Il Fatto 5.9.17
“La mafia non spara più: i politici se li compra”
Evoluzione
- Criminalità organizzata e corruzione stanno vincendo, i governi
garantiscono impunità e la globalizzazione offre nuovi affari
Pubblichiamo
la trascrizione dei principali interventi di Roberto Scarpinato,
procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, e di Nino Di
Matteo, sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia.
Il confronto si è svolto alla festa del Fatto alla Versiliana, venerdì
primo settembre.
Roberto Scarpinato. 25 anni
fa cade il Muro di Berlino, finisce l’Impero sovietico, finisce la
Guerra fredda, il bipolarismo internazionale che aveva ingessato la
storia italiana dentro la camicia di forza della Guerra fredda e il
sistema di potere politico che si era fondato sulla paura dell’avvento
dei comunisti al potere collassa improvvisamente, si sciolgono i
serbatoi del voto ideologico, il voto d’opinione viene messo in libertà e
all’improvviso quel sistema di potere si trova senza più le leve del
comando. Un vuoto di potere che allora abbiamo scambiato per l’inizio di
una nuova storia, ma oggi possiamo dire che è stata l’apertura di una
parentesi, che forse si va a chiudere, in cui la magistratura riesce a
fare indagini che prima non erano possibili.
La magistratura non
scopre Tangentopoli all’inizio degli anni 90, l’aveva scoperta anche
prima, ma il Parlamento aveva sistematicamente negato tutte le
autorizzazioni a procedere, quindi non era stato possibile avviare
indagini sulla corruzione. E Tommaso Buscetta, per anni, si rifiutò di
rivelare a Falcone quali erano i rapporti tra mafia e politica,
ripetendogli che l’Italia non era pronta. Buscetta inizia a parlare dopo
le stragi, quando il sistema di potere crolla e molti collaboratori di
giustizia ritengono che quegli uomini potentissimi che dovevano
accusare, non hanno più il potere che avevano prima e si apre una nuova
stagione dell’antimafia, e non è un caso che proprio in quel frangente
si verificò lo stragismo, negli anni ‘92 e ‘93, ultimo colpo di coda di
un sistema di potere che, nel momento in cui collassa, cerca con le
stragi di interferire col nuovo corso della storia italiana.
Nino
Di Matteo. Quello del 1992 è un periodo che nessuno di noi potrà mai
dimenticare. Io muovevo i primi passi da magistrato, da giovane
siciliano palermitano avevo coltivato quel sogno avendo come punto di
riferimento orazioni di Falcone e Borsellino, avevo fatto il tirocinio a
Palermo, li avevo conosciuti. Mentre facevo il tirocinio sono stati
uccisi nelle stragi di maggio e luglio.
Già Roberto Scarpinato ha
rilevato i punti di analogia tra l’azione delle Procure di Milano e di
Palermo, una magistratura che riacquista coscienza del valore della
propria indipendenza, della propria autonomia dalla politica, che
riacquista coraggio, una magistratura siciliana che sul sangue dei morti
si ricompatta, opera una svolta che per alcuni anni produrrà i suoi
frutti e i cui effetti purtroppo nella magistratura siciliana, ma in
generale, si sono esauriti da qualche anno. Ci sono tanti punti di
contatto tra mafia e corruzione. Sono due fenomeni che segnano la fine
della Prima Repubblica. E la mafia siciliana, quando inizia la propria
strategia stragista con l’omicidio Lima (marzo ‘92) intende – utilizzo
parole di Riina come ci sono state raccontate da pentiti di mafia –
“fare la guerra per poi fare la pace”, giocare un ruolo decisivo nel
delineare nuovi assetti di potere mafioso, politico, imprenditoriale.
Intende, attraverso gli omicidi eccellenti e le stragi, rinegoziare il
proprio ruolo di potere. Le stragi sono stragi politiche. Quelle del ‘92
e ancora di più quelle del ‘93, quelle di Roma, Firenze e Milano. Con
una natura terroristica che è anomala perfino per Cosa Nostra. In quel
momento – lo dice anche uno degli autori principali delle stragi del
‘93, Giuseppe Graviano –, bisognava fare le stragi per creare un nuovo
tipo di rapporto intenso, duraturo, importante, con la politica di alto
livello.
