sabato 2 settembre 2017

Corriere 2.9.17
Ora non sono più una parentesi della nostra storia
di Claudio Azzara

Il periodo della storia d’Italia caratterizzato dalla presenza dei longobardi, dall’anno della loro migrazione, il 568 o il 569, a quello della fine del loro regno, il 774, con la significativa prosecuzione nei principati di Benevento e di Salerno addirittura fino al secolo XI, si è prestato come pochi altri a letture deformate, preconcette e anacronistiche sia negli studi specialistici sia nella cultura più diffusa della nostra nazione. Del resto, esso offre una varietà di temi che di volta in volta ben si sono prestati a suscitare vaste risonanze e a suggerire confronti con il presente: la frantumazione politica della penisola, fra longobardi e bizantini, iniziata allora e destinata a ricomporsi solo con il Risorgimento; il rapporto fra un’etnia immigrata minoritaria ma dominante e una larga maggioranza romana ridotta a uno stato di subordinazione; infine, il primo esercizio di un esplicito ruolo politico da parte del papato a difesa della romanità cristiana, contro i longobardi, fino alla chiamata nella penisola dei franchi di Carlo Magno. Così, ad esempio, negli ambienti cattolico-liberali antiasburgici dell’Ottocento è risultata prevalente l’interpretazione, riecheggiata in letteratura dall’ Adelchi di Manzoni, che accostava, con un cortocircuito cronologico, la lontana sottomissione dei romani ai longobardi a quella di molti italiani del secolo XIX agli austriaci, esaltando l’intervento allora compiuto dai pontefici per la salvezza delle genti italiche. All’opposto, secoli prima, Machiavelli aveva lamentato come la fine del regno longobardo avesse rappresentato l’occasione mancata di una precoce unificazione politica della nostra nazione, inaugurando piuttosto la consuetudine delle ingerenze papali nelle vicende italiche e degli interventi di popoli stranieri (al tempo, i franchi) sul nostro suolo. Insomma, siano stati visti quali potenziali artefici di un regno «italiano» unitario già in pieno medioevo, oppure, al contrario, come un corpo estraneo, «germanico», rispetto alla più genuina identità nazionale d’impronta romana, mai assimilato e infine rimosso dall’iniziativa della Chiesa, i longobardi non hanno quasi mai beneficiato di una valutazione storicamente obiettiva e scientificamente fondata. È dalla metà del ‘900 che la vicenda longobarda è stata ricondotta a un quadro più ampio della sola storia nazionale, e affrancata dalla secca contrapposizione fra la «barbarie» germanica e la «civilitas» romano-cristiana, offrendosi piuttosto quale significativo caso di incontro fra tradizioni diverse su una scala europeo-mediterranea. Oggi i secoli dell’Italia longobarda vengono riletti come un processo di integrazione fra la cultura dell’etnia immigrata e quella della popolazione autoctona fino alla creazione di una società nuova e originale. I longobardi non figurano più come una parentesi nel fluire dalla storia patria, ma come un tassello costitutivo della stessa, che ha lasciato il suo contributo (quantitativamente inferiore ad altre esperienze, ma non irrilevante) alla nostra assai composita identità, da varie tracce linguistiche, toponomastiche, artistiche, alla lunga persistenza del diritto dei longobardi, almeno in alcune materie, fino alle soglie dell’età moderna. E il recente riconoscimento da parte dell’Unesco del sito seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.), che tutela sette monumenti longobardi in diversi luoghi, dal Friuli alla Campania, ha ulteriormente legittimato la cura della memoria dei longobardi all’interno dell’immenso patrimonio storico e culturale italiano. *Docente all’Università di Salerno e autore de I Longobardi (Il Mulino)