domenica 24 settembre 2017

Corriere 24.9.17
Sicilia, Musumeci è in testa con il 38% Male il candidato pd, Mdp a un passo
Il centrodestra unito stacca Cancelleri (M5S): 31%. Micari al 13, Fava al 10. Pesa l’astensione
di Nando Pagnoncelli

La sfida siciliana è vista come un test anticipatore dei risultati delle prossime elezioni politiche previste nella primavera del 2018. Forse è un’ipotesi eccessiva, ma sicuramente la contesa potrà influenzare umori degli elettori, orientamenti e percorsi politici in previsione della consultazione nazionale. È quindi interessante analizzare le tendenze che emergono dal nostro sondaggio. Anche perché gli schieramenti sembrano essere, questi sì, anticipatori dell’offerta politica che con ragionevole probabilità ci si troverà alle Politiche: il centrodestra unito, il centrosinistra diviso con la sinistra che si presenta autonomamente, i 5 Stelle naturalmente da soli.
Nella lettura dei dati occorre ricordare la situazione di difficoltà che nella regione vivono il M5S e il suo candidato Cancelleri, a causa della sospensione delle «regionarie» da parte della magistratura.
L’operato dell’amministrazione uscente registra una valutazione decisamente negativa. I sostenitori si fermano a poco più di un quinto degli elettori, mentre i detrattori arrivano ai tre quarti dei cittadini siciliani. È una valutazione assolutamente trasversale: gli elettori di tutti i principali candidati si esprimono grosso modo alla stessa maniera.
Nella corsa alla presidenza i candidati partono da posizioni molto distanti per notorietà. Se Vittorio Sgarbi è notissimo (88% dichiara di conoscerlo), e Musumeci evidenzia un dato consistente, con il 70% che lo ha almeno sentito nominare, per gli altri tre le cose cambiano. Fava è conosciuto dalla metà dei siciliani, una percentuale molto simile emerge per Cancelleri (48%), mentre la notorietà di Micari è ancora molto bassa (meno di un terzo dichiara di conoscerlo). Come sappiamo, questi elementi influenzano le dichiarazioni di voto. È noto infatti che la maggiore notorietà, soprattutto agli inizi della campagna elettorale, tenda a favorire una più elevata espressione di voto.
Il gradimento dei candidati vede una situazione molto simile per tutti, al netto della differenza di notorietà precedentemente evidenziata. La percentuale di chi esprime un gradimento positivo è infatti sostanzialmente analoga, per i cinque principali candidati, alla percentuale di chi invece si esprime negativamente. Se guardiamo al saldo algebrico fra opinioni positive e negative, tutti i candidati si aggirano intorno allo zero. Al primo posto Claudio Fava, con un +4%, e un gradimento del 23% (sul totale degli elettori, compreso chi non lo conosce), seguito da Sgarbi con un +2% e un gradimento del 41% e da Cancelleri, anch’egli con un +2% ma un gradimento complessivamente più basso a causa della ridotta notorietà, pari al 22%. Segue Musumeci con un +1%, poiché gli estimatori (31%) sono di poco superiori ai detrattori (30%). In coda si colloca Micari che evidenzia un salto di poco negativo (-1%). Nel suo caso i sostenitori (12%) sono di un punto sotto ai critici (13%).
Richiesti di esprimersi sul voto al candidato una quantità impressionante di elettori si sottrae: gli incerti o i propensi ad astenersi assommano complessivamente al 61%. Pur essendo una cifra davvero importante, non è una vera novità per la regione. Nelle elezioni del 2012 infatti la partecipazione per la prima volta scese al di sotto del 50% (si presentò ai seggi il 47,4% degli elettori) e, se guardiamo ai voti validamente espressi, il dato scende ancora, attestandosi al 45,7%. Significa che oltre il 54% degli elettori allora non si pronunciò. Una percentuale non così distante dal 61% che registriamo oggi. Si tratta quindi di una competizione che non sta entusiasmando ed è lecito aspettarsi una bassa partecipazione.
Le intenzioni di voto privilegiano Musumeci, che ottiene il 38% dei voti (pari, è bene ricordarlo, al solo 15% degli elettori), seguito con un distacco di circa sette punti da Cancelleri (31%). Nettamente distanziato, al terzo posto si colloca Micari, accreditato del 13%, subito dietro Fava al 10% (se ragioniamo sugli elettori la distanza si riduce a un solo punto). Troviamo infine Sgarbi, con un consenso del 5%, mentre tutti gli altri candidati insieme sono stimati al 3%. Se questi saranno i risultati, si consoliderà la tendenza all’aggregazione nel centrodestra, mentre il Pd dovrà riflettere ulteriormente sulle pur complicate alleanze e allargamenti del proprio campo. Si aprirà, dopo le elezioni siciliane, il rush finale dei posizionamenti prima della campagna politica.

Corriere 24.9.17
Rosatellum, il Nazareno teme il blitz della minoranza dem
I dubbi di Renzi: ce la facciamo?
di Monica Guerzoni

ROMA «Speriamo ci siano i numeri...». Renzi non bluffava quando ieri, da Trani, ha rilanciato l’auspicio che l’Aula della Camera non impallini anche l’ultimo tentativo di riformare in extremis la legge elettorale. «Ce la facciamo?», continua a chiedere il segretario del Pd a Ettore Rosato, Lorenzo Guerini e Emanuele Fiano, i tre dirigenti che hanno in mano i fili del groviglio. E oggi dal palco di Imola, chiudendo la Festa nazionale dell’Unità, l’ex capo del governo confermerà il suo sostegno al Rosatellum 2.0, pur ribadendo che le priorità per gli italiani sono «le cose vere, i problemi veri».
La legge elettorale non sarà dunque il cuore dell’intervento di Renzi, perché il rischio che il nuovo testo faccia la fine del precedente è alto e il segretario non vuole intestarsi l’eventuale sconfitta parlamentare. Se il leader dem ha dei dubbi, assicurano i suoi, non riguardano tanto il mix di proporzionale e maggioritario concordato con Forza Italia, Lega e Ap, quanto il rischio che il testo non sopravviva all’assalto dei franchi tiratori. «Ci sono sempre stati e sempre ci saranno — ammette Rosato — Io sono ottimista ma chiedo compattezza ai gruppi, nel rispetto dell’accordo».
Per affossare la legge bastano poche decine di voti in dissenso e i conteggi del Nazareno sono da allarme rosso. La minoranza del Pd ha un’ottantina di deputati, un drappello che da solo basterebbe a far saltare il patto nel segreto dell’urna. È vero che Andrea Orlando ha dichiarato di preferire il nuovo sistema rispetto ai due usciti dalle sentenze della Consulta, ma è vero anche che il Guardasigilli insiste nel chiedere di aumentare la quota maggioritaria. «Segno che non vuole la riforma», sospettano i renziani. E poiché nel giro ristretto dell’ex premier sono convinti che il patto con Berlusconi sia «a prova di bomba», il resto dell’incertezza è nell’insistenza con cui Cuperlo invoca il voto disgiunto. «Per Forza Italia è inaccettabile, come le preferenze — avvertono al Nazareno — Basta che passi un solo emendamento e la legge è morta».
Con mezzo Pd che vuole il premio alla coalizione, da Orlando a Franceschini, l’ex premier ha ben chiaro il rischio di fare «la parte del cattivo», colui che in fondo preferisce votare con il proporzionale e i capilista bloccati. «Se andiamo alle elezioni col Consultellum Prodi e Veltroni ci sparano addosso» è il timore che aleggia al Nazareno, i cui dirigenti assicurano di avere tutto l’interesse ad approvare il Rosatellum. Primo, perché mette in difficoltà il M5S. Secondo, perché per prendere un centinaio di seggi al Pd basterebbe una coalizione che nei collegi tenesse dentro Pisapia.
Il movimento di D’Alema e Bersani denuncia l’«imbrogliellum» e Renzi non crede nemmeno un poco al miracolo di un accordo con i fuoriusciti: «Mi odiano e basta». Ma non sarà lui a dire che l’alleanza di centrosinistra non s’ha da fare. Non a caso Maurizio Martina vede nel Rosatellum «la possibilità di un nuovo lavoro unitario» e sprona gli ex compagni ad «aiutare il Pd invece di dire sempre no». Siamo al gioco del cerino. Bersani propone le primarie tra Renzi e Pisapia, ma è una finta apertura, visto che vuole in cambio il Mattarellum: «Rosato dice che l’abbiamo bocciato noi? È una menzogna».
Lo scompiglio si avverte anche tra i renziani. C’è chi si sente più al sicuro con le leggi della Consulta e chi si è convinto che il Rosatellum favorisca l’unità del centrodestra. Con un listone Berlusconi, Salvini e Meloni potrebbero raggiungere il 40% e agguantare il premio, traguardo che per Renzi è un miraggio.
Cosa abbia in mente Mdp lo teorizzava Orlando l’altra sera a Cesenatico, alla Summer School di Lavoro&Welfare: «La reazione di D’Alema è così dura perché vuole che Renzi perda le elezioni, così noi usciamo e lui rifá il centrosinistra dalle macerie del Pd».

Corriere 24.9.17
lo ius soli e i dubbi legittimi
di Ernesto Galli della Loggia

Perché la maggior parte degli italiani, come indicano tutti i sondaggi, sono contrari alla nuova legge sulla cittadinanza nota come ius soli ? A questa domanda — forse non del tutto irrilevante nel momento in cui da molte parti si auspica o si annuncia come prossimo il completamento in Senato dell’ iter di approvazione della legge — ci sono tre risposte possibili: a) supporre che i suddetti italiani siano male informati, e quindi ignorino quello che in realtà dice la legge; ovvero b), ritenere che per qualche misteriosa ragione sempre i suddetti italiani siano naturalmente predisposti a nutrire sentimenti xenofobi e/o razzisti; oppure, terza risposta, c), pensare che la legge presenti effettivamente aspetti discutibili capaci di destare a buon motivo perplessità se non allarme.
Secondo me legislatori saggi e pur favorevoli in generale alla legge dovrebbero fare propria quest’ultima risposta: e dunque provare a vedere che cosa c’è nella legge che lascia dubbiosi. Provo a dirlo io secondo il mio giudizio: è il fatto che per la sua parte centrale la legge sullo ius soli è pensata e scritta secondo una prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale. È centrata esclusivamente sul candidato alla cittadinanza in quanto singolo.
Come si sa, infatti, la cittadinanza italiana sarebbe d’ora in poi dovuta di diritto a chiunque, compiuto il diciottesimo anno di età, sia nato in Italia da genitori stranieri o vi sia arrivato prima dei dodici anni.
e inoltre che in Italia abbia compiuto con successo un ciclo scolastico di almeno 5 anni o un corso d’istruzione o formazione professionale triennale o quadriennale. La legge insomma prescinde del tutto dal contesto culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e politici. Si richiede solo che uno dei genitori abbia un regolare permesso di soggiorno, un’abitazione degna di questo nome, un reddito minimo e sappia parlare italiano. Così come essa prescinde dagli eventuali vincoli di fedeltà che il candidato di cui sopra abbia contratto con altre istituzioni o Stati. Non è un caso che per il futuro cittadino italiano non sia previsto, mi sembra, l’obbligo della rinuncia a ogni altra nazionalità di cui sia eventualmente già in possesso (come è quasi certo).
Ora, se si vuol stare coi piedi per terra è giocoforza ammettere che a proposito della nuova legge le preoccupazioni dell’opinione pubblica nascono in specie in relazione ad una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura islamica. Sono preoccupazioni realistiche. È in tale ambito, infatti, che si registra la presenza di un fortissimo vincolo familiare e di gruppo, cementato e per così dire sublimato da un altrettanto forte comandamento religioso: entrambi in grado di condizionare in misura decisiva mentalità e comportamenti del singolo. Di tenerlo legato ad un’appartenenza che, come è stato più e più volte dimostrato, è pronta, a certe condizioni, a non tenere in alcun conto regole, principi, fedeltà che non emanino da fonti diverse da quelle suddette. Non è possibile ignorare che è proprio un tale nodo di vincoli e di appartenenze a sfondo cultural-religioso- familiare che quasi sempre si delinea dietro gli ormai innumerevoli episodi di terrorismo islamista che da anni insanguinano l’Europa.
Ma non è solo di questo che si tratta. C’è un ulteriore insieme di problemi e un ulteriore ordine di esigenze non attinenti questa volta all’ordine pubblico ma piuttosto all’ordine culturale di una comunità. In questo caso della comunità italiana, la quale legittimamente desidera continuare a riconoscersi come tale e quindi a conservare i propri valori e stili di vita. L’esigenza, per fare alcuni esempi, che le bambine non vengano rispedite a dodici anni nei propri Paesi d’origine per essere sposate contro la propria volontà, che nell’ambito familiare non sia impedito a nessuno di uscire di casa quando vuole e di apprendere l’italiano, che in generale vengano riconosciuti alle donne diritti e possibilità eguali a quelli riconosciuti agli uomini. È davvero così disdicevole o addirittura reazionario voler essere sicuri che chi acquista la cittadinanza italiana, i nostri nuovi concittadini, siano fermamente convinti delle esigenze che ho appena detto, che essi condividano questi elementi di base della cultura della comunità italiana, senza che ci sia bisogno che intervengano a ricordarglielo ogni due per tre carabinieri o magistrati? A me sembra di no.
Il fatto è che se l’obiettivo pienamente condivisibile della legge sullo ius soli è l’integrazione nella società italiana, allora appare del tutto irragionevole supporre che una tale integrazione presenti gli stessi problemi per chi proviene, faccio un esempio, dal Perù o dal Congo. Appare del tutto sensato, invece, supporre che nel secondo caso l’integrazione sia assai più lunga e difficile, presenti aspetti assai più complessi. E poiché evidentemente la legge non può fare discriminazioni, appare allora altrettanto sensato pensare ad un testo di legge diverso da quello attuale, e cioè «tarato» sulla fattispecie più difficile, vale a dire sull’immigrazione proveniente dalle culture più distanti da quella italiana.
Tra le quali dobbiamo riconoscere che la prima in assoluto è di fatto quella islamica. Per ragioni che dovrebbero essere ovvie: perché è quella con la quale l’Occidente ha da oltre un millennio un confronto-scontro anche assai aspro che ha lasciato eredità profonde da ambo le parti, perché è quella che in ambiti identitari cruciali — come la pratica religiosa e cultuale, il rapporto tra i sessi, le regole alimentari — ha le più marcate diversità rispetto a noi, e infine, e soprattutto, per una drammatica ragione geopolitica di fronte alla quale sarebbe da sciocchi chiudere gli occhi.
Infatti, da un lato l’azione spesso violenta delle correnti islamiste antioccidentali, dall’altro il poderoso lavoro di penetrazione che grazie alle proprie immense risorse finanziarie molti Paesi arabi vanno compiendo in Europa, entrambe queste strategie si fanno forti in vario modo per i loro disegni della presenza nel nostro continente di vaste comunità musulmane. Stando così le cose è ovvio l’importante aiuto che la concessione della cittadinanza può oggettivamente offrire a questi progetti. E stando così le cose, è più che lecito chiedersi se sia davvero immaginabile che il semplice fatto, come immagina la legge, di avere frequentato le nostre scuole elementari (un ciclo d’istruzione di cinque anni appunto) possa realmente legare all’Italia, alla sua cultura e ai suoi valori un giovane che, mettiamo, per il resto della sua esistenza sia vissuto però entro un contesto familiare, religioso e di gruppo fortemente islamizzato. Se sia sufficiente una siffatta garanzia o non sia piuttosto il caso di prenderne in considerazioni anche delle altre. Per decidere quali non mancano certo in Parlamento e nel Governo le conoscenze e le competenze necessarie.
L’importante è tenere a mente che in questo genere di faccende riguardanti il più vitale interesse nazionale non dovrebbe esserci posto né per il «buonismo» né per il «cattivismo», non dovrebbe esserci posto per il partito preso, per la superficialità o per la demagogia (né per quella di destra né per quella di sinistra). Qui dovrebbe parlare solo la voce del senso comune e del realismo: e bisogna sforzarsi di credere che nella vita politica del Paese non manchino le voci capaci di parlare questo linguaggio.

Repubblica 24.9.17
 Il ministro ospite di Atreju, la kermesse di Fratelli d’Italia Fischi solo sul fascismo: “Pagina finita”
Il “patriota” Minniti applausi e autografi alla festa di Meloni
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
Quando un giovane patriota con la spilletta di Fratelli d’Italia implora un autografo a Marco Minniti, Ignazio La Russa sfiora la pietrificazione. «Invitare ad Atreju uno che viene a lisciare il pelo ai nostri – rimugina - può essere rischioso». E che rischio, perché in sala c’è voglia matta di annusare il primo post comunista atterrato agli Interni con la fama di sceriffo. Alchimia destabilizzante, a queste latitudini. Salva tutti il faccione del Duce e la legge Fiano, che rompe l’incantesimo e ridisegna confini da avversari. «È stata una bella lotta», si salutano a sera Giorgia Meloni e il titolare del Viminale, con lo stesso sospiro di sollievo.
Officine Farneto, Roma Nord. C’è tanta destra in questo magazzino “made in Ventennio” trasformato in sala eventi con vista sull’Olimpico. Tanti giovani, come sempre dalla Meloni. E tantissimi che allo ius soli preferiscono l’orticaria. Alle 18 spaccate fa capolino il completo blu scurissimo quasi nero di Minniti. E l’esperimento ha inizio. È una partita in due tempi. Il primo sembra tiki taka. «Ci siamo occupati di tutelare i confini », e giù applausi. «L’Ue non faceva abbastanza, ma l’Italia doveva fare la propria parte», ecco altri applausi. Così tanti che Crozza andrebbe a nozze, e infatti: «Chissà cosa dirà se continuate così…». Niente, applaudono lo stesso. «Guardate che sono Minniti, non Crozza!». Risate. «Lo sapevo – si tortura una militante romana –questo dice le nostre stesse cose. Questo ce sfonda!».
Questione di feeling, forse. E tanto mestiere, come quando il ministro rispolvera un vecchio aneddoto. Era sottosegretario alla Presidenza, ebbe in dote a Palazzo Chigi la scrivania di Mussolini: «E Giuliano Ferrara – che cattiveria! - scrisse che aveva parlato con me e che quella scrivania era in buone mani…». E a proposito di capoccione: «Il mio mi ha sempre accompagnato, abbiate clemenza».
Risate, che diventano musica quando nella sala “Italo Balbo” il ministro ricorda la passione per il volo: «Io sono un ammiratore dell’aeronautica. Ma quando Balbo diceva “chi vola vale, chi vale e non vola è un vile”, beh, diceva che volare è una passione ed è sbagliato non assecondarla. Questa non è cultura della destra, ma cultura di una vita positiva». Boato.
Poi però qualcosa si inceppa. Colpa della storia, quella con la S maiuscola. «Sarà un duello a destra – profetizzava alla vigilia e un po’ per gioco Fabio Rampelli – ma se parla della legge Fiano…». Ci pensa il direttore del Tg4 Mario Giordano, implacabile. Minniti la difende, i fischi lo travolgono. «E il comunismo? E Stalin? E la Corea con la sua bomba atomicaaaa? ». Il secondo tempo ha inizio. «È positivo se la destra trova il coraggio di fare fino in fondo i conti con alcuni temi – tiene il punto il titolare del Viminale - Quella storia drammatica è finita per sempre». È un attimo, l’autografo torna nello zainetto. «E voi del Pci perché non fate i conti con la vostra storia?», urlano in platea. «Ma il Pci metteva sempre al primo posto l’interesse nazionale, combattè il terrorismo, come fate a non capirlo! Non si torni mai più ai tempi di quando eravamo nemici». «E che c’entra, rispondi alle domande!». «Ragazzi, calma», si spendono gli organizzatori tirando di nascosto un sospiro di sollievo. E il ministro: «Meglio così, sennò sembrava inciucio, il dibattito vero mi gasa… Fischiate pure, mi rafforzate nelle opinioni».
È una platea frizzante, da sempre. Non fece sconti a Berlusconi, né a Fini. Tutto sotto controllo, secondo Meloni, che ha già assicurato a scanso di equivoci di non volere Minniti in un suo ipotetico governo. «Quando l’ha detto – sorride Minniti - sono stato contento. Ed è giusto, perché noi siamo avversari politici». Il finale è di nuovo in crescendo. «Gli sgomberi li ho fatti io», rivendica. E sull’Islam, i sermoni e le moschee «fino a ieri tante chiacchiere, poi è arrivato un ministro e ha agito. Mi spiace, ma è così». Torna il sereno, Minniti va via veloce: «Tutto si può dire – sussurra ma non è stato certo un dibattito diplomatico». E Giorgia Meloni: «La nostra è una platea matura, capisce bene le differenze». Chissà quanti dubbi, invece, la signora intercettata all’uscita da tutte le tv: «Sono dell’altra parte, ma all’Interno ha fatto più di tutti i suoi predecessori». Come può uno scoglio arginare il mare?
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L’esponente dem elogiato per la linea sull’immigrazione. E lui: “Sono io, non Crozza”
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GLI AUTOGRAFI
Il ministro Marco Minniti ieri alla festa di Fratelli d’Italia, accolto dalla leader del partito Giorgia Meloni Il ministro dell’Inteno ha anche firmato degli autografi a due giovani militanti

il manifesto 24.9.17
Populismo e astensione, ma comunque Merkel
Germania oggi al voto. La cancelliera verso il quarto mandato consecutivo. Schulz in recupero nei sondaggi. Meno donne in lista, solo Linke e Verdi fanno eccezione. Nel prossimo parlamento caleranno dal 37% al 31,7%
di Sebastiano Canetta

