tappeto su tutto il territorio della Bundesrepublik? Lobbycontrol, un’associazione berlinese impegnata sul tema della trasparenza, ha recentemente tentato di ricostruire il flusso di denaro che arriva regolarmente nelle casse di due associazioni civiche - la Goal Ag e la «Società a Sostegno della Statalità di Destra e le Libertà dei cittadini» - che si occupano per l’AfD di finanziare informazione online, incontri pubblici, cartellonistica e pubblicistica, annunci su Google e altre piattaforme. «I donatori sono anonimi - si legge nel dettagliato rapporto di Lobbycontrolle - e risultano eluse le regole di trasparenza imposte dalla legge sui partiti». Le due associazioni - che insieme hanno speso qualcosa come 6 milioni di euro per questa campagna - hanno un indirizzo di casella postale e modificano di continuo i contatti nominali di riferimento. Il fondatore formale della Società - sempre secondo le ricerche condotte da Lobbycontrol - è David Bendels, un ex membro della Csu, che ne è anche il presidente, mentre della Goal AG si sa che lavora per il partito popolare svizzero Svp e per altri partiti populisti in Europa: «Resta tuttavia oscuro - si legge nel rapporto - chi siano i donatori e i finanziatori della campagna elettorale dell’Afd». «Sappiamo che hanno preso il 13 per cento - dice ancora Weiss - ma nessuno sa in che modo le nuove destre si siano davvero istituzionalizzate, quali siano i loro reali obiettivi, e in che modo la società ne verrà influenzata».
Corriere 27.9.17
Le acrobazie (politiche) di Alice La pasionaria nazionalista che nel privato si contraddice
Lesbica e «multiculturale», nega nei fatti tutti i principi dell’AfD
di Elena Tebano
«Per lei non ho nessuna comprensione». È bastata una manciata di parole ad Alice Weidel per liquidare l’ex leader del suo partito Frauke Petry. Le due al momento non potrebbero essere più lontane: Petry ieri ha annunciato che uscirà da Alternative für Deutschland, Weidel ne è diventata capogruppo in Parlamento con Alexander Gauland, dopo che già ad aprile (e sempre con lui) era stata scelta come capolista. Un posto che teoricamente sarebbe spettato proprio a Petry.
Deve essere stato un boccone particolarmente amaro per quest’ultima, dato che Weidel, fino alla primavera una figura minore in AfD, era una sua protetta. L’incredibile ascesa di questa giovane lesbica in un partito di uomini conservatori (le donne sono meno del 17% degli iscritti e solo il 13% dei parlamentari) ha a che fare, oltre che con la sua ambizione, con le dinamiche di potere di questa forza politica. E ne rappresenta al tempo stesso tutte le contraddizioni.
Trentotto anni, nata a Gütersloh nella Renania Settentrionale-Vestfalia («sono di campagna — dice Weidel di sé — come se fossi scesa ora dal trattore») il volto ufficiale del partito amato all’Est, che sostiene di mettere «prima la Germania», che non vuole stranieri e musulmani, che si onora di difendere la gente normale dalle élite finanziarie globali ed europee e che infine in Baden-Württemberg, dove la Weidel ha la sua circoscrizione elettorale, dichiara «che i bambini devono crescere con le cure di un padre e di una madre», si distingue per negare con la sua vita privata ogni singolo principio sbandierato dal partito che rappresenta. Weidel non solo ha la residenza ufficiale a Bienne, in Svizzera, ma è anche unita civilmente con Sarah Bossard, una donna nata in Sri Lanka e poi adottata dalla famiglia di un pastore protestante svizzero, dalla quale ha avuto due figli.
Dal punto di vista personale fino a poco fa Weidel se l’era cavata mantenendo il più stretto riserbo sulla sua vita privata e adeguandosi alle posizioni pubbliche di AfD sull’omosessualità. Affermava per esempio di non voler cambiare le leggi sulle coppie omosessuali (sì solo alle unioni civili) e ha preso in giro i parlamentari della sinistra che festeggiavano «con una pioggia di brillantini» il matrimonio gay. Solo di Recente la Bild è riuscita a scovare una sua foto con la Bossard, che è una produttrice di film, e sono emersi più particolari sulla loro famiglia. Weidel prima ha protestato per l’intrusione «da nazisti» nella sua vita privata, poi si è difesa spiegando che il vero nemico degli omosessuali non sono i conservatori, ma gli islamici, e che quindi AfD è in definitiva il partito che più li difende. Anche rispetto alla sua vita professionale non mancano lo acrobazie: la ragazza di campagna che racconta di essere entrata in politica per opporsi all’euro, ha vissuto 5 anni in Cina e ha lavorato per il gruppo Goldman Sachs, banca simbolo della finanza globale.
Eppure è proprio questa lontananza dal militante tipico di AfD che l’ha resa la donna giusta al momento giusto. I massimalisti del partito hanno bisogno di una faccia pulita che rassicuri i moderati. Era il ruolo di Frauke Petry, che però ha commesso l’errore di volersi «moderare» sul serio e ha attaccato frontalmente Björn Höcke (da molti considerato il leader occulto di AfD) per la sua mancata volontà di prendere le distanze dal nazismo. Nel giro di pochissimo Petry è stata rimpiazzata e sostituita, per indorare la pillola, con la sua protetta Alice Weidel. Che ora la rinnega. C’è chi dice che anche le rivelazioni della stampa tedesca sulle vecchie mail in cui Weidel definiva «maiali» e «marionette delle potenze vincitrici» i politici tedeschi (termini che rimandano subito al Terzo Reich) abbiano fatto il suo gioco rendendola più gradita ai falchi di AfD. Se lo resterà a lungo o farà la stessa fine di Petry è tutto da vedere.
Weidel dal canto suo è abbastanza ambiziosa (qualcuno direbbe cinica) da non pre occuparsi delle contraddizioni.
Corriere 27.9.17
Tedeschi non anti-nazisti? difficile per noi condannare
di Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
si dice in continuazione che la storia è maestra di vita, ma si deve ancora una volta constatare che non è vero. Gli Stati dove ha trionfato l’estrema destra
sono Sassonia, Pomerania-Meclemburgo che hanno provato quasi 50 anni di socialismo reale.
Giuseppe Selva
Caro Giuseppe,
I Länder orientali non hanno la consolidata tradizione democratica di quelli occidentali. I partiti fondatori della democrazia tedesca – la Cdu e l’Spd – vi sono meno radicati. A Est ha colto i risultati migliori non solo l’estrema destra, ma anche l’estrema sinistra della Linke, erede della Sed, il partito-Stato della Germania comunista. L’aspetto significativo è che le zone dove la destra è più forte non sono quelle con più immigrati, anzi. Certo, l’immigrazione rinfocola lo scontento e la protesta. Ma all’origine del successo dell’Alternativa per la Germania c’è il disagio sociale. Il Paese cresce; però la crescita finisce sempre nelle stesse mani. E gli esclusi, stanchi di bussare alla porta, picchiano alle pareti.
Il voto tedesco non va sottovalutato, ma neppure drammatizzato. Certo, fa impressione che il Paese più stabile d’Europa esprima un Parlamento così frammentato. Nessun partito ha raggiunto un terzo dei suffragi, neppure quello della Cancelliera, donna forte d’Europa. Ma è pur sempre vero che l’87% dei tedeschi ha votato per partiti democratici. Non credo che l’Afd possa essere definito neonazista. È già grave che non sia anti-nazista. Ma, se è per questo, in Italia abbiamo avuto al governo partiti e leader non anti-fascisti, che talora hanno fatto apologia del fascismo. Fini, prima della conversione – rapidamente seguita dalla sparizione —, definì Mussolini il più grande statista del secolo. Berlusconi disse che il Duce mandava gli oppositori in vacanza (purtroppo non morirono in vacanza Matteotti, Gobetti, Gramsci, Amendola, Carlo e Nello Rosselli, don Minzoni). Bossi minacciò di morte i magistrati, Salvini ha corteggiato CasaPound. Dall’altra parte, sono andati al governo due partiti che si richiamavano esplicitamente al comunismo: un’ideologia che ovunque ha preso il potere l’ha esercitato in modo criminale, con i gulag, la polizia politica e spesso l’eliminazione fisica degli oppositori. Insomma, noi italiani siamo gli ultimi a poter fare gli scandalizzati. Diciamo semmai che neppure i tedeschi sono immuni al segno del nostro tempo: la rivolta contro le élites, l’establishment, i partiti, i sindacati e le forme tradizionali di rappresentanza.
Repubblica 27.9.17
Frau Merkel e le sirene della destra si stringe la morsa di Csu e liberali
Misure più severe contro i migranti. E in Europa una politica a zero concessioni La cancelliera si farà tentare? Ecco la principale incognita dopo il voto tedesco
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. Si è presentato alla conferenza stampa di ieri pomeriggio spettinato e con l’aria di aver dormito poco, Horst Seehofer. Il capo della Csu porta il peso del peggior risultato che la sorella bavarese della Cdu abbia mai incassato dal 1949. I cristianosociali sono crollati di 10 punti, rispetto alle ultime elezioni, al 38%. Per un partito che per decenni ha governato la regione più ricca della Germania con la maggioranza assoluta, una batosta, soprattutto in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Ma il sessantottenne dalla chioma bianca deve essersi ulteriormente rabbuiato leggendo le agenzie che battevano ieri, una dopo l’altra, richieste di dimissioni nei suoi confronti. Qualcuna viene dai fedelissimi del suo acerrimo rivale, Markus Soeder, che vorrebbe anche succedergli alla guida del partito. Davanti ai giornalisti, però Seehofer sembra aver capito il messaggio di fondo del suo elettorato, l’accusa di “signor tentenna” che gli è arrivata da più parti.
Il leader Csu è colpevole, secondo i suoi avversari, di aver chiesto per un anno e mezzo un tetto ai profughi, cedendo, alla fine, alle politiche aperte della cancelliera. Dobbiamo «chiudere il fianco destro», ha ribadito ieri. Per la Csu la crescita esponenziale dell’Afd è il problema principale, nel Land di Monaco, la città simbolo dell’accoglienza del 2015, e dei confini verso i Paesi da cui provengono i flussi più robusti. Dunque, ha aggiunto, «non possiamo far finta di niente. Dobbiamo affrontare la questione dell’immigrazione e della sicurezza».
La Csu è solo uno degli elementi - insieme alla spaventosa avanzata dell’Afd - che rischiano di far virare a destra la cancelliera appena riconfermata, nel suo quarto e ultimo mandato. Un altro punto interrogativo è l’ala destra del suo stesso partito, altrettanto ansiosa come Seehofer di “chiudere il fianco destro” colmato dalla destra populista dell’Afd. Prima dell’elezione in Bassa Sassonia del 15 ottobre, tuttavia, sarà difficile che qualcuno scateni una ribellione contro la cancelliera. Fino alla sfida al governatore socialdemocratico del Land di Volkswagen, il partito serrerà i ranghi. Poi esponenti di spicco e possibili successori di Merkel che cominciano ad alzare la testa e sono consapevoli che nella prossima legislatura dovrà lasciare spazio a uno di loro, potrebbero cominciare a fare pressione per restituire un’identità più conservatrice al partito di Adenauer, profondamente “socialdemocratizzato” dalla cancelliera durante i dodici anni di cancellierato.
Anche sulle politiche europee, la Cdu potrebbe diventare meno aperta al resto d’Europa. Anche se Merkel ha segnalato di credere enormemente nel rilancio franco-tedesco, bisognerà aspettare la formazione del nuovo governo, per capire in che direzione vorrà muoversi. Prima di gennaio, è difficile aspettarsi l’apertura di un cantiere di riforma. Una figura chiave del rilancio sarà anche il prossimo ministro delle Finanze; ieri alcune autorevoli voci della Cdu, tra cui quella del commissario Ue Oettinger, hanno chiesto di nominare Wolfgang Schaeuble presidente del nuovo Bundestag. Un modo per tenere a freno l’aggressività dell’Afd, ma anche di liberare una casella cruciale, nei negoziati per il prossimo esecutivo.