Il procuratore Scarpinato ha subito delineato il fatto
della ricerca di nuovi equilibri politici in quel momento da parte della
mafia. Fa impressione un dato oggettivo, pesante, lo sancisce una
sentenza passata in giudicato di cui pochi parlano e pochi vogliono
parlare e su cui pochi vogliono riflettere. Mi riferisco alla sentenza
del tribunale, e poi appello e Cassazione, su Marcello Dell’Utri. Quella
sentenza sancisce in maniera definitiva cioè che Dell’Utri, uno dei
fondatori di Forza Italia, è stato condannato per concorso esterno
perché è stato il tramite della stipula e poi del mantenimento di un
accordo intervenuto nel ‘74 e rispettato – così dice la sentenza –,
almeno fino al ‘92, tra l’allora imprenditore Berlusconi, di lì a poco
presidente del Consiglio, e le famiglie mafiose più potenti di Palermo.
Io mi chiedo se questa conclusione definitiva di Cassazione abbia avuto
un peso nella politica italiana. E la risposta non può che essere
negativa, se è vero che nei giorni in cui quella sentenza della
Cassazione veniva emessa e quelle motivazioni rese note, il presidente
del Consiglio Renzi discuteva con Berlusconi di come riformare la
Costituzione.
Scarpinato. Le stragi del ‘92 e ‘93 sono un
prolungamento della strategia della tensione, che come accertato in
varie sentenze, come quella su Bologna, è stata posta in essere nelle
fasi storiche in cui si temeva che il Partito comunista potesse arrivare
al governo. La storia italiana nasce con una strage, quella di Portella
della Ginestra (1 maggio ‘47) in un momento in cui si teme che il
blocco delle sinistre possa arrivare al potere. A fine anni 80 e inizio
90 la situazione è analoga. Il sistema di potere della Prima Repubblica
crolla e avanza la “gioiosa macchina da guerra” degli eredi di Pci e
sinistra Dc che si pronosticava potesse andare al governo. Erano in
molti a temere quest’evento. Non solo i mafiosi, ma anche tutti quelli
che, approfittando della Guerra fredda e della protezione Usa, si erano
resi responsabili delle stragi neofasciste e avevano coperto gli
esecutori materiali. Tutti costoro temono che un avvento delle sinistre
al potere possa determinare l’apertura di scenari per loro terribili.
Vari
collaboratori di giustizia ci dicono che i capi di Cosa Nostra, prima
di lanciare l’offensiva stragista, si sono riuniti mesi per discutere
del nuovo assetto politico dell’Italia e abbiamo anche risultanze
processuali che ci fanno capire che c’è stato qualcosa che è andato al
di là della mafia. Per esempio prima che inizi la strategia stragista,
prima di Lima, abbiamo Elio Ciolini, implicato nella strage di Bologna,
che scrive una lettera al giudice istruttore di Bologna annunciando che
di lì a poco sarebbe stato assassinato un importante esponente della Dc,
che da maggio a luglio si sarebbero verificate delle stragi e che poi
la strategia sarebbe stata portata al Nord per distrarre l’opinione
pubblica dalla mafia. O questo signore aveva la palla di vetro o,
evidentemente, era stata pensata anche altrove. Pensiamo ancora che poi
l’agenzia Repubblica, vicina ai Servizi segreti, 48 ore prima della
strage di Capaci annuncia che di lì a poco ci sarà un grande botto.
Gaspare Spatuzza ha rivelato che, quando stavano riempiendo di esplosivo
la macchina poi lasciata sotto casa della madre di Borsellino, era
presente un soggetto che non era di Cosa Nostra che non gli fu
presentato.
Quando viene rapito il figlio del collaboratore Di
Matteo, Giuseppe, si mette sotto intercettazione Di Matteo e la moglie.
Lei gli dice: “Tu hai capito perché hanno rapito nostro figlio, dobbiamo
salvare l’altro figlio, non parlare mai degli infiltrati della polizia
nella strage di via D’Amelio”. Questi e altri fattori aprono scenari
inquietanti perché sono indicativi del fatto che, così come avvenuto
nella strategia della tensione negli anni 70, anche nelle stragi del
‘92-’93 in momenti cruciali di pianificazione politica e scelta
obiettivi e anche nelle fasi esecutive, ci sono stati soggetti esterni
alla mafia che hanno svolto un ruolo importante.