BERLINO Oggi la Germania elegge il nuovo Bundestag. Urne aperte dalle 8 alle 18 per 60,5 milioni di tedeschi attesi nelle 299 circoscrizioni della Repubblica federale. Per tre milioni di cittadini sarà il primo voto nazionale, mentre rimane incalcolabile il peso dell’astensione. L’unico dato acquisito è che il prossimo Parlamento avrà molte meno donne di quello attuale.
Secondo gli ultimi sondaggi il quarto mandato da cancelliera di Angela Merkel appare solo questione di ore, anche se lo sfidante Spd Martin Schulz ieri veniva segnalato in recupero.
SULLA CARTA spiccano le «forbici» dei 6 partiti (sul totale di 42) destinati a superare lo sbarramento parlamentare del 5%. Nei test dei vari istituti, l’Union Cdu-Csu risulta fra 34 e 36%, la Spd da 21 a 22%, Afd 11-13% mentre la Linke oscilla tra 9,5 e l’11%. I liberali vengono rilevati al 9-9,5%, i Verdi contano il 7-8%.
Nell’ipotetica sfida diretta Merkel-Schulz, «Mutti» vincerebbe 45 contro 32% – secondo la misurazione Emnid pubblicata su Bild am Sonntag – il miglior piazzamento del candidato Spd dalla sua nomina a leader del partito. Appena un mese fa il distacco tra i due era di 51 a 22%, ma l’attuale distanza appare comunque incolmabile.
«Stiamo combattendo fino all’ultimo minuto per impedire il successo di Afd. Per la prima volta dal 1945 corriamo il rischio che entri in Parlamento la “tomba” della democrazia» ha scandito ieri Schulz dal palco di Aquisgrana di fronte a 4 mila persone, chiudendo l’ultimo comizio prima del voto.
Mentre Merkel – reduce dai fischi nel tour elettorale di Monaco – da Berlino spiegava ai Giovani Cdu come «molti elettori decidono all’ultimo momento», prima di concludere la campagna a Greifswald, in Mecleburgo-Pomerania, nel suo collegio elettorale, dove la Cdu venne sconfitta da Afd alle regionali di settembre 2016. Proprio il voto nei sei Land dell’ex Ddr – roccaforte dei populisti ma anche primo bacino della Linke – sarà più che fondamentale.
NONOSTANTE LE DONNE siano la parte più consistente dell’elettorato (31,7 milioni contro il 29,8 di uomini) nelle liste dei partiti tedeschi sono sempre meno rappresentate. Solo Linke e Verdi ne valorizzano la presenza sulla scheda elettorale: nella Sinistra spicca il 51% di candidate, tra i Grünen salgono a quasi il 54%. Un abisso rispetto ai liberali (23% circa), cristiano-sociali (27%) e alla Cdu della «ragazza dell’est» e «mamma» Merkel che lascia solo il 39,8% dei posti alle cristiano-democratiche. La quota-rosa dei socialdemocratici di Schulz corrisponde al 40,8%, mentre tra i candidati Afd la presenza femminile – con buona pace della candidata Alice Weidel – è ridotta al lumicino del 12,8%.
Il risultato è che il 37% di parlamentari donne dell’attuale legislatura da domani si ridurrà al 31,7%. Non proprio un bel biglietto da visita per il nuovo Parlamento.
TUTTI ALLE URNE? Il trend è certo pan-europeo, ma l’astensione è diventata un vero e proprio caso politico nella Grosse Koalition.
«Meglio non votare affatto, piuttosto che votare per Afd» si era lasciato sfuggire martedì scorso Peter Altmaier, capo della cancelleria, ministro per gli affari speciali, e soprattutto braccio destro di Angela Merkel; prima di precisare: «Afd divide il Paese sfruttando le paure della gente: un voto per loro non è giustificato».
Immediata la replica del collega Cdu Thomas de Maizière, ministro dell’interno e primo garante delle elezioni: «Nein: ciascuno deve esercitare il proprio diritto di voto e presentarsi alle urne», così come la secca risposta del capogruppo Spd al Bundestag Thomas Oppermann: «Consiglio sbagliato».
A mettere la parola fine all’incidente è stata proprio Merkel con l’invito via radio 1Live ad «andare a votare per i partiti che rispettano la Costituzione» seguita da Schulz che ha precisato: «Più alta sarà l’affluenza, più bassa la possibilità dell’estrema destra di entrare in Parlamento».
IN PARALLELO, da Berlino a Colonia, da Amburgo a Monaco, massima attenzione di tutti i candidati sul voto postale, modalità di espressione sempre più utilizzata dagli elettori tedeschi: le preferenze via lettera (attraverso Deutsche Post) sono aumentate in maniera esponenziale: erano il 9,8% nel 1990, sono diventate il 24,3% nel 2013, oggi potrebbero essere una parte ancora più rilevante sul totale dei consensi.

il manifesto 24.9.17
Avanza il partito del non voto, reddito e lavoro fanno la differenza
La ricerca della Fondazione Bertelsmann. Dal 1998 alle elezioni federali del 2013 l’affluenza segna oltre 10 punti percentuali in meno: milioni di persone nel corso di un quindicennio si sono disconnesse dalla politica. Sono quelle che abitano nei quartieri con il reddito pro capite più basso e con il tasso di disoccupazione più alto, senza differenze fra Est e Ovest
di Jacopo Rosatelli

Nessuna suspense: stasera Angela Merkel sarà ancora saldamente cancelliera. Il nodo da sciogliere nelle prossime settimane sarà quello della coalizione, se con i socialdemocratici (Spd) o con l’inedita formula a tre con liberali (Fdp) e Verdi. Il vero interesse alla chiusura delle urne, come affermano tutti i media, starà nel misurare quanto pesante sarà il molto probabile arretramento della Spd e, soprattutto, quanto ampio il balzo in avanti della destra dell’Alternative für Deutschland (AfD).
C’è però anche un altro dato che andrà osservato attentamente, e che troppo spesso viene ignorato: quello della partecipazione al voto. È in quella cifra, infatti, che si cela una delle chiavi per interpretare cosa stia accadendo in una Repubblica federale che appare narcotizzata dalla sua cancelliera democristiana.
L’ascesa e poi il consolidarsi del dominio di Merkel, infatti, sono andati di pari passo con l’aumento dell’astensionismo. E, più precisamente, con l’aumento dell’astensionismo nei quartieri popolari delle aree urbane, come dimostrato da attente ricerche dalla Fondazione Bertelsmann, prestigioso think tank.
QUANDO LA SPD vinse le elezioni del 1998, interrompendo il lungo ciclo di governo del «cancelliere della riunificazione» Helmut Kohl, a recarsi alle urne fu l’82,2% degli aventi diritto. Sommando le percentuali ottenute dai partiti «a sinistra del centro» si otteneva il 52,7% dei voti espressi, i socialdemocratici venivano scelti da 20 milioni di tedeschi. La prima affermazione dell’attuale cancelliera, sette anni dopo, avvenne con un’affluenza del 77,7%: una caduta di partecipazione che cominciava a essere significativa, specchio di una disaffezione che allora colpiva entrambi i grossi partiti. La Spd si era inimicata parte del proprio elettorato operaio tradizionale con le famigerate riforme neoliberali della cosiddetta «Agenda 2010», e Merkel, al primo appuntamento da leader, fece una campagna elettorale disastrosa. La ex «ragazza di Kohl» divenne capo del governo solo per il rotto della cuffia, avendo avuto appena l’1% in più della Spd, e nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla sua capacità di tenuta.
NEL 2009, dopo quattro anni di grosse Koalition, il crollo dell’affluenza: il 70,8%, la più bassa nella storia della Repubblica federale tedesca. I democristiani vinsero, ma perdendo per strada moltissimi elettori, circa 2 milioni. Merkel rimase in sella solamente grazie al tracollo degli alleati-avversari socialdemocratici, che subirono un’emorragia di oltre 6 milioni di voti. Al governo, nel ruolo di partner minore, subentrò la Fdp, e una legislatura di opposizione consentì alla Spd di arrestare la caduta libera, ma poco di più. Le successive elezioni federali, le ultime celebratesi prima di oggi, sancirono per la prima volta chiaramente un trionfo politico di Merkel con lo sfondamento della barriera del 40% dei consensi espressi, ma si svolsero anch’esse nel segno dell’apatia: a votare andò appena il 71,5%. In termini assoluti, circa 18 milioni di schede per la Cdu-Csu e 11,2 milioni per la Spd. Se confrontata con quella del 1998, la partecipazione segna oltre 10 punti percentuali in meno: milioni di persone che nel corso di un quindicennio si sono disconnesse dalla politica dei partiti.
Chi sono? La Fondazione Bertlesmann lo ha mostrato nei suoi studi Prekäre Wahlen, «Elezioni precarie»: sono quelli che abitano nei quartieri con il reddito pro capite più basso e con il tasso di disoccupazione più alto, senza differenze fra Est e Ovest. Alcuni esempi tratti dalle analisi sulle scorse elezioni non lasciano spazio a dubbi. Nella zona più povera di Colonia alle urne andò il 42,5%, nel quartiere di Brema in cui la disoccupazione è al 23% esercitò il suo diritto di voto il 50,1%, a Lipsia a fronte del 17,8% di senza lavoro si ebbe un’affluenza del 46,7%. Per converso, nella circoscrizione di Düsseldorf che vanta solo il 2,3% di disoccupazione votò il 91,8%, in quella di Amburgo con l’1,4% di senza lavoro, ecco l’86,9% di partecipazione. Il «segreto» del successo della cancelliera Merkel e il problema dei partiti che le si oppongono da sinistra stanno anche in questi numeri.

Il Fatto 24.9.17
Abolire il lavoro è una strategia
di Furio Colombo

Se entrate nella filiale di una banca, in Italia, ai nostri giorni, troverete una stanza gremita di gente che aspetta, ciascuno con il suo numero di turno, che l’unico impiegato dell’unico sportello in servizio, sia disponibile. A suo tempo. Prima deve evadere le pratiche degli altri. E voi, intanto, contribuite al funzionamento agile e snellito della filiale bancaria con il vostro tempo, dunque con il vostro lavoro. Ognuno di noi, quando va in banca, lavora per la banca, che ha licenziato tutti gli “esuberi” (gli altri impiegati che erano disponibili subito) e in questo modo ha spostato il lavoro dall’azienda, che migliora il suo profitto, ai clienti, costretti ad offrire tempo, dunque a lavorare gratis.
La maggior parte delle stazioni ferroviarie offre lo stesso modello di funzionamento a carico di coloro che un tempo erano i clienti da servire. Non sto parlando delle biglietterie, sostituite ormai da anni dalla rete. Sto dicendo che la folla è sola, e fa tutto da sola, osservata da telecamere e rallegrata dalla pubblicità ma senza alcun servizio (salvo che non sia privato e di vendita, e dunque aperto e chiuso secondo proprie regole). Anziani, disabili, bambini, bagaglio impossibile, non fanno differenza. Una volta eliminato per buona politica aziendale, ciascun servizio umano non ritorna mai più. Il problema diventa un incubo (di più, ovviamente, la notte) in stazioni non secondarie attraversate da percorsi importanti. Vi potete trovare di fronte a strutture del tutto vuote. Sono abbastanza complesse, con molti punti di arrivo e partenza, e necessità di incrociare percorsi (cambio di treno) e vi rendete conto che nell’edificio stazione ogni porta o vetrina è chiusa, non esiste né presenza tecnica visibile né polizia, ogni cambio di binario è accessibile solo con non invitanti sottopassaggi. E la voce di un altoparlante che viene da altrove e il monitor televisivo sono l’unico legame col mondo. Non si tratta di un “fai da te” sostenuto da nuova tecnologia. Si tratta di un vuoto e basta. E qui arriviamo a capire il senso e la logica di ciò che sta accadendo a Ryanair. La grande impresa irlandese di viaggi aerei “low cost” ha avuto un’idea radicale e grandiosa come Facebook di Zuckerberg. Ha inventato i passeggeri-dipendenti. Pagano poco e fanno tutto da soli (tranne il decollo, il volo, l’atterraggio, a condizioni che ormai sono materia di racconto e di cinema, ma anche una grande trovata). Però i passeggeri sono a disposizione della ditta, che sposta arrivi e partenze, cancella voli e mette in attesa, accatastando persone a migliaia nei vari terminal del mondo, fino a quando avrà raggiunto un punto di convenienza che autorizza a partire. In questo modo il segreto del “low cost” è svelato. Non è solo l’uso di aeroporti lontani e la scelta di orari meno costosi (dunque più scomodi), e basse paghe per gli equipaggi. È anche l’uso dei passeggeri come dipendenti. Sono a disposizione della ditta, ovvero rimborsano, con qualche problema di tempo e di luogo e qualche sacrificio, la parte di costo del biglietto che sembrava regalato. Queste storie hanno una loro morale. Spiegano che il lavoro (il posto del lavoro) non è finito, non è abolito, non è scomparso, non è stato rubato dagli immigrati o dai robot. E accaduto un drastico cambio di scena in cui ha prevalso una visione della vita che non ha bisogno del lavoro. È prevalsa l’idea (raccomandata per decenni, nell’ultima fase della rivoluzione industriale) secondo cui pagare il lavoro è uno spreco inutile che sbilancia le imprese. Ci sono state epoche senza donne. Le donne c’erano, naturalmente, ma non contavano e non dovevano occupare altro spazio che l’ornamento. Ci sono state epoche senza bambini.
Persino la grande pittura di periodi memorabili dipingeva pochi bambini, a volte di proporzioni sbagliate, a causa dell’abitudine di non tenerne conto, dunque di non osservarli, nella vita sociale. Ci sono state epoche basate esclusivamente sulla forza e altre sulla speculazione scientifica. Da alcuni decenni l’inclinazione sempre più forte, dettata da un capitalismo selvaggio di ritorno, è stato di ridisegnare il mondo senza il lavoro. Bisognava finirla di avere una controparte perennemente seduta dall’altra parte del tavolo. Molti economisti (e Nobel, e non tutti “liberal”) hanno messo in guardia dallo squilibrio che si sarebbe creato con l’abbandono del lavoro umano come coprotagonista del progresso. L’argomentazione non è “serve-non serve”. L’argomentazione è che non ci può essere quel necessario e continuo sviluppo alla ricerca del meglio, saltando su una gamba sola (management e macchine, senza il lavoro umano). Non ci può essere non perché mancheranno braccia, ma perché mancheranno teste. Il lavoro umano è responsabile del periodo di più vasta espansione del progresso (qualunque progresso) nel mondo. O il lavoro ritorna, come strategia manageriale, politica e intellettuale, o non ci sarà mai più alcuna crescita.

La Stampa 24.9.17
Professionisti senza lavoro in cerca di un posto a scuola
Boom di richieste nella speranza di ottenere una supplenza
di Flavia Amabile

Ci sono circa 200mila professionisti italiani che quest’anno, per arrotondare lo stipendio - o persino per averne uno - sperano di andare a lavorare come supplenti nelle scuole. Sono avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti. Sono giovani e meno giovani che hanno studiato pensando di esercitare la libera professione, spesso hanno lauree con il massimo dei voti, master e esperienze all’estero. Ma, se decidono di lavorare in Italia, la loro unica speranza di ottenere un guadagno più o meno sicuro è sostituire i prof di ruolo nelle scuole.
Non è un fenomeno nuovo, da sempre ci sono professionisti che svolgono un doppio lavoro o ripiegano sulle lezioni in aula. La novità è nelle dimensioni che ha assunto il fenomeno. «Quest’anno 700mila persone hanno presentato domanda per lavorare come supplenti nelle scuole. È una cifra record», racconta Anna Fedeli, segretaria nazionale della Flc-Cgil. Un record che a luglio, quando gli aspiranti supplenti hanno compilato i necessari moduli online, hanno mandato in tilt il sistema informatico del Miur. Sono 300mila persone in più rispetto a tre anni fa. «Di queste 300mila persone, 100mila sono neolaureati. Ma gli altri 200mila sono il motivo del boom di domande di supplenza e sono costituiti proprio da professionisti a cui il mondo del lavoro in Italia non riesce a dare una opportunità diversa per avere un lavoro, o per averlo guadagnando uno stipendio dignitoso nonostante abbiano i titoli e le competenze per meritarlo», spiega Anna Fedeli.
In duecentomila, quindi, hanno messo da parte sogni e aspirazioni diverse e quest’anno hanno compilato il modulo delle graduatorie di istituto dove è possibile iscriversi anche se non si ha l’abilitazione per l’insegnamento.
« Con le graduatorie congelate per tre anni - avverte Pino Turi, segretario generale della Uil Scuola - e in mancanza di un sistema alternativo, insegna anche chi non ha abilitazione ma è laureato. Alla questione di convenienza se ne aggiunge una che deriva dal vuoto normativo attuale. Siamo in una specie di vuoto pneumatico in cui ogni spazio può essere occupato».
E ci troviamo di fronte a una contraddizione, come spiega Francesco Sinopoli, segretario nazionale della Flc-Cgil: «Da una parte la professione docente è considerata poco remunerativa - e in effetti lo è - ed esiste quindi una questione salariale da affrontare subito, a partire dal rinnovo dei contratti. Dall’altra parte, però, il mercato del lavoro è caratterizzato da una domanda scarsa di professionalità alte e medio-alte, per le caratteristiche proprie della nostra economia».
«È una spia preoccupante - commenta Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda nazionale degli Insegnanti - Nonostante i proclami sulla ripresa vuol dire che la crisi è ancora forte e che il mondo del lavoro non è ripartito». La carica dei professionisti potrebbe creare problemi all’interno delle scuole secondo Mario Rusconi, vicepresidente dell’Associazione nazionale presidi: «Molti di loro, quando diventano di ruolo, nei momenti di maggiore richiesta da parte della loro attività principale, si assentano con i pretesti più vari. Tempo fa fu proposto in Parlamento dal Miur di inserire come norma il divieto di esercitare un’altra professione di ruolo ma la modifica non è mai stata approvata». Rino Di Meglio, invece, sottolinea i lati positivi della presenza dei professionisti: «Quando si tratta di persone che svolgono il doppio lavoro, i ragazzi hanno la possibilità di avere insegnamenti basati sull’esperienza e sulla competenza di chi lavora ogni giorno».

La Stampa 24.9.17
“Una scelta obbligata
Al Sud non ci sono altre possibilità di lavoro”

Vincenzo Siecola ha una laurea in ingegneria meccanica. Originario della Calabria, si era trasferito a Varese per lavoro. «Ho iniziato a insegnare per caso», racconta. Era il 2001, i genitori diventavano anziani, non c’erano altri figli su cui contare, Vincenzo ha deciso di tornare in Calabria.
«Ho provato a continuare a esercitare la libera professione come ingegnere ma è stata dura, ho dovuto iniziare anche a insegnare». Con la sua laurea insegna Scienze e tecnologie meccaniche negli istituti tecnici. «Da quando ho iniziato non ho mai smesso, ho sempre trovato un incarico. In realtà faccio il tappabuchi, a volte mi assegnano incarichi per periodi abbastanza lunghi, altre per pochi giorni». Quest’anno, ad esempio, per il momento ha ottenuto tre ore in un istituto alberghiero».
Come vive? «Per fortuna non ho famiglia. Sono a casa con i miei, ho poche spese. Tra un incarico come ingegnere e le supplenze riesco a tirare avanti ma negli ultimi tempi la crisi ha provocato un vero e proprio tracollo del settore edilizio nel Sud, l’unico vero sbocco professionale per chi ha la mia laurea in questa regione».
Quindi le speranze di Vincenzo Siecola si concentrano tutte nella scuola. «Ho partecipato al concorso nel 2012 ma ho dovuto rifiutare il posto che mi avevano assegnato perché avrei dovuto trasferirmi a Trieste. Ho vinto anche l’ultimo concorso, ora mi aspetto di avere l’assunzione. Ci sono tutti i numeri perché io diventi di ruolo. Certo, si tratta di un bando regionale,quindi potrebbero mandarmi ovunque in Calabria, ma mi va bene così. A questo punto questa regione non può offrirmi altro nonostante la mia laurea in ingegneria e le mie competenze».
[f. ama.]

La Stampa 24.9.17
“Devo inseguire i clienti per farmi pagare
Ora spero in una cattedra”

Valentina Micono ha 31 anni, una laurea in Architettura con 110 e lode, l’esame di Stato. sei mesi di studio negli Stati Uniti e un’esperienza di lavoro di un anno nel cantiere di un albergo a Londra. Se fosse rimasta all’estero passerebbe di commessa in commessa con stipendi di tutto rispetto. Ha preferito tornare in Italia. «E mi devo occupare di inseguire chi non mi paga o chi non sa scrivere gli assegni», ammette.
Vive a Roma, lavora in uno studio privato che le permette di continuare a esercitare la libera professione. «Mi piace ancora tanto, è il mestiere che ho scelto e ne sono convinta ma in questo mondo, terminato il lavoro che si è stati chiamati a svolgere, bisogna iniziare una seconda attività per farsi versare quello che mi spetta. E molto spesso ricevo cifre ridicole rispetto a quelle che erano state pattuite da parte di clienti che non mi lasciano scelta. In questo modo non riesco a pagare l’affitto né le bollette. Da quest’anno ho deciso di presentare domanda per andare a fare supplenze nelle scuole. Ho sei materie tra istituti superiori e medie dove posso ottenere un incarico, da storia dell’arte a tecnologia, da matematica a modellazione nel corso di Odontotecnica. Ho 33 punti perché ho il massimo dei voti della laurea, altri due punti per la lingua inglese, dovrei essere abbastanza in alto nelle graduatorie. Ora spero che mi chiamino, almeno avrei finalmente una certezza dopo tanti anni di precarietà senza poter sapere quando avrei avuto i soldi per mantenermi. Ho scelto di tornare in Italia e di continuare a esercitare questa professione ma lavorare come architetto in questo Paese è mortificante, questa non è vita».
[f. ama.]