Il terzo elemento che rischia di strattonare a destra il prossimo governo Merkel - soprattutto in vista di quello che sembra il progetto più ambizioso del suo ultimo mandato, quello del rilancio dell’eurozona - è l’eventualità di una coabitazione coi liberali della Fdp. In campagna elettorale il leader, Christian Lindner, ha detto di voler buttare fuori la Grecia dall’euro. E all’indomani del voto di domenica ha sottolineato che l’ipotesi di un budget europeo da cui attingere in caso di recessioni «è impensabile», una «linea rossa ». La riforma dell’Europa parte insomma in salita. Anzitutto per Angela Merkel.
Repubblica 27.9.17
L’ntervista di Tonia Mastrobuoni
Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale ebraico in Germania
“Oggi attaccano i musulmani domani toccherà a noi ebrei”
BERLINO. Josef Schuster, presidente del Zentralrat der Juden, il Consiglio centrale degli ebrei, non usa giri di parole. Il risultato dell’Afd «riempie di preoccupazione la comunità ebraica in Germania », spiega in questa intervista a Repubblica. Adesso attaccano «soprattutto musulmani e profughi », ma «sono sicuro che potrebbero farlo anche con noi». L’antisemitismo, negli ultimi tempi, «sta aumentando». Perciò il medico che dal 2014 presiede l’organizzazione degli ebrei tedeschi chiede che il prossimo governo nomini un Responsabile contro l’antisemitismo e mette in guardia da un partito, che come dimostrano le ambigue dichiarazioni di Alexander Gauland su Israele, che «mina il codice di valori della nostra società». Una preoccupazione condivisa, evidentemente, dal premier israeliano Netanyahu, che ha ieri messo in guardia dall’avanzata dell’Afd.
Presidente Schuster, è preoccupato per l’avanzata Afd?
«Sì, il risultato a due cifre dell’Afd riempie di preoccupazione la comunità ebraica in Germania. Un partito che aizza contro le minoranze e altre culture e che tollera idee di estrema destra, è diventato il terzo partito nel Bundestag. Al momento l’Afd attacca soprattutto musulmani e profughi. Ma sono sicuro che potrebbero farlo anche con noi, non appena lo ritenessero opportuno».
Pensa che l’antisemitismo potrebbe aumentare?
«Da un po’ di tempo i sondaggi e le statistiche criminali ci dicono che l’antisemitismo sta aumentando. Soprattutto l’antisemitismo riferito a Israele. Per noi è molto importante, perciò, che il nuovo governo nomini un Responsabile per la lotta contro l’antisemitismo, perché si batta per respingere con forza e con convinzione l’antisemitismo».
Alcune biografie dei neoparlamentari dell’Afd non promettono nulla di buono, ci sono estremisti di destra, nostalgici, negazionisti. Come può accadere in un Paese come la Germania che ha svolto un approfondito esame del proprio
passato nazista?
«Qui dobbiamo distinguere sicuramente tra Est e Ovest. Nella Ddr il nazionalsocialismo è stato rielaborato in modo meno intenso e soprattutto meno autocritico rispetto alla Germania federale. E anche oggi il compito deve continuare ad essere quello di proseguire con lo studio del nazionalsocialismo, soprattutto con i giovani, per i quali quegli accadimenti sono molto lontani nel tempo. E per i cittadini di origine straniera, che non hanno un legame famigliare con quel periodo. La conoscenza del nazionalsocialismo e della Shoah è spaventosamente scarsa».
Come si spiega un successo così enorme dell’Afd?
«Evidentemente c’è una importante fetta di elettorato dell’Afd che nutre una grande insoddisfazione e delusione, rispetto alla politica attuale. Molti cittadini si sentono anche angosciati per l’enorme numero di profughi arrivato nel 2015. Le parole d’ordine populiste dell’Afd, purtroppo, hanno prodotto i loro frutti. Il partito illude le persone che ci siano soluzioni semplici ai loro problemi. Ma per molti problemi seri, l’Afd non ha una soluzione».
Il leader Afd, Alexander Gauland, ha detto che il diritto all’esistenza di Israele non può essere un ragion di Stato, per la Germania. ?
«Se non ho capito male il signor Gauland, quando ha parlato alla prima emittente pubblica Ard, ha chiarito che non voleva mettere in discussione questo principio, ma voleva solamente capire che cosa significhi esattamente. Tuttavia l’obiettivo di dichiarazioni di questo tipo, per me, è molto chiaro. L’Afd tenta in molti punti di mettere in discussione e di screditare il codice di valori che rappresenta il fondamento della nostra società e cerca anche di sabotare i nostri principi di fondo. È qualcosa che non dobbiamo lasciar accadere».
L’Afd ha mai cercato di mettersi in contatto con voi? C’è il tentativo di un dialogo?
«No, finora no. Ma non vedo le basi per un colloquio». ( t. m.)
Repubblica 27.9.17
Adam Michnik
“Tutta la sinistra è in crisi Si dia un’identità”
intervista di Andrea Tarquini
«LA CRISI della socialdemocrazia è generale, in parallelo alla crescita delle forze populiste. La situazione è pericolosa per l’Europa e il mondo se le sinistre democratiche non sapranno reinventarsi ». Ecco l’analisi di Adam Michnik, coscienza critica del centroest, eroe e leader della rivoluzione democratica polacca del 1989.
Perché la Spd va cosí male, dopo il crollo del Ps in Francia e i problemi dei socialdemocratici in Scandinavia? La socialdemocrazia europea è alla crisi terminale?
«Parliamo di situazioni diverse da un paese all’altro, sebbene le crisi dei vari partiti socialdemocratici abbiano importanti punti di contatto. Il problema di fondo della socialdemocrazia oggi in generale è il problema dell´esigenza assoluta di cercarsi una nuova identità per tornare a saper capire e parlare con le società democratiche dove agisce».
Perché?
«Perché l’identità tradizionale dei partiti socialdemocratici imperniata sulla difesa dei diritti della classe operaia e dei ceti popolari è un’identità svanita, un’arma spuntata. Non a caso: ciò è avvenuto, magari senza che i partiti socialdemocratici e i loro leader se ne accorgessero a tempo, man mano che partiti e leader democratici ed europeisti di ogni colore costruivano un’Europa fatta dall’Unione o comunitá di Stati nazionali che nelle strutture e nei valori erano e sono al fondo ispirati a valori costitutivi socialdemocratici. O quantomeno nell’insieme l’Ue ha adattato istituzionalmente modelli valori o idee socialdemocratici anche dove i socialdemocratici non governano o non governano più».
Quali sono gli errori della Spd o del Ps francese o dei socialdemocratici europei? Perché perdono piú loro rispetto a conservatori e moderati a fronte della sfida dei nuovi partiti populisti?
«Forse proprio perché i socialdemocratici accettano in modo responsabile le realtà mutanti delle società di oggi. I populisti affrontano ogni tema rifiutando responsabilità e riescono ad avere successo con slogan vuoti, e catturano paure nuove, come quella dei migranti o del declino sociale: paure che sembrano investire soprattutto parte degli elettorati storici delle sinistre democratiche».
Quanto è pericolosa questa crisi per il futuro della democrazia in Europa?
«Il populismo ha creato il pericolo numero uno dell’Europa di oggi. Non certo solo in Germania. Ovunque, da noi nel centroest come altrove nell’Ovest dell’Unione. Le forze responsabili però sono ancora abbastanza forti e dominanti, che siano al governo come i moderati e conservatori o che scelgano di andare all’opposizione come hanno fatto la Spd, il Ps francese o altri socialdemocratici: queste ultime sono scelte coraggiose, difficili, responsabili, più che non dimettersi».
Reinventarsi all’opposizione per i socialdemocratici in crisi è indispensabile?
«In certi casi sì. Prendiamo l’esempio tedesco. Se un partito socialdemocratico in caduta di consensi va all’opposizione anzichè cercare ancora intese con conservatori, moderati, centristi, questo significa a medio e lungo termine che per gli elettori europei l’alternativa a un governo conservatore-moderato non avrà solo il volto dei nuovi populisti. Il caso tedesco conferma il trend che osserviamo altrove. Una coalizione di piú partiti eterogenei( Cdu-Csu, liberali, verdi) sarà difficile da tenere insieme. Ma confido nel senso di responsabilità delle élite democratiche non socialiste tedesche e europee, nella determinazione a difendere lo Stato di diritto e i diritti dell’uomo».
Perché i conservatori e liberali vanno tanto meglio della socialdemocrazia?
«Affrontano meno dei socialdemocratici il problema di ricerca della nuova identità».
Ma la socialdemocrazia che si ripensa ha ancora un futuro o deve reinventare del tutto l’idea di sinistra?
«Distinguiamo tra realtà differenti. Nel caso tedesco sono abbastanza ottimista: a Berlino pur sempre Spd e Cdu condividono valori democratici ed europeisti. I valori negati dai nuovi populisti, ovunque da voi nel cosiddetto Ovest come qui da noi che tornammo alla libertà solo nell’89».
Con tanti populisti in ascesa e socialdemocratici in crisi è ancora possibile costruire insieme l’Europa tra le società e gli Stati che la compongono?
«È un problema anche per la mia patria, la Polonia. Il linguaggio di sinistra è già in transizione, ha già cominciato a cambiare e dovremo osservare ovunque quanto le sinistre saranno capaci di rinnovarsi. I risultati finali per il futuro dell´Europa dipendono da questa questione aperta. Per un futuro europeo senza vuoti magari pericolosi occorre, anche se non solo, o un recupero dell’energia e dei valori socialdemocratici o una definizione completamente nuova della sinistra».
Repubblica 27.9.17
Otto Schily
“Niente processi ma il futuro sarà senza Schulz”
intervista di Roberto Brunelli
BERLINO. Otto Schily parla con una voce limpida e forte. Niente male per i suoi 85 anni. Avvocato in prima linea negli anni di piombo, co-fondatore dei Verdi, poi esponente di primissimo piano della Spd, ministro degli Interni dal 1998 al 2005: la storia politica della Bundesrepublik l’ha attraversata tutta. Spesso la sua è stata una voce scomoda. Lo è anche oggi.
Schily, la Spd è stata travolta dall’onda nera, a quanto pare seguendo il destino degli altri partiti della sinistra europea.
«Sono molto preoccupato. Per quel che riguarda la Spd, quella di passare all’opposizione è la decisione giusta. Dinnanzi a una sconfitta così disastrosa non si può pensare di tornare al governo. Non è pensabile che l’opposizione in Germania sia guidata da una formazione di estrema destra. Al tempo stesso, penso che la Spd debba ricostruirsi, sia dal punto di vista programmatico che da quello del personale. Deve rinascere. Quando la leadership di un partito perde di seguito tre elezioni regionali e una nazionale, ci deve essere un rinnovamento ».
Vuol dire che Schulz si dovrebbe dimettere?
«Nessuno vuole un processo a Schulz. Ma il partito deve ringiovanire. Guardate ai liberali di Lindner. Un leader giovane, un personaggio un po’ alla Macron, per intendersi, uno che ha tutt’altro approccio alla politica. I socialdemocratici devono ricostruire un profilo più forte, chiaro e riconoscibile. Devono avere una strategia più incisiva su migrazione, svolta energetica, sicurezza interna. Devono chiedersi come sia stato possibile perdere i lavoratori: era un partito dei lavoratori dell’industria, con un ruolo preciso tra orientamento di mercato e responsabilità sociale. È in questa tradizione che vincevano le elezioni, è lì che può tornare a vincere. Ma ci vogliono anni, non bastano mesi».
Schulz subito dopo il voto ha attaccato Merkel come non aveva mai fatto durante la campagna elettorale.
«Non è stata una bella scena.