Di Matteo. La
strage di via D’Amelio è stata accelerata rispetto ai programmi
originali dei mafiosi. Non era prevista l’eliminazione di Borsellino a
57 giorni soltanto dalla strage di Capaci e in un momento in cui,
credetemi, la reazione dello Stato, manifestata con il decreto legge 8
giugno ‘92, si stava spegnendo. A livello politico stava prevalendo
l’ipotesi di non convertire in legge il decreto che aveva introdotto il
41 bis. I mafiosi erano consapevoli che Falcone era un nemico per molti,
anche all’interno delle istituzioni, e la sua eliminazione, purtroppo,
era stata gradita anche in molti ambienti di potere. Nonostante questa
consapevolezza, i mafiosi hanno ritenuto di fare un’altra strage.
Bisogna capire il perché di questa accelerazione, per capire se riguarda
per caso anche quello sciagurato dialogo che alcuni ufficiali dei
carabinieri del Ros instaurarono con la mente politica di Cosa Nostra,
Vito Ciancimino, che una sentenza definitiva di Firenze dice che
oggettivamente provocò in Cosa Nostra la consapevolezza che la strategia
delle bombe pagasse. I primi omicidi eccellenti avevano fatto sì che
agli occhi di Totò Riina qualcuno dello Stato si fosse fatto avanti.
Aveva creato consapevolezza che le bombe stavano costringendo lo Stato
al dialogo, legittimando definitivamente Cosa Nostra come forza
politica. Bisogna insistere su questo, capire a fondo l’attentato a
Maurizio Costanzo, quello di via dei Georgofili, le stragi in
contemporanea a Roma e a Milano il 28 luglio, dirette contro due chiese,
capire perché le informative dei Servizi, venute fuori solo ultimamente
grazie al nostro lavoro a Palermo nell’ambito del processo sulla
Trattativa, avevano informato tutti di un possibile imminente attentato
nei confronti o del presidente della Camera Napolitano o del presidente
del Senato Spadolini. Ma bisogna capire anche, soprattutto, l’ultimo
anello della strategia stragista, l’attentato allo Stadio Olimpico,
quello in cui dovevano morire centinaia di carabinieri dopo una partita
di calcio.
Le indagini hanno dimostrato che quell’attentato era
pronto ed era stato materialmente predisposto per il 23 gennaio ‘94 in
occasione di Roma-Udinese. L’attentato fallisce per un cattivo
funzionamento del telecomando, ma tutti coloro che erano già presenti a
Roma erano pronti a ripeterlo la settimana successiva. C’è un nesso tra
questo fallito attentato e il fatto che 4 giorni dopo i principali
protagonisti – Giuseppe e Filippo Graviano – a Milano, dove si erano
recati per una vicenda relativa al provino nel Milan di un loro adepto,
vengono arrestati? C’è un nesso col fatto che gli equilibri politici
cambino di lì a poco? Ormai abbiamo capito il perché delle stragi,
bisogna capire perché improvvisamente, e non credo che l’arresto dei
fratelli Graviano possa essere il solo elemento, quelle stragi cessano.
In Cosa Nostra si diffonde il convincimento di aver raggiunto
l’obiettivo: far la guerra per la pace. Cosa Nostra si è dimostrata
capace di uccidere magistrati, politici di governo e di opposizione,
ufficiali dei carabinieri, questori, commissari, sacerdoti,
imprenditori, giornalisti. E ha nel suo Dna, da sempre, la ricerca
costante di rapporti di altissimo livello con la politica nazionale:
Andreotti, Dell’Utri (sentenze definitive lo attestano), Contrada, e con
il potere regionale (Cuffaro e Lombardo, per citare due casi).
Scarpinato.
La corruzione è oggi il principale strumento di penetrazione delle
mafie nelle istituzioni. Si è ridotto il tasso di violenza perché non
c’è più bisogno di uccidere, corrompi. Abbiamo un ceto politico che,
dopo il crollo della Prima Repubblica, ha progressivamente emanato una
serie di leggi che hanno impedito il contrasto giudiziario alla
corruzione. Oggi la corruzione è sostanzialmente impunita: su 60.000
detenuti, quelli condannati in sede definitiva per corruzione sono
talmente pochi che non sono statisticamente riportati. E c’è una
differenza fondamentale tra la corruzione della Prima Repubblica e
quella della Seconda. Nella prima, quando lo Stato italiano aveva il
potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato, poteva finanziare la
spesa pubblica in modo illimitato e finanziava anche la corruzione. Dopo
la fine della Prima Repubblica e poi con i trattati di Maastricht, e
l’importanza dell’Ue manifestata in rigorosi vincoli di bilancio, non è
più possibile finanziare la corruzione con la spesa pubblica. La
corruzione però è rimasta e, anzi, è aumentata, ma ora si finanzia con
il taglio ai servizi dello Stato sociale. Uno dei più famosi casi di
corruzione è il Mose di Venezia, 2 miliardi il costo iniziale previsto e
costo finale, invece, di 6 miliardi, di cui 4 di spesa di corruzione.