La Stampa 24.9.17
Minniti nella tana della destra
“Mi applaudite? Non sono Crozza”
Il ministro alla festa di Atreju. Meloni: merita almeno rispetto
di Francesca Schianchi

Alle sei della sera nella sala ribattezzata per l’occasione “Italo Balbo” - il gerarca fascista che amava le trasvolate oceaniche - Marco Minniti viene accolto da un applauso timido. Due secondi non di più. È il segnale: può accadere di tutto. E in effetti Minniti ha accettato di entrare nella “tana del lupo”: nella platea della festa di destra Atreju sono assiepati seicento tra giovani e adulti, nostalgici dell’Msi e ora confluiti in Fratelli d’Italia e dunque per il ministro dell’Interno si prepara il test più difficile di un’estate per lui punteggiata da appuntamenti a tutto campo, dalla festa del “Fatto quotidiano” al Cortile dei Francescani di Assisi. Tanto più per un ministro che da una parte della sinistra viene dipinto come un “destro”.
E in effetti, durante i sessanta minuti di intervista pubblica, accade di tutto: Minniti scherza sul suo «capoccione» mussoliniano; racconta di aver lavorato sulla scrivania del Duce, ma al tempo stesso cala sulla platea parole sgraditissime: «La destra deve fare i conti con la propria storia fino in fondo, deve farlo con una storia drammatica, che è finita per sempre. Affinché il morto non afferri il vivo!». In questo caso scattano i fischi, ma sui migranti si erano alzati gli applausi. Se l’incontro ad Atreju doveva essere un mini-test sulla tenuta politica ed emotiva del ministro dell’Interno e sul suo spessore da leader, l’esito è raccontato soprattutto dagli ultimi 20 minuti di intervista. Ad un certo punto Mario Giordano, direttore del Tg4, non si è più limitato alle domande scomode: spesso ha parlato “sopra” le risposte del ministro, urlando e cercando il consenso della platea. Consenso che è arrivato ed è stato a quel punto che Minniti ha ripreso in mano la situazione, ha rivendicato alcune scelte tutte sue (il brusco taglio di un grado di giudizio per i rimpatri, l’accordo con le comunità islamiche italiane) e al momento del commiato il ministro è stato salutato da un applauso più lungo e più caldo di quello che lo aveva accolto un’ora prima. La prova che l’”operazione” alla fine è riuscita: per i padroni di casa e per l’invitato.
Marco Minniti si era presentato alla festa con una giacca nera, all’ingresso firma due autografi e non di più, è accolto da Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e da Fabio Rampelli che scalda la platea con tutti i contenziosi tra destra e governo, ma lo fa con garbo. Minniti confessa subito il “problema” della serata: «Mentre stavo venendo qui pensavo: se mi applaudono troppo gli dico, guardate che sono Minniti, non Crozza!». A chi lo contrappone positivamente ad Alfano, Minniti parla in terza persona: «Non accetto gli apprezzamenti comparativi: Minniti si assume tutte le responsabilità». E poi strappa il primo applauso: «Dopo 9 mesi da ministro sarei potuto venire e dire: è tutta colpa dell’Europa e voi mi avreste applaudito. E invece ci ho messo la faccia, vengo qui e vi dico: l’Italia ha fatto la sua parte». Qualcuno dice: il ministro strombazza i suoi successi e lui risponde: «No, le poche parole che Minniti dice possono anche essere cazzate, ma il ministro parla poco». I sedicimila migranti riportati indietro dalla Guardia Costiera libica «non sono respingimenti». Appare una vignetta col capoccione di Mussolini: «Chiedo clemenza alla corte». E aggiunge: «Se non dite niente a Crozza...». E racconta di aver lavorato sulla scrivania del Duce e nella stessa stanza di Italo Balbo. Alla fine Giorgia Meloni apprezza: «Minniti non è estraneo ai disastri della sinistra, ma ho molto rispetto per il coraggio e la sua determinazione di oggi».

il manifesto 24.9.17
Estrema destra verso il Bundestag, la rabbia arriva dalle regioni dell’Est
Intervista al politologo Hendrik Träger. «L’AfD raccoglierà tra il 10 e il 12% prendendo voti da tutti gli altri partiti, ad eccezione dei Verdi. Nelle regioni orientali anche da molti ex elettori della Linke»
di Guido Caldiron

Se la vittoria di Angela Merkel appare scontata, la peggiore sorpresa delle elezioni tedesche potrebbe arrivare da una forte affermazione dell’Alternative für Deutschland, il partito xenofobo e nazionalista che stando ai sondaggi dovrebbe non solo superare la soglia di sbarramento del 5%, ma volare senza problemi anche al di là del simbolico 10% dei consensi, divenendo così la terza forza politica del paese e riportando per la prima volta l’estrema destra nel Bundestag dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Una prospettiva inquietante su cui in queste ore riflettono studiosi e opinionisti come il politologo dell’Università di Lipsia, Hendrik Träger che da anni studia i flussi elettorali e la crescita delle destre.
L’AfD oltre il 10%? Lo crede possibile e su quali basi può accadere?
Solo un mese fa non avrei mai detto che l’AfD avrebbe raggiunto un numero a due cifre, ma ora penso che raccoglierà tra il 10 e il 12%. Quanto ai motivi che rendono probabile un tale risultato per un partito che è soggetto a oscillazioni costanti nelle intenzioni di voto a seconda che i suoi temi favoriti siano o meno al centro del dibattito pubblico, è facile individuarli. Da tempo la scena pubblica, specie quella mediatica, è dominata dallo scontro sulla politica nei confronti dei rifugiati, il diritto d’asilo e l’Islam: perciò loro guadagnano consensi.
Dall’apertura ai rifugiati di Merkel, nel 2015, le cose sono però cambiate molto, davvero questo tema ha ancora tanta presa sull’elettorato?
Secondo diverse indagini, è ancora la questione dominante per moltissimi tedeschi. Già due anni fa i timori di fronte all’arrivo di 1 milione di rifugiati sono risultati determinanti per la crescita spettacolare dell’AfD, ora la sfida si è spostata sul modo in cui si può integrare chi è venuto in Germania. E gli esponenti di questo partito usano toni allarmanti e strumentalizzano vicende tragiche come gli attacchi di Manchester e Londra per diffondere paura e sospetti.
Anche la crescita delle disparità sociali aiuta l’estrema destra?
In realtà credo che questo partito sia scelto solo in misura molto marginale dagli elettori per ciò che propone, quanto piuttosto per esprimere l’insoddisfazione e il rifiuto verso il resto delle forze politiche. Lo si capisce bene se si osserva la provenienza dei voti che oggi vanno all’AfD e che arrivano da tutti gli altri partiti, ad eccezione dei Verdi. Addirittura, nelle regioni orientali ha anche attratto molti ex elettori della Linke. Per questa eterogeneità dei suoi consensi sento di poter dire che il partito non ha davvero bisogno di definire le proprie proposte, basta che dica «oggi le cose vanno di merda, noi faremo tutto il contrario» e si presenti come un’«alternativa al sistema». Per molti basta questo per votarlo.
Xenofobia e rifiuto della «vecchia politica», cosa altro emerge dal ritratto-tipo dell’elettore dell’AfD?
Un recente studio della Fondazione Böckler spiega come «il disagio» sia il fattore più importante che spinge la gente a votare AfD; ad esempio i lavoratori manuali e i disoccupati che si sentono minacciati dall’arrivo degli immigrati. Ma ha pesare di più è una più generale sensazione di «indignazione». Chi sostiene l’AfD sente spesso di occupare un livello basso nella scala sociale, ma ciò che lo fa soffrire di più è il sentimento di non poter cambiare le cose: per questo è arrabbiato. Il mondo sempre più complesso in cui vive sembra sfuggirgli al punto che più d’uno tra gli intervistati per questa indagine, ha risposto: «Quello che succede a me è deciso altrove nel mondo». Molti elettori sembrano convinti che tutto stia peggiorando, la loro condizione personale come quella dell’intero paese.
Quanto peseranno le differenze sociali e politiche tra le regioni orientali e quelle occidentali del paese nel risultato di questo partito?
La Germania conta 62 milioni di elettori, 13 milioni dei quali vivono all’est, in regioni come la Sassonia-Anhalt dove l’AfD solo lo scorso anno ha eletto ben 25 parlamentari. Solo che il peso di questo voto orientale, che è frutto della grande distanza che ancora si può riscontrare tra est e ovest, stavolta peserà sugli equilibri nazionali. E, forse, in modo decisivo.

Il Fatto 24.9.17
Brutti, antipatici e cattivi: gli ultrà che premiano l’AfD
Lipsia - La squadra-fenomeno e l’orgoglio dei supporter che si identificano con il partito xenofobo e nazionalista
di Leonardo Coen

Ieri l’RB Leipzig ha battuto il Francoforte 2 a 1: il primo gol l’ha segnato al 28’ Timo Werner, attaccante anche della nazionale nonché della Under 21, acquistato dallo Stoccarda per 10 milioni di euro. Il raddoppio è arrivato per merito del francese Jean-Kevin Augustin, al 67’. Gli avversari hanno accorciato 10 minuti dopo. Oltre 40mila gli spettatori del bellissimo Zentrastadion, costruito nel 2004 per i Mondiali di due anni dopo, quelli vinti dall’Italia. In classifica è sesta.
Che c’entra la partita con le elezioni? C’entra, eccome: il tifo degli stadi nella Germania Orientale è un incubatore della rabbia, un veicolo di sfogo antisistema e xenofobo, in cui si concentra il risentimento del declassamento sociale e dell’emarginazione urbana, ma anche la nostalgia della Germania comunista, e in cui si è inserito abilmente Pegida, ossia “patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente”, un movimento di estrema destra che ha occupato lo spazio rimasto a lungo vuoto tra la Cdu-Csu (il centrodestra) e i gruppuscoli neonazisti, assai fiorenti nell’ex Ddr.
Cosa accomuna gli ultras? L’odio per Angela Merkel e per Bruxelles. Succede, quindi, che gli stadi diventino una sorta di territorio franco per lanciare slogan virulenti contro gli immigrati e gli stranieri e consolidare l’appartenenza identitaria. Il calcio è una sorta di collante: i club della defunta Germania Orientale, infatti, illustrano le contraddizioni dell’unificazione e il malessere sociale. Dopo la caduta del Muro, la Bundesliga dovette affrontare un problema piuttosto complicato: l’integrazione delle squadre orientali. Che avevano una grossa tradizione, anche a livello internazionale: come il leggendario FC Magdeburgo, per esempio, o la mitica SG Dynamo Dresda.
La nazionale Ddr aveva vinto l’oro, ai Giochi di Montreal, nel 1976. Insomma, un capitale umano e societario di spessore. Ma succede l’ineluttabile: le squadre orientali non dispongono dei capitali necessari per affrontare il campionato tedesco. Così, poco a poco spariscono dalla ribalta principale. Visto da Est, i cugini dell’Ovest decisero di liquidare la federazione dell’Est. Politicamente parlando, la prima era conservatrice, la seconda affiliata al partito comunista: i dirigenti delle squadre erano funzionari di Stato, non capivano nulla dei meccanismi capitalistici che regolavano il mondo del calcio occidentale. Fu dunque semplice approfittarne. In più, i club occidentali fecero razzia, accaparrandosi i calciatori migliori. Più di 200 si trasferirono senza alcun rimpianto. Sedotti da ingaggi per loro irresistibili.
La privatizzazione delle squadre, imposta dall’unificazione, fu un Far West. Rapaci e cinici imprenditori dell’Ovest fecero man bassa. Più che altro, erano imprenditori immobiliari. La “vetrina” del calcio, in città da ricostruire, restaurare e sfruttare. Incassati i quattrini, abbandonarono al loro destino i club. Esemplare la vicenda della Dinamo Dresda, che aveva vinto 8o campionati Ddr ed era stata 3 volte nei quarti di Coppa dei Campioni. Acquistata dallo speculatore Rolf Jurgen Otto, in tre anni fu distrutta (e “Otto der Grosse” finì in galera).
Il caso dell’RB Lipsia è diverso: nasce nel 2009, cooptando un modesto club della periferia cittadina. I soldi sono dell’austriaca Red Bull, che ha già squadre a New York, in Brasile e a Salisburgo. Il regolamento della Bundesliga vieta che i nomi delle squadre facciano riferimento ai loro sponsor. Fatta la legge, trovato l’inganno. La squadra viene battezzata RasenBallsport (letteralmente “sport della palla a prato”). In sigla, RB. Cioè Red Bull. La squadra in men che non si dica sale dalla quinta divisione alla Bundesliga, dove si piazza seconda e ottiene così il diritto di partecipare alla Champions. Tutto al grido orgoglioso “L’Est è tornato!”. Solo che i tifosi delle altre squadre li disprezzano. Invidiosi dei capitali di Red Bull. Del 2° posto lampo. Rinfacciano a quelli di Lispia di essere dei parvenus. Di non avere tradizione.
Il Lipsia diventa la squadra più odiata di Germania. Col risultato che la rabbia si radicalizza e che l’estremismo di destra si compatta dietro le bandiere ultras. Che oggi voteranno Afd, per spaventare la Merkel e l’Europa e diventare la terza forza del Bundestag. Un po’ come i russi, che hanno apertamente invitato a votare contro la Merkel: ieri sera la Gazprom proprio a Lipsia ha organizzato una festa per appoggiare la destra populista.

Il Fatto 24.9.17
Migranti, dalla solidarietà alle espulsioni
Così Merkel ha fatto il gioco dell’AfD
Nel paese simbolo dell’integrazione. I l sindaco Richard Arnold: il governo ha alimentato le paure
di Francesca Sforza

«Si ricorda quando la cancelliera Angela Merkel pronunciò la frase “Wir schaffen das”, noi ce la possiamo fare?», chiede Andreas Schuetze, direttore del dipartimento Migrazione di Stoccarda, capitale del Baden Württemberg. «Il problema - continua - chi è “wir” e cos’è “das”?». Qui se lo ricordano ancora cosa accadde in quell’agosto 2015, quando la frase fu pronunciata, e i centralini di tutto il Land squillavano a ripetizione con richieste d’aiuto da parte di Monaco, nella vicina Baviera: «Potete accoglierne 60, 20, cento, un pullman? Quante palestre libere avete, quante scuole, quante chiese?». Ma l’ora della solidarietà è passata, è arrivato il tempo dell’«Abschiebung». «Per noi non è una bella parola - dice ancora Schuetze - è la stessa che si usava durante la guerra, deportazione». Oggi chi non è in regola viene rimandato a casa, le regole sono tante, e i migranti spesso sono senza documenti: «La cosa più difficile è stabilire se siano minorenni o meno, sembrano tutti più vecchi di quello che sono».
A pochi chilometri da Stoccarda c’è però un buon esempio di «chi è “wir” e cos’è “das”». Lui si chiama Richard Arnold, è il sindaco Cdu di Schwäbisch Gmünd, cuore dell’indotto Mercedes e Bosch, che fanno di questo Land l’equivalente della Svezia, quanto a ricchezza. Finì su tutti i giornali tedeschi nel 2013 per «sfruttamento dei migranti»; sembrava infatti che li avesse messi a caricare e scaricare bagagli alla stazione senza compenso, e persino con dei ridicoli cappelli di paglia, tipo «capanna dello zio Tom». «Poi però la verità fu ristabilita», ci dice Arnold mostrando le pagine della Faz, della Sz e servizi di Spiegel e Stern. Che cos’era successo? «È successo che qui abbiamo cominciato con l’integrazione già nel 2012, perché questa è una terra dove i migranti ci sono sempre stati, prima gli italiani, poi i turchi, ora gli africani e i siriani». Arnold ha capito tra i primi che per evitare che la sua comunità saltasse in aria bisognava «farne un tema, una filosofia». E con un raro entusiasmo, tirò su uno spettacolo al centro del paese, in occasione del giubileo cittadino, in cui tutti - «e quando dico tutti intendo tutti» - ebbero una parte, sul palco o dietro le quinte: «Una festa identitaria per più identità». Fu così che alcuni di quei migranti, qualche tempo dopo, si offrirono volontari per aiutare anziani e famiglie a portare i bagagli, «all’epoca la nostra stazione era piuttosto disagiata». Il sindaco approvò: «Per me era un successo che i migranti si sentissero talmente parte della comunità da offrirsi volontari per risolvere un disagio ai loro concittadini, così consegnai loro delle magliette con su scritto il loro nome, e mi creda, erano molto orgogliosi». E i cappelli di paglia? «Erano avanzati dallo spettacolo...». Poi nel 2014 c’è stata la Fiera del Giardinaggio, «e anche lì la loro partecipazione è stata grandissima, negli stand, nei servizi, nell’accoglienza - ricorda Arnold - quindi le sarà chiaro che nel 2015 noi eravamo pronti da almeno tre anni». Magari non con le infrastrutture - precisa - «ma con la testa».
Da allora, per tutti, quella è diventata la «Gmünder Weg», (la Sonderweg in storiografia definisce la via speciale dello sviluppo economico tedesco nel quadro delle nazioni moderne), un sistema di «dare e avere, che crea responsabilità in chi viene accolto». Ma se fino a qualche tempo fa la strada sembrava tracciata, adesso si è fatta sconnessa: «Il governo, a parole, sostiene l’accoglienza, ma nei fatti la ostacola, rendendo complicato l’accesso al diritto d’asilo, e preferendo la politica delle espulsioni». Il sogno di una Green Card tedesca, che Arnold aveva coltivato come possibile evoluzione del «Wir schaffen das», è sfumato. E al suo posto sono spuntati provvedimenti e ostacoli a chi vuole restare qui per vivere e lavorare: «Sa che tanti delinquono pur di restare in una prigione tedesca in attesa di processo e anche di condanna?»
Il risultato di questa stretta, secondo Arnold, non solo non ha convinto l’elettorato di destra, ma ha creato un clima di paura e di ansia. «E se c’è da scommettere sulla paura, l’AfD è più brava di noi, non fosse altro perché non si occupa di trovare soluzioni, ma di alimentare consensi, appunto grazie alla paura».

il manifesto 24.9.17
Madrid: «Il Mossos dipende da noi»
Catalogna. Il ministro dell’interno catalano: «La nostra polizia rimarrà autonoma». Perquisita la sede dei domini «.cat»
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Ieri non era stata convocata alcuna manifestazione ufficiale, a parte l’ormai abituale casserolada informale alle 10 della notte dai balconi. Ma non sono mancati i colpi di scena.
Il più allarmante è stato la notizia che, per ordine della Procura del Tribunale di giustizia catalano (che dipende indirettamente dal governo), tutti gli interventi delle forze dell’ordine relativi al primo d’ottobre saranno coordinate da un responsabile del ministero degli interni, il colonnello della Guardia Civil Diego Pérez de los Cobos.
Tutte le forze dell’ordine: Guardia Civil, Policia nacional e anche il Mossos, la polizia catalana che in teoria è autonoma e dipende dal governo catalano. La decisione è stata comunicata in mattinata, alla presenza dello stesso Pérez de los Cobos e del procuratore generale catalano, ai responsabili dei tre corpi di polizia. Anche se formalmente si tratta dell’applicazione di una norma del 1986 che prevede che le polizie regionali possano essere coadiuvate dalle polizie nazionali «nel caso non dispongano di mezzi sufficienti» per l’esercizio delle loro funzioni, e che in questo caso sarebbero coordinate dalle forze di polizia nazionali, la decisione viene letta dal governo catalano come uno scippo di poteri.
IL MINISTERO DEGLI INTERNI lo ha smentito, dicendo che le polizie dipendono come sempre dai giudici inquirenti, e limita l’effetto della decisione giudiziaria alla «continuazione dei propositi delittuosi» degli organizzatori del referendum. Ma il ministro degli interni catalano Joaquim Forn ha subito dichiarato che né lui né i Mossos accetteranno la decisione della Procura. Tecnicamente, però, la disobbedienza avverrà solo lunedì se l’ormai famoso (grazie agli attentati d’agosto) capo dei Mossos, Josep Lluís Trapero, non si presenterà alla riunione di coordinamento presieduta da Pérez de Cobos.
L’ARGOMENTO SOLLEVATO da Forn è di tipo giuridico, e infatti ha annunciato che impugneranno l’atto: la procura, dice, invade competenze non sue secondo lo statuto catalano e una legge spagnola. Curioso: non è la prima volta che, in questi giorni, proprio chi ha approvato senza nessuna competenza per farlo una legge per istituire un referendum e una legge di transitorietà giuridica con valore costituzionale, e che dice di non voler riconoscere l’autorità del Tribunale costituzionale che le ha annullate, si appella proprio al Tribunale costituzionale, e alle altre istituzioni inevitabilmente spagnole per difendere i propri diritti.
UNA DELLE CONTRADDIZIONI di questo processo, in cui chi fa vanto della disobbedienza della legge – una posizione legittima – poi però non vuole farsi carico delle conseguenze giuridiche (soprattutto se colpiscono il portafogli), e chi parla di democrazia, di stato di diritto e di difesa dei cittadini catalani, finisce per impedire la libertà di stampa e associazione, schiaccia il dissenso politico e mette a rischio gli stipendi di migliaia di lavoratori col blocco dei conti in banca di università ed enti di ricerca.
LA REPRESSIONE del governo spagnolo tocca anche internet. A parte le denunce degli hacker che hanno aiutato a duplicare i siti sul referendum sichiusi dalla polizia, ieri El País in prima pagina riportava con grande enfasi un articolo che accusava «la macchina di ingerenza russa» di manipolare il processo catalano. Poi in realtà però non sosteneva in nessun punto del lungo articolo questa grave accusa, riportando solo le notissime posizioni pubbliche di Assange e Snowden rispetto al processo catalano, accusandoli genericamente di essere filo-russi e di avere molti follower che sono bot, cioè robot delle reti sociali.
MA LA NOTIZIA più inquietante, che viene anche riportata in un lungo articolo del New York Times, è la denuncia della Internet Society. Secondo quest’ong americana, «sono state riportate misure che restringono il libero accesso alla rete in Catalogna». Secondo la nota, alle principali compagnie telefoniche è stato chiesto «di monitorare e bloccare» l’accesso a siti politici ed è stata perquisita la sede dei registri dei domini «.cat» a Barcellona. «Riteniamo che azioni che impediscono la capacità di qualsiasi comunità locale di utilizzare internet liberamente sono inaccettabili”, dice la Internet Society.
«La decisione giudiziaria contro il .cat ha un effetto sproporzionato che diminuisce la libera espressione e ha un ingiusto impatto sulla possibilità che le persone che parlano catalano possano creare, condividere e accedere a contenuti online».

il manifesto 24.9.17
Sinistra catalana e indipendenza: un processo «partecipato» a rischio settarismo
Catalogna. Il limite maggiore delle tesi della Cup è legato a uno sguardo autoreferenziale che sconfina a volte nel settarismo. Poi ci sono le assenze nelle riflessioni della Cup: Podemos, il partito che maggiormente ha messo in discussione quel «regime del 78» contro cui si scaglia la Cup. Lo stesso vale per i suoi dirigenti maggiori, compresa la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che con la coalizione Barcellona en Comú, nel 2015 ha vinto le elezioni amministrative nella capitale della Catalogna
di Marco Grispigni