Perché è apparsa evidente la contraddizione: dai temi europei alla crisi dei migranti, la Spd ha condiviso pienamente la politica della cancelliera. E ce n’erano di argomenti per contrastarla: sui profughi Merkel ha deciso a livello nazionale, come una regina, e non a livello europeo come avrebbe dovuto. Perché sono fenomeni che riguardano tutto il continente, mica solo noi. Paradossi evidenti: lei era in grande difficoltà ma è stata salvata dalla chiusura della rotta balcanica. Se fossero arrivate in Germania due milioni di persone sarebbe caduta. Io penso che siamo noi a dover decidere chi viene in Europa, non qualche banda di scafisti. È necessario un ampio dibattito europeo, ci vuole un piano concertato. Un po’ come successe quand’ero ministro con i profughi balcanici: ogni Land disse quel che poteva fare, quanti ne poteva accogliere, e così fu possibile assorbire moltissime persone».
Lei dice: ricostruire l’identità della sinistra. Mica facile.
«Tanto per cominciare, non deve svicolare di fronte alle paure su cui si fonda il consenso delle nuove destre. Le prime analisi mostrano che l’Afd è stata votata soprattutto per la delusione nei confronti delle altre forze politiche. È che certi temi non sono stati affrontati a viso aperto. È naturale che nascano delle paure se alcune zone della tua città cominciano ad apparirti estranee. Certo, va detto che l’ultra-destra è cresciuta anche dove c’è meno migrazione, in particolare all’Est: ovvio che le paure le hanno aizzate in ogni modo. Allo stesso tempo, ci sono alcuni ceti più in difficoltà, come le madri sole, magari con un magro stipendio e oberate dal fisco. Sono realtà molto lontane dal paese delle meraviglie merkeliano, che la Spd ha affrontato in modo troppo astratto».
Non le fa impressione che si sentiranno anche al Bundestag slogan degni del Terzo Reich?
«Certo. Persone come Alexander Gauland e i suoi rappresentano un pericolo e un grave danno per la buona reputazione della Germania. Ma non è escluso che ad un certo punto l’Afd esploda, Frauke Petry ha già sbattuto la porta. Questo dipende anche da noi, dalla nostra reazione democratica. I temi sono strettamente connessi. La socialdemocrazia deve porsi come un’alternativa vera, invece finora le differenze tra i partiti tradizionali hanno finito per annullarsi a vicenda. Così la gente perde l’orientamento. Una situazione che necessita di uno sforzo comune in tutta Europa. Ed è anche un fenomeno che riguarda la sostanza culturale e spirituale delle nostre società, il cui orizzonte è sempre più desolato».
Corriere 27.9.17
«Non possiamo allearci con il Pd, sarebbe disastroso»
Intervista Massimo D’Alema al Corriere
«Mai alleati con il Pd. Pisapia si candidi e sia più coraggioso»
di Aldo Cazzullo
«Non possiamo allearci con il Pd, sarebbe disastroso – dice Massimo D’Alema al Corriere –. Pisapia faccia il leader, sia più coraggioso. Si voti con il proporzionale; se non ci saranno maggioranze, si faccia un governo del presidente, ultima spiaggia del sistema democratico. Renzi? Con le persone in difficoltà sono generoso. Come fui con Craxi».
D’Alema, ma è Pisapia che deve candidare lei, o è lei che deve candidare Pisapia?
«Nessuno dei due candida l’altro; devono essere i cittadini a farlo. Non ci si candida; si viene candidati. Sono favorevole a coinvolgere i cittadini attraverso le primarie. Il 19 novembre saranno eletti i delegati per l’assemblea nazionale che sceglierà programma, nome e simbolo con cui ci presenteremo alle elezioni. Lì si decideranno le regole con cui decidere le candidature».
Pisapia dovrebbe candidarsi al Parlamento?
«Secondo me, sì. Sarebbe un leader più forte se si mettesse in gioco personalmente».
E lei tornerà alla Camera?
«Sono uno dei pochi che dal Parlamento è uscito di propria iniziativa. Non potrei, però, non prendere in considerazione una richiesta, se venisse dai cittadini, di dare una mano alla campagna elettorale attraverso la mia candidatura. Del resto, sono stato dismesso da presidente della fondazione dei socialisti europei; è comprensibile che il mio ritorno all’impegno politico comportasse questo prezzo».
Colpa di Renzi?
«Non lo so e non mi interessa. Sono arrivato a una certa serenità».
Insomma. Quest’estate ha detto: «Finché vivrò, Renzi non potrà mai stare tranquillo».
«Ho detto sereno. Citavo la battuta che propinò al povero Letta. Tuttavia, non lo ripeterei perché Renzi è in difficoltà e a me piace prendermela con i potenti, non con chi è in difficoltà. Feci così anche con Craxi. Dalla parte di Berlinguer sono stato ferocemente anticraxiano; ma quando è cominciata la disgrazia di Craxi sono stato generoso con lui».
Quand’era premier tentò di farlo rientrare in Italia?
«Sì, per curarsi. Negoziai con la procura di Milano perché non lo arrestassero. Non fu possibile».
Rivede qualcosa di Craxi in Renzi?
«No. A parte la palese differenza di statura politica, Craxi nonostante la forte carica anticomunista è sempre stato un uomo di sinistra. Fu vicino alla causa dei palestinesi, aiutò gli esuli cileni. Renzi alla sinistra è totalmente estraneo. Non c’entra proprio nulla. Ritiene che il Pd debba liberarsi di questo retaggio».
La sinistra è in crisi ovunque. L’Spd è al minimo storico, e i suoi voti vanno a destra.
«In Germania si è manifestata anche una certa stanchezza per la grande coalizione. Ma in molti Paesi europei si afferma una sinistra più radicale: Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, Corbyn in Inghilterra. Tutto questo dovrebbe far riflettere i socialisti, che non sono stati in grado di presentarsi come una forza alternativa alla visione liberista dominante».
E in Italia?
«Il Pd ha governato in modo non dissimile. Per questo c’è bisogno di una nuova forza di sinistra. I grandi cambiamenti nascono sempre da un ritorno alle origini, alle ragioni fondative: ridurre le disuguaglianze, difendere la dignità del lavoro».
Ma lei sembra rinnegare la sua storia politica. In Sicilia appoggia Fava, una candidatura di testimonianza. Pare diventato movimentista. Non crede più ai partiti?
«Non sono diventato movimentista. Vorrei che nascesse un nuovo, moderno partito a sinistra. Non c’è dubbio che la forma del partito tradizionale sia in crisi e si debbano trovare nuovi modi di partecipazione. Claudio Fava non ha una storia gruppettara. Era il segretario regionale dei Ds con Veltroni. L’hanno candidato i siciliani, e prenderà più voti delle sue liste. Questo è uno strano Paese, in cui basta pronunciare la parola “operai” per essere giudicati estremisti».
Pisapia viene da Rifondazione comunista. È un buon leader?
«Indipendentemente dalla sua storia, Pisapia porta uno stile unitario, una cultura di governo, una naturale ritrosia rispetto alle asprezze dello scontro politico, che in un panorama dominato da leadership chiassose ne fa una figura positiva. Dovrebbe essere un leader più coraggioso».
Vale a dire?
«Esporsi di più. Prendere in mano il processo unitario. Spingersi in avanti. Non possiamo permetterci di avere alla sinistra del Pd due liste in conflitto tra loro sull’orlo della soglia di sbarramento. Sarebbe un suicidio».
Non è stato un suicidio per la sinistra anche la vostra scissione?
«La tesi per cui le difficoltà del Pd nascerebbero dal nostro massimalismo non ha fondamento. La sconfitta del Pd è cominciata molto prima che noi nascessimo. Non c’era stata nessuna scissione quando il gruppo dirigente ha consegnato Roma e Torino ai 5 Stelle. Io ho fatto la campagna elettorale per il candidato del Pd a Genova molto più del segretario. La gente mi diceva: “È un bravo compagno, ma se lo voto do una mano a Renzi”».
Lei al Corriere parlò di «rottura sentimentale».
«Immagine profetica. L’idea che il Pd vincerebbe se non fosse per un gruppetto bilioso e rancoroso, come si fa scrivere alla stampa di regime, è falsa. Dicono che siamo nati per far perdere Renzi. Ma no, non c’è bisogno di far nulla: basta lasciarlo lavorare e Renzi ci riesce da sé, come dimostra il referendum. All’opposto, possiamo essere utili se riusciamo a intercettare un elettorato che non vota più e non voterebbe mai Pd. Non è vero che indeboliamo l’argine contro il populismo e la destra. Lo rafforziamo».
Ma con il Pd non dovrete trovare qualche forma di accordo?
«Non mi pare ci siano le condizioni per andare alle elezioni insieme. C’è distanza sul programma e nel giudizio su quel che è accaduto in questi anni. Nessuno capirebbe un accordo in queste condizioni e gli elettori non ci seguirebbero. Presentarsi uniti nei collegi potrebbe essere un disastro».
Ma la legge elettorale in discussione alla Camera i collegi li prevede.
«Quella legge è un’indecenza assoluta: forse il punto più basso della legislatura. Spero venga spazzata via. Ha aspetti aberranti, a mio giudizio palesemente incostituzionali, con il rischio che la Consulta bocci la terza legge elettorale di fila. Ed è incredibile che a proporre una legge fondata sulle coalizioni sia il Pd: un partito che non è in grado di formare coalizioni. Una cosa che non si può giudicare senza l’ausilio dell’aureo libretto del Cipolla».
«Le leggi fondamentali della stupidità»?
«Dove si legge che la forma più alta di stupidità è danneggiare gli altri danneggiando anche se stessi. La legge è concepita per far danno a noi e forse ai 5 Stelle; ma il principale danneggiato sarebbe il Pd. Favorirebbe solo un centrodestra a trazione leghista».
Non potete dire solo no. Quale sistema elettorale vorreste?
«Noi abbiamo sempre proposto la legge Mattarella. Ma, se non è possibile, è inutile fare pasticci, tanto vale votare con una legge proporzionale — sbarramento, collegi piccoli, voto di preferenza — che restituisca il quadro reale del Paese. Non sono un fan delle preferenze, però la nomina dei parlamentari da parte dei partiti è intollerabile».
Ma non ci sarebbe alcuna maggioranza. Quale governo si potrebbe fare?
«Neanche il Rosatellum garantisce maggioranze. Comunque, prima di emettere questa sentenza bisognerà aspettare cosa voteranno gli italiani. Se non ci fosse alcuna maggioranza, le forze politiche che vorranno salvare la democrazia dovranno sostenere un governo che sia al di sopra delle parti, e garantisca una seria riforma del sistema. Condivisa, non imposta da qualcuno un modo improvvisato».
Un governo tecnico?
«Diceva Giovanni Sartori che quando la democrazia parlamentare non produce una maggioranza entra in funzione il motore di riserva: il governo del presidente, che possa avere largo consenso al di sopra degli schieramenti. L’ultima spiaggia per il sistema democratico».
Il vostro non rischia di essere il partito dei reduci?
«No. Abbiamo un sacco di ragazzi. Un bel pezzo dei giovani democratici sono passati con noi».
Nomi?
«Roberto Speranza che dirige Mdp è più giovane di Renzi. Abbiamo gruppi dirigenti giovani in tutto il Paese. Non mi sembra che il Pd abbia questo consenso nella nuova generazione».
Non è stato ingeneroso dire che il suo ex braccio destro Minniti in Libia ha fatto le stesse cose di Berlusconi?
«Minniti è uomo capace e competente. Conosce molto bene gli apparati dello Stato, e ne è stimato: il che è importante, perché questi apparati sono bravi a raggirare la politica, facendo credere al ministro di guidare mentre alla guida sono loro. Ma, sotto la spinta di quella che esagerando ha definito una minaccia alla democrazia, Minniti ha preso misure che hanno lasciato i migranti nelle mani delle milizie libiche, in campi di detenzione dove avviene ogni genere di violazione dei diritti umani: stupri, torture, assassini. E’ stato un voltafaccia dell’Italia. Un respingimento collettivo anche di persone che hanno diritto d’asilo. Minniti è stato efficace; ma mi chiedo quale sia il prezzo della sua efficacia. Sarò inguaribilmente romantico. Sarò uno di sinistra. Minniti dice di essere tormentato. Ma lui è ministro: dovrebbe agire per mettere riparo alle conseguenze delle sue decisioni».