Nella Prima Repubblica questi 4 miliardi erano di spesa pubblica in più,
nella Seconda sono tagli agli ospedali, alle scuole, alle pensioni… Non
serve a niente minacciare delle pene severe, perché i colletti bianchi
che delinquono sono operatori razionali e prendono in considerazione il
concreto rischio di essere scoperti e le concrete conseguenze penali.
Oggi il rischio e il costo penale sono prossimi allo zero. Il rischio di
essere scoperto è ridotto perché nel mondo dei colletti bianchi c’è
un’omertà superiore a quella della mafia, tanto è vero che non abbiamo
quasi mai collaboratori. E il rischio è ridotto anche dalla
prescrizione, che l’Unione europea ha detto essere criminogena per come è
stabilita, perché impedisce di combattere la corruzione, perché non
decorre dal momento in cui io pubblico ministero accerto il reato, ma
dal momento in cui il reato è stato commesso. Quindi, tutta una serie di
reati, dall’abuso d’ufficio al traffico di influenze illecite, il
pilotaggio di gare d’appalto, il reato di frode nelle pubbliche
forniture, essendo puniti con pene inferiori a 5 anni, si prescrivono in
7 anni e mezzo da quando il reato è stato consumato. Se i reati sono
stati consumati 3 o 4 anni fa, a me restano uno o due anni per una
sentenza definitiva, impresa impossibile, e non c’è verso di avere una
normativa che sia ragionevole. Tutte le riforme che hanno fatto
ultimamente non servono, perché sospendere la prescrizione dopo la
sentenza di primo grado non serve, tenuto conto che i pm, di solito,
vengono a conoscenza dei reati qualche anno dopo che sono stati
compiuti.
Di Matteo. Il sistema mafioso, la sua integrazione col
suo sistema corruttivo, la diffusione di metodi mafiosi persino
nell’esercizio del potere istituzionale, costituiscono un fattore
gravissimo di compromissione della democrazia. Da magistrati, abbiamo
una sensazione sgradevole, quella di guidare una macchina della
giustizia che ha due velocità: potente ed efficiente quando vuole,
perfino spietata, nei confronti della criminalità comune, e
assolutamente incapace di sanzionare la criminalità dei colletti
bianchi. Penso, ad esempio, alla riforma della prescrizione, che deve
decorrere da quando il reato viene scoperto, oppure deve terminare
quando il magistrato esercita l’azione penale. In quel modo, ogni
intento dilatorio e di fuggire al processo, nonostante i corrotti si
possano avvalere degli avvocati più bravi, sarebbe inutile. Penso a una
riforma che, sulla falsariga di ciò che è previsto negli Usa, preveda la
possibilità di usare gli agenti provocatori per scoprire i corrotti
nella PA. Penso alla previsione di benefici sostanziali sulla falsariga
di quelli previsti per i collaboratori di giustizia per mafia per chi
collabora per reati di corruzione o contro la PA. Penso all’estensione
della normativa sulle misure di prevenzione patrimoniali per gli
indiziati di mafia nei confronti degli indiziati di fatti gravi di
corruzione. Sono tante le possibilità di riforma normativa di cui pure
si è parlato ma che normalmente si infrangono contro quella che è una
mancanza di volontà di considerare questi problemi come prioritari. Ma
oggi, addirittura, e torno a parlare di mafie, non solo non si vuole
andare avanti, ma si stanno mettendo in discussione quei capisaldi della
normativa che hanno fatto sì che comunque, almeno nei confronti della
mafia militare, i passi in avanti siano stati importanti. Si sta
nuovamente mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo,
cioè l’impossibilità per i condannati per mafia, di godere benefici. Si
sta cominciando nuovamente a mettere in discussione, attraverso anche,
purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto
del 41 bis, il carcere duro. Oggi, paradossalmente, ci tocca difendere
quegli strumenti normativi che tutto il resto del mondo ci invidia,
perché li riconosce come strumenti efficaci contro la mafia.