Sull’indipendentismo catalano in Italia sappiamo poco, ancora meno su quello di sinistra. Quando leggiamo articoli sull’indipendenza catalana, spesso sembrano parlare dell’Italia al tempo del secessionismo della Lega nord: folclore autoctono ed egoismo sociale.
Una regione ricca ed evoluta, stanca di «pagare con le sue tasse» il mancato sviluppo delle regioni povere. La situazione della Catalogna è invece diversa, sia perché è una regione con una storia (e una lingua) specifica e non un’invenzione cialtronesca, sia per la presenza, significativa, di una componente di indipendentismo (e non nazionalismo) di sinistra radicale. Gli argomenti della Cup (Candidatura d’Unitat Popular) a sostegno dell’indipendentismo sono difficilmente accusabili di una deriva nazionalista. Cosa rappresenta il referendum nella strategia politica della sinistra indipendentista? Un evento capace, per il suo valore simbolico, di aprire una crisi irreversibile, un «processo destituente» come viene definito nei, del sistema politico spagnolo retto dal patto della Costituzione del 78.
Una crisi di legittimità di fronte al principio di autodeterminazione del popolo catalano che dia l’avvio a un «Processo Costituente» capace di fondare «una Repubblica garante dei diritti sociali, femminista, accogliente nei confronti dell’immigrazione, che dia priorità alle persone e non al denaro». La tesi di fondo è la convinzione che in Catalogna, per la presenza di un forte movimento indipendentista di sinistra, sia possibile quel cambiamento radicale del quadro politico ed economico che appare impossibile a livello spagnolo. Dopo il referendum si prevede una fase partecipativa il cui organo dovrebbe essere un Forum Sociale Costituente, composto dai rappresentanti della società civile organizzata e dei partiti politici. A questa prima fase di democrazia partecipativa, seguirebbe l’elezione di un’Assemblea Costituente incaricata di redigere un progetto di carta magna e infine un nuovo referendum di ratifica popolare della Costituzione che sottoponga agli elettori la nuova carta per blocchi, valorizzando quindi il contenuto delle varie parti.
Questo processo, disegnato anche nei particolari mi sembra innovativo e interno alle riflessioni più interessanti emerse negli ultimi anni nei forum sociali e nelle discussioni sui beni comuni.
Resta, però, un problema: i rapporti di forza favorevoli all’apertura di un processo costituente caratterizzato dal cambiamento sociale, politico e democratico, capace di impedire che il diritto all’autodeterminazione si riduca in una transizione «dall’autonomismo alla Repubblica in cui il potere delle classi dirigenti rimanga intatto», sembrano basarsi più su un atto di fede che su analisi articolate. L’affermazione della capacità egemonica dei settori popolari e progressisti sulla società catalana diviene quasi tautologica.
Riecheggia in questi discorsi un mito forte, e abbastanza dannoso, dei movimenti conflittuali degli ultimi anni, quello del «noi siamo il 99%», che spesso nasconde la dura realtà delle divisioni di classe e degli interessi contrapposti. Il limite maggiore delle tesi della Cup è legato a uno sguardo autoreferenziale che sconfina a volte nel settarismo. Poi ci sono le assenze nelle riflessioni della Cup: da Podemos, il partito che maggiormente ha messo in discussione quel «regime del 78» contro cui si scaglia la Cup. Lo stesso vale per i suoi dirigenti maggiori, compresa la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che con la coalizione Barcellona en Comú, nel 2015 ha vinto le elezioni amministrative nella capitale della Catalogna. La ragione di queste assenze è duplice.
I risultati elettorali di Podemos, e delle piattaforme che hanno conquistato le amministrazioni delle principali città spagnole, sembrano essere interpretati come un «pericolo» per quella strategia indipendentista che considera impossibile il cambiamento del «regime del 78» a livello nazionale e che individua nella Catalogna l’anello debole del dominio capitalistico neoliberale. Il secondo motivo di queste assenze è – a mio giudizio – anche più grave. Sia Podemos sia Colau difendono il principio dell’autodeterminazione e Podemos è l’unico partito nazionale di peso favorevole a un referendum catalano sul modello di quello scozzese. Per la Cup cercare la mediazione per giungere a un referendum riconosciuto legalmente dalla comunità internazionale e dallo Stato spagnolo è considerata «un’insopportabile ambiguità» che avvicina chi la propone «più al regime che alla democrazia». Siamo all’accusa di intesa con il nemico.
Condivido le perplessità sul referendum espresse a sinistra, ma comprendo i timori del rinvio sine die. La vicenda catalana con il rispetto del principio dell’autodeterminazione di un popolo, la possibilità di avviare un processo costituente capace di oltrepassare i vincoli ormai inaccettabili della Costituzione del 1978, può essere una tappa fondamentale nel tentativo di cambiare radicalmente lo stato insopportabile delle cose. La speranza è che ben presto in Catalogna, e in tutta Spagna, qualcuno possa di nuovo raccontarci l’odore di aria fresca che emana la felicità della repubblica.
(Da oggi in libreria per Manifestolibri «Catalogna indipendente. Le ragioni di una battaglia» con introduzione di Marco Grispigni

Il Fatto 24.9.17
La polizia della Catalogna: “Non ubbidiamo a Madrid”
Il governo centrale precetta i Mossos d’Esquadra per contrastare il referendum indipendentista del 1° ottobre. E manda rinforzi a Barcellona
La polizia della Catalogna: “Non ubbidiamo a Madrid”
di Elena Marisol Brandolini

Ieri il procuratore generale della Catalogna Romero de Tejada ha convocato le polizie spagnole, Guardia Civil e Policia Nacional, la Guardia Urbana di Barcellona e i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, ordinando di coordinarsi sotto il comando del ministero degli Interni. A partire d’ora e fino a dopo il 1˚ ottobre, il controllo delle forze dell’ordine in Catalogna passa dunque sotto la direzione del colonnello della Guardia Civil Diego Péres de los Cobos, in un vero e proprio commissariamento della polizia catalana e l’esautorazione del suo comandante, il maggiore Trapero. Ma il governo della Generalitat non ci sta e ha messo al lavoro i servizi giudiziari del dipartimento degli Interni per predisporre il ricorso. Perché l’ordine sarebbe stato dato sulla base della Legge dei Corpi e Forze di Sicurezza dello Stato, secondo cui però la richiesta di rinforzi dovrebbe provenire dalla Generalitat, cosa che non è avvenuta perché in Catalogna non c’è nessun problema di ordine pubblico, le manifestazioni di questi giorni sono state tutte pacifiche e di massa.
Ma soprattutto è Trapero a rifiutarsi di accettare l’ordine e lo ha già fatto presente ai suoi; i Mossos hanno infatti dichiarato “Continueremo a lavorare come finora: esercitando le nostre competenze per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico ed essere al servizio del cittadino”. D’altronde, come dice Montserrat Tura, ex-consigliera degli Interni nel governo di Pasqual Maragall, “Il comando supremo dei Mossos corrisponde al governo della Generalitat; lo dice lo Statuto d’Autonomia che è legge dello Stato”. È come aver sospeso l’Autonomia catalana senza neppure passare per la procedura parlamentare prevista dall’art. 155 della Costituzione spagnola, sostiene la Generalitat.
In una settimana, si è passati dall’entrata della polizia nelle redazioni dei giornali, la messa sotto indagine di 750 sindaci, la proibizione di manifestazioni pubbliche, al commissariamento delle finanze della Generalitat, l’entrata nei palazzi del governo catalano, l’arresto di 14 persone e la perquisizione negli appartamenti di alcune di queste, l’accusa di sedizione per le mobilitazioni delle ultime ore a Barcellona senza alcun destinatario, ma con la segnalazione di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, presidenti rispettivamente dell’Assemblea Nacional Catalana e di Òmnium Cultural. Fino al colpo di mano di ieri sulla polizia catalana. Il giorno prima, il governo catalano aveva cessato nell’incarico di direzione l’alto funzionario della Generalitat Juvé, il vice di Junqueras detenuto lo scorso mercoledì e quindi liberato assieme agli altri, per proteggerlo dalla minaccia del Tribunal Constitucional di comminargli una pena di 12.000 euro al giorno. “Questa non è una battaglia dello Stato contro la Generalitat – diceva il portavoce del governo Turull – È l’attitudine di uno Stato del secolo XIX contro una società democratica del XXI secolo”.
Gli studenti occupano le università e la campagna referendaria continua. L’associazionismo indipendentista e il governo catalano invitano la popolazione a mantenersi tranquilla, pacifica e determinata.
Sono diverse migliaia gli effettivi della polizia spagnola concentrati in Catalogna per impedire il referendum. Hanno lasciato sguarnite le altre città, a Madrid ne è rimasto appena il 30%. Alloggiano in navi da crociera attraccate nei porti di Barcellona e Tarragona, dove gli scaricatori di porto hanno deciso di negar loro assistenza. Una di queste navi, per l’ilarità generale, ha disegnate sulla fiancata esterna i personaggi della Warner Bros, Gatto Silvestro, Titti e Willy Coyote.

il manifesto 24.9.17
La Siria per Hezbollah: chiusa una guerra se ne aprirà un altra
Intervista. Parla Abu Mahdi al Shaabi, comandante militare del movimento sciita: assieme all'esercito governativo siriano abbiamo conseguito una vittoria, ora ci aspetta la guerra con le cellule jihadiste dormienti. Il ruolo della Russia mentre all'orizzonte si affaccia un nuovo conflitto con Israele.
di Michele Giorgio

BEIRUT Abu Mahdi al Shabi è uno dei comandanti della sicurezza militare del movimento sciita Hezbollah a Beirut. Nelle scorse settimane ha combattuto nel Qalamoun, dove, informalmente, Hezbollah e l’esercito siriano hanno partecipato all’offensiva “Alba di Juroud” lanciata dall’esercito libanese per liberare la frontiera tra i due Paesi dalla presenza dello Stato islamico. L’abbiamo intervistato nel suo ufficio a Bashura, un quartiere di Beirut a maggioranza sciita, sui nodi, anche politici, della guerra in Siria e sulla possibilità di un nuovo conflitto con Israele.
Lei è un comandante di unità combattenti. A suo giudizio il quadro bellico siriano è irreversibile come appare oggi
Le forze governative siriane e Hezbollah e gli altri combattenti della resistenza hanno ottenuto di una importante vittoria militare ma in Siria non c’è stabilità e ci sarà ancora guerra. Si è solo chiuso un capitolo e se ne aprirà un altro. Il nuovo conflitto sarà con le cellule jihadiste dormienti. Sappiamo che ci sono 4mila uomini pronti a colpire che non devono prendere ordini da nessuno e possono agire da soli. E regna l’incertezza politica e diplomatica. Trump e gli Stati uniti potrebbero tornare sui loro passi, sconfessare gli accordi con la Russia per la tregua in Siria e innescare una escalation. Senza dimenticare che il conflitto tra sunniti e sciiti, alimentato da forze esterne, ha avuto conseguenze sociali devastanti e ci vorranno anni per riparare i danni.
Alla luce di questa incertezza Hezbollah pensa di mantenere i suoi combattenti in Siria.
Hezbollah manterrà i suoi combattenti in Siria, per continuare la lotta contro il terrorismo. Si ritirerà solo se a chiederlo sarà la Russia.
E la Russia potrebbe farlo?
Mosca potrebbe decidere, nel quadro di una soluzione politica in Siria, che una milizia (Hezbollah) non può restare affiancata all’esercito siriano.
E come Damasco prenderebbe questa eventuale richiesta russa per il rientro in Libano dei combattenti di Hezbollah. Il vostro ruolo sui campi di battaglia in Siria è stato decisivo
La Russia oggi è il pilastro della Siria. Di fronte alla scelta tra la Russia e Hezbollah cosa potrebbero fare i vertici politici siriani? Sceglierebbero la Russia, è normale, ne siamo consapevoli.
Hezbollah come guarda alle zone di de-escalation in Siria frutto degli accordi tra Russia, Usa e altri attori regionali. Non crede che in qualche modo abbiano legittimato il controllo dei gruppi jihadisti su porzioni di territorio siriano. Come nella provincia di Idlib, nelle mani di an Nusra, il ramo siriano di al Qaeda
Le consideriamo per quelle che sono, ossia accordi di tregua temporanei. I gruppi armati insediati in varie aree presto o tardi riprenderanno i loro attacchi, possono contare su migliaia di uomini e non tarderanno ad usarli. Quindi non c’è nulla di definitivo. E questo vale anche per Idlib.
È vero che Israele ha chiesto alla Russia di imporre ai vostri combattenti e alle unità iraniane in Siria di arretrare a 40 km dal Golan, anche allo scopo di creare una zona cuscinetto. Mosca avrebbe rifiutato proponendo una distanza di 5 km
In una questione del genere non decide Hezbollah. La decisione prima di tutto è dell’Iran, uno Stato che si confronta con altri Stati, la Russia e naturalmente la Siria. Occorre guardare in faccia alla realtà. L’Iran a cinque chilomentri dalle postazioni israeliane sarebbe una svolta di eccezionale importanza che Israele però non accetterebbe. Tehran è un Paese che tiene conto degli equilibri regionali e manterrà su certe posizioni piuttosto di altre le sue unità che combattono nella Siria meridionale assieme all’esercito.
Israele ha alzato la voce più volte negli ultimi mesi e prosegue i suoi raid aerei contro le vostre postazioni. Il governo Netanyahu ha respinto a inizio luglio gli accordi di de-escalation in Siria sostenendo che favoriscono i piani dell’Iran e di Hezbollah e fa capire di essere pronto alla guerra per difendere la sua sicurezza. Qualche giorno l’esercito israeliano ha concluso imponenti esercitazioni militari al confine con il Libano che, secondo la stampa locale, hanno avuto lo scopo di preparare un nuovo ampio scontro armato proprio con voi di Hezbollah
Hezbollah non sottovaluta le minacce di Israele. Sappiamo che (Israele) è uno Stato militarmente molto potente, con una grande forza distruttiva, possiede missili a medio e lungo raggio di grande precisione e ha una importante forza aerea. Sappiamo di avere di fronte un nemico che se minaccia la guerra vuol dire che potrebbe scatenarla sul serio. E il fatto che parli delle capacità belliche dei suoi avversari, esagerandole, significa che sta già preparando la sua popolazione alla nuova guerra.
Anche Hezbollah però ha una grande forza militare, ormai paragonabile, si dice, a quella di un esercito. E possiede un imponente arsenale missilistico
Hezbollah non solo è cambiato, è cambiato radicalmente. È mille volte più forte di quanto non fosse già nel 2006. I nostri combattenti, dopo anni di guerra durissima in Siria, possiedono oggi un addestramento ampiamente superiore a quello di 11 anni fa quando si scontrarono con gli israeliani (nel Libano del sud). E sono molto meglio armati. Perciò anche Israele deve stare molto attento, perché Hezbollah ha grandi capacità militari e, se necessario, non esiterà ad metterle tutte in campo. Tuttavia la nuova guerra potrebbe innescarsi più facilmente nel sud della Siria (che nel Libano del sud, ndr). Israele vuole ottenere in quella parte di territorio siriano la realizzazione concreta sul terreno del suo piano, con l’appoggio pieno degli americani. E ciò tiene alta la tensione.
Oggi chi controlla le linee con Israele lungo il versante siriano del Golan occupato
Un tempo il controllo era nelle mani di al Qaeda (an Nusra) e questo faceva gli interessi di Israele. Ora ci sono un po’ tutti. In qualche parte ancora i qaedisti, poi l’esercito siriano, quindi i nostri combattenti e unità iraniane. Il futuro di questa striscia di terra e quello della Siria meridionale saranno il motivo principale della possibile nuova guerra.

il manifesto 24.9.17
La guerra dei droni
Israele/Hezbollah. Lo Stato ebraico non ha più l'esclusiva di quest'arma nella regione. Nell'arsenale del movimento sciita non solo razzi e missili, anche centinaia di velivoli senza pilota che potrebbero rivelarsi una spina nel fianco di Israele in un eventuale conflitto
di Michele Giorgio

BEIRUT L’esercitazione militare israeliana conclusasi la scorsa settimana al confine con il Libano è stata adeguata alle sfide che Israele potrebbe trovarsi di fronte in una nuova guerra? Questo l’interrogativo del quotidiano di Tel Aviv Haaretz a commento di quanto si legge e si dice nel Paese sulla strategia che i comandi militari adotteranno se, come molti credono, si andrà presto ad un nuovo conflitto tra Israele e Hezbollah. Da ciò che si legge Israele, a differenza dalla guerra del 2006 – cominciata con una dura campagna di bombardamenti aerei in Libano del sud e sui quartieri meridionali di Beirut e seguita da una ampia offensiva terrestre, la stessa strategia adottata nel 2014 contro Gaza – questa volta opterà subito solo per veloci manovre terrestre. I raid aerei inoltre colpirebbero tutto il Paese dei Cedri, come hanno avvertito i leader israeliani, a scopo punitivo perché il governo libanese non interviene per “contenere” Hezbollah. Lo scenario tuttavia è più complesso rispetto al 2006 e la potenza militare israeliana può limitare ma non bloccare totalmente le capacità di Hezbollah che possiede migliaia di missili e può lanciarli non solo dal Libano ma anche dalla Siria.
Se le ultime manovre militari israeliane sono state finalizzate anche a preparare l’esercito e la popolazione locale a respingere una eventuale ampia incursione di reparti scelti di Hezbollah in Galilea, alcuni sottolineano che la nuova guerra sarà segnata dall’impiego massiccio dei droni. Non solo da parte di Israele ma anche di Hezbollah. Il drone abbattuto martedì scorso dagli israeliani sul Golan ha confermato che il movimento sciita possiede anche questa arma nel suo arsenale. Abdel Bari Atwan, direttore del giornale al Raya al Youm, sostiene che il rapporto tra il numero degli aerei senza pilota di Hezbollah e quello dei missili Patriot israeliani, necessari per abbattere droni e razzi, potrebbe risultare un fattore decisivo nel nuovo conflitto. «Hezbollah è in grado di attaccare i giacimenti israeliani di gas nel Mediterraneo, grazie allo sviluppo avanzato di questo tipo di aerei nelle fabbriche iraniane», riferisce Atwan sottolinendo che il sistema israeliano antirazzo Iron Dome è in grado di intercettare i razzi ma non i droni contro i quali Israele dovrà impiegare i costosissimi Patriot (2 milioni di dollari al pezzo).
Un altro giornalista arabo, Mohammad Said Idriss, del quotidiano egiziano al Ahram, sostiene che per Israele è importante capire cosa farà la Russia in caso di una nuova guerra nell’area tra Libano, Siria e lo Stato ebraico. Secondo Idriss il recente attacco lanciato dall’aviazione israeliana contro il centro militare di Maysaf (Hama), nel cuore della Siria, ha avuto lo scopo di testare le intenzioni della Russia e delle sue difese antiaeree. Mosca accetterà in futuro che Israele superi la “linea rossa”? Probabilmente no e, prevede il giornalista egiziano, Tel Aviv dovrà accettare di avere Hezbollah e l’Iran in Siria, a due passi

Il Fatto 24.9.17
2018, la guerra araba e la “soluzione finale” per la mini-Palestina
Il conflitto coinvolgerebbe l’Iran per poi costringere la comunità mondiale ad accettare uno Stato tra Gaza e Sinai
Minaccia a lungo raggio – Il missile “Khorramshahr”. Il muro israeliano in Cisgiordania; Trump e Netanyahu
di Guido Rampoldi

“Ma è fortunato?”, domandava Napoleone quando i suoi generali gli proponevano la promozione di un ufficiale valoroso (lo racconta Stendhal, che combatté nell’esercito del Bonaparte). Il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi non sarà un generale valoroso ma certo è fortunato. In apparenza tutto gli è contro: una crisi economica durissima (in dieci mesi sul mercato nero il dinaro ha perso la metà del suo valore contro il dollaro), una fama ormai ingombrante di torturatore, motivo di disagio perfino per gli amici (le petro-monarchie del Golfo, sue finanziatrici; i salafiti egiziani, suoi sostenitori e complici nel golpe; e Trump, costretto a sospendergli gli aiuti militari a causa delle violazioni dei diritti umani). Ma proprio mentre gli astri gli promettevano sventura ecco la sorte venirgli in soccorso: d’un tratto è diventato imprescindibile per il piano col quale Israele e gli alleati arabi vorrebbero chiudere definitivamente il conflitto con i palestinesi.
Il progetto è realizzabile soltanto nella confusione di una guerra, quando tutti sono storditi dal fracasso dei cannoni e il paesaggio è nascosto dalle nuvole di polvere prodotte dai bombardamenti.
Ma perché le armi comincino a tuonare probabilmente non si dovrà attender molto. In un modo o nell’altro, tutti si preparano a quello. Proprio ieri, nel corso di una parata militare, l’Iran ha esibito un nuovo missile balistico, il “Khorramshahr”, secondo il telecronista della tv di Stato capace di colpire entro un raggio di 2000 chilometri (dunque anche Israele). Il giorno prima l’aviazione israeliana aveva bombardato un deposito di armi iraniano nei pressi dell’aeroporto di Damasco, in Siria. Altri segnali che non fanno presagire nulla di buono: un ammassare truppe (israeliane ai confini con Libano e Siria, oltre il quale Hezbollah avrebbe schierato diecimila uomini; turche e irachene a ridosso di territori controllati da milizie curde), un sospetto andirivieni di governanti tra le capitali mediorientali; e un frequente levare moniti e scambiarsi minacce che sembra procedere verso il crinale oltre il quale la paura di perdere la faccia sottometterà ogni ragionevole prudenza. Già le prossime settimane potrebbero avvicinare quel punto di non ritorno.
Al Sisi e il ruolo da indispensabile
Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno rischia di avviare una caotica guerra civile nell’Iraq settentrionale – curdi contro arabi e turcomanni – che potrebbe allargarsi rapidamente. E a metà ottobre Trump, nell’atteso discorso al Congresso, potrebbe proporre nuove sanzioni contro l’Iran, una punizione che porterebbe al collasso l’accordo sul nucleare concluso da Obama e dagli ayatollah.
Con tanta benzina al suolo e nessun pompiere all’orizzonte è difficile immaginare come i focolai non inneschino l’incendio in cui al-Sisi probabilmente conta per ritagliarsi un ruolo internazionale che lo renda indispensabile. La sua ambizione è ragionevole: mentre rifiuta ormai esplicitamente uno Stato palestinese nel West Bank, la destra israeliana invece accetterebbe uno Stato palestinese a Gaza, un piano coltivato fin dalla decisione di abbandonare la Striscia che valse a Sharon la sorprendente fama di ‘uomo di pace’. Ma Gaza è minuscola, non potrebbe mai accogliere la diaspora palestinese né parte degli abitanti del West Bank. Se però il suo territorio fosse triplicato l’idea di quello Stato avrebbe una qualche credibilità. Da qui un progetto di cui egiziani e israeliani avrebbero discusso già l’anno scorso.
Secondo il ministro israeliano Ayoub Kara, un fedelissimo di Netanyahu, quest’ultimo ne avrebbe parlato con Trump pochi mesi fa. In sostanza Israele si annetterebbe il 60% del West Bank, la cosiddetta ‘area C’, dove attualmente vivono 380mila ‘coloni’ israeliani e 300mila palestinesi, questi ultimi in condizioni sempre più precarie (per esempio, ricevono corrente elettrica poche ore al giorno e non possono installare pannelli solari perché non autorizzati). Quei palestinesi diventerebbero israeliani, ammesso che lo desiderino e che Israele rinunci a continuare la sua pulizia etnica ‘morbida’, condotta per via amministrativa. Oppure potrebbero trasferirsi a Gaza, dove il neonato Stato palestinese sorgerebbe inglobando vasti territori del Sinai egiziano. In cambio al Sisi otterrebbe territori equivalenti del Neghev israeliano, con uno scambio di zone desertiche. Questo sembrerebbe il piano di massima. Sia Gerusalemme che il Cairo hanno smentito l’esistenza, come del resto era inevitabile mancando un qualche placet palestinese e forse anche un accordo su questioni non secondarie, innanzitutto lo status di Gerusalemme Est e dei territori del West Bank esterni all’‘area C’.
Favori in cambio del controllo sulla Libia
Se però le trattative o la guerra imponessero una soluzione definitiva, al Sisi diverrebbe per gli occidentali l’uomo della provvidenza, un altro ‘uomo di pace’ come Sharon. E in questo caso passerebbe all’incasso. Nessuno probabilmente eccepirebbe se prolungasse il proprio mandato (scade tra 9 mesi) e continuasse ad ammazzare oppositori. Ma a quel punto al Sisi probabilmente chiederebbe di più, molto di più: chiederebbe la Libia. Per farne un proprio protettorato, ruolo nel quale diventerebbe l’arbitro di tutte le partite sul petrolio libico.
Le crisi arabe sono interconnesse e, ci piaccia o no, ci riguardano tutte. Discuterne ricorrendo alle categorie proposte dal giornalismo (l’Islam che ottunde i nostri valori, i migranti sessuomani che ci invadono) forse non aiuta a sviluppare lo strumento indispensabile in questi casi: un minimo di conoscenze e di lucidità.