Se la legge elettorale andrà avanti, farete cadere Gentiloni?
«Gentiloni è alla fine. Noi siamo persone responsabili, non vogliamo fare la campagna elettorale con la trojka. Mi sembra molto meno responsabile chi pretende da noi i voti per governare e poi fa la legge elettorale con Salvini».
Corriere 27.9.17
L’altra sinistra condizionata dai rapporti con il governo
di Massimo Franco
La marcia di Giuliano Pisapia verso la formazione di una sinistra alternativa al Pd continua a procedere tra una nebbia di diffidenza e incertezza. Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo e ex presidente della Commissione europea, doveva esserne una sorta di padre nobile, o regista. In realtà, in due mesi si è allontanato molto dal partito di Matteo Renzi; ma sembra anche defilato rispetto al progetto dell’ex sindaco di Milano: almeno pubblicamente. «Io non lo sento lontano», sostiene. «Credo che anche Prodi pensi a un nuovo centrosinistra».
Il problema è capire se è quello che appare e scompare intorno alla leadership di Pisapia. L’impressione è che si renda conto sempre di più di avere davanti una sfida difficile e dall’esito non scontato. E questo promette di indebolire tutto il suo progetto di ricucitura a sinistra. Pisapia si ritrova a fare i conti con il Movimento dei democratici e progressisti di Pier Luigi Bersani e di Massimo D’Alema; con la loro disponibilità e insieme con le loro diffidenze.
Bersani mostra di essere pronto a riconoscere al capo di Campo progressista il ruolo di «federatore». L’ex segretario ha ripetuto ieri che «è l’uomo giusto perché può interpretare una realtà che non si aspetta l’uomo solo al comando». Lo vede come una persona in grado di rianimare un’area politica lacerata; e di proporsi come alternativa a Matteo Renzi. Il problema è che all’interno di Mdp Bersani incarna un’ala moderata ma in qualche modo minoritaria. Dopo la scissione dal Pd, la sua idea è di allargare il più possibile il numero degli alleati, senza creare una ridotta dei frammenti delle sinistre.
Ma a pesare di più è la componente dalemiana, radicata a livello locale e scettica nei confronti di alcuni gesti di Pisapia. La disponibilità a riconoscergli il primato c’è e non c’è. E la partecipazione dell’ex sindaco di Milano a molte feste dell’Unità, e la cordialità ricambiata con alcuni dirigenti Dem, è stata vista come una concessione eccessiva alla cerchia renziana: sebbene la sua intenzione fosse di parlare ai militanti, non alla nomenklatura; e sebbene abbia ribadito di non volere un centrosinistra con Renzi perché «serve discontinuità».
«Non lo sento da sei mesi e gli ho detto che la mia visione è diversa dalla sua», perché sta facendo «cose di centrodestra», ha dichiarato ieri in tv. Rimane da capire se basterà.
Ristagna un alone di non detto, destinato a ritardare il ricompattamento di tutta l’area a sinistra del Pd. Non solo. Mdp pone come condizione l’inclusione nell’alleanza di Sinistra italiana. Ma Pisapia teme che la scelta nasconda un atteggiamento di rottura col governo di Paolo Gentiloni, che lui ritiene opportuno incalzare ma anche sostenere. Siamo ancora nella fase del leader virtuale.
Corriere 27.9.17
«Cambio partito» Il record di 526
di Dino Martirano
ROMA Negli anni della Prima Repubblica — con i partiti più che granitici e con le preferenze conquistate sul territorio — i «cambi di casacca» dei parlamentari erano una rarità. Clamoroso, nel 1975, fu il voltafaccia del super ministro dc Fiorentino Sullo che, sotto il pressing interessato del conterraneo irpino Ciriaco De Mitra, se ne andò con i socialdemocratici per poi tornare indietro nel 1983. Oggi invece — con i partiti deboli e con gli eletti che non riescono a scrollarsi di dosso l’etichetta di «nominati» — serve il pallottoliere, se non una calcolatrice, per tenere il conto dei deputati e dei senatori che cambiano squadra.
E questa XVII legislatura ha già stracciato tutti i record: un puntiglioso calcolo fatto da Openpolis fissa a quota 526 i «cambi di casacca» (297 alla Camera, 229 al Senato) registrati dal febbraio del 2013 che poi fanno 10 cambi di gruppo al mese. Il doppio della scorsa legislatura.
I parlamentari interessati dalla quella che con termine agropastorale viene definita la «transumanza» sono in totale 337 (il 35,4% degli eletti). Molti di loro hanno abbandonato il partito di origine sull’onda delle scissioni ma ora c’è anche la contro-onda di ritorno. L’ultimo in ordine di tempo si chiama Gianfranco Sammarco che riappare in Forza Italia dopo una parentesi lunga 4 anni trascorsa nel partito di Angelino Alfano. Hanno seguito lo stesso percorso alla Camera Nunzia Di Girolamo e Alberto Giorgetti, i senatori Renato Schifani, Antonio D’Alì, Antonio Azzollini, Massimo Cassano. E nel flusso di rientri nel partito di Berlusconi, al Senato ci sono anche Mario Mauro, Enrico Piccinelli e Domenico Auricchio. E c’è da domandarsi cosa faranno in questo ultimo scorcio di legislatura i transfughi di Forza Italia che hanno seguito Denis Verdini nell’avventura di Ala.
Il Pd, con la scissione dei bersaniani di Articolo 1 di febbraio scorso, ha perso 22 deputati in un solo colpo e di recente ha pure ceduto Francantonio Genovese (con tutti i suoi guai giudiziari) direttamente a Forza Italia. Ma è pure vero che il partito di Renzi ha attirato nel suo gruppo alla Camera parlamentari da destra e da sinistra con un saldo negativo di appena 8 unità. In casa dem sono finiti molti ex Sel guidati da Gennaro Migliore, gli orfani di Scelta civica di Andrea Romano e pure una pattuglia di grillini (Tommaso Currò, Sebastiano Barbanti e Gessica Rostellato).
Il Movimento Cinque Stelle — che vorrebbe introdurre un vincolo di mandato per i parlamentari, vietato dall’articolo 67 della Costituzione — è l’unico partito che ha perso 21 deputati (tutti confluiti inizialmente nel Misto) senza acquisirne nemmeno uno.
Le porte girevoli attraverso le quali sono passati molti dei transfughi sono quelle del Gruppo Misto. Alla Camera, il presidente Pino Pisicchio, che ci tiene a ricordare di aver rinunciato all’indennità per la carica, ha provato a proporre correttivi in sede di Comitato per la riforma del regolamento: minimo 30 deputati (oggi ne servono 20) per costituire un gruppo e aumento da 3 a 5 per formare una componente nel Misto. Ma il vero nodo, ancora non risolto, sono i 49 mila euro all’anno che il deputato in fuga porta in dote al nuovo gruppo.
Corriere 27.9.17
La mafia al nord e la società civile che arretra
di Luigi Ferrarella
Adesso è facile ironizzare sul sindaco che evocava le forbici per gli stupratori ma non tagliava i ponti col costruttore amico degli ‘ndranghetisti, e arringava a non dare soldi ai mendicanti ma dava soldi (sotto forma di via libera a un supermercato) a chi gli promettesse voti. Se l’altro ieri in Calabria il «soldato» di un clan accende l’auto e salta in aria senza che l’autobomba arrivi nei Tg, e invece ieri destano stupore gli arresti al Comune di Seregno, è per malriposta meraviglia: ohibò, la ricca Brianza come la depressa Locride? Meraviglia ridicola quanto l’opposto luogo comune di una onnipotente ‘ndrangheta, che invece — alla lente di 8 anni non di indagini ma ormai di condanne — appare più prosaicamente una piattaforma che offre servizi per i quali c’è forte domanda da imprenditoria e politica del Nord. È come se un’amnesia collettiva continuasse a rimuovere la mafiosità dell’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia, il voto di scambio dell’ex assessore regionale alla Casa, la fine dell’asfaltatore di mezza Lombardia, il testacoda di due giudici calabresi che a parole sequestravano beni ai clan e in realtà li tutelavano, lo spedizioniere olandese Tnt ignaro che a consegnare i propri pacchi fossero i furgoncini dei clan, il monopolio dei «baracchini» dei panini davanti alle università, il quasi sbarco nel catering dello stadio, il subentro nelle farmacie, le coop dei boss che montavano gli stand della Fiera e allestivano i supermercati Lidl e fornivano i vigilantes al Tribunale. Nel Nord della borghesia (ex) illuminata, non è la ‘ndrangheta a «infiltrarsi» e avanzare. È la società civile ad arretrare.
Il Fatto 27.9.17
Rai: “Un altro anno per il piano news”. Bye-bye Gabanelli
Ai margini - L’azienda chiede al governo 12 mesi di tempo per creare la testata digitale da affidare alla giornalista, ma il Cda scade prima
Rai: “Un altro anno per il piano news”. Bye-bye Gabanelli
di Lorenzo Vendemiale
Milena Gabanelli può mettersi l’anima in pace: il nuovo piano news della Rai, quello che dovrebbe creare la testata digitale unica da affidare alla giornalista e a cui l’ex direttrice di Report ha legato il suo futuro, è ancora in alto mare. Di più: probabilmente non vedrà mai la luce.
È la stessa tv di Stato ad ammetterlo: a quanto risulta al Fatto Quotidiano, i vertici hanno chiesto al governo addirittura 12 mesi per stilare il nuovo progetto dal giorno in cui entrerà in vigore il contratto di servizio (non prima di novembre) tra azienda e Stato. Ma con l’attuale consiglio d’amministrazione in scadenza ad agosto 2018 e le elezioni Politiche alle porte, una simile richiesta equivale a confessare di non avere alcuna intenzione di varare il piano. E quindi di voler tagliar fuori la Gabanelli. Neanche i consiglieri Rai scommettono più sulla sua approvazione.
Da circa 20 giorni, ormai, Gabanelli si è autosospesa con l’aspettativa non retribuita, dopo che le era stata offerta la condirezione di RaiNews e la gestione del suo sito web che conta appena 100 mila utenti unici al giorno, e nessuna autonomia nella scelta della squadra. Un ruolo ben diverso dalla promessa di dirigere il nuovo portale dell’informazione digitale Rai, la cui nascita è frenata dalla necessità di accorpamento delle testate esistenti. Il Fatto ha anche lanciato una petizione a sostegno della giornalista, che in pochi giorni ha raggiunto 184 mila firme. Inutile.
Dopo che il vecchio piano Gubitosi è stato definitivamente accantonato, e le sonore bocciature rimediate da Carlo Verdelli e Antonio Campo Dall’Orto, adesso tocca al nuovo direttore generale Mario Orfeo elaborare una proposta credibile per l’informazione Rai, che da oltre tre anni attende di essere riformata. Anche la concessione approvata ad aprile prevede che la tv di Stato debba essere riorganizzata attraverso un piano news, ma al momento è tutto fermo: il dg non ha neppure iniziato a scriverlo.
Prima, infatti, c’è da giocare un’altra partita, quella del contratto di servizio tra viale Mazzini e governo, di cui il piano dovrà recepire le indicazioni. La Rai è in agitazione per la proposta di riforma del settore radiotv avanzata dal ministro Dario Franceschini, che con il raddoppiamento degli investimenti sui prodotti italiani costringerebbe l’azienda a rivedere i propri conti. Così il discorso per la convenzione va per le lunghe e, di conseguenza, pure quello per il piano informazione.
Se n’è discusso in maniera animata anche nell’ultimo consiglio d’amministrazione, per concludere che al momento è impossibile fare alcun tipo di previsione. “Va chiuso entro Natale, perché dopo le elezioni questo Cda sarà come yogurt scaduto, non avrà più la forza politica per approvare alcunché”, avverte Carlo Freccero, consigliere Rai in quota Movimento 5 Stelle. Ma i tempi tecnici sembrano troppo stretti: anche dalla commissione di Vigilanza, infatti, fanno notare che il contratto di servizio non dovrebbe arrivare prima di fine novembre.
