Il Fatto 6.9.17
Caso Regeni, l’invenzione della memoria fatta per dimenticare tutto
di Alessandro Robecchi
Trattasi
di materia intricata e nobilissima, spesso sommersa dalla retorica, una
necessità umana e civile che a volte diventa trucchetto per distrarre
tutti. Insomma: la memoria.
Ricordare quello che è stato, cosa è
successo, perché. Mantenere vivo il ricordo delle ingiustizie passate in
forma di monito per il presente. Il grido “Per non dimenticare” è uno
dei più alti e dolorosi nel Paese, riguarda stragi, delitti, presunte
fatalità, fa parte del sapere popolare, sono ferite aperte che
potrebbero guarire se si arrivasse alla verità, cosa che accade
raramente, quasi mai.
Per questo risultano strabilianti le
comunicazioni del governo, nella persona del ministro degli Esteri
Angelino Alfano, sul caso Regeni. Perché introducono nel discorso
operativo sulla questione un bizzarro tipo di memoria: una memoria che
archivia, che nasconde.
Il paradosso di una memoria costruita per
dimenticare. Perché il nostro ambasciatore torna in Egitto, il loro
torna qua, l’Egitto è un posto dove abbiamo molti affari, non possiamo
permetterci di rompere, eccetera eccetera. In cambio – occhio che arriva
la memoria – il governo si impegna a fare un sacco di cose per non
dimenticare Giulio Regeni. Gli intitoleranno un auditorium. Il governo
si è “attivato con il Coni” (urca!) perché ai Giochi del Mediterraneo,
in Spagna, l’anno prossimo, si osservi un minuto di silenzio. E poi, se e
quando si farà, potrebbero intitolargli l’Università italo-egiziana, la
cui realizzazione Angelino “auspica”. Perbacco. Ecco fatto: garantita
la memoria, ufficializzato in qualche modo il senso di ingiustizia che
tutti provano, e quindi normalizzata l’indignazione, la missione può
dirsi conclusa, il caso Regeni quasi chiuso.
Ma sì, ancora si
parla (vagamente) di indagini, si allarga il campo tirando in ballo
l’Università di Cambridge, addirittura (questo è Cicchitto) si insinua
che l’inchiesta del New York Times – l’Italia conosce prove schiaccianti
– sia stata ispirata dai Servizi americani in chiave anti-Eni.
In una parola: polverone.
È
uno di quei casi in cui la memoria ostentata e cannibalizzata dal
potere (da chi dovrebbe risolvere il caso, non semplicemente
ricordarselo!) si rivela spaventevole ipocrisia. È una memoria come
concessione, la risposta di Angelino a chi si ostina a dire che non
dimentica è la seguente: ok, non dimentichiamo nemmeno noi, ma andiamo
avanti, che l’Egitto è partner irrinunciabile in affari.
Non è
l’unico caso in cui la memoria fa brutti scherzi. Nel Paese della
Resistenza e delle sue infinite (e sacrosante!) celebrazioni, per dirne
una, si assiste all’avanzata burbanzosa e impunita di alcune milizie
fasciste che innalzano labari, stampano fasci littori sui manifesti,
scimmiottano lo Schifoso Ventennio, accolte da scuotimenti di teste,
piccoli lazzi e molta tolleranza, nonostante esistano leggi in materia
(le meno applicate della Galassia).
La memoria, tra l’altro, è
variabile, anche in modo veloce e repentino. Sono passati solo un paio
di anni da quando si celebrava Lampedusa come terra della salvezza per
molti migranti, quando la si candidava al Nobel e ci si commuoveva per
le sue storie di accoglienza, quando la si indicava ad esempio. Ora che
si è spostato il problema qualche centinaio di chilometri più a sud, nel
deserto anziché in mare, quella memoria funziona meno, si tende a
scordarla, la si rimuove un po’. Quell’esempio non serve più, non si
incastra più con la narrazione corrente, che ora è “aiutiamoli a casa
loro”, e quindi il luminoso esempio di Lampedusa che li salva a casa
nostra non piace più. Una memoria vera, consapevole, vorrei quasi dire
militante, dovrà tener conto anche di questi andirivieni della memoria,
valore altissimo in balìa dei venti mutevoli delle furbizie, delle
tattiche, delle convenienze del momento.