Corriere 24.9.17
Iran, un missile e due messaggi
di Sergio Romano

Quando ha visitato l’Arabia Saudita nello scorso maggio ed è stato accolto trionfalmente dai suoi ospiti, Donald Trump non poteva ignorare quali fossero i loro rapporti con l’Iran sciita. L’Arabia custodisce due luoghi santi dell’Islam (Mecca e Medina), riceve ogni anno immense folle di pellegrini prevalentemente sunniti ed è la capitale religiosa della loro grande famiglia in un periodo storico in cui le crisi medio-orientali hanno inasprito il secolare dissidio fra sunniti e sciiti. Non poteva ignorare quindi quale sarebbe stata la reazione di Teheran non appena il governo iraniano avesse appreso che Trump aveva approfittato del suo viaggio per concludere con i sauditi uno dei maggiori contratti per forniture belliche stipulati negli ultimi anni. L’America venderà armi al Regno dei Saud per una somma pari a 110 miliardi di dollari, destinati a diventare 350 nel corso del prossimo decennio. E Trump, nei mesi seguenti, non ha smesso di dichiarare pubblicamente che l’Iran è uno Stato canaglia e che quello stipulato da Barack Obama insieme ad altri Paesi (i cinque del Consiglio di sicurezza e la Germania) è un pessimo accordo, da abolire o rinegoziare il più rapidamente possibile. Il missile iraniano delle scorse ore contiene dunque almeno due messaggi. Il primo dice ai sauditi che Teheran è in grado di colpire le loro città e le loro installazioni militari. Il secondo dice a Trump che l’Iran non si lascerà intimidire dalle sue provocazioni.
Ma anche quella degli iraniani, per molti aspetti, è una provocazione. Era davvero necessario lanciare questo missile in un momento in cui il presidente degli Stati Uniti non perde occasione per dipingere l’Iran, agli occhi del mondo, come uno Stato terrorista? Non sarebbe stato meglio evitare gesti bellicosi e lasciare all’uomo della Casa Bianca il ruolo del provocatore irresponsabile, soprattutto in un momento in cui molti Paesi sarebbero disposti a pronunciare su di lui questo stesso giudizio? Perché l’Iran, uno Stato non privo di antica saggezza, ha deciso di adottare una strategia non troppo diversa, anche se meno pericolosa, di quella del leader coreano Kim Jong-un?
Forse ciascuno dei tre Paesi persegue obiettivi non troppo diversi da quelli del suo nemico e ogni giocatore cerca di costringere il proprio avversario a fare un passo indietro. Trump spera di convincere la Cina a uscire dal suo riserbo per obbligare la riluttante Corea del Nord, con i mezzi persuasivi di cui dispone, ad abbandonare il proprio programma nucleare. Kim è pronto a tirare la corda fino al giorno in cui il Giappone e la Corea del Sud (i due Paesi maggiormente esposti ai rischi di un conflitto) diranno a Trump che non ha il diritto di giocare con le loro vite. E il presidente iraniano Hassan Rouhani spera di potere contare sul sostegno di quei Paesi, dall’Europa occidentale alla Russia, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare al mercato iraniano per compiacere l’America. Ciascuno dei tre gioca d’azzardo ed è quindi imprevedibile. Ma nessuno mi sembra essere più imprevedibile del presidente americano. Mentre gli altri hanno una strategia più o meno razionale, Trump sembra essere dominato soprattutto dal desiderio di essere sempre e comunque il contrario di Obama. Ma anche il presidente ha un tallone d’Achille: le crescenti preoccupazioni di molti collaboratori per la volubilità del suo carattere e i timori di molti repubblicani che non vorrebbero essere costretti a preparare le elezioni di mezzo termine (probabilmente il 6 novembre 2018) durante una incontrollabile crisi internazionale.
Sono giorni grami, comunque, quelli in cui la speranza della pace è affidata a considerazioni e calcoli di questa natura.

si ringrazia Nereo Benussi
Corriere 24.9.17
La scuola maltratta l’italiano
La denuncia di Sabatini : ignorato il ruolo della nostra lingua nello sviluppo cognitivo dell’individuo
di Francesco Sabatini

Stiamo assistendo a un fenomeno: i mali del nostro sistema di istruzione vengono spesso denunciati pubblicamente non dalla scuola, ma dall’Università e, a livelli più avanzati, dagli ordini professionali. Non si contano le lamentele dei professori di Giurisprudenza sull’incapacità degli studenti di quella Facoltà (la chiamo ancora così, anche se questa struttura è stata cancellata) di redigere la tesi o anche solo una tesina in un italiano accettabile. Alcuni docenti hanno deciso di eliminarle, perché sarebbero tutte da riscrivere. Fanno seguito le lamentele dei presidenti degli ordini forensi, nazionali e regionali, che denunciano l’impreparazione linguistica di molti giovani avvocati. Sui concorsi che riguardano questa categoria e anche quella degli aspiranti magistrati cali un velo pietoso (basta leggere le cronache dei giornali a ogni tornata di tali concorsi). Non si contano neppure le lagnanze per l’oscurità delle circolari ministeriali, dei testi normativi (perfino lo schema preliminare del decreto per l’esame di italiano nella maturità!), degli avvisi pubblici, criptici (che cos’è il «luogo dinamico di sicurezza» negli aeroporti, se non un «percorso di fuga» in caso di pericolo?) o pletorici (le Ferrovie dello Stato stanno consultando l’Accademia della Crusca per migliorarli).
A questo punto s’innesta la polemica sul numero chiuso per l’iscrizione alle Facoltà umanistiche deliberato dalla Statale di Milano. Motivazione: l’insufficienza numerica dei docenti e l’inadeguatezza delle strutture didattiche e di ricerca. Tutto vero, per il blocco dei «ricambi» nelle assunzioni e per i tagli profondi ai finanziamenti. Ma anche perché, è sottinteso, troppi giovani, scoraggiati dalle prove di accesso alle altre Facoltà, vedono nelle «dolci» discipline umanistiche (dolci purché non si tratti delle lingue classiche, della filosofia e delle discipline linguistiche più scientifiche) come anche nella Facoltà di Giurisprudenza i porti più aperti. Porti non difesi da precise corporazioni professionali gelose del proprio prestigio e/o dei possibili alti redditi. Altri Atenei si difendono di fatto dal forte afflusso con un altro deterrente: molti corsi sono in inglese e quindi bisogna superare anche il requisito di una forte anglofonia all’entrata e per tutto il percorso.
Lasciamo la casistica e puntiamo al denominatore comune. L’Università da una parte, gli ordini professionali dall’altra giudicano, apertamente o indirettamente, un’ampia parte dei diplomati dalla nostra Scuola secondaria impreparati per gli studi superiori, che richiedono una buona capacità di comprensione del linguaggio complesso. In altri termini: della lingua italiana nella sua forma più strutturata, prima che nelle sue specificità settoriali (alla cui base, non dimentichiamolo, c’è lo strato delle lingue classiche!).
L’italiano. Ogni tanto lo si proclama, nella nostra scuola, come la disciplina centrale e trasversale per tutti gli studi, ma di fatto non viene coltivato come tale, anche qui per molti motivi, ma tutti riconducibili a una causa profonda: manca ampiamente nel nostro mondo scolastico una cognizione scientifica del ruolo che ha la lingua prima nello sviluppo cognitivo generale dell’individuo. Tutto il curricolo di questo insegnamento (per l’uso parlato e ancor più per l’uso scritto) è inficiato da errori di impostazione che le scienze del linguaggio hanno messo da tempo in evidenza, ma che non vengono conosciuti e riconosciuti nelle sedi responsabili: la formazione universitaria dei futuri docenti; la tradizione dei nostri curricoli scolastici ispirati alle «Indicazioni» ministeriali, ogni tanto ritoccate, ma mai veramente ripensate; di conseguenza anche l’impostazione di molti dei libri di testo, che non osano scalfire l’esistente.
Molto dipende, se vogliamo andare più a fondo, dall’antica concezione retorico-letteraria dei fatti linguistici. L’esistenza del nostro Paese nella carta geopolitica d’Europa si deve ampiamente alla forza edificatrice delle nostre tradizioni letterarie e artistiche (queste ultime molto meno considerate nella scuola). Io stesso ho scritto, venti anni fa, un ampio saggio dal titolo L’italiano: dalla letteratura alla Nazione . Ma far dipendere da questo dato storico l’impostazione generale dell’insegnamento, che ha ragioni e radici antropologiche molto più profonde, conduce a una serie di distorsioni dell’attività didattica. Insomma, la nostra scuola deve ancora scoprire che l’italiano in Italia è la lingua prima , della quale il nostro cervello, se non vive in ambiente paritariamente bilingue, deve servirsi per «conoscere» nella maniera più ravvicinata e stabile il mondo: le cose e i fenomeni, e sviluppare su di essi i ragionamenti, da quelli elementari a quelli più complessi, che si sono formati in tutti i campi del sapere, specialmente attraverso la scrittura.
La scrittura. Nella scuola Primaria «modernizzata» viene insegnata in maniera sempre più approssimativa, per la mancata considerazione del complicato processo cerebrale che consente il suo apprendimento, attraverso l’attivazione, a fini linguistici, di un nuovo canale sensoriale, la vista, in aggiunta all’udito, con l’apporto fondamentale delle operazioni della mano. Una sottovalutazione che si accompagna da un lato alla convinzione che ormai serve solo la scrittura elettronica (si dimostra di ignorare che lo scrivere a mano coinvolge tutto il nostro corpo), dall’altro a un incontrollato desiderio di molti insegnanti di «andare avanti», per insegnare quanto prima la «grammatica», che ritengono necessaria fin dall’inizio (ma così non è) o per elevare il proprio ruolo e far bella figura con i docenti della Media e con i genitori. Intanto il bambinetto e la bambinetta leggono male e scrivono peggio, beccandosi a volte, a torto, le qualifiche di dislessici e disgrafici, che distorcono tutto il loro percorso scolastico successivo.
Qui mi fermo e non procedo nel segnalare le lacune di scientificità e le deviazioni che penalizzano l’insegnamento dell’italiano nella Scuola secondaria, di primo e di secondo grado. Accenno soltanto all’incapacità di lettura autonoma in cui si trovano i quindicenni, che a quel punto dovrebbero immergersi da soli nel mare di testi che li attendono, letterari, ma non solo; smarriti davanti alla effervescente letteratura contemporanea, ma anche incapaci di leggere testi scientifici e refrattari al linguaggio (più codificato) della matematica! Non ha senso parlarne in poche righe, di fronte all’insensibilità di tutti i nostri ministri «riformatori» della scuola, che non sono intervenuti in nessun modo in due direzioni: ottenere dall’Università (con il meccanismo «retroattivo» del controllo in sede di esame di concorso) una più appropriata formazione dei docenti di italiano in campo linguistico (proprio nei concorsi per l’ingresso in ruolo dei docenti la parte linguistica è quasi mancante!); rivedere con criteri più scientifici le «Indicazioni» d’indirizzo (verbose e perfino contraddittorie). Mentre l’attenzione dei riformatori va in altre direzioni: massimo potenziamento dello studio dell’inglese (necessario, per carità, ma non a scapito dell’italiano) e ogni altro possibile «allargamento», spesso sperimentale, delle discipline (ma una brutta fine ha fatto la geografia). Il clima generale è in fondo creato dalle attese frettolose delle famiglie: soprattutto di quelle che chiedono di far studiare quello che, secondo loro, serve direttamente a trovar lavoro, meglio se all’estero; tanto, si sente dire da non pochi, «l’italiano prima o poi diventerà un dialetto europeo che non servirà a nessuno». E in questo modo si toglie al cervello dei nostri studenti, dai 6 ai 19 anni, in un contesto già pieno di altre suggestioni, la possibilità di sviluppare al meglio in sé la facoltà linguistico-cognitiva di base, propria ed esclusiva della nostra specie, facoltà ulteriormente evoluta con l’invenzione, estremamente significativa e impegnativa, della scrittura.

il manifesto 24.9.17
Livio, il narratore smaliziato ha spodestato lo storico ‘taglia e cuci’
Bimillenario liviano. Da trent’anni in qua l’opera liviana viene letta e studiata in modo radicalmente nuovo sia dai filologi sia dagli storici. Ne emerge uno scrittore consapevole, che fa interagire molte istanze diverse
di Luca Beltramini

Nel libro 21 delle sue Storie, Livio racconta come all’inizio della seconda guerra punica, durante la battaglia del Ticino, un giovanissimo Publio Cornelio Scipione, futuro Africano, si tuffò in acqua e salvò il padre, ferito in combattimento. L’aneddoto è concluso da un intervento di Livio, che ricorda al lettore che sarà proprio questo Scipione il fatalis dux, il comandante inviato dai Fati che condurrà Roma alla vittoria. Sette anni dopo, Scipione viene eletto comandante del fronte spagnolo, a soli ventiquattro anni e senza alcuna esperienza di comando; in quell’occasione Livio spiega come quell’exploit sia stato determinato dal mito personale che il giovane si era costruito presso le masse, alimentando false dicerie sul suo rapporto privilegiato con gli dèi e su suoi supposti poteri oracolari. Il seguito del racconto offre molti esempi di quest’opera propagandistica, che trasforma fenomeni naturali in miracoli, informazioni di intelligence in segni del Fato. Nel lettore si insinua così il dubbio: davvero Scipione è stato il comandante della provvidenza? O Livio ci sta forse suggerendo che la sua fama di fatalis dux potrebbe non essere altro che il risultato di una scaltra opera di promozione personale?
La vasta opera di Livio è costellata di interrogativi irrisolti come questi, di ambiguità e inquietudini che solo in anni recenti la critica ha cominciato a illuminare. Tito Livio ha sempre goduto e insieme sofferto gli effetti di una statica gloria ‘scolastica’. Il denso stile narrativo, la ricchezza della lingua, lo slancio morale degli episodi più celebri lo hanno reso il perfetto autore «da manuale», lo storico «esemplare», fonte sommersa di gran parte del nostro immaginario collettivo sulla Roma repubblicana, saldamente ancorato a figure come Romolo, Orazio Coclite, Muzio Scevola e così via. Livio l’amico di Augusto ma nostalgico della repubblica, Livio della patavinitas e del romanocentrismo.
Prospettive viziate
Paradossalmente, a questo radicamento nella memoria e nei curricula scolastici non è corrisposto nel mondo degli studi specialistici un altrettanto vivace approfondimento scientifico. Livio è, fino agli anni novanta del Novecento, un autore sorprendentemente poco studiato. O, meglio, studiato secondo prospettive viziate da pregiudizi che hanno lasciato la critica liviana ai margini dell’evoluzione metodologica vissuta dagli studi di letteratura antica nel secolo scorso. Gli Ab urbe condita libri sono una fonte vitale per molte aree dell’antichistica: filologi e storici, archeologi e giusromanisti da sempre ne attraversano le vastità traendo informazioni vitali per i rispettivi campi di indagine. Ma il loro valore in quanto opera storiografica e la statura intellettuale del loro autore sono stati a lungo sottovalutati: Livio è stato ritenuto uno storico disattento e naïf, dedito più che altro a tagliare e cucire pezzi di fonti senza un reale vaglio critico. La critica non ha esitato a riconoscere le sue abilità di retore e narratore, ma ha spesso considerato il suo punto di vista storiografico poco degno di nota e severamente limitato dal noto moralismo filoromano. Questi pregiudizi, credo, hanno a lungo dissuaso i critici dall’impegnarsi in uno studio approfondito dei caratteri intrinseci dell’opera, che andasse al di là dell’analisi stilistica o della desunzione di dati utili alla ricostruzione storico-archeologica (non mancano, ovviamente, vistose eccezioni, ancora oggi illuminanti per completezza e profondità di indagine).
Ma gli ultimi trent’anni hanno visto un’evoluzione radicale e generalizzata nell’approccio critico all’opera liviana, derivante, credo, dal mutamento dei presupposti metodologici, tanto degli studi storici quanto di quelli filologico-letterari. Nel primo ambito si è smesso di misurare l’opera di Livio secondo gli standard della moderna storiografia o di quelle opere antiche che ai nostri occhi più si avvicinano al metodo storico-scientifico odierno, volgendosi piuttosto a una più precisa comprensione dei fondamenti programmatici della storiografia liviana, che soli possono illuminare i meccanismi più profondi dell’opera. I secondi hanno superato un approccio puramente retorico-stilistico, in favore di una concezione ‘olistica’ del testo, in cui forma e contenuto, contenuto narrativo ma anche dato storico, si influenzano e determinano reciprocamente.
Gli Ab urbe condita libri si rivelano così non soltanto un grande monumento della letteratura latina, ma soprattutto un oggetto di studio di enorme complessità, di fronte al quale l’applicazione delle più avanzate metodologie di indagine – narratologia, intertestualità, reader-response criticism – si rivela proficua e, direi, necessaria. Nei tre ambiti appena citati si muove oggi la critica liviana più produttiva, che ci restituisce un’immagine dell’autore ben lontana dallo storico ingenuo e un po’ sbadato delineato nei decenni passati: Livio emerge, al contrario, come un narratore estremamente consapevole, a tratti smaliziato, capace di far interagire nel proprio resoconto una grande quantità di istanze letterarie, storiche e culturali.
Sgomberato il campo dalla fama di storico «taglia e cuci», gli studiosi hanno potuto verificare la sua abilità nel rielaborare le fonti alla luce di un preciso credo storiografico, e di tessere all’interno della propria opera un’intricata rete di richiami inter- e intratestuali, grazie ai quali il lettore è chiamato a orientarsi nel racconto e a dotarlo di senso. La stessa complessità comincia a essere ravvisata nel punto di vista di Livio sulla storia romana: giudicato in passato una mera celebrazione della potenza di Roma sui popoli, a una più attenta analisi si rivela sorprendentemente sensibile nel cogliere i processi evolutivi, anche traumatici, che hanno segnato la storia della repubblica, primo fra tutti l’imporsi di una politica imperialistica spregiudicata.
Morale ed esemplare
La stessa natura «morale» ed «esemplare» della storiografia liviana, annunciata dall’autore fin dalla Praefatio, è stata oggetto di studi approfonditi che ne hanno precisato i termini: più che mera pedagogia patriottica, una lente attraverso la quale rappresentare gli eventi e mostrare al lettore i processi incessanti attraverso i quali gli attori della Storia fanno propri modelli passati e li riplasmano. In questo senso Livio non offre semplicemente una galleria di exempla da imitare o da evitare, ma illumina i meccanismi che regolano i fenomeni storici nel loro concreto farsi, in una narrazione non monolitica, ma attraversata da forze endogene potenti, che creano crepe, faglie, linee di frizione. La storiografia liviana perde così i tratti più rassicuranti del racconto apologetico, e si impone come articolata rappresentazione del potere politico e militare di Roma, visto in tutta la sua grandezza e ambiguità.
Da qui la difficoltà a dirimere l’eterno problema dell’aderenza di Livio al programma politico-culturale di Augusto, nel cui ambito i sostenitori dell’una e dell’altra ipotesi – un Livio storico di regime o di opposizione repubblicana– devono fare i conti con argomenti contraddittòri. Da un lato i riferimenti all’opera politica di Augusto, dall’altro il disprezzo verso la contemporaneità, che stride con l’idea di una celebrazione del nuovo ordine del princeps. Anche in questo caso, arroccarsi su posizioni esclusive non giova alla comprensione della figura di Livio. Più proficuo sarebbe forse concepire il problema in termini discorsivi: verificare se è in che misura Livio possa essere stato un interlocutore del potere augusteo, il rappresentante cioè di istanze culturali con cui il princeps doveva confrontarsi per dare forma e legittimità al proprio programma.

La Stampa 24.9.17
Elena una e trina fiaccola della convivenza
Dalla sposa di Menelao alla regina persiana, alla madre di Costantino, un filo invisibile che tiene insieme il nostro mondo
di Fernando Gentilini

Il nome, in greco, significa fiaccola, scintilla, qualcosa che brilla. E un tempo risplendeva per tutto il mondo antico. Alla sua fortuna, in epoche diverse, contribuirono tre figure di donna: Elena di Sparta fu la più bella, Elena di Adiabene la più generosa, Elena Augusta la più santa. Le tre, a parte il nome, hanno poco da spartire. E non potrebbe essere altrimenti trattandosi della «figlia di Zeus», di una regina persiana convertita all’ebraismo e dell’imperatrice-madre dei cristiani. Eppure le loro biografie favolose sono legate da un filo invisibile, come se ciascuna rimandasse in qualche modo alle altre: traiettorie labirintiche, dimestichezza con il divino, destini che oscillano tra l’Uno e il Doppio.
Tra Sparta e Troia
Elena conteneva tutte le donne, tutti i pensieri e tutte le voci di donna. Per questo la sua bellezza sconvolgeva la mente degli uomini. Innocente e colpevole, predestinata e senza destino, disonesta e leale. Più di tutto fu un simulacro, l’esatto doppio di quella vera. Nel senso che a Troia c’era la sua ombra, mentre il corpo stava nascosto in Egitto.
Per essere la figlia di Zeus lasciò sulla terra moltissime tracce: a Sparta, nel palazzo d’oro; nell’isola Crenea, da dove salpò fuggiasca; sulla rocca di Troia, dove visse con Paride; sulle rotte tra la Fenicia, l’Egitto e Cipro, percorse con Menelao; oppure a Faro, dove fu prigioniera, o a Rodi, dove fu uccisa, o ancora sull’isola di Leuké, alle foci del Danubio, dove il suo fantasma vaga assieme a quello di Achille.
A me è capitato di sfiorarla a Micene, nella casa dove visse Schliemann durante la campagna di scavi del 1879. Ora è una modesta pensione - A la belle Hélène de Ménélas - ma le stanze sono quelle di sempre. Sul registro degli ospiti le firme di Sartre, Debussy, Woolf, Jung, Faulkner, Malaparte, Moravia... E in una vetrinetta dalle parti della reception, i versi di Quasimodo sul «sangue degli Atridi» (Micene). Elena era nell’aria, nel suo peplo luminoso. Non si vedeva, ma c’era.
Da Adiabene a Gerusalemme
Elena di Adiabene sposò il re di una provincia persiana, che era suo fratello. E si convertì all’ebraismo seguendo l’esempio del figlio. Secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe, arrivò a Gerusalemme all’inizio del primo secolo. C’era una carestia, e la regina distribuì enormi quantità di grano e di fichi acquistati in Egitto. Poi fece voto di astinenza, secondo la tradizione, e offrì al Tempio un candelabro (menorah) e una placca d’oro.
Ho cercato il suo sarcofago al Museo d’Israele, depistato da una foto sul web. Ma poi l’ho trovato al Louvre, tra i reperti degli scavi in Terra Santa di Felix de Soulcy (di lato c’è inciso il suo nome persiano, Saddan, sia in ebraico sia in aramaico). La tomba regale è a Gerusalemme, lungo la via che va verso Nablus; come pure i resti del suo palazzo, sotto un parcheggio vicino alle mura di Solimano il Magnifico.
I preti siriaci e armeni raccontano altre storie. Perché per essi Elena è anzitutto la moglie di Abgal, il re siriaco di Edessa che scriveva a Gesù. Elena di Edessa sarebbe dunque il doppio di quella di Adiabene. Non avrebbe scelto l’ebraismo, ma il cristianesimo. Non sarebbe persiana, ma siriaca o armena. E a Gerusalemme avrebbe visitato i luoghi della Passione tre secoli prima di Elena Augusta…
La santa-imperatrice
Elena di Costantinopoli si dice che sia nata a Drepanum, in Asia Minore, rinominata Helenopolis da suo figlio Costantino. Però potrebbe pure essere nata nei Balcani, in Palestina o in qualsiasi altro angolo dell’impero romano. Nel suo unico romanzo storico (Elena), Evelin Waugh riprende una vecchia leggenda e fa nascere la futura santa-imperatrice dei cristiani tra i Celti, a Colchester, figlia di un capo di nome Coel che discendeva da Priamo.
Waugh inventa sapientemente, ed è per questo che il suo romanzo è più vero del vero. Le nozze con Costanzo Cloro, la nascita di Costantino a Niš, gli anni in Dalmazia a crescere il bambino e quelli in solitudine a Trèves, abbandonata dallo sposo e lontana dal figlio. Rivedrà Costantino alcuni anni dopo, sul suo trono imperiale. E a quel punto capirà per sempre di avere una missione da compiere.
Elena Augusta partì per Gerusalemme nel 326, alla ricerca della Vera Croce del Cristo. E la ritrovò dove c’è ora la cappella che porta il suo nome, nella basilica del Santo Sepolcro. La salvezza degli uomini (e dell’impero) non stava dunque sepolta a Troia, come aveva fantasticato da bambina leggendo i poemi di Omero. Stava nascosta a Gerusalemme, sul fondo di una cisterna. Pareva un semplice pezzo di legno, e invece avrebbe cambiato le sorti del mondo.
Vedere l’invisibile
Per lo scrittore israeliano Yuval Noah Harari (Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità), la capacità di immaginare ciò che non esiste è una prerogativa della nostra specie. Ed è grazie alle credenze magiche, mitologiche e religiose che i sapiens hanno formato le più grandi tribù del pianeta e sottomesso tutte le altre specie.
Finché saremo in grado di immaginare e comunicare l’invisibile, esisterà il nostro mondo - sembra suggerire Harari rispolverando la lezione di James Frazer (Il ramo d’oro). Che poi è il motivo per cui continuiamo a costruire pantheon e a popolarli con le idee e i fantasmi che ci sono più cari.
Elena di Sparta, Elena di Adiabene ed Elena Augusta sono da sempre oggetto della nostra attenzione per ragioni diverse: storico-letterarie, identitarie, filosofiche, religiose... Ed è facendo brillare la loro fiaccola che contribuiamo a realizzare ogni giorno il miracolo della convivenza e della collaborazione tra gli uomini.
Ciò che ci rende unici è la capacità di vedere l’invisibile, di utilizzare immagini simboliche come collante del nostro stare insieme. È stupefacente che alcuni di noi si riconoscano nel peplo della figlia di Zeus, o nella menorah della regina di Adiabene, oppure nel legno della Vera Croce della santa-imperatrice, senza averli mai visti, toccati o odorati, e senza neanche essere sicuri che esistano... Eppure è così che funziona la mente degli uomini. Ed è per questo che dobbiamo adorare il nome di Elena.