Viene il sospetto che il documento tanto atteso sia destinato a rimanere tale. Anche perché i vertici Rai hanno gettato la maschera, chiedendo nelle trattative col governo sul contratto di servizio un arco di tempo di 12 mesi per approvare il piano news: peccato che l’attuale Cda sia in scadenza ad agosto 2018. In questo modo il progetto resterebbe chiuso nel cassetto, e infatti l’esecutivo vorrebbe più che dimezzare il periodo a disposizione.
Esclusa la possibilità di “stralciare” la posizione di Milena Gabanelli, creando la nuova testata digitale da affidarle a prescindere dal piano complessivo. “Non se ne parla”, tagliano corto da Viale Mazzini: prima di creare altre testate bisognerà accorpare quelle esistenti e nessuno vuole rinunciare al proprio orticello. “Io sono fiducioso, penso che il piano si farà” spiega il renziano Guelfo Guelfi. Con una postilla: “Certo, se così non fosse non sarebbe colpa di nessuno…”. “La fine della legislatura – conclude Arturo Diaconale, consigliere Rai scelto da Forza Italia – non è il periodo migliore per le rivoluzioni: non mi sento di escludere che tra un rinvio e l’altro alla fine il piano salti”. E la Gabanelli e la sua testata digitale? “Io il mio consiglio a Milena l’ho dato: cominci a lavorare con quello che ha, sul resto meglio non contarci troppo”.
Il Fatto 27.9.17
Il Pd è in rosso, ma il treno di Renzi costa 400mila euro
Il partito ha un buco da 9,5 milioni e 184 dipendenti in cassa integrazione
di Daniele Martini e Wanda Marra
Martedì prossimo Matteo Renzi sale sul treno dei desideri, quello che girerà per tutta l’Italia, con l’obiettivo di portare al Pd e al suo leader il consenso perduto. Il 4 ottobre inizia, di fatto, la campagna elettorale e cominciano le spese. L’obiettivo è quello di attraversare “tutte” le province italiane, anche se in realtà al Nazareno ragionano su una sessantina.
In pieno stile renziano, pure stavolta tutto si fa all’ultimo momento. Oltre ai problemi organizzativi e strategici, la prima questione da affrontare sono i soldi, visto che il Pd ha 184 dipendenti in Cassa integrazione e un bilancio in rosso di 9,5 milioni di euro, buco lasciato dalla campagna per il Sì al referendum costituzionale di dicembre. Per adesso, si sa che il treno (arrivato a Roma nei scorsi giorni) sarà composto da 5 vagoni, tra cui uno adibito come una sala stampa e uno come sala riunioni. E che non si tratterà di carrozze speciali, ma di quelle di un intercity appositamente riadattate per utilizzi charter.
Il Pd lo prenderà in affitto da Trenitalia a prezzo di mercato. E dunque, per il calcolo dei costi complessivi il riferimento è proprio il listino della società. Per il quale il costo dell’affitto varia tra i 20 e i 44 euro a chilometro e dipende da una serie di parametri che concorrono a determinarne il valore complessivo tra cui ad esempio: la tipologia di materiale rotabile, l’infrastruttura utilizzata (rete Alta velocità o convenzionale), la qualità dei servizi richiesti a bordo e in stazione, il numero di personale impiegato. Trenitalia finora non ha ricevuto dal Pd le richieste specifiche per poter fare un preventivo preciso. Renzi neanche ha ancora deciso itinerario e tappe. Al Nazareno assicurano che sceglieranno tutte tratte secondarie. Facendo un conto a spanne su una percorrenza media di 150 chilometri al giorno – a un prezzo intermedio (facciamo per comodità 33 euro a chilometro) per i 45 giorni del tour (durata minima ma potrebbe arrivare a 2 mesi) – si parte da poco meno di 250 mila euro, prezzo che può lievitare facilmente se i chilometri percorsi e i giorni del tour aumentano.
Dal prezzo di listino, peraltro, sono esclusi l’allestimento del materiale rotabile, cioè la configurazione speciale delle 5 carrozze (il Pd sta lavorando ad arredi interni e immagini esterne), e altri eventuali servizi aggiuntivi: ad esempio vanno calcolate come costo aggiuntivo le soste in stazione, la scelta dei binari in cui fermarsi (un conto è affittare quelli vicini all’ingresso della stazione, un conto quelli lontani e poco visibili), i sovrapprezzi per il viaggio se effettuato di giorno. E i costi aumentano e possono arrivare facilmente a 400 mila euro o anche più su. Per questo il tesoriere dem Francesco Bonifazi ha le mani nei capelli nel tentativo di contenere le spese: al Nazareno non hanno stanziato un budget preciso e ragionano basandosi sui prezzi di listino. Sperando che non lievitino troppo.
di Daniele Martini e Wanda Marra
Repubblica 27.9.17
Caso Consip, il triplo gioco intorno a Matteo Renzi
di Carlo Bonini Giuliano Foschini
Anche il capitano Scafarto doveva seguire De Caprio. Che dopo ogni messa incitava i suoi a fare “come gli Apache, bisogna apparire e svanire” Fuori da ogni regola, i militari trasferiti dal Noe ai Servizi con Ultimo vengono chiamati a togliere le cimici installate per conto della procura
La trama dell’affare Consip raccontata da Carlo Bonini. In tre puntate tutti i filoni d’inchiesta
ROMA SERGIO De Caprio è un cane senza padrone. Forse perché, in fondo, non può averne. Se ne accorgono presto anche all’Aise, la nostra agenzia di spionaggio, dove è transitato nel 2016 dopo aver lasciato il Noe, di cui è stato vicecomandante. Per mesi, subito dopo il suo arrivo in Aise, la domenica mattina partecipa alla messa che viene celebrata per il personale nella sede di Forte Braschi. Attende regolarmente che la cerimonia si concluda e, a chiosa della benedizione, prima che l’ecclesia si sciolga, sale sul pulpito e pronuncia sentiti sermoni su concetti come “la battaglia”, “il coraggio”, “la lealtà”. È uno spettacolo che scombussola le routine felpate del Servizio. Soprattutto che annuncia grane. Anche perché il patto che ha consentito di chiudere la vicenda Noe viene sostanzialmente onorato dal direttore dell’Aise Alberto Manenti e dal Comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette.
SEGUE ALLE PAGINE 10 E 11
CON LA BENEDIZIONE del Governo Renzi, che quell’accordo ha vidimato nella convinzione che consenta di prendere due piccioni con una fava. Sciogliere l’anomalia di un Reparto di fatto fuori controllo, senza umiliarne il simbolo, il colonnello Sergio De Caprio. Anzi, reimpiegandolo e riguadagnandone la leale riconoscenza.
Dei 34 uomini che Ultimo ha chiesto lo seguano al Servizio ne ottiene 23. Di questi, 19 provengono dai ranghi del Nucleo operativo ecologico, il Noe. «Nei momenti duri – ripete spesso Ultimo citando un motto di saggezza Apache – ho pensato spesso alle tecniche di combattimento degli indiani d’America: apparire e svanire, essere pochi e sembrare tanti».
È più o meno quello che intende fare in Aise con la Sicurezza interna di cui gli è stato affidato il comando. Ma è anche, più o meno, quello che accade con ciò che si è lasciato alle spalle: il Noe. Se si chiede all’avvocato che assiste Ultimo, Francesco Antonio Romito, vi dirà che De Caprio chiude con il Noe il giorno in cui firma la sua lettera di commiato. In realtà – almeno se si deve stare non tanto alla logica ma alle evidenze dell’inchiesta della Procura di Roma – quel filo che lo lega al suo passato resta saldo come la gomena di una nave. E non solo per il rapporto di stima e amicizia che lo lega al pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock, che dell’inchiesta Consip è il dominus. Ma perché l’ufficiale cui sono delegate le indagini, Gianpaolo Scafarto, è in predicato (e per un certo periodo la sua posizione verrà trattata tra Aise e Arma) di seguirlo in Aise. Dove non è chiaro perché non arrivi. A meno di non voler credere a quello che racconta agli amici lo stesso Scafarto quando parla di «ragioni familiari».
Del resto, e solo per dirne una, per capire l’osmosi tra quel pezzo di Noe transitato in Aise e i carabinieri che al Noe invece sono rimasti, basterebbe ricordare un dettaglio. A dispetto di ogni prassi e regola che disciplina la separatezza assoluta tra polizia giudiziaria e Intelligence, a un certo punto dell’inchiesta Consip è necessario togliere delle cimici che in origine sono state installate da Carabinieri poi passati al Servizio. Ed è agli uomini di De Caprio, ormai in carico al Servizio, che il Noe chiede aiuto. *** Tra la primavera e l’autunno del 2016, quando le pedine del Grande Gioco hanno trovato una nuova disposizione sullo scacchiere (De Caprio e i suoi 23 in Aise, Scafarto e chi ancora gli è fedele nel Noe), l’affaire Consip da palla di neve si fa valanga. L’inchiesta che ha in gestazione il pm Henry John Woodcock dovrebbe essere protetta da un segreto ermetico. In realtà nei giri che contano se ne conosce l’esistenza e la potenziale ricaduta politica. Le redazioni dei quotidiani, già alla fine della primavera, raccolgono voci insistenti di una «scossa» che arriverà da Napoli e travolgerà Renzi. Già prima dell’estate – come testimonieranno i vertici Consip nell’inchiesta della Procura di Roma e prima ancora in quella di Napoli – cominciano gli spifferi che dovrebbero mettere in guardia il management dal coltivare rapporti con l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo (che poi verrà arrestato nel marzo 2017).
Dice a Repubblica una qualificata fonte inquirente dell’inchiesta Consip: «Quando l’inchiesta napoletana raggiunge la sua massa critica, è evidente che qualcuno ritiene che l’occasione sia troppo ghiotta per non essere sfruttata. Le notizie napoletane coperte da segreto, al mercato della benevolenza della Politica, valgono un tesoro. Chi avviserà per primo del pericolo che grava sulla Presidenza del Consiglio, sa che ne avrà in cambio riconoscenza. E sono almeno tre i canali attraverso i quali il segreto di Consip diventa un segreto di Pulcinella e viene consegnato alla Politica».
Uno – per stare alla testimonianza di Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip, passa attraverso il vertice del Comando generale dell’Arma. «Il presidente di Consip, Luigi Ferrara, mi disse di aver appreso, in particolare dal Comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette, che c’erano indagini che riguardavano Alfredo Romeo, dicendogli di stare attento». Un altro passa asseritamente attraverso il generale Emanuele Saltalamacchia, comandante dell’Arma in Toscana, anche lui indicato da Marroni come fonte diretta della “soffiata” sull’esistenza di un’inchiesta. Il terzo canale è quello di Palazzo Chigi, nella persona di Luca Lotti, il più fedele tra i fedelissimi di Matteo Renzi, oggi ministro dello Sport, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «Nel luglio 2016 – ha messo ancora a verbale Marroni - l’onorevole Luca Lotti, che io conosco, mi ha detto di stare attento perché aveva appreso che vi era una indagine sull’imprenditore Romeo di Napoli e sul mio predecessore Casalino, dicendomi espressamente che erano state espletate operazioni di intercettazioni telefoniche e anche ambientali, mettendomi in guardia ».
Ora, se è vero, come è vero, che i depositari dei segreti Consip sono formalmente solo il pm Woodcock e il capitano del Noe Scafarto, è evidente che in questa fase almeno uno dei due rende il segreto meno ermetico.
Chi? E perché?