Oggi
gli attacchi all’autonomia della magistratura, che ci sono sempre stati,
non provengono solo dal ceto politico. Oggi quegli attacchi portati
avanti con campagne ventennali di delegittimazione non della
magistratura in generale, ma di quei magistrati che, intendendo il
principio della legge uguale per tutti veramente come tale, hanno osato
indagare anche sul potere, oggi quegli attacchi non provengono solo
dalla politica, ma hanno fatto breccia anche all’interno della
magistratura e dell’organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Si
stanno creando condizioni pericolose non per la magistratura, ma per i
cittadini. Nel 2006 è stata approvata la riforma dell’ordinamento
giudiziario che ha previsto una accentuazione della gerarchizzazione
delle procure e dei poteri dei pm. Si è venuta a creare una condizione
tale per cui gli organi di autogoverno hanno mutuato dalla peggiore
politica gli stessi meccanismi spartitori del potere, per esempio nelle
nomine dei capi degli uffici, che subiscono sempre di più la volontà di
un ceto politico che pregiudizialmente non vuole che certi uffici
nevralgici nella struttura giudiziaria complessiva del Paese vengano
affidati a magistrati realmente autonomi, coraggiosi, indipendenti, che
non tengano in nessun conto il principio di opportunità delle loro
iniziative politiche, ma solo il principio della doverosità delle loro
iniziative giudiziarie.
Sento sempre più nel nostro ambiente
affermare l’importanza della valutazione del principio di opportunità di
certe scelte giudiziarie. Per esempio, nell’ambito del Processo per la
trattativa, ci siamo sentiti dire “avete agito correttamente,
rispettando le norme quando avete citato Napolitano nel processo, avete
fatto bene, però non era opportuno”. Sapete quante volte, in indagini
come quella su Ilva o in altre, il criterio dell’opportunità finisce per
prevalere sugli altri? E quante volte il Csm tende ad assecondare i
desiderata politici di nomina nei posti direttivi di magistrati
sensibili a quel criterio? Questa è la fine dell’indipendenza della
magistratura e fino a quando crediamo nei valori costituzionali anche
noi magistrati dobbiamo avere il coraggio di dirlo.
Scarpinato.
Qualche anno fa, Time ha pubblicato una graduatoria dei giganti del
capitalismo americano. Nei primi 20, accanto a Rockefeller e Bill Gates,
ha messo anche Lucky Luciano. Ho chiesto ad alcuni giornalisti del Time
il perché della loro scelta. Risposta: “Prima di Lucky Luciano la mafia
americana era come quella siciliana, predatrice, quella delle
estorsioni, del racket. Lucky Luciano ha un colpo di genio: negli anni
del proibizionismo si rende conto che milioni di americani volevano beni
e servizi vietati e si inventa la mafia mercatista, che offre sul
libero mercato beni e servizi per cui c’è una domanda di massa. A fronte
di questa offerta, introita capitali che immette nel circuito
produttivo, aiutando il capitalismo americano a decollare”. Questa è
diventata una storia italiana.
Dal 2014, l’Ue ha stabilito che nel
calcolare il Pil dei Paesi membri bisogna calcolare anche il fatturato
della droga, della prostituzione e del contrabbando. Me lo sono fatto
spiegare da alcuni economisti: la mafia delle estorsioni sottrae risorse
al ciclo produttivo, se impone il suo monopolio è contro la concorrenza
e zavorra il Pil, la mafia mercatista invece, che offre droga e
prostituzione, a fronte della libera trattazione riceve una prestazione
monetaria che fa crescere il Pil. Quindi, ormai, la distinzione di base è
tra una mafia predatrice violenta classica e quella nuova, che aumenta
il Pil. La mafia russa, in un momento di crisi dell’economia spagnola,
ha cominciato a investire nella costruzione di villaggi, facendo girare
l’economia, e io credo che molti Paesi dell’Ue, in momenti di recessione
come questo, non abbiano interessi a fare l’analisi del sangue ai
capitali esteri che investono.
Perché non c’è una reazione
popolare? Io non credo sia per paura, credo che invece la mafia
mercatista, che si è insediata al Nord, si rapporti alle popolazioni
come un’agenzia che offre beni e servizi, immette capitali, fa girare
l’economia e che quindi sta diventando molto più pericolosa di quella di
Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Dopo la globalizzazione, la
creazione di un mercato unico delle merci, la crescita di reddito dei
Paesi emergenti consente milioni di nuovi ricchi nel mondo che vogliono
imitare lo stile di vita occidentale, il volume globale degli affari di
mafia è cresciuto in maniera tale che non è gestibile penalmente. Questo
è il terreno di riflessione che manca.