Il Fatto 24.9.17
L’ordinanza contro il sesso a pagamento finisce davanti al Tar

Via al primo ricorso al Tar contro l’ordinanza antiprostituzione del sindaco di Firenze che prevede sanzioni salatissime, fino a tre mesi di arresto, se viene violato il divieto di chiedere o accettare prestazioni sessuali a pagamento. Il ricorso contro l’ordinanza è stato presentato da un legale fiorentino, l’avvocato Francesco Bertini. “Non è l’atto di un cliente indispettito”, spiegava ieri al quotidiano La Nazione, facendo capire che si tratta dell’iniziativa di un uomo di legge, che ha titolo per ricorrere al Tar in quanto residente a Firenze contro “un’ordinanza incostituzionale e contraria anche al decreto Minniti al quale dice di ispirarsi”. Secondo l’avvocato Bertini, infatti, l’ordinanza del sindaco Dario Nardella violerebbe le leggi dello Stato al quale la Costituzione riserva le questioni di sicurezza e ordine pubblico, determinando a Firenze una situazione diversa da quella del resto del Paese. Fino ad ora sono stati due i clienti di prostitute incappati nell’ordinanza fiorentina entrata in vigore il 15 settembre. Per loro prevista anche la denuncia alla Procura sulla base dell’articolo 650 del codice penale per violazione di una ordinanza delle autorità.

La Stampa 24.9.17
Il rock degli Stones funziona ancora
E Jagger canta anche in italiano
Un boato e scorre la storia di una vita, poi l’omaggio “Con le mie lacrime”
di Marinella Venegoni

Proprio Keith Richards poche settimane fa ha precisato per la band: «Non abbiamo ancora finito. Proseguiremo, per scoprire fino a dove possiamo arrivare». Il «dove» è anche un «quando» per un gruppo che va dai 76 di Watts ai 70 di Ron Wood, passando per i 73 di Keef e i 74 di Jagger. Ci saranno altre feste come quella di ieri sera a Lucca, con tanti over 50 mescolati ai ragazzi curiosi. Se i Rolling Stones sono sempre di moda, sarà anche per l’inconsueta dedizione che vanno esibendo sul palco. Ieri sera Mick Jagger ha sempre parlato in italiano, ha anche cantato Con le mie lacrime versione italiana di As Tears Go By del ’65, quando si traducevano le canzoni. Ma sorprendente è stata la sua confessione fra una canzone e l’altra: «Ieri a Firenze ho passato una giornata deliziosa. Con la signora May abbiamo mangiato un gelato sul Ponte Vecchio».
Una vitalità residua corroborata da inedita simpatia è stata sfoderata sul palco ieri sera nell’unica data italiana del No Filter Tour, partito da Amburgo. I 55 mila biglietti venduti in tre ore per il concerto di Lucca hanno fatto il paio con prezzi allucinanti dei bagarini, che ora evitano il secondary ticketing: l’offerta era in rete, poi consegna a mano (anche a 1.500 euro), nei dintorni di questo luogo insolito per il rock, lugubre nome ex Campo Balilla, sotto le mura storiche della bellissima città del Summer Festival.
Il Vintage rockettaro era corredato da scenografie e suoni di ultimissima generazione. Un tripudio bambinesco ha accolto l’accensione dei quattro immensi parallelepipedi che fanno da schermi: sotto, la breve pensilina trasparente ha mostrato l’imperturbabile metronomo Charlie, mentre un mare di fuoco rosso annunciava l’apertura con Sympathy for the Devil. Un «who who» generale ha anticipato la voce di Mick, che con il suo glamour brillantato è demiurgo della baracca e depositario dell’energia collettiva. La luciferina Sympathy è il suo capolavoro testuale, ispirata a Il maestro e Margherita di Bulgakov.
Ma il tempo passa. Non si può fare a meno di notare il pallore scavato di Ron Wood, reduce da un cancro ai polmoni, mentre si arrampica sulle note della chitarra. Watts sembra aver riacquistato qualche energia rispetto a Cuba 2016. E lui, Keith, santo protettore di tutti quelli affetti da troppi vizi? Suona immobile, muovendo le nocche grandi come noci, intenerisce quando canta Happy ma il suo noto sorriso da bambino non brilla sempre con l’evolvere della serata. Però non spariscono alcune zampate del suo tocco inconfondibile. In fondo, questa è stata una serata di blues, la sua vita. I suoni grezzi e ispirati delle chitarre rivitalizzano il repertorio, da quando l’anno scorso uscì Blue&Lonesome, omaggio ai grandi del blues, che viene qui citato con Just Your Fool e Ride ’Em On Down.
Altro mistero: il rock non è mai stato così poco di moda, eppure con gli Stones funziona sempre. Il segreto è ripercorrere la propria storia. Simpathy for the Devil è del 1968. I circa venti pezzi in scaletta vanno solidamente dal 1965 di Satisfaction (che chiude come sempre) al 1981 di Start Me Up. Questa volta però i ribaldi Stones introducono piccole modifiche all’eterna scaletta, suonano i pezzi scelti dal pubblico come Let’s Spend the Night Together o You Can’t Always Get What You Want.
Gli Stones insomma guardano sempre allegramente indietro. Metà dei titoli sfilati a Lucca, se ci si pensa, sono gli stessi del tristemente famoso concerto di Altamont del ‘69. Non solo Sympathy, ma Jumping Jack Flash, Brown Sugar, Honky Tonk Woman, Satisfaction, Street Fighting Man: che è del ‘68 e viene da alcuni salutata come ritorno all’impegno. Ma mi facci il piacere, direbbe Totò. Successo strepitoso.

Corriere 24.9.17
Dal nostro inviato a Caporetto
L’attacco, l’incapacità di resistere, le fughe
Cronaca della grande sconfitta italiana
di  Aldo Cazzullo

Non si è mai capito bene perché i 400 cannoni di Badoglio abbiano taciuto, nell’alba nebbiosa del 24 ottobre 1917. Ora dalla cima del Kolovrat ci si butta con il parapendio. Vista da quassù, la vallata dove passarono i tedeschi sembra un bersaglio facile.
Si è pensato che Badoglio volesse lasciar entrare il nemico nella trappola per colpirlo con comodo. In realtà, i tedeschi intercettavano le sue comunicazioni radio: ovunque il generale si spostasse, veniva individuato e bersagliato; distrutte le linee telefoniche, sovrastate dal fragore le «trombette bitonali», abbattuti pure i piccioni viaggiatori. La nebbia fece il resto. L’ordine di aprire il fuoco non arrivò mai.
Eppure sapevamo tutto. Fin da sabato 20 ottobre, quando un disertore boemo, il tenente Maxim, si è consegnato con notizie dettagliate sull’attacco imminente. L’Isonzo restituisce un cadavere con la divisa dei tedeschi: ci sono anche loro. Lunedì 22 ottobre arriva il re, che viene avvisato: la situazione è drammatica. Vengono fatti saltare i ponti sul fiume. L’editoriale del Corriere della Sera annuncia un’offensiva nemica alle porte.
Martedì 23 ottobre Cadorna tiene consiglio di guerra, sotto un ippocastano. I suoi generali sono quasi tutti piemontesi come lui: Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi, Cavallero (che è ancora colonnello). Si parla dialetto; Caviglia, che è ligure di Finale, si arrangi. Cadorna è disperato: «Mio padre prese Roma, a me tocca perderla!». Badoglio si è appena sfogato con l’attendente: «Ce la siamo data a intendere gli uni con gli altri, e adesso è finita! Non c’è più nulla, neanche lo stellone!». Ma ora di fronte al comandante in capo che lo incalza — « e chiel? L’on ca fa chiel? », lei cosa fa? — ostenta tranquillità: «Mi? A mi ‘n manca gnente. Mi manca solo un campo di prigionia per i nemici che cadranno nelle nostre mani». Cadorna gli mette una mano sulla spalla.
Alle 2, le bombe
Pochi giorni dopo, nelle mani nemiche cadranno 300 mila prigionieri italiani. Altrettanti, forse più, gli sbandati. Uno dei misteri di Caporetto è che Badoglio, anziché essere rimosso come Cadorna e Capello, sarà promosso capo di Stato maggiore dell’esercito.
Il bombardamento comincia alle 2 del mattino di martedì 24 ottobre. La terra trema. Tempeste di ferro e nubi di fuoco si abbattono sulle nostre linee. Ma presto la battaglia si fa silenziosa. Gli italiani presidiano le cime; tedeschi e austriaci passano nel fondovalle. Piccoli gruppi, armati di mitragliatrici leggere e mortai da assalto, fanno prigionieri interi reggimenti: si distingue un tenente di 26 anni, Erwin Rommel. Troppi soldati italiani in prima linea, spesso tagliati fuori dal combattimento; troppi pochi nella seconda linea, travolta in poche ore.
A Nord, nella conca di Plezzo, il silenzio è assoluto. Nell’aria odore di mandorle amare. Per sapere se i tedeschi hanno usato il gas, il comando di divisione manda in prima linea un graduato, che informa: «I soldati sono tutti al loro posto, col fucile fra le mani e la maschera al volto». Annota l’aspirante ufficiale Giovanni Comisso: «Quei soldati erano impietriti dalla morte, che la piccola e miserabile maschera non era servita a impedire». Almeno 800 asfissiati. Il comandante tedesco, conte Otto von Below, annota compiaciuto: «L’effetto del gas è devastante». Ora la conca di Plezzo ospita un campo da golf.
Il caffè di Katerina
Piove. Le truppe sulle cime sono accecate da nebbia e nuvole. Alcuni intravedono divise austriache passare giù in basso, ma pensano siano prigionieri scortati dai commilitoni. Altri non si accorgono quasi di nulla. Come il tenente Carlo Emilio Gadda, che d’un tratto si scopre circondato dal nemico. Nel pomeriggio a Roma parla alla Camera il ministro della guerra, generale Giardino: «Venga pure l’attacco! Noi non lo temiamo!». Nello stesso momento, le avanguardie tedesche scese da Plezzo e dalla testa di ponte di Tolmino sono già nel primo villaggio, che darà il nome al disastro e alla sindrome della sconfitta che da allora grava sull’Italia: Caporetto.
Oggi si chiama Kobarid. Dei 4.472 abitanti nessuno è di origine italiana. Il campanile era a punta; l’hanno rifatto a cipolla, come sarebbe piaciuto all’imperatore. Nel piccolo, prezioso museo si avvicendano in un giorno dieci scolaresche: tutte slovene. Nell’Isonzo si fa rafting e kayak. Le uniche insegne in italiano sono quelle dei casinò, delle spa, dei dentisti.
Anche quando i bersaglieri sono entrati a Caporetto il 25 maggio 1915, primo giorno di guerra, gli abitanti erano tutti sloveni. L’unica che parlava italiano, Katerina Medves, in segno di pace ha fatto il caffè; i nostri non si sono fidati, l’hanno fatto bere prima a lei.
Gli alpini del battaglione Exilles hanno preso subito — Dio solo sa come — il Monte Nero, una parete di duemila metri a picco sull’Isonzo. Poi il fronte è rimasto quasi fermo per oltre due anni. Migliaia di morti per avanzare di pochi metri. All’improvviso gli italiani devono retrocedere per 150 chilometri.
I l saluto con la pipa
La rotta è totale. Il generale Farisoglio ordina alla sua divisione di ritirarsi, e fugge in automobile: finisce in braccio ai tedeschi. Nel seminario di Cividale sono ricoverati oltre duemila feriti, tre per letto. Anche il generale Amadei precede i suoi uomini in ritirata. Sul Rombon già innevato tengono magnificamente gli alpini piemontesi, riscattando l’insipienza dei compatrioti in alta uniforme: gli Schuetzen non avanzano di un passo contro i battaglioni Dronero, Saluzzo, Borgo San Dalmazzo, Ceva, Argentera, Monviso. Ma giù in basso il generale Arrighi dà l’ordine di abbandonare la gola di Saga, senza combattere. Gli austriaci vi si infilano esultando, increduli. Gli alpini del Rombon, scrive Mario Silvestri nel suo libro divenuto un classico, Caporetto, «sono abbandonati alla loro sorte: la morte per gelo o la resa». Il generale Rossi incita a resistere «sino all’ultimo uomo», e se ne va per primo. Le strade sono intasate. Il generale Andrea Graziani trova il tempo di far fucilare il fante Alessandro Ruffini, che l’ha salutato senza togliersi la pipa di bocca (c’è chi dice un sigaro). Si vedono scene miserevoli: soldati si inginocchiano per aver salva la vita, qualcuno bacia le mani ai vincitori, altri gridano «viva l’Austria, viva la Germania, viva il Papa!». Il generale Villani si spara in testa.
Il tenente Gadda
Cadorna lascia Udine appena in tempo per non essere catturato pure lui. Con le prime parole accusa i fanti: «La mancata resistenza di reparti della II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico...». Sono le 13 del 28 ottobre. Il governo legge l’annuncio e capisce che il Paese può crollare. Il testo viene attenuato; ma ormai è tardi. Il destino di Cadorna è deciso. In realtà, la gran parte dei soldati si sono battuti con valore: lo provano gli oltre mille corpi custoditi oggi nell’ossario tedesco a strapiombo sull’Isonzo. L’unico a riconoscerlo è Cavaciocchi. Sarà il primo a essere silurato.
Il nemico è già oltre il Tagliamento. Rommel ordina di avanzare senza aprire il fuoco, se non per necessità: ha catturato più di novemila prigionieri, talora senza sparare un colpo. L’auto di Badoglio è colpita da una granata, lui si salva per miracolo. Gli artiglieri sfilano gli otturatori e scappano; ma il sottotenente Vincenzo Cardarelli riesce a salvare i due cannoni di cui è responsabile. Comincia il martirio del Friuli: chi può si unisce alla carovana in ritirata verso Ovest, gli altri si barricano in casa. A Est, lunghe file di italiani si mettono in marcia verso Mauthausen e gli altri campi di prigionia. In centomila moriranno di fame. Il tenente Gadda per tutte le notti sognerà i suoi amici che gli chiedono conto: «Tu hai lasciato passare gli austriaci...».
Il riscatto sul Piave
Come l’esercito italiano sia rinato sul Piave e sul Grappa, pochi giorni dopo, è una specie di mistero. Il nemico non si aspettava di avanzare tanto; ma non si attendeva neppure un riscatto così improvviso. Non c’è più da andare all’assalto di montagne che nessuno ha mai sentito nominare, da prendere città in cui nessuno è mai stato; c’è da difendere la famiglia, badare alla terra; cose che i fanti contadini conoscono bene. È un mistero anche come Badoglio — ribattezzato ironicamente «marchese di Caporetto» — si riveli l’organizzatore della resistenza. È la vera nascita dell’Italia: una babele di dialetti, un popolo giovane diventano nelle trincee una nazione.
Resta il fatto, scrive Silvestri, che «la vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto viene da lontano e va lontano. L’Italia del Piave non è la regola ma l’eccezione». Quello che avvenne cent’anni fa «era già avvenuto prima, avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi; e ci sono tutte le premesse perché avvenga in futuro».

Repubblica 24.10.17
Prenderla con filosofia
Da Socrate a Platone, da Montaigne a Kant: le idee dei grandi pensatori escono dalle aule accademiche per aiutarci a vivere meglio. È la via della consulenza filosofica, una disciplina sempre più diffusa. Ecco come si pratica e cosa la distingue dalla psicoterapia
di Donata Romizi