***
Woodcock, oltre all’assenza di evidenze che lo indichino come origine della fuga di notizie a beneficio di Palazzo Chigi, è escluso dalla logica. Svelare il segreto politico di Consip sarebbe stato un autolesionistico controsenso. Dunque, resta il capitano del Noe Scafarto. E in effetti l’uomo chiacchiera. Non certo con interlocutori politici con cui non ha rapporti. Sicuramente con la sua catena gerarchica. Con il vice comandante del Noe, il colonnello Alessandro Sessa. Al punto da temere – come documentano gli sms nella loro chat – che Sessa a sua volta ne abbia parlato con il comandante del Noe o con il Capo di Stato maggiore, Gaetano Maruccia. «Signor colonnello - è scritto in uno dei messaggi agli atti dell’indagine, collocato temporalmente nei giorni degli ascolti disposti da Napoli del padre del presidente del Consiglio, Tiziano Renzi - sono due giorni che io penso continuamente a queste intercettazioni e alla difficoltà di portare avanti queste indagini con serenità. Credo sia stato un errore parlare di tutto col capo attuale e continuare a farlo. La situazione potrebbe precipitare con la fuga di notizie». E che sia, del resto, l’accoppiata Scafarto- Sessa l’anello debole della catena che dovreb- be custodire il segreto di Consip è confermato anche dai timori dei due circa le possibili reazioni di Woodcock. «Vi faccio passare un guaio», li ha avvisati, temendo che qualcosa dell’inchiesta venga riferita alla catena gerarchica (dunque al vertice del Noe o al vertice del Comando generale).
È un fatto che il segreto di Consip tra la primavera e l’estate del 2016 non è più tale e che il gioco può cominciare.
***
Sulla prima partita che si gioca intorno alla gallina dalle uova d’oro chiamata Consip - quella cioè che vedrebbe l’Arma offrire il segreto politico dell’indagine a Palazzo Chigi – l’istruttoria della Procura di Roma e le testimonianze raccolte da
Repubblica compongono un puzzle dove la parola dell’uno (gli accusatori) è smentita dalle parole dell’altro (gli accusati). Del Sette nega di aver mai riferito di Consip nei termini in cui ne parla Marroni. Il generale Maruccia nega di aver mai riferito a Del Sette dell’indagine Consip e soprattutto di aver mai appreso dalla catena gerarchica del Noe tanto il risvolto politico di quell’inchiesta, tanto delle intercettazioni in corso a carico di Tiziano Renzi. Luca Lotti continua a trincerarsi da un anno dietro a un’affermazione radicale – «non ho mai saputo nulla dell’indagine su Consip da nessuno» – e alla scelta di non offrire alcuna spiegazione plausibile del perché venga accusato da chi lo saprebbe innocente, se non indicando un generico “risentimento politico” maturato negli anni fiorentini da parte dei suoi accusatori.
È un dato oggettivo che la fuga di notizie ci sia stata perché ne è prova l’inefficacia delle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Napoli (Tiziano Renzi viene messo in guardia dal parlare). Ed è solido e plausibile il movente per cui alti ufficiali dell’Arma avrebbero offerto quell’informazione riservata conoscendone il valore e il possibile ritorno in termini di carriere. A maggior ragione in un momento di annunciato passaggio di consegne del Comando generale dell’Arma.
***
Del resto, che la partita che si gioca nell’Arma, fuori e dentro, sia decisiva è dimostrato anche da un’altra circostanza. Consip – ma meglio sarebbe dire la piega che inopinatamente prende l’inchiesta quando ai risvolti politici del coinvolgimento del cerchio magico renziano si sommano quelli della fuga di notizie dal Comando generale - è l’occasione per saldare davvero il conto aperto nell’estate del 2015 con la riconduzione all’ordine del Noe. Il coinvolgimento di Del Sette è qualcosa che sembra sorprendere persino gli stessi Scafarto e Woodcock. Ma una volta che quel coinvolgimento c’è stato (la confessione di Marroni), il capitano del Noe ne coglie l’effetto dirompente e definitivo. In un sms mandato a Ultimo il 22 dicembre 2016, giorno in cui il Fatto dà notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Del Sette per rivelazione di segreto d’ufficio, scrive: «Ride bene chi ride ULTIMO».
Già, anche perché quella notizia cade con un timing devastante per il Comandante generale. Il 23 dicembre, poche ore prima che il Consiglio dei ministri si riunisca per deliberare sulla sua proroga di un anno nel comando (decisione che verrà congelata per qualche mese). Del Sette è irrimediabilmente azzoppato. E con lui è azzoppato quel generale Saltalamacchia che Renzi, nella primavera 2016, aveva immaginato ai Servizi e che qualcuno riteneva in rampa di lancio per la successione di Del Sette.
*** Abbiamo detto tuttavia che le partite sono diverse. Ce n’è una che riguarda i Servizi, la Politica e che ha un indiscusso protagonista: il capitano Gianpaolo Scafarto. Sono ormai inoppugnabili (e riconosciuti persino dall’interessato) i due macroscopici falsi che manipolano l’informativa del Noe alle procure di Napoli e Roma che deve accreditare due verità di grande impatto politico. La prima: gli incontri tra Romeo e il padre di Renzi (in un’intercettazione la circostanza, sotto forma di involontaria confessione viene attribuita all’imprenditore napoletano, mentre a parlarne è l’ex deputato Italo Bocchino, che di Romeo è consulente) devono confermare l’interessamento politico di Palazzo Chigi per tutelare “un imprenditore amico” cui sarebbe stato persino proposto il salvataggio del quotidiano di partito, l’Unità. La seconda: il presidente del Consiglio, violando ogni regola, ha coinvolto i Servizi segreti del paese per far deragliare l’inchiesta del Noe, spiarne le mosse e dunque mettere al riparo se stesso e suo padre (la circostanza viene accreditata con la falsa presenza di operativi dell’Aisi, il nostro controspionaggio, sulla scena delle operazioni del Noe. Peccato che il Noe sappia siano ignari cittadini).
Perché Scafarto fa mosse così catastrofiche? La spiegazione che dà il capitano sembra buona solo per chi vuole bersela: la fretta di mettere insieme in meno di tre settimane l’informativa finale sul lavoro di un anno.
In realtà, Scafarto ha due altre ottime ragioni, in quella piccola e ambiziosa partita che si gioca in proprio. Una ha a che vedere con la consapevolezza che offrire a Woodcock quello che Woodcock vuole sentirsi dire non potrà che farlo crescere ai suoi occhi quale “nuovo Ultimo” del Noe, assicurandogli un posto al sole come l’ufficiale che ha abbattuto l’uomo più potente del Paese. Una seconda ottima ragione per violare le regole – come ad esempio trasmettere all’Aise via mail notizie di Consip coperte da segreto – ha invece a che vedere con l’altra possibile strada che la carriera di Scafarto potrebbe infilare: l’approdo all’Aise. Se è vero infatti che delle due mail inviate a Forte Braschi, la prima è sollecitata dal Servizio che vuole verificare un nominativo presente nelle carte perché appartenente a un servizio estero, la seconda è invece fuori sacco. Il file “Mancini.docx” («Sempre per il capo» scrive Scafarto ai due suoi ex colleghi ora all’Aise, perché lo girassero a Ultimo)ha infatti a che fare con il nuovo lavoro di De Caprio – il controllo della fedeltà degli uomini delle Agenzie di intelligence - e cioè con l’uomo individuato come il problema da risolvere una volta per tutte nei Servizi. Quello che, a torto o a ragione, si vorrebbe potenziale terminale o motore di temuti ricatti interni. In quella mail, si svela infatti il rapporto tra Italo Bocchino e Marco Mancini, documentato da intercettazioni telefoniche alcune delle quali non allegate agli atti “ufficiali” di indagine, e dunque si allunga l’ennesima ombra sull’ultimo dei pollariani nella nostra Intelligence, il custode dei segreti di quella stagione. De Caprio – deve pensare Scafarto – gli sarà riconoscente. L’avvocato di Ultimo, Francesco Antonio Romito, assicura che quelle mail forse non sono state neppure lette. «Certamente non le ha sollecitate».
*** In questo groviglio dove nessuno, com’è evidente, dice tutta la verità o, meglio, ne propone forse solo un brandello, quello necessario a chiamarsi fuori, si comprende la decisione senza precedenti con cui il 17 luglio scorso il Governo decide di estromettere in blocco dall’Aise De Caprio e i suoi 23 uomini in un’unica soluzione. Restituendoli all’Arma.
Nessuno infatti, né a Forte Braschi né all’Arma, il cui vertice si è dimostrato non in grado di governare neppure il Noe “bonificato” da Ultimo, è in grado di garantire cosa e quali segreti possano saltare fuori dalla deflagrazione del rapporto Woodcock-Ultimo-Scafarto (hanno lavorato insieme per anni. Sono seduti su un patrimonio di notizie riservate che non necessariamente sono finite in atti giudiziari). Soprattutto dopo che, il 16 luglio, il procuratore di Modena, Lucia Musti, ha accusato davanti al Consiglio superiore della Magistratura, i due ufficiali mettendo insieme due storie che nessuno voleva leggere insieme: l’inchiesta Cpl Concordia e Consip.
Nessuno è in grado di correre il rischio di essere chiamato a pagare per intero il prezzo dell’infernale partita che si è giocata su Consip. E di cui, per dirne una, si è già avuta un’evidenza. Dopo le dimissioni di Matteo Renzi a seguito della sconfitta referendaria, si immagina per Luca Lotti l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Intelligence, casella lasciata libera da Marco Minniti destinato al ministero dell’Interno. Ebbene, Lotti, su quella poltrona non siederà mai. Il 12 dicembre 2016 giura da ministro dello Sport, perché qualcuno o qualche informazione, evidentemente, hanno sconsigliato di scegliere quale terminale politico dei Servizi un uomo che sta per essere fulminato da un’inchiesta di cui, sulla carta, nessuno dovrebbe ancora sapere. E che avrà la sua discovery sulle pagine del Fatto quotidiano solo di lì a una decina di giorni, tra il 21 e il 23 dicembre.
Paga dunque Ultimo il conto. Per una partita più grande di lui che, forse, ha pensato di poter controllare ma di cui non è mai stato davvero il king maker. Il 19 luglio viene restituito all’Arma e destinato alla Forestale con incarico “non operativo”. I suoi uomini – Aspide, Veleno, Apache e tutti gli altri – vengono dispersi in piccoli comandi di stazione, dalle Alpi e la Sicilia. Dietro a una scrivania.
E dunque e di nuovo: è stato un complotto? No. Non lo è stato. Su Consip si sono giocate tre partite per un triplo gioco, facendo sponda sul destino politico di Matteo Renzi. Una partita nell’Arma, una nei Servizi e una nel Governo. Nell’Arma, Scafarto e Ultimo hanno saldato i loro conti con il vertice del Comando generale. Alti ufficiali di quel Comando hanno intravisto un’occasione nei segreti politici dell’indagine. Una partita nei Servizi, dove Ultimo ha mantenuto una “doppia fedeltà”. Agli uomini del Reparto che aveva costruito a sua immagine e somiglianza: il Noe. E al vertice tecnico e politico dell’Intelligence. Una partita nel Governo, che ha condizionato nomine chiave e aperto un solco di diffidenze reciproche dentro il Pd, dove per molto tempo Marco Minniti e Luca Lotti si sono contesi l’attenzione di Renzi sulle questioni riguardanti la sicurezza nazionale. Un garbuglio non ancora sciolto che, c’è da scommetterci, tornerà a far capolino in campagna elettorale.
( 2. fine)
Corriere 27.9.17
Quei baroni mai puniti
di Gian Antonio Stella
Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima «concorsopoli»? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni «pilotate» sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi.
Ansa, giugno 2016: «Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università...». L’inchiesta era «sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...». Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a «educare» generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia.
Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la «chiamata» di colleghi che, scrisse Il Fatto , erano «senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata». Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più «esuberanti» del Magnifico: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!». «O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!».
Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per «poche esperienze internazionali»...
Un’Ansa del dicembre 1991 racconta «le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”». Indimenticabili i commenti. «È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino», si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, «io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo». «Il problema è l’omertà», accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, «tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema». Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: «È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera». Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia...
«Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”», ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata , «tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio». Una scusa per tacitare la coscienza. «Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone».
Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto («Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...») dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa?
La risposta, spiegano ne Lo splendido isolamento dell’università italiana Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore... Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?».
Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le «plurime e prolungate condotte criminose» denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che «l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico». Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passat’...
Repubblica 27.9.17
Ma Gentiloni non si arrende “Punto all’asse col Vaticano”
Il premier deciso ad andare avanti: il 4 ottobre parteciperà alla festa di San Francesco e parlerà di inclusione
di Goffredo De Marchis
ROMA. Il pressing continuerà. «Quante volte Alfano ha detto che le unioni civili non sarebbero mai passate? Oggi sono legge », è il ragionamento di Paolo Gentiloni. Non è finita finchè non è finita, dunque, secondo il motto del campione di baseball degli Yankees Yogi Berra. Il no definitivo di Alternativa Popolare, visto da Palazzo Chigi, non chiude i giochi. Certo, non li facilita. Ma che sarebbe stata dura si sapeva anche prima. Il punto è che ora le speranze si riducono. Eppure il premier non vuole dichiarare la resa. Punta tutto sull’asse con il Vaticano e sul tempo, che corre veloce verso le elezioni ma lascia ancora margini di manovra. Papa Francesco ha sposato la linea sui flussi migratori adottata da Marco Minniti e allo stesso tempo insiste sullo ius soli. Lo confermano le parole del presidente della Cei Gualtiero Bassetti. Gentiloni si prepara a mette un altro mattoncino fra una settimana.
Il presidente del Consiglio sarà il 4 ottobre ad Assisi per la festa di San Francesco. Terrà il “discorso alla Nazione” sotto la Basilica, in diretta tv. Ci sarà il segretario di Stato della Santa sede Pietro Parolin, ci saranno i frati del convento e in quell’occasione solenne Gentiloni pronuncerà un intervento sull’inclusione e sull’integrazione. In pratica, la difesa dello ius soli. Un modo anche per spiegare meglio il senso della norma, per far capire che la cittadinanza non viene regalata. È destinata dunque a salire pressione del mondo cattolico sui centristi, che a quel mondo fanno riferimento, così come i loro elettori.
L’idea di non mollare, nonostante le dichiarazioni post direzione di Ap, è condivisa da Matteo Renzi. Il segretario del Pd ha delegato il dossier sulla cittadinanza al premier. Ripete che «decide Paolo e quello che decide lui va bene al Pd». Chi gli ha parlato nel pomeriggio lo ha trovato determinato ad andare fino in fondo. A prescindere dai sondaggi. «Quando una legge è giusta si fa di tutto per approvarla. Altrimenti tanti altri provvedimenti non sarebbero andati in porto».
La tattica di Pd e governo resta l’attesa. Ma prima o poi arriverà il momento della verità. Se Gentiloni fa sapere di non essere irritato per la dura presa di posizione dell’alleato e Renzi lascia la parola all’esecutivo, nel Pd non si nasconde il fastidio. «Per me resta impossibile non approvare una legge che si considera giusta», dice il capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda, l’uomo che deve cercare i consensi «uno per uno, nome per nome» secondo il mandato affidatogli dal premier. «Non si vota dopodomani sullo ius soli. Affronteremo il problema quando si presenterà concretamente », spiegano a Palazzo Chigi. «L’impegno a provarci rimane, io non tolgo la cartellina dal tavolo », dice Gentiloni ai suoi collaboratori.
Il “come” resta un mistero, ancora più profondo dopo le parole di Alfano e Maurizio Lupi. Il “quando” invece emerge tra le righe dei commenti di ieri. Palazzo Chigi aveva immaginato di mettere ai voti la legge a metà novembre, una volta ottenuto il via libera di Palazzo Madama alla finanziaria. Mancano più di 40 giorni al passaggio finale. Cosa può succedere di nuovo?
Si cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. In fondo, il leader di Ap ha ripetuto che la legge è buona, solo che capita «nel tempo sbagliato». Ma ai centristi bisogna guardare per forza se si vuole coltivare la speranza. La provocazione di Matteo Richetti, portavoce del Pd, serve infatti a dimostrare che l’impegno non svanisce, che non si alza bandiera bianca. I voti «cercati altrove» però semplicemente
non esistono. Servono quelli di Alfano.
L’unica strada per l’approvazione è quella della fiducia, mettendo in gioco la vita del governo. Non si può ipotizzare dunque il soccorso di gruppi fuori dalla maggioranza di governo. Ap dovrebbe votarla prima in consiglio dei ministri e poi al Senato. In una situazione di difficoltà per le tensioni interne. Quei numeri continuano a non esserci, a maggior ragione da ieri. Possono cambiare il quadro solo il tempo, gli equilibri politici in vista delle elezioni e «il richiamo morale», come dicono a Palazzo Chigi, della Chiesa. La scommessa è che Ap ne debba tenere conto.
La Stampa 27.9.17
Firenze litiga sugli alberi abbattuti
Gli ambientalisti: erano sani, viali sfigurati. Il Comune: falso, rischiavano di cadere. La procura indaga sulle autorizzazioni e sullo stato di salute delle piante tagliate
di Maria Vittoria Giannotti
Firenze Il taglio di trecento alberi divide Firenze. I viali e le piazze interessati dagli abbattimenti del Comune sono irriconoscibili, sfigurati, protesta una fazione composta da molti cittadini e dalle associazioni ambientaliste. La sicurezza prima di tutto, ribatte la fazione avversa, schierandosi con Palazzo Vecchio: gli alberi, soprattutto se vecchi o malati, sono pericolosi.
L’operazione, che ha interessato i viali di circonvallazione così come il centro storico, è scattata ad agosto e non è stata uno scherzo sul fronte dell’ordine pubblico: per buttare giù gli ippocastani di viale Corsica è stato necessario addirittura l’intervento della polizia, in tenuta antisommossa. C’è chi ha abbracciato i tronchi, rifiutando di staccarsi, se non trascinato via a forza, chi si è indignato e chi è scoppiato in lacrime. «Siamo stati costretti a farlo» è stata la spiegazione dell’amministrazione comunale, che a più riprese ha ribadito di aver agito in nome della salute pubblica. Argomentazione che ha trovato riscontro in un episodio accaduto proprio in quella stessa strada: dopo un violento acquazzone, uno degli ippocastani nel mirino si è infatti abbattuto sulla carreggiata, rischiando di travolgere un’auto. Di qui la decisione di accelerare i tempi.
«Hanno usato la scusa di quell’albero danneggiato dai lavori stradali per tagliare tutti gli altri», accusano gli ambientalisti. In effetti con gli alberi pericolanti non si scherza e i fiorentini lo sanno bene: in città è sempre vivo il ricordo della tragedia nel parco delle Cascine, quando un albero uccise una donna a passeggio con la nipotina. Il successivo intervento in piazza San Marco, a due passi dall’Accademia che ospita il Davide di Michelangelo, si è svolto senza particolari incidenti, ma le bacheche dei social network dei fiorentini rimasti in città si sono subito affollate di immagini malinconiche di fronde accasciate al suolo. Stesse reazioni per i maestosi pini che ombreggiavano da decenni la centralissima piazza della Stazione. Erano sani, hanno tuonato gli ambientalisti scattando foto ai tronchi caduti, apparentemente integri. Immagini che sono finite anche in allegato agli esposti arrivati sui tavoli della Procura fiorentina. Quei documenti sono ora stati raccolti in un fascicolo e affidati a un magistrato, Gianni Tei, che già in passato si è occupato del verde pubblico. Per ora non ci sono nomi iscritti nel registro degli indagati, né è stata formulata un’ipotesi di reato, ma i fronti dell’indagine sono due. Si tratta di capire se le piante sono state abbattute con l’ok della Sovrintendenza (nulla osta necessario dato che quasi tutti gli alberi tagliati si trovavano in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico) e il loro stato di salute. Intanto, mentre la Procura fa il suo lavoro, altri abbattimenti sono in programma e la città si dedica alla polemica, anche con toni vivaci. Ne sa qualcosa il professor Francesco Ferrini, docente di arboricoltura dell’università, che dopo aver preso posizione in favore degli abbattimenti, si è visto travolto da una marea di insulti.
La Stampa TuttoScienze 27.9.17
“Inizia l’avventura più grande. La caccia alla vita aliena”
Michel Mayor è il pioniere della ricerca dei pianeti al di fuori del sistema solare “Nuove missioni sono in preparazione: il momento della scoperta si avvicina”
intervista di Attilio Ferrari
Michel Mayor, professore emerito all’Università di Ginevra, da oltre 20 anni studia i pianeti extrasolari, gli esopianeti, il primo dei quali, 51 Peg b, ha scoperto nel 1995. È ancora nel pieno dell’attività. Il suo telefono squilla continuamente, ma lui è disponibile a raccontare gli ultimi risultati della sua ricerca.
Come si è aperta la strada verso lo studio della vita extraterrestre?
«L’astronomia è un vaso di Pandora. Quando un nuovo metodo di osservazione viene sviluppato, il cielo si apre su nuovi orizzonti. È quanto è accaduto a me. Fin da ragazzo ero appassionato di astronomia, e di tutte le scienze, fisica, geologia, oceanografia. M’iscrissi alla facoltà di fisica teorica a Losanna. Al momento di scegliere un programma per il dottorato mi rivolsi all’astronomia, in particolare alla struttura a spirale della nostra Galassia. Dimostrai che era necessario raccogliere più dati sulle velocità radiali, delle stelle nelle vicinanze del Sole. Completata la tesi, ottenni la possibilità di lavorare al progetto di uno spettrografo capace di effettuare misure spettrali Doppler di alta precisione delle velocità stellari».
Che cosa studiò?
«Lo strumento “Coravel” mi permise di pubblicare uno studio sulla cinematica dei sistemi delle stelle doppie vicine al Sole. Le misure rivelarono anche l’esistenza di sistemi con stelle di massa circa 10 volte quella di Giove, le “nane brune”: era ovvio pensare di estendere la ricerca a compagni con una massa ancora minore, i pianeti giganti. All’inizio degli Anni 90, così, in collaborazione con l’Osservatorio dell’Alta Provenza concepimmo un nuovo strumento chiamato “Elodie”, la cui precisione era migliorata di un fattore 20: si potevano misurare velocità stellari di alcuni metri al secondo. Fu lo strumento per aprire il vaso di Pandora degli esopianeti».
Quando si rese conto di aver fatto un’eccezionale scoperta?
«Nel 1994 con l’aiuto del mio dottorando Didier Queloz iniziammo ad osservare 140 stelle simili al Sole per rivelare nane brune e pianeti giganti. Nell’autunno notammo che la stella 51 Pegasi mostrava oscillazioni periodiche delle righe spettrali interpretabili come causate dal moto orbitale di un pianeta di massa simile a Giove. La sorpresa era, però, il periodo orbitale, poco più di 4 giorni, corrispondente ad un’orbita vicina alla stella, ben più vicina di Mercurio al Sole: era una configurazione inattesa, secondo le teorie dei sistemi planetari correnti. Era quella l’interpretazione giusta? Oppure si trattava di un fenomeno di pulsazione stellare? Impiegammo un anno a ripetere le osservazioni per escludere le altre ipotesi e il 6 ottobre 1995 pubblicammo l’osservazione del primo esopianeta intorno ad una stella simile al Sole».
E dopo che cosa successe?
«Già il 12 ottobre Geoffrey Marcy e Paul Butler dalla California confermarono la scoperta, ripetendo la misura. Nei mesi che seguirono furono misurati i moti orbitali di altri esopianeti. La dimostrazione finale che molte stelle posseggono pianeti orbitanti, poi, è stata data dal satellite “Corot”, osservando per la prima volta nel 2007 la variazione dell’intensità luminosa emanata da una stella al passaggio di un pianeta davanti a essa».
Oggi gli esopianeti scoperti sono oltre 3 mila. Che cosa abbiamo imparato?
