domenica 24 settembre 2017

Il Fatto 24.9.17
2018, la guerra araba e la “soluzione finale” per la mini-Palestina
Il conflitto coinvolgerebbe l’Iran per poi costringere la comunità mondiale ad accettare uno Stato tra Gaza e Sinai
Minaccia a lungo raggio – Il missile “Khorramshahr”. Il muro israeliano in Cisgiordania; Trump e Netanyahu
di Guido Rampoldi

“Ma è fortunato?”, domandava Napoleone quando i suoi generali gli proponevano la promozione di un ufficiale valoroso (lo racconta Stendhal, che combatté nell’esercito del Bonaparte). Il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi non sarà un generale valoroso ma certo è fortunato. In apparenza tutto gli è contro: una crisi economica durissima (in dieci mesi sul mercato nero il dinaro ha perso la metà del suo valore contro il dollaro), una fama ormai ingombrante di torturatore, motivo di disagio perfino per gli amici (le petro-monarchie del Golfo, sue finanziatrici; i salafiti egiziani, suoi sostenitori e complici nel golpe; e Trump, costretto a sospendergli gli aiuti militari a causa delle violazioni dei diritti umani). Ma proprio mentre gli astri gli promettevano sventura ecco la sorte venirgli in soccorso: d’un tratto è diventato imprescindibile per il piano col quale Israele e gli alleati arabi vorrebbero chiudere definitivamente il conflitto con i palestinesi.
Il progetto è realizzabile soltanto nella confusione di una guerra, quando tutti sono storditi dal fracasso dei cannoni e il paesaggio è nascosto dalle nuvole di polvere prodotte dai bombardamenti.
Ma perché le armi comincino a tuonare probabilmente non si dovrà attender molto. In un modo o nell’altro, tutti si preparano a quello. Proprio ieri, nel corso di una parata militare, l’Iran ha esibito un nuovo missile balistico, il “Khorramshahr”, secondo il telecronista della tv di Stato capace di colpire entro un raggio di 2000 chilometri (dunque anche Israele). Il giorno prima l’aviazione israeliana aveva bombardato un deposito di armi iraniano nei pressi dell’aeroporto di Damasco, in Siria. Altri segnali che non fanno presagire nulla di buono: un ammassare truppe (israeliane ai confini con Libano e Siria, oltre il quale Hezbollah avrebbe schierato diecimila uomini; turche e irachene a ridosso di territori controllati da milizie curde), un sospetto andirivieni di governanti tra le capitali mediorientali; e un frequente levare moniti e scambiarsi minacce che sembra procedere verso il crinale oltre il quale la paura di perdere la faccia sottometterà ogni ragionevole prudenza. Già le prossime settimane potrebbero avvicinare quel punto di non ritorno.
Al Sisi e il ruolo da indispensabile
Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno rischia di avviare una caotica guerra civile nell’Iraq settentrionale – curdi contro arabi e turcomanni – che potrebbe allargarsi rapidamente. E a metà ottobre Trump, nell’atteso discorso al Congresso, potrebbe proporre nuove sanzioni contro l’Iran, una punizione che porterebbe al collasso l’accordo sul nucleare concluso da Obama e dagli ayatollah.
Con tanta benzina al suolo e nessun pompiere all’orizzonte è difficile immaginare come i focolai non inneschino l’incendio in cui al-Sisi probabilmente conta per ritagliarsi un ruolo internazionale che lo renda indispensabile. La sua ambizione è ragionevole: mentre rifiuta ormai esplicitamente uno Stato palestinese nel West Bank, la destra israeliana invece accetterebbe uno Stato palestinese a Gaza, un piano coltivato fin dalla decisione di abbandonare la Striscia che valse a Sharon la sorprendente fama di ‘uomo di pace’. Ma Gaza è minuscola, non potrebbe mai accogliere la diaspora palestinese né parte degli abitanti del West Bank. Se però il suo territorio fosse triplicato l’idea di quello Stato avrebbe una qualche credibilità. Da qui un progetto di cui egiziani e israeliani avrebbero discusso già l’anno scorso.
Secondo il ministro israeliano Ayoub Kara, un fedelissimo di Netanyahu, quest’ultimo ne avrebbe parlato con Trump pochi mesi fa. In sostanza Israele si annetterebbe il 60% del West Bank, la cosiddetta ‘area C’, dove attualmente vivono 380mila ‘coloni’ israeliani e 300mila palestinesi, questi ultimi in condizioni sempre più precarie (per esempio, ricevono corrente elettrica poche ore al giorno e non possono installare pannelli solari perché non autorizzati). Quei palestinesi diventerebbero israeliani, ammesso che lo desiderino e che Israele rinunci a continuare la sua pulizia etnica ‘morbida’, condotta per via amministrativa. Oppure potrebbero trasferirsi a Gaza, dove il neonato Stato palestinese sorgerebbe inglobando vasti territori del Sinai egiziano. In cambio al Sisi otterrebbe territori equivalenti del Neghev israeliano, con uno scambio di zone desertiche. Questo sembrerebbe il piano di massima. Sia Gerusalemme che il Cairo hanno smentito l’esistenza, come del resto era inevitabile mancando un qualche placet palestinese e forse anche un accordo su questioni non secondarie, innanzitutto lo status di Gerusalemme Est e dei territori del West Bank esterni all’‘area C’.
Favori in cambio del controllo sulla Libia
Se però le trattative o la guerra imponessero una soluzione definitiva, al Sisi diverrebbe per gli occidentali l’uomo della provvidenza, un altro ‘uomo di pace’ come Sharon. E in questo caso passerebbe all’incasso. Nessuno probabilmente eccepirebbe se prolungasse il proprio mandato (scade tra 9 mesi) e continuasse ad ammazzare oppositori. Ma a quel punto al Sisi probabilmente chiederebbe di più, molto di più: chiederebbe la Libia. Per farne un proprio protettorato, ruolo nel quale diventerebbe l’arbitro di tutte le partite sul petrolio libico.
Le crisi arabe sono interconnesse e, ci piaccia o no, ci riguardano tutte. Discuterne ricorrendo alle categorie proposte dal giornalismo (l’Islam che ottunde i nostri valori, i migranti sessuomani che ci invadono) forse non aiuta a sviluppare lo strumento indispensabile in questi casi: un minimo di conoscenze e di lucidità.