Illustrazioni di Olimpia Zagnoli di Donata Romizi Nel 1981 il giovane filosofo tedesco Gerd Achenbach, terminato il dottorato in Filosofia, decise di non proseguire sulla via della carriera accademica, ma di aprire uno studio da filosofo: il primo di questo genere. Uno studio (in tedesco, Praxis) in cui si inaugurava una pratica (in tedesco, Praxis): la Pratica filosofica.
L’intenzione di Achenbach era di rendere la filosofia fruibile al di fuori dell’ambito accademico e scolastico, fare del filosofo un interlocutore possibile per singoli, coppie, gruppi, ma anche aziende, cliniche, istituzioni e organizzazioni pubbliche e private di ogni genere: per qualsiasi pubblico interessato a discutere con un filosofo questioni importanti per la vita del singolo e della società. La filosofia ha una tradizione millenaria di domande, prospettive, possibili risposte, teorie e idee sui problemi più scottanti dell’esistenza — singola e collettiva: quale senso dare a questa esistenza? A quali valori orientarsi? Come vivere secondo giustizia? Qual è il migliore sistema politico? Che senso ha il dolore? Come rapportarsi alla morte? Cosa significa amare? Che senso ha il lavoro? Queste e moltissime altre questioni che sgorgano naturalmente dalla vita stessa sono da sempre al centro dell’indagine filosofica. Perché non andare a discuterle con un filosofo?
La parte più innovativa della Philosophische Praxis inaugurata da Achenbach, e anche quella al centro delle sue elaborazioni teoriche, è anche quella più conosciuta in Italia: la consulenza filosofica. Nel senso più originario del termine si tratta di un dialogo libero ( che non segue, cioè, metodi standard né si pone obiettivi terapeutici o di problem solving) tra il filosofo e l’“ ospite” ( secondo la terminologia achenbachiana) che lo consulta — generalmente perché pressato da domande come quelle già citate, o da qualsiasi altra domanda o problema, ché non c’è virtualmente limite alle questioni che possono essere oggetto di un’indagine filosofica. Raramente queste domande verranno discusse solo nella forma generale già citata: in genere, l’ospite pone al filosofo una questione concreta e individuale. Questa sarà non tanto: cos’è la giustizia? Piuttosto: come posso comportarmi in modo giusto in questa situazione? Non tanto: cos’è l’amore? Piuttosto: posso dire di essere amato, o di amare, nella mia relazione? Non tanto: che senso ha il dolore? Quanto: come posso sopportare questa malattia? La competenza filosofica del consulente lo renderà in grado di far oscillare il dialogo tra le idee e le teorie generali e il caso individuale e concreto: usarle per illuminarlo, rivederlo sotto prospettive diverse, capire le assunzioni implicite che vi si nascondono, le implicazioni che una certa prospettiva genera. Così, per esempio, la filosofa Lydia Amir è riuscita con Aristotele ad aprire prospettive nuove a un ospite deluso dall’amicizia. La filosofa Shlomit Schuster ha reso i pensieri di Kierkegaard sul perdono fruttuosi per un ospite tormentato dal pessimo rapporto con i genitori defunti. Lou Marinoff ha calmato con la filosofia stoica il senso di ingiustizia ingenerato in un ospite dagli ordini del suo capo al lavoro. Quasi mai però, in una consulenza filosofica, i filosofi e le loro teorie vengono citati o letti: piuttosto, la familiarità del filosofo con l’indagine filosofica gli permetterà di accompagnare l’ospite in movimenti del pensiero altrimenti inconsueti, di aprirgli prospettive nuove, di mettere i suoi pensieri in ordine, o in un nuovo ordine, di scardinare certezze nocive, di notare contraddizioni. Il dialogo filosofico non consiste tanto nell’applicazione di teorie filosofiche note, quanto nella elaborazione comune di nuove teorie sul mondo e su sé stessi.
La classica domanda che si pone a proposito della consulenza filosofica è: in cosa si differenzia dalla psicoterapia? È una domanda la cui risposta richiede cautela. Il confine non può essere sempre tracciato con nettezza: da una parte, esistono orientamenti psicoterapeutici con una significativa componente filosofica; dall’altra, ci sono molti consulenti filosofici che integrano l’approccio filosofico con componenti psicoterapeutiche. Il rapporto è ancora oggetto di accese dispute tra filosofi pratici. Il disaccordo su questo punto li ha portati talora addirittura a spaccarsi nettamente in due comunità distinte, una di “ puristi” e una di “ eclettici” ( in Italia, la spaccatura corre tra Phronesis e SICoF — oggi Sscf; negli Stati Uniti tra Appa e Npca).
Lasciando da parte il — pur interessante e in parte anche fondato — Kulturkampf contro le psicoterapie e/o la psichiatria lanciato da filosofi pratici come Achenbach, Schuster e Raabe, si possono individuare alcune differenze, almeno di tendenza, tra un dialogo filosofico e uno di tipo psicoterapeutico. Al centro di quest’ultimo sta il paziente, con il suo stato psico- emotivo: ciò che questi dice viene spesso interpretato, per risalire alla sua condizione psico-emotiva e possibilmente migliorarla. Al centro del dialogo filosofico stanno il problema, la domanda, i concetti su cui l’ospite interpella il filosofo, e su cui viene condotta un’indagine comune di tipo prevalentemente razionale. Di fronte a una persona che pone la domanda su quale sia il senso della vita, uno psicoterapeuta tenderà a chiedersi — per esempio — se questa domanda sia il sintomo di una depressione o di uno stato di malessere interiore o di difficoltà in qualche ambito relazionale; il filosofo prenderà la domanda “ sul serio” e cercherà di elaborare una riflessione e una risposta insieme al suo ospite.
Il fine primario del dialogo filosofico è quello di approfondire, migliorare, allargare la comprensione del problema — nel senso filosofico classico: cercare insieme la verità. Spesso questo porta con sé anche un miglioramento della condizione psico- emotiva dell’ospite, ma ciò non è il fine principale dell’indagine filosofica. Il filosofo non lavora sulla persona, ma con la persona sui pensieri, le domande, i concetti che le premono. Il filosofo si interrogherà meno sulle cause dei pensieri del suo interlocutore (“Perché pensa questo?”), mentre più spesso analizzerà con il suo “ospite” le ragioni a sostegno di un certo modo di pensare (“È giustificato pensare così?”). Ove le ragioni si rivelassero deboli, esse potranno anche essere sottoposte a critica, mentre è caso raro che uno psicoterapeuta critichi ciò che dice un paziente.
Il rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie non è il solo tema su cui i filosofi pratici sono in disaccordo: anche il rapporto tra Pratica filosofica e filosofia accademica divide gli animi, così come il ruolo dell’università nella formazione dei filosofi pratici.
L’Italia è forse l’unico Paese al mondo in cui addirittura più di un’università offre un intero percorso di studi sulla Pratica filosofica, in genere centrato sulla consulenza. Sul tema hanno scritto sia filosofi pratici che filosofi accademici ( Neri Pollastri, Davide Miccione, Moreno Montanari, Umberto Galimberti, Luigi Vero Tarca, Romano Madera, Pier Aldo Rovatti — per citare i piú noti). Nell’area di lingua tedesca, ove la Pratica filosofica è nata, il rapporto della Philosophische Praxis con la filosofia accademica è invece molto debole. Pochissimi i filosofi accademici che abbiano mostrato interesse per essa, nessuno che abbia scritto un libro sul tema. Solo in Austria l’Università di Vienna offre dal 2014 un master in Pratiche filosofiche. In molti paesi del mondo sono solo associazioni di filosofi pratici a formare i filosofi pratici, e sono in molti a ritenere che l’università non si debba “immischiare” in questa professione.
In Italia il profilo professionale del filosofo pratico si concentra prevalentemente sulla consulenza o sul lavoro filosofico con gruppi e in team in contesti aziendali o in istituzioni pubbliche di vario tipo (ospedali, cliniche psichiatriche, prigioni, scuole). Diverso è lo scenario nell’area di lingua tedesca. Qui la consulenza filosofica è ancora concepita e praticata principalmente come dialogo a due nello studio privato del filosofo. Tuttavia, nessun filosofo pratico al mondo vive di sola consulenza filosofica. Per questo la gran parte di loro integra l’offerta proponendo altre modalità di Pratica: viaggi, passeggiate, colazioni, serate a tema, filosofia nei caffè, filosofia con i bambini, e altro ancora. Anche in questi casi il filosofo lavora al di fuori di un contesto accademico o scolastico e non insegna; piuttosto, mette la propria competenza al servizio delle domande e dell’elaborazione del pensiero altrui. Anche in quest’ambito fervono accese discussioni su quali pratiche considerare legittimamente filosofiche e quali no.
A più di trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis il bilancio è ambivalente. Da una parte, la Pratica filosofica è diffusa in tutto il mondo: ci sono associazioni di filosofi pratici in quasi ogni Paese, congressi internazionali a intervalli regolari, riviste specializzate, scuole di pensiero, pubblicazioni e un sito internet in sette lingue ( The Philo- Practice Agora). D’altra parte, però non si può dire che la professione in quanto tale si sia affermata: al mondo sono pochissimi i filosofi pratici che riescano a vivere di questo. Il che, alla luce di quanto detto, poco stupisce: non esiste a tutt’oggi un profilo professionale definito e condiviso, non c’è un percorso formativo anche solo tendenzialmente omogeneo, non c’è consenso sugli standard di qualità, non c’è nemmeno consenso su cosa sia — in definitiva — la Pratica filosofica!
L’agire nel mondo richiede un certo grado di dogmatismo, e l’esistenza di una professione presuppone una certa omogeneità di pensiero tra chi la pratica: cose che riescono tipicamente difficili ai filosofi. A più di duemilacinquecento anni dalla famosa caduta di Talete nella buca l’evoluzione della Pratica filosofica sembra confermare il cliché del filosofo inetto a muoversi sul piano mondano: i filosofi escono dalla torre d’avorio accademica per andare nel mondo, ma non sanno poi giocare seguendone le regole. L’idea della filosofia come libera professione getta la filosofia in un campo magnetico contraddittorio di attrazione- repulsione verso il mondo. Qualche filosofo la chiamerebbe “dialettica”, e se ne aspetterebbe buoni frutti. Un imprenditore la chiamerebbe “ confusione” e prospetterebbe un esito fallimentare. Il futuro è aperto. ?

Repubblica 24.10.17
Il bene e il male davanti al semaforo
Passare con il rosso di notte? È uno dei tanti quesiti che pongono un tema universale. Di questo si occupa la nuova disciplina: l’obiettivo non è guarire l’individuo ma offrirgli una prospettiva diversa
di Federico Capitoni

L’associazione della filosofia alla parola “pratica” ancora sorprende molti, abituati a pensare che la madre di tutte le discipline riguardi la pura speculazione, l’accademia e — nel peggiore dei casi — un mondo teorico, ideale, che non trova alcuna applicazione nella realtà. Quando si parla di pratiche filosofiche è dunque naturale essere pronti a spiegare cosa si intende, non solo in termini concettuali, ma anche professionali, visto che quello del filosofo pratico, per quanto ancora poco diffuso, è un mestiere a tutti gli effetti.
Le pratiche filosofiche sono molteplici, ma possono dividersi in due grandi tronconi: quelle individuali e quelle collettive. Nel primo caso si parla prevalentemente di consulenza filosofica, un dialogo tra un consultante (colui il quale espone un suo problema) e un consulente (il filosofo) che ha l’obiettivo di fare luce sulla questione, senza intenzioni risolutive. Può considerarsi una pratica alternativa, ma non affine, alla psicoterapia, sebbene non vengano messi in campo strumenti o modelli psicologici e non si miri alla soluzione del problema, ma soltanto a escogitare nuovi punti di vista per guardarlo e affrontarlo. Non c’è alcuno scopo terapeutico e non esiste la figura del paziente ( tanto meno del malato). Se c’è invece un riferimento filosofico, esso non è una scuola, ma una modalità: quella socratica delle continue interrogazioni e messa in discussione di ogni proposizione. Cogliere in fallo logico l’interlocutore spesso tradisce un suo errato posizionamento rispetto alla questione.
Lo stesso approccio socratico, argomentativo, è alla base anche delle pratiche collettive, un mondo più ampio, fatto di tante attività — caffè filosofici, Philosophy for Children, Philosophy for Community, dialoghi in stile filosofico — tutte accomunate però dal medesimo processo, controllato — non diretto! — dal filosofo professionista che assume il ruolo di facilitatore. Normalmente disposti in circolo, per eliminare ogni gerarchia e per fare in modo che lo spazio vuoto creato al centro sia il luogo neutro delle argomentazioni, i partecipanti — facilitatore incluso — iniziano un dialogo che normalmente scaturisce dalla lettura di un testo non filosofico. Più raramente il tema è già deciso prima di iniziare il dibattito, si preferisce utilizzare un testo perché è interessante anche il processo grazie al quale si arriva all’argomento. I partecipanti fanno osservazioni non sul testo, bensì a partire da questo, il che consente di vedere come in un brano, che pure possiede una tematica centrale, la comunità possa individuare un argomento laterale o non palesemente emergente. E ciò mostra l’inevitabile collegamento di temi anche apparentemente lontani. Il testo serve dunque a scatenare, accendere, la riflessione, che prende corpo attraverso la libera circolazione delle opinioni.
Quel che c’è di filosofico sono la pratica dialettica, l’argomentazione e un processo di astrazione che esercita la mente: si parte sempre da casi particolari per arrivare all’universalizzazione del concetto, per quanto il tempo (raramente si superano le due ore) lo consenta. Nessuno, quando si comincia, lo sa, ma è esattamente quello che succede: è naturale che dall’esperienza di vita del singolo, se sia il caso o meno di passare col semaforo rosso anche alle tre di notte quando non c’è nessuno (e magari neanche le telecamere che controllano, cosa che fa spesso la differenza), si giunga a una riflessione più generale prima sulle regole e poi sul rapporto bene/ male. Se il dialogo naviga da solo, il facilitatore quasi non interviene; è chiamato invece a rilanciare il dialogo e a spostare l’asse su cui il pensiero si è disposto se la discussione si arena.
La pratica non è soltanto nel processo dialogico, ma anche nel coinvolgimento esistenziale. Il tema deve essere sentito, la filosofia diventa pratica se ci riguarda. Se nella consulenza ancora resiste un dualismo (il consultante va dal filosofo e non sa di fare filosofia), nelle pratiche collettive, il partecipante diventa subito filosofo egli stesso, anche perché può affrontare una questione che lo concerne senza però che per lui costituisca un problema da risolvere e che lo fa soffrire. Così si può parlare di giustizia, di identità, di regole, di creatività: parole dalle quali sviscerare i contenuti e le manifestazioni nella vita di tutti i giorni. Nulla impedisce di alzare il livello, se il facilitatore lo ritiene opportuno. Nel caso di una discussione sul rapporto tra egoismo e altruismo, per esempio, normalmente vi sono due opposte fazioni: chi crede nell’altruismo vero, assoluto, e chi pensa che questo si fondi comunque sull’egoismo (impossibilità del dono puro: il dare procura comunque soddisfazione e contentezza). Si possono introdurre allora gli ultimi risultati delle ricerche neuroscientifiche secondo cui quello che chiamiamo egoismo non è altro che uno strumento biologico umano per la salvaguardia della specie e di cui siamo naturalmente dotati. Altrimenti dovremmo sentirci in colpa ogni volta che troviamo parcheggio, dacché lo abbiamo sottratto a chi arriva un secondo dopo di noi... E se ognuno cedesse il parcheggio all’altro, quel posto rimarrebbe sempre libero.
Questo filosofare concerne appunto la vita e non ha alcuna ambizione di addivenire a una qualche verità. E benché viga un atteggiamento logico, non c’è una guerra tra tesi opposte, se ne accettano anche di mediane; non esiste la formale polarizzazione di A e B e il tertium, una volta tanto, è possibile. Chi ha voluto argomentare sulla necessità del vaccino obbligatorio dicendo che chi non si vaccina è un pericolo per gli altri, si è ovviamente visto rispondere, logicamente, che chi è vaccinato è protetto, mentre chi non lo è la pensa esattamente come “l’untore”; dunque l’argomentazione cade. Ma poi la realtà ci dice che ci sono bambini che si vorrebbe vaccinare ma che appartengono a una piccola percentuale di individui clinicamente non vaccinabili e si conviene che l’eccezione va tutelata. Eccezione che in un sistema rigorosamente logico non dovrebbe esistere. La filosofia esce così dall’università e entra nell’esistenza di ognuno. Ciò che conta sono le “ buone ragioni”, purché sempre argomentate, più che la logica infallibile. E soprattutto che si pensi e si parli non per sentito dire, per studi o per dogmi di pensiero, bensì con la propria testa. È anche il motivo per cui gli incontri funzionano meglio se svolti tra non studiosi: quelli finirebbero altrimenti per citare le teorie dei grandi pensatori e il dialogo assumerebbe le fattezze del convegno universitario.
Invece l’attività, allenamento del pensiero, trova grande successo tra i normali cittadini, nelle scuole, nelle aziende e anche nelle carceri (un libro di recente uscita per Mursia, Filosofia dentro, racconta di esperienze nei penitenziari), cioè tra persone che senza saperlo sollevano i grandi temi della storia della filosofia: una volta, parlando di pregiudizio, è stato detto da un bambino di undici anni che “ per non avere pregiudizio bisognerebbe disporre di un giudizio ‘puro’, senza un’idea che lo precede”, che è esattamente la questione fenomenologica di Cartesio prima e di Husserl poi.
I partecipanti colgono altresì con gioia anche l’aspetto comunitario e sociale degli incontri. La maggior parte di loro confessano che le occasioni per confrontarsi civilmente e mantenere una conversazione a un livello che non sia quello superficiale della chiacchiera sono normalmente scarse. E che si torna a casa stimolati, magari — e per fortuna — con meno certezze, ma con un processo di riflessione ormai innescato che non può far altro che alimentare ulteriori ragionamenti e dialoghi: il motore filosofico è partito.
La filosofia diventa cura, ma non intesa come terapia, bensì come cura di sé, palestra per la mente. Per prendersi cura di sé si può andare a pilates, al cinema, in gelateria e — perché no? — a un dialogo filosofico. ?

Repubblica 24.10.17
Piccola guida ai metodi
Da soli o con gli altri una modalità per ogni esigenza
1
CONSULENZA FILOSOFICA
È un incontro a due che vede il consulente ( il filosofo) e il consultante ( il cliente).
Si dialoga a partire da un problema che il consultante espone al filosofo e si cerca di far luce sui diversi aspetti senza la pretesa di trovare la soluzione.
A differenza del counseling, non fa leva su metodi, modelli o insegnamenti psicologici
2
P4C
( philosophy for children/ community)
Si tratta di dialoghi filosofici collettivi orientati alla formazione di una comunità di ricerca.
I partecipanti, incluso un facilitatore ( il filosofo professionista), si dispongono in cerchio e affrontano un tema che può essere deciso prima dell’incontro o scaturire da una lettura iniziale collettiva
3
DIALOGO SOCRATICO
Ispirato al metodo pensato dal filosofo e matematico tedesco Leonard Nelson, è un tipo di dialogo con alte ambizioni. Un piccolo gruppo di persone si riunisce, anche per alcuni giorni, nel tentativo di arrivare — attraverso un processo particolarmente strutturato — a una definizione condivisa di un concetto
4
FILOSOFO AZIENDALE
Il filosofo in azienda può avere a che fare con diverse figure, dal manager ai dipendenti.
Spesso, nel primo caso si tratta di consulenze individuali, nel secondo di esperienze collettive che assumono la forma del coaching. L’obiettivo è normalmente quello di migliorare il rapporto con il lavoro o fissare meglio gli obiettivi professionali
5
CAFFÈ FILOSOFICO
E anche passeggiate filosofiche, aperitivi filosofici: sono libere discussioni in stile filosofico.
Possono essere svolte come dialogo collettivo puro — nello stile della P4C — o in forma di dibattito dopo la presentazione di un tema o la lettura di un testo, anche appartenente alla letteratura filosofica

Repubblica 24.10.17
Piccola guida ai gruppi
Le associazioni alle quali ci si può rivolgere

1
CRIF
( centro di ricerca sull’indagine filosofica)
Fondata nel 1991, l’associazione promuove pratiche filosofiche di comunità, con adulti e bambini, quali Philosophy for Children e Philosophy for Community sul modello operativo elaborato da Matthew Lipman.
www. filosofare. org crif@ filosofare. org Via C. Denina 72 — Roma
2
PHRONESIS
( associazione italiana per la consulenza filosofica)
Nasce nel 2003 e si occupa di consulenza filosofica individuale, a partire dalla sistematizzazione teorica di Gerd Achenbach, offrendo un servizio rivolto a chi cerca un aiuto di tipo riflessivo.
I vari consulenti filosofici operano su tutto il territorio nazionale.
www. phronesis- cf. com segreteria@ phronesis- cf. com Via A. Gallonio 18 — Roma
3
SSCF
( scuola superiore di counseling filosofico)
La scuola ( ex SICoF — Società italiana di Consulenza filosofica) dal 2000 propone il “ counseling”, ossia una pratica individuale che, diversamente dalla consulenza filosofica, utilizza elementi e riferimenti psicologici mescolandoli al metodo filosofico.
www. sscf. it segreteria@ sscf. it Corso Fiume 16 — Torino
4
PRAGMA
( società professionisti pratiche filosofiche)
Neocostituita, raccoglie diversi professionisti delle pratiche, tra consulenti, coach aziendali e organizzatori di dialoghi filosofici. Si impegna nella ricerca e fa circolare il più possibile le attività coinvolgendo istituzioni e aziende.
www. pragmasociety. org segreteria. pragma@ gmail. com Viale Monte Santo 5 — Milano
Le associazioni che promuovono servizi di pratiche filosofiche collettive o individuali, con adulti o bambini, offrono anche corsi di formazione per diventare consulenti o facilitatori nel dialogo filosofico Tutti i testi delle piccole guide sono a cura di Federico Capitoni

Repubblica 24.10.17
Quando soffro uso il pensiero
Nei momenti difficili, come le malattie e i lutti, ho imparato ad “ abitare la distanza”: così l’esercizio filosofico accompagna la mia vita
di Pier Aldo Rovatti

Che filosofia e vita vissuta in prima persona possano procedere assieme l’ho imparato subito, al mio primo anno di università a Milano (1961), da un maestro d’eccezione, il fenomenologo Enzo Paci. Non so quanto lui riuscisse ad applicare a sé stesso il suo insegnamento, conosco però bene gli effetti che ebbe su di me. Ero infatti abbastanza lontano dal pensare che la filosofia fosse innanzi tutto uno stile di vita, al di là e al di fuori di qualunque intellettualismo libresco. In seguito ho cercato di entrare in questa dimensione, diciamo, “pratica”; non era così ovvio né così semplice passare dai libri alla vita quotidiana per poi ritornare magari ai libri con uno spirito diverso, imparare a “leggerli” così e farmi un’idea di quali fossero davvero da leggere e quali meno. Mi illudo di esserci in parte riuscito, comunque non ne sono tanto sicuro, come non sono certo di avere fatto buon uso della prestigiosa rivista ( aut aut intendo) che Paci mi lasciò in eredità.
Quello che ho imparato direi che consiste in primo luogo in un tipo di narrazione e quindi in un modo di scrivere e descrivere i fatti: sto cercando, in questo preciso momento, di darne una pallida idea a chi mi sta leggendo. E cioè: niente presupposti schematici, niente concessioni alla retorica, nessuna sbandierata certezza, piuttosto una pratica del dubbio elevata a esigenza fondamentale. Facile da dire, quasi impossibile da realizzare. Ma ho anche imparato, facendo le prove su me stesso (anche a mio danno) che la parola “impossibile” è una delle parole più importanti in filosofia. Occorre precisare: in una “certa” filosofia, quella che si presta a incrociarsi con l’esperienza concreta, il che significa lasciare fuori tante altre filosofie nelle quali alla fine prevale il rapporto di potere tra alto e basso.
Se mi sento di fare qualche esempio autobiografico? La filosofia mi ha aiutato a prendere distanza, anzi ad “abitare la distanza” come ho avuto modo di dire in ciò che ho pubblicato. Forse ci sono riuscito poco e male, ma ho sempre avuto in mente che questo era l’obiettivo da tenere fermo nei momenti difficili della vita, quando mi sembrava che tutto mi crollasse addosso. Provo un certo pudore a scendere nei particolari ma questi momenti sono in genere quelli che tagliano l’esistenza di ciascuno con dolori che sembrano insopportabili; le malattie, i lutti soprattutto.
I miei genitori sono morti in rapida sequenza durante gli anni Ottanta, mia madre non ha retto alla morte del suo compagno. Ricordo che intorno a me, presso i miei quattro fratelli, si produsse una frenesia del fare qualcosa, del rendersi operosi e utili, mentre io mi sforzai di starmene a lato, in silenzio, facendo appello ai consigli filosofici che avevo interiorizzato. Ci riuscii solo in parte, però guadagnai — proprio in quei momenti — una lucidità strana, un modo di stare vicino agli altri e al tempo stesso di vivere in profondità la perdita, il buco che si era scavato dentro di me, che mi permise di non crollare pur restando con gli occhi fissi, per dir così, sul tragico evento.
Venivo guardato, dai miei fratelli (più grandi di me) che si affaticavano per non dover pensarci troppo, con un sentimento di relativa sorpresa perché già si erano abituati ad associare il mio occuparmi di filosofia con l’idea che io fossi un tipo un po’ bizzarro. Forse pensavano anche che volessi disinteressarmi all’evento luttuoso, e magari avevano buone ragioni per stigmatizzare la mia apparente estraneità. In realtà io vivevo un’esperienza opposta, di fortissima intensità.
Quella distanza che allora avevo tentato di procurarmi (e che poi in altre contingenze meno drammatiche della vita ho cercato di riprodurre) era in effetti il mio modo per avere un’esperienza della prossimità più “vera” (termine difficile!), senza essere completamente sommerso dai flutti di un’emotività eccessiva.
Potrei aggiungere altri esempi di episodi salienti, come quando mi sono trovato disarmato dentro una pesante cappa depressiva e, non volendo ricorrere a medici della mente, ho fatto appello alle mie risorse filosofiche per risalire infine alla superficie. In quel caso dovevo distanziarmi almeno un poco da me stesso.
Ma, al di là dei singoli episodi, nella “normalità” (diciamo così) di ogni giorno ho fatto continuamente un lavoro terapeutico su me stesso al quale non saprei che nome dare, se non quello roboante di esercizio filosofico. Attraverso di esso mi sono tolto parecchi tic mentali (altri, ahimè, sono rimasti) che mi portavo dietro fin dall’adolescenza: credo di avere ammansito un poco la mia impulsiva reattività con iniezioni costanti di spirito ironico. Ecco, l’ironia è una meravigliosa risorsa filosofica: è possibile alimentarla e anche comunicarla ad altri ( ho tentato di farne il sale del rapporto educativo con i miei figli). Tuttavia non è priva di effetti indesiderati poiché ha sempre due facce, una amichevole e una ostile ( almeno all’apparenza), per cui chi ti sta vicino ti vive spesso come un provocatore. Ma è la filosofia stessa, come già sapeva Platone, ad avere una doppia faccia e a renderti la vita sempre un po’ difficile. Non è certo un comodo lasciapassare per la felicità ( sempre che esista).

Repubblica 24.10.17
Per migliorare il mondo basta un po’ di logica
Da Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano l’importanza della filosofia nelle nostre scelte
di Timothy Williamson

La disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione, morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto. Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale. Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la certezza è impossibile, riterrà anche che la verità è impossibile. È impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale, questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale. Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo, al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo, prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di distruzione di massa. L’affer-mazione si rivelò presto falsa. In un discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata, dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano. ?