«L’attuale precisione degli spettrografi “Harps” all’Eso - lo European Southern Observatory di La Silla in Cile - e “Harps-N” al Tng - il Telescopio Nazionale Galileo, nell’isola di San Miguel de la Palma - ha permesso di trovare pianeti che si avvicinano alla massa della Terra: le “superterre” sono moltissime. Alcune di queste, come tre dei sette esopianeti intorno alla stella Trappist-1, sono nella “zona di abitabilità”, laddove esistono le condizioni per l’esistenza di acqua allo stato liquido e quindi di forme di vita compatibili con la nostra. Un secondo passo importante viene dall’osservazione di “transiti planetari” con le missioni “Corot” e “Kepler”».
Di che cosa si tratta?
«Insieme con la conoscenza della massa che si deriva dal metodo spettroscopico ci permettono di determinare il diametro dei pianeti, la loro densità media e quindi di indagarne la struttura interna. Inoltre i transiti consentono di “vedere” le atmosfere dei pianeti, misurarne la temperatura e la composizione chimica: vi abbiamo già trovato l’acqua. Il terzo punto fondamentale è che le orbite e le masse degli esopianeti mostrano un’impressionante diversità dei sistemi planetari: questa ci sfida a comprenderne i meccanismi di formazione e quindi la nascita del nostro sistema solare».
La vita è presente ovunque nell’Universo? Quando potremo avere una risposta a questa appassionante domanda?
«Questa domanda resta una delle “grandi questioni” della scienza. Non è di pertinenza esclusiva dell’astronomia, perché riguarda altresì la biologia e la filosofia: la vita è comune nell’Universo oppure il nostro è un fenomeno unico? Le ricerche di astrobiologia mirano a comprendere lo sviluppo della vita e a rilevarla fuori dal sistema solare, combinando le competenze di scienziati dai diversi orizzonti: biologi, astronomi, fisici, geologi, chimici. È certamente uno dei campi di ricerca più affascinanti per giovani che vogliano intraprendere una carriera scientifica».
Quali sono i progetti di ricerca della vita?
«Il contrasto fantastico fra la luminosità delle stelle e quella dei pianeti (un miliardo all’incirca il contrasto fra il Sole e Giove), insieme con la loro piccola distanza angolare, non permette facilmente di produrre un’immagine di un esopianeta. Molti scienziati, tanto nei laboratori quanto nell’industria, stanno sviluppando le tecnologie necessarie per raggiungere questo obiettivo e per misurare la chimica dettagliata delle loro atmosfere, così da scoprirvi tracce di marcatori biologici. Vi sono inoltre progetti per missioni spaziali intese a cercare la vita in situ nel nostro sistema solare, su Marte o sui satellite di Giove e Saturno con abbondanza di acqua. Sono convinto che presto troveremo segni di vita altrove».
Che funzione potranno avere la robotica e l’Intelligenza Artificiale nei progetti spaziali di ricerca della vita?
«Le missioni robotiche sono il metodo più adatto per esplorare e cercare la vita negli ambienti più alieni del sistema solare. E con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale potremo avere sistemi che sostituiscono quasi completamente l’uomo. Ma mai completamente. Chi lavora nella ricerca non subirà mai la competizione da parte dell’Intelligenza Artificiale. Anzi. Poiché i robot lavoreranno per noi e ci lasceranno sempre più tempo libero, dovremo pensare ad approfondire le nostre conoscenze di matematica, fisica e biologia per indagare nuove domande».
La Stampa TuttoScienze 27.9.17
Sulla Luna e oltre: la Nasa racconta l’uomo nello spazio
di Nicola Grolla
Da Luciano di Samosata, retore greco del II secolo a.C., a Jules Verne, passando per Galileo e Copernico: in molti hanno sognato la Luna. Compresi i 900 milioni di persone che, la notte fra 20 e 21 luglio 1969, erano appiccicati alla tv mentre l’Apollo 11 sbarcava sul nostro satellite. Un evento che ha dato un nuovo significato al termine esplorazione. Lo stesso che rivive nell’esposizione «Nasa - A Human Adventure» che occuperà i 1500 metri quadrati di Spazio Ventura XV a partire dal 27 settembre. La mostra fa tappa a Milano dopo un tour mondiale. Un’occasione per ripercorre una storia fatta di sognatori, scienziati e pionieri. Ma anche di macchine e strumenti. Come i 300 manufatti originali provenienti dai programmi Nasa: il razzo lunare Saturn V (costato alla Nasa oltre 47,5 miliardi di dollari), le navicelle Mercury e Gemini, il rover lunare (impiegato per la prima volta nel 1971) e lo space shuttle. Il tour inizia con la passerella che gli astronauti percorrevano per imbarcarsi sul razzo. Una camminata che introduce in un viaggio attraverso l’innovazione tecnologica e che si vivrà in prima persona grazie al simulatore «G-Force Astronaut Trainer». Un’esperienza che mette i visitatori a stretto contatto con gli effetti della forza di gravità. Il primo ostacolo da superare per conquistare lo spazio.
La Stampa TuttoScienze 27.9.17
Acqua dall’aria: l’oro blu si produrrà anche in casa
Una rivoluzione guidata da chimica e informatica
Al meeting “Watec” i software e gli hardware in arrivo
di Gabriele Beccaria
Ha le dimensioni di un piccolo frigo e costa come un modello top di gamma, ma le sue prestazioni valgono la spesa: non a caso si chiama «GENius» e all’interno di questo algido parallelepipedo color argento si consuma una reazione chimica che converte l’aria in acqua. Alla prima spiegazione si reagisce come di fronte a un miraggio. Ma poi la tecnologia di Water-Gen ha la meglio sul senso di allucinazione: i suoi tecnici ti assicurano che puoi piazzare il magico strumento in cucina o in giardino, perfino nel deserto, e il resto è solo pazienza. Ogni 24 ore ricava dall’umidità dell’atmosfera - tanta o scarsa che sia - 30 litri di purissima H2O. Da bere. E naturalmente la spiegazione termina con un bicchiere colmo, riempito grazie a un rubinetto di design.
«GENius» - promette la società israeliana che lo produce - arriverà sul mercato già nel 2018 in varie versioni. Compresa quella per utilizzi commerciali e militari: la più potente assomiglia a un container e genera 6 mila litri ogni giorno. E i consumi energetici, come nel modello mini, sono sempre bassissimi, pensati per obbedire alle severe logiche della sostenibilità. D’altra parte, se l’acqua è sempre più preziosa, in Medio Oriente come nel resto del Pianeta, che senso avrebbe produrla, sprecando altre risorse e per di più inquinando? L’oro blu - che ormai ossessiona miliardi di individui, per la sua mancanza, quando imperversa la siccità, o per la sua distruttività, quando si scatenano uragani e alluvioni - è un bene talmente fragile e multiforme da richiedere la migliore inventiva. Così l’intelligenza - quella neuronale dei tecnici e quella artificiale dei software - si è esibita a «Watec 2017», il meeting di Tel Aviv dedicato proprio all’acqua, a come gestirla al meglio, risparmiandola, riciclandola, rigenerandola e - dimostra Water-Gen - producendola.
Se oggi vanno per la maggiore le metafore che evocano la liquidità dei pensieri e dei processi, al «Watec» la «liquidità» consiste in un flusso continuo di problemi emergenti e di soluzioni possibili. Natael Raisch e Alan Bauer, per esempio, hanno brevettato una specialissima chiavetta: frutto della loro start-up, Lishtot, considerata tra le più brillanti del momento, si accosta a una bottiglia o a un bicchiere e in 5 secondi sa riconoscere se il contenuto è puro oppure contaminato - dice Raisch - «da patogeni, metalli pesanti e sostanze chimiche». Quando si accende il led blu è tutto ok, altrimenti quello rosso sconsiglia qualunque sorso. «Chi non ricorda il film “Erin Brockovich” con Julia Roberts e la storia vera della guerra all’acqua contaminata di Hinkley, in California? Con il nostro prodotto sarebbe stato tutto più semplice». Per capire e per agire. E il giovane matematico, creatore dell’algoritmo in grado di individuare i diversi campi elettrici provocati dei contaminanti, racconta come gli ci siano voluti 30 mesi per arrivare al sensazionale risultato. Che adesso è disponibile per 35 dollari al pezzo. Su Internet, naturalmente.
Mentre sollecita la creatività, l’acqua sta spalancando inattese forme di business. E al «Watec» è facile rendersi conto che gli approcci eco alle risorse naturali sono immense opportunità. Più «green» significa anche più «money» e le aziende - nascenti o già affermate - lo testimoniano con i loro stand, in cui è continuo il rimando a software impalpabili e solide macchine di ultima generazione. Eddy Segal è uno degli specialisti che fa scorrere sequenze di immagini, grafici e tabelle. Spiega che «Utilis», ormai, è uscita dal bozzolo delle start-up ed è un leader nell’affrontare un incubo comune a molti amministratori e manager di acquedotti in giro per il mondo: il suo sistema va a caccia delle perdite d’acqua. «Il metodo tradizionale consiste nel far girovagare squadre di tecnici, su e giù per gli impianti, e in media si riesce a tappare non più di un buco al giorno. Con noi è diverso». E, partendo dagli onnipresenti algoritmi che leggono e interpretano, rivela come serie periodiche di foto satellitari ad alta risoluzione, opportunamente analizzate, evidenziano le debolezze di una rete.
«Arriviamo a un’attendibilità del 70%», sottolinea, mentre materializza una mappa multicolore di Bucarest e dei punti critici degli impianti idrici, graduati per gravità di danni e urgenza di interventi. È uno dei tanti luoghi a rischio-sete del pianeta Terra e l’high tech che lo studia è stata sviluppata a partire dalle ricerche sulla presenza di acqua oltre i nostri confini. Sulle lune di Giove e Saturno, fino agli esopianeti che affollano la galassia.
2 - Fine
Repubblica 27.9.17
Più libri più liberi
La fiera dei piccoli editori nella Nuvola di Fuksas
A Roma dal 6 al10 dicembre: oltre 400 marchi presenti, quasi 600 incontri. E c’è anche lo stand di “Robinson”
di Raffaella De Santis
ROMA. La fiera romana della piccola e media editoria si terrà quest’anno dentro la Nuvola progettata da Massimiliano e Doriana Fuksas (dal 6 al 10 dicembre). La sedicesima edizione di Più libri più liberi rimane dunque nel quartiere Eur ma abbandona il Palazzo dei Congressi per trasferirsi al Roma Convention Center (questo il nome completo della colossale opera architettonica “la Nuvola”). Aumenta dunque lo spazio: i metri quadrati espositivi a disposizione degli editori passano da 2 mila a 3.500. Si prevedono oltre 400 editori e il prezzo degli stand andrà da 900 euro per il più piccolo a 3 mila per il più grande. Gli incontri finora in agenda sono 562. È prevista anche la presenza di
Repubblica con uno stand di Robinson. Il programma non è ancora stato reso noto, si sa solo che l’inaugurazione sarà sul tema della legalità.
Più libri più liberi è la principale fiera italiana dei piccoli editori, organizzata dall’Aie con 200 mila euro. Tra gli altri contributi ci sono pure 75 mila euro annui di Mondadori, costretta dall’Antitrust, dopo l’acquisizione di Rizzoli, a sostenere la piccola editoria. «Il nostro compito, come associazione degli editori, è promuovere la lettura», ha detto il presidente dell’Aie Ricardo Franco Levi presentando l’iniziativa. Levi ha ricordato che l’editoria fattura ogni anno 2 miliardi e 700 milioni: «Promuovere la crescita culturale del paese vuol dire contribuire alla sua crescita economica ». I piccoli editori indipendenti, quelli che fatturano non oltre 10 milioni di euro, rappresentano un terzo della produzione totale. Per la Nuvola – che appare anche nel nuovo logo – sarà il primo incontro aperto al pubblico. «Non c’è una fiera in Europa con un contenitore così bello», ha detto la presidente della Fiera, Annamaria Malato. Aspettiamo di conoscere i contenuti.