Di Matteo. C’è speranza di
capire chi sono quelli che hanno collaborato con Cosa Nostra per le
stragi? Chi siano i mandanti? Bisogna leggere le sentenze dei giudici
per comprendere che quelli che i mandanti a volto coperto ci sono. Ma
finora non c’è stata volontà di dare un nome. In questo momento storico
la ricerca dell’approfondimento della verità sulla stagione stragista è
rimasta sulle spalle di pochissimi magistrati e pochi investigatori, che
pagano prezzi altissimi, primo dei quali la solitudine assoluta,
trattati come gli ultimi giapponesi che non capivano che la guerra fosse
finita. Vengono denigrati, messi in ridicolo, così come abilmente
vengono delegittimati quei pochi collaboratori di giustizia che ancora
sono rimasti disponibili a cercare di aprire spiragli di verità.
Oggi
ci vorrebbe una mobilitazione forte, anche politica, un’iniziativa non
estemporanea da parte di una Commissione parlamentare. Tutto questo non
c’è. Non c’è la volontà, al di là di quello che si dice in occasione
degli anniversari del 23 maggio e 19 luglio, di completare quel percorso
di verità, anzi, quando c’è qualche iniziativa giudiziaria, che al di
là delle critiche che si possono muovere e che quindi si possono
accettare, come a noi a Palermo col processo alla Trattativa, che ha
portato alla sbarra contemporaneamente mafiosi riconosciuti come Riina,
Bagarella, Brusca, esponenti delle istituzioni e delle forze di polizia,
ed esponenti politici, ecco, quel processo è diventato il bersaglio
preferito da colpire, perché è il simbolo di quella pretesa della
magistratura di fare luce a 360 gradi.
Quando il capo dello Stato
Giorgio Napolitano ha mosso un conflitto di attribuzioni nei confronti
della Procura della Repubblica di Palermo, quel processo è diventato
ancor più un bersaglio, anche all’interno della magistratura. Ci sono
stati perfino procuratori generali di altri distretti, che nel discorso
di inaugurazione dell’anno giudiziario in Alto Distretto, hanno
criticato l’iniziativa della Procura della Repubblica e della Corte
d’Assise (fu Giovanni Canzio, a Milano). Quando si parla del processo
sulla Trattativa e di possibili mandanti occulti, tutto si può fare,
tutto si può criticare, anzi, chi muove delle critiche o degli attacchi
calunniosi è sempre da apprezzare.
Non è importante l’azione del
singolo magistrato o l’esito di questo o quel processo, certe volte da
questo punto di vista, nei momenti anche di maggiore scoramento, ho
l’orgoglio di essere appartenuto a un ufficio che comunque, negli anni,
al di là del fatto se le sentenze siano state di condanna o assoluzione,
ha fatto venire fuori determinati fatti che il potere non voleva far
venire fuori.
Avere stabilito, grazie alle iniziative giudiziarie
della Procura di Palermo, con sentenze definitive, che un politico sette
volte presidente del Consiglio ha trattato e incontrato personalmente i
capi della mafia palermitana prima e dopo l’omicidio di Pier Santi
Mattarella, parlandone prima e dopo, non è una cosa da poco. Avere
scoperto che uno dei fondatori del partito Forza Italia, Marcello
Dell’Utri, è stato colui il quale ha fatto da garante di un patto tra
Silvio Berlusconi e i mafiosi, non è cosa da poco. Non è cosa da poco
nemmeno aver stabilito, al di là di quella che sarà la sentenza, che nel
momento in cui i mafiosi mettevano le bombe, qualcuno dello Stato
andava a cercare i mafiosi e chiedeva loro – utilizzo le loro stesse
parole nel processo di Firenze –, “Cos’è questo muro contro muro? Cosa
si deve fare per far finire queste stragi?”.
Questi sono fatti che
l’opinione pubblica deve conoscere e che sono venuti fuori non grazie a
un impegno politico, ma grazie all’azione testarda e incisiva della
Procura della Repubblica di Palermo negli anni. I fatti sono fatti,
anche quando vengono giudicati in sentenza come non sufficienti per
condannare qualcuno, perché non c’è la prova del dolo, come avvenuto
anche in altri processi recentemente a Palermo, questo significa che i
fatti comunque si sono verificati. Adesso la partita è questa: vogliamo
una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i
criminali comuni o, come accadde miracolosamente all’indomani delle
stragi, possiamo aspettarci ancora che l’azione della magistratura si
diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato
in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia e per
il nostro futuro.