Repubblica 24.10.17
Metti Parmenide alle elementari
“Se l’anima dopo la morte va in un altro corpo, quanto dura il passaggio?”
Parlare di filosofia ai bambini è possibile. Difficile è rispondere
di Nicola Zippel

“Ma Parmenide si divertiva a infiammare la testa delle persone?”. La domanda di Antonio, nove anni, arriva, diretta, schietta, essenziale. E la risposta dev’essere altrettanto diretta, schietta, essenziale: “Voleva far riflettere le persone, e questo probabilmente lo divertiva pure”. Se c’è una cosa, tra le tante, tantissime, che ho imparato insegnando filosofia ai bambini è quella di evitare i giri di parole o le risposte evasive. Questo è uno dei tanti punti di incontro tra la filosofia e i bambini che sono emersi dalla mia esperienza, ormai più che decennale, di didattica filosofica nella scuola elementare. Né la filosofia né i bambini amano perdersi in formalismi, perché il tempo è prezioso quando si sta cercando di capire il senso delle cose.
Quando entro in una classe per la prima volta, so bene che ho i minuti contati, perché l’attenzione di un bambino è totale per ciò che è sconosciuto, quanto impietosa per ciò che è noioso o poco interessante. Se in quei primi minuti riesco a presentare la filosofia per quello che già è, ossia per nulla noiosa e molto interessante, allora quell’attenzione si trasforma in curiosità e possiamo iniziare, insieme, il viaggio nella conoscenza. Per suscitare interesse non si può che cominciare con delle domande: “Sapete che cos’è la filosofia?”, “L’avete mai sentita nominare, prima d’ora?”, “Secondo voi, con quale delle materie che fate a scuola ha a che fare la filosofia?”. “Io ho sentito una volta mamma che diceva la parola filosofia”, “mio fratello studia filosofia al liceo”, “io una volta ho sentito in televisione che parlavano della filosofia”; “per me la filosofia ha a che fare con matematica”, “per me con storia”, “per me con storia e scienze”. Anche solo parlarne in modo generico e irriflesso permette ai bambini di entare in rapporto con la filosofia. I bambini dicono subito quello che pensano, dicono molte cose, ma non dicono mai tutto; anche loro, pur essendo così ricchi di immaginazione, lasciano sempre qualcosa in ombra, di impensato. “E la filosofia non può avere a che fare anche con la ginnastica?”, “...sì, forse sì”; “ e con il tempo libero?”, “... nooo”; “... e con la mensa?”, “...ma nooo!”. Ecco che si è aperto uno spiraglio di riflessione a cui molti di loro, se non tutti, non avevano ancora pensato: “E invece sì, la filosofia ha a che fare anche con il tempo libero e la mensa, così come ha a che fare con tanti altri momenti della vostra giornata fuori da scuola”. Se sei riuscito a sorprenderli una volta, susciti ammirazione, rispetto e, cosa ancora più importante, fiducia. Quando capiscono che la filosofia non solo è un oggetto misterioso, ma anche imprevedibile — esattamente come ognuno di loro — , allora i bambini vogliono conoscerla per davvero.
Quindi arriva il loro turno di fare le domande. Domande insidiose, profonde, filosofiche. Alice Amina, nove anni, a cui ho spiegato che per Anassimandro la terra sta sospesa al centro dell’universo, così da poter reggersi da sola: “ Se tanto l’universo ha la forma di un cerchio, non ha comunque una parte sotto dove la terra potrebbe poggiare?”; Luca, otto anni, ascoltando il mito platonico della caverna: “Se i prigionieri nella caverna non hanno mai visto le cose vere, come fanno a dire che un’ombra indica una nave e un’altra un leone?”; Lucia, dieci anni, mentre parliamo della metempsicosi: “Se Pitagora pensa che l’anima dopo la morte passa a un altro corpo, quanto dura il passaggio? Magari tre secondi? E dove sta, l’anima, durante il passaggio?”. Domande dettate da una logica coerente quanto spontanea, che solo un bambino può avere. Domande ultime, perché vanno al cuore del problema e risvegliano i concetti filosofici fondamentali. Ad Alice Amina rispondo che Anassimandro voleva immaginare comunque un modo per cui la terra poteva restare sospesa da sola, senza qualcosa sotto che la tenesse in piedi; a Luca rispondo che, in qualche modo, quei prigionieri avevano già quelle conoscenze dentro di sé; a Lucia rispondo che non lo so quanto dura il passaggio da un corpo all’altro, né dove se ne sta l’anima durante il passaggio, e che magari Pitagora lo sapeva, ma non ce l’ha mai detto. Risposta, quest’ultima, che suscita un po’ di delusione in Lucia, che credeva che i filosofi avessero tutte le risposte; ma, insieme, le dà forse anche una sensazione di piacere, perché sente che ha posto un problema a cui nessuno prima aveva pensato.
Spesso si afferma che la filosofia serve ai bambini per aiutarli a sviluppare un pensiero critico. Sono d’accordo, ma fino a un certo punto, non fosse altro perché i bambini ne hanno già tanto di pensiero critico, a volte troppo. Credo che la filosofia serva ai bambini per imparare a gestire questo innato e prezioso pensiero critico, a organizzarlo, articolarlo in modo più ordinato e consapevole.
Proprio come i primi greci, i bambini spesso sono già filosofi senza saperlo; conoscere la filosofia, allora, può aiutarli a conoscere meglio sé stessi e a rivolgere la loro curiosità verso di sé, come Michele, nove anni: “ Perché faccio tante domande?”. ?

Il Sole 24.9.17
Il digitale cinese non è una copia
di Biagio Simonetta

La Cina avanza e incalza gli Stati Uniti: oggi aziende come Alibaba, Baidu, Tencent e Huawei guidano lo sviluppo tecnologico
Esiste una galassia tecnologica composta da giganti come Google, Facebook, Amazon, Microsoft e Apple. E poi esiste la Cina. La partita più importante su dati, intelligenza artificiale e robotica, si gioca tutta qui, sul binario invisibile che lega la Silicon Valley a Pechino. Ed è una sfida destinata a determinare i nuovi equilibri geopolitici.
Secondo diversi analisti, con il lancio del nuovo iPhone la capitalizzazione di mercato di Apple potrebbe toccare quota mille miliardi di dollari, eguagliando il Pil di un Paese come il Messico. Numeri che ci obbligano a riflettere sull’importanza strategica di certe aziende, oggi. E non è solo un fatto di dollari e finanza. Basta ricordarsi dello scontro fra l’azienda di Cupertino e l’Fbi per lo sblocco dell’iPhone del terrorista di San Bernardino per intuire che siamo davanti a qualcosa che va al di là delle dinamiche semplicemente aziendali. Oggi una manciata di big company si contende il pianeta e la quasi totalità dei nostri dati. E di fianco ai colossi americani stanno crescendo prepotentemente quelli cinesi. Secondo una recente indagine di Kpmg, nel corso dei prossimi quattro anni Shanghai e Pechino saranno tra i “Top 10 Innovation Hubs” al mondo. All’interno dello stesso studio, Stati Uniti e Cina sono identificati come i mercati più all’avanguardia, capaci di influenzare l’innovazione tecnologica globale.
L’immagine della Cina fabbrica del mondo, degli opifici sempre aperti e delle metropoli avvolte dai fumi industriali è superata. Il miracolo cinese della manodopera a basso costo appartiene al ventennio che ci stiamo mettendo alle spalle. Davanti c’è un Paese che ha necessità di cambiare e innovare, trainato da giganti tecnologici pronti a competere con i rivali statunitensi sul piano dell’innovazione, oltre che su quello finanziario. Alibaba e Tencent sono le aziende tecnologiche più fiorenti del macrocosmo cinese. La loro capitalizzazione di mercato è ormai costantemente sopra i quattrocento miliardi di dollari. Tallonano da vicino nomi come Google, Facebook e Amazon. E la loro forza non è la manodopera a basso costo, ma l’innovazione.
Alibaba è considerata da molti la Amazon cinese, anche se a guardare i numeri Amazon più che un modello sembra uno dei suoi competitor. Alibaba è l’autentico padrone dell’ecommerce cinese: ogni cinque dollari spesi per un acquisto online in Cina, quattro finiscono nelle tasche Alibaba. Il suo Ceo, Jack Ma, è per gli analisti un innovatore del calibro di Jeff Bezos, e ha fondato un impero dalla sua passione per il commercio elettronico. Nel 1998, con 60mila dollari in tasca, ha lanciato il sito Alibaba.com. Oggi è nella classifica dei primi venti super ricchi al mondo con un patrimonio stimato di 37,6 miliardi. Il suo Alibaba può contare su oltre 400 milioni di buyer attivi. Ma negli ultimi anni, proprio come Amazon, la focalizzazione si è spostata dall’ecommerce ai nuovi business come il cloud. Gli investimenti sono stati importanti, e il ritorno sulle revenue è stato formidabile: le entrale del comparto cloud computing per il secondo trimestre del 2017 sono cresciute del 96% a 359 milioni di dollari, con un balzo dei clienti di questo servizio del 75%, per oltre un milione di unità. Altro settore su cui Ma ha puntato fortemente è quello dei pagamenti digitali. La piattaforma Alipay è molto apprezzata dalle giovani generazioni dato che l’80% della customer base del servizio ha meno di 45 anni.
I pagamenti digitali spopolano anche nel business di Tencent, società di investimento molto attiva in ambito gaming, che ha sposato da un po’ di tempo il mercato del mobile payment. Se nella Repubblica Popolare le vendite tramite smartphone superano i 500 miliardi di dollari è soprattutto grazie all’innovazione delle sue big company. La holding con sede a Shenzhen è proprietaria della famosa applicazione di messaggistica istantanea WeChat, che è anche la più diffusa del Paese con circa un miliardo di utenti. Una leadership spinta anche da Pechino, che ha più volte danneggiato WhatsApp, la rivale più diretta, con blocchi tipici del protezionismo cinese. L’applicazione sviluppata da Tencent consente di fare un po’ tutto con lo smartphone. È un mix di funzioni simili a Facebook, WhatsApp e Skype, tutti in un’unica applicazione. Le operazioni possibili sono tante: dal classico scambio di messaggi (scritti, vocali con foto e video), alle conference call, fino alla condivisione di articoli in stile social network. Ma il vero punto di forza di WeChat è il mondo dei pagamenti digitali. Attraverso la App sono possibili non solo lo scambio di denaro fra privati (in modalità peer to peer), ma anche le transazioni finanziarie fra utente e aziende. I cinesi, attraverso WeChat pagano bollette, biglietti del treno, multe, acquisti online e anche il ristorante. Di recente anche l’italiana Coop ha siglato un accordo con l’applicazione di Tencent per la vendita online.
Tencent, insieme ad Alibaba e ad altri big come Huawei, è anche fra i protagonisti dell’esplosione dei Big Data, uno dei pilastri della “nuova normalità” disegnata dal presidente Xi Jinping. La rivoluzione dei dati sta trasformando l’urbanizzazione della regione del Guizhou, già ribattezzata “Big data valley”. Negli ultimi tre anni sono state più di 400 le società che hanno trasferito qui le loro strutture dedicate ai Big Data. Uno degli esempi migliori arriva da Foxcoon, colosso della produzione elettronica in Cina: la multinazionale proprio nel Guizhou ha costruito il suo Green Data Tunnel, un’enorme struttura contenente 7mila server raffreddati naturalmente dai venti che attraversano le montagne.
Analizzando il successo delle big tecnologiche cinesi non si può fare a meno di menzionare quello che ormai molti anni fa è stato ribattezzato “The Great Firewall”. I circa 750 milioni di cittadini cinesi che navigano quotidianamente su Internet sono stretti nella morsa di una censura governativa molto forte. Nel Paese del Dragone alcune piattaforme come Google e Facebook sono inutilizzabili. E il successo delle piattaforme autoctone molto spesso è legato a questo fattore. L’esempio più lampante è quello relativo a Baidu, motore di ricerca più utilizzato del Paese con quasi 65 miliardi di dollari di capitalizzazione. L’algoritmo dell’azienda raccoglie i dati di oltre mezzo miliardo di persone. Per Google la guerra con Pechino si è chiusa ormai molti anni fa. Storia simile riguarda Uber. Dopo mesi di lotte, la succursale cinese dell’azienda Californiana è stata incorporata in Didi Chuxing, principale rivale nel mercato del ride sharing nel Paese del Dragone. Formalmente è nata una nuova società, ma in realtà Uber ha solo una partecipazione del 20 per cento.
Una delle aziende chiave della Cina innovatrice è senza dubbio Huawei. La società con sede a Shenzhen ha ingranato la marcia dell’innovazione in ambito smartphone. E lo ha fatto grazie a investimenti in ricerca e sviluppo che fino a qualche anno fa il modello cinese non prevedeva. Huawei, che sta spingendo forte anche sulle tecnologie per il 5G, è uno degli esempi più fulgidi di come l’industria cinese stia guardando con estreme interesse verso la smart manufacturing. Dati, robotica e intelligenza artificiale cambieranno il mondo industriale. La manodopera a basso costo rischia di diventare un vantaggio senza più appeal. Di tutto ciò a Pechino sono coscienti. Per questo la nuova rotta è quella della vera innovazione.

Il Sole 24.9.17
Nelson Mandela
E il Sole disse al vento: chi di noi è più forte?
di Martha C. Nussbaum

In un breve apologo che risponde a questa domanda si riassume la leadership per Mandela: un addestramento virtuoso e paziente contro le tentazioni della rabbia e della vendetta
Negli scritti di Mandela non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (...) La rabbia porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono, alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa storia). (...)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla “posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle buone relazioni con le guardie - spesso inquinate dagli attriti di classe - era «il rispetto, il semplice rispetto». Quando il suo avvocato giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome. L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che erano». La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia: egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori. Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché si era fatto da sé. Era indipendente e studiava».
Quindi non solo la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta, ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben più utili. (...)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò . La scelta di organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto rapporto anche con il concetto africano di ubuntu . (...) Egli richiama ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina l’orientamento al futuro. (...) In generale Mandela non sembra avere mai pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (...)
Gli atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla prova con un viaggiatore… una persona avvolta in una coperta. Il più forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere, dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi… fino a quando l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più, perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela, naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è che il suo metodo funziona. (...)
Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci.
Suggeriva di fare così anche ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più proficuamente, con strategie non rabbiose . Molto più tardi, nei primi tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un momento decisivo per tutti noi […]Dobbiamo usare il dolore, il lutto e l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo […]rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un profondo dolore per la sua morte.
Traduzione di Rinaldo Falcioni

Il Sole 24.9.17
Lettere dalla prigione: politica e saggezza
«Chi è benevolo non è portato alla vendetta, ma alla comprensione», scriveva Aristotele. E molti secoli dopo (1942) Gandhi: «Dobbiamo guardare in faccia il mondo con calma e occhi aperti, anche se gli occhi del mondo oggi sono iniettati di sangue». Per Martha C. Nussbaum, di cui sta per uscire per il Mulino Rabbia e perdono. La generosità come giustizia (pagg. 410, € 28), è una caratteristica dei grandi uomini quella di aver saputo reagire alle ingiustizie e alla violenza del mondo evitando l’odio, la rabbia, la vendetta, nella consapevolezza della loro inutilità. Il nostro vivere comune, e le istituzioni che lo informano, hanno bisogno di uno spirito di riconciliaizone e di una saggia ridefinizione di concetti come perdono, punizione, giustizia. Il che non significa che le ingiustizie non debbano essere contrastate. Anzi. Un’azione strategica e coraggiosa però «richiede intelligenza, autocontrollo, e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male». All’analisi filosofica, Nussbaum unisce esempi concreti, come quello che vede protagonista, nello stralcio che qui proponiamo, il leader sudafricano Nelson Mandela. Le sue 250 Lettere dalla prigione, ora inedite, verranno pubblicate dal Saggiatore, che ne ha acquisito i diritti per l’edizione che uscirà in tutto il mondo nel luglio del 2018, in occasione del centenario della nascita. In molte di esse appare chiaro ciò che sostiene Nussbaum: quanto il temperamento del leader si sia costantemente ritemprato anche grazie alla lettura del filosofo-imperatore Marco Aurelio. (Ar.M.)

Il Sole 24.9.17
Lettera da Samarcanda
Un gioiello infranto sulla via della seta
di  Massimo Firpo

L’Uzbekistan, al pari delle altre repubbliche asiatiche, ha il volto di una storia millenaria e i segni della povertà del regime sovietico
Oggi come ieri si chiama Asia centrale, un tempo Turkistan: una terra sconfinata, delimitata a Nord dalla Russia, a Ovest dal Mar Caspio, a Sud dall’antica Persia, l’odierno Iran, di cui comprendeva la parte nordoccidentale, così come dell’Afghanistan e del Pakistan, a Est dal deserto cinese del Taklamakan, superando le catene montuose del Pamir e del Tien Shan, seconde solo all’Himalaya, per abbracciare lo Xinjiang abitato dagli uiguri, di lingua turca e religione islamica. Tali sono anche i kazaki, gli uzbeki, i turcomanni, i kirghisi, i tatari, i baschiri, i ciuvasci, i karakalpaki ecc., mentre i tagiki parlano una lingua persiana. Mondi vicini e lontani, confini mutevoli nel tempo, spazi immensi, gelidi d’inverno e torridi d’estate, attraversati dal Syr Daria e dall’Amu Daria, che dalle pendici di quelle montagne sfociano dopo oltre 2mila kilometri nel lago d’Aral, oggi semiprosciugato a causa dei dissennati prelievi di acqua da quei grandi fiumi che per secoli hanno dato vita a queste regioni, evocate dagli antichi nomi della Battriana, della Transoxiana, della Sogdiana, della Coresmia, ai limiti delle grandi conquiste di Alessandro Magno.
Steppe desolate, percorse tuttavia in lungo e in largo non solo da uomini, merci, monete, notizie, ma da interi popoli con le loro diverse civiltà e religioni, in un intreccio inestricabile di culture e barbarie. Decisiva fu l’espansione araba, che islamizzò larga parte di queste terre nell’VIII secolo, pur contaminandosi con tradizioni sciamaniche turche e riassorbendo lentamente mazdeiti, zoroastriani, nestoriani e buddhisti. Pochi sanno che l’algoritmo, uno dei cardini della matematica, fondamento oggi dell’alta finanza, delle assicurazioni, di Google ecc., fu scoperto a Baghdad all’inizio del IX secolo dal dotto al-Khwarizmi, nativo di Khiva, dove un grandioso monumento sovietico lo ritrae in vesti arabe. E così anche che a Bukhara nacque allora al-Bukhari, l’autore della principale raccolta di detti e fatti del profeta la cui autorità è seconda solo al Corano, e 150 anni dopo il grande medico Avicenna. Ma ancor oggi lo sport nazionale dell’Asia centrale resta il buzkashi, il violento gioco in cui dozzine, a volte centinaia di cavalieri si contendono senza esclusione di colpi la carcassa di una pecora.
Incontri e scontri di popoli e culture non solo perché da Khiva, Bukhara e Samarcanda, oggi in Uzbekistan, passava l’antica via della seta, ma perché in queste terre aride e prive di sbocchi al mare si sono mosse per secoli tribù nomadi con le loro mandrie e greggi, pastori-guerrieri capaci di montare e smontare in un baleno le grandi tende circolari, le yurte, per muoversi alla ricerca di nuovi pascoli, di nuove terre, di nuovo bottino in perenne conflitto tra di loro e con le popolazioni stanziali. Il suffisso -istan con cui sono denominate le repubbliche ex-sovietiche del Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghisistan, Tagikistan, non significa Stato, ma territorio, paese: paese dei kazaki, degli uzbeki ecc.
Inarrestabili furono i mongoli, abilissimi e instancabili cavalieri delle steppe, cui l’uso combinato della staffa e della sella, dell’arco e della sciabola, garantì una supremazia militare capace di dar vita fra Due e Trecento a vastissimi imperi, destinati a durare quanto la vita dei loro mitici conquistatori, Temujin detto Gengis khan (il grande khan) e Tamerlano, ma capaci di imporre la supremazia mongola dall’oceano Pacifico all’oceano Indiano, dal Mediterraneo alla Siberia, di sconfiggere l’Impero persiano e quello cinese, di circondare la Moscovia da Rjazan a Kazan e conquistare Kiev con la potente confederazione tribale dell’Orda d’oro, di affacciarsi sulla Polonia e minacciare Costantinopoli, dove furono infine i turchi selgiuchidi a cancellare dalla faccia della terra l’Impero bizantino, con i suoi mille anni di storia, e a creare il possente Impero ottomano, esteso dall’Egitto all’Ungheria, dal Caucaso all’Algeria. Di origini mongole fu la dinastia cinese degli Yuan, il cui fondatore Kublai khan, nipote di Gengis khan, ricevette Marco Polo a Pechino, e discendente diretto di Tamerlano fu Babur, che all’inizio del Cinquecento conquistò l’Afghanistan e l’India settentrionale, dando inizio alla dinastia dei Mughal (i gran mogol), che avrebbero governato l’India per secoli.
La morte dei grandi conquistatori e la fragilità delle costruzioni politiche sulle quali si basava la pax mongolica determinarono la fine di quegli imperi, i cui frantumi erano destinati a sfaldarsi e ricomporsi, a trovare di volta in volta nuovo vigore e poi esaurirsi, in un pulviscolo di guerre ininterrotte, di precarie dinastie fratricide, di grandi e piccoli khanati disposti su una carta geopolitica in continuo mutamento. Per questo la rapidissima espansione della Russia zarista verso Oriente nell’Ottocento non poté non coinvolgere queste regioni, risucchiata dal loro vuoto politico, destando le preoccupazioni dell’Inghilterra che vedeva minacciato da Nord il suo Impero asiatico in India. Ne scaturì quello che, riprendendo un’espressione di Kipling, in un bellissimo libro pubblicato alla fine del secolo scorso, Peter Hopkirk definì The Great Game, il grande gioco: un gioco di spie, di agenti segreti, di soldati, di avventurieri per la conquista degli immensi spazi tra Kabul e Kashgar, tra il khanato di Khiva e il leggendario Khyber Pass. Un gioco di contrapposti imperialismi vinto alla grande dai russi, che alla fine dell’800 erano ormai giunti ai confini dell’Iran e alle vette dell’Hindu Kush, mentre i britannici erano incappati nelle tragiche guerre e sconfitte afghane.
La russificazione di queste terre non fu nulla rispetto alla bolscevizzazione successiva al 1920, che intervenne pesantemente sulle strutture politiche, sociali, economiche e culturali, con conseguenze devastanti anche per quanto riguarda il patrimonio archeologico e artistico, soprattutto là dove esso era più ricco e prezioso, nel pacifico, tollerante, accogliente Uzbekistan, dove imam e muezzin parlano sottovoce e la vodka gode di largo apprezzamento, mentre il paese cerca faticosamente di sottrarsi alla povertà cella monocultura del cotone imposta dall’Urss. Solo di recente poderosi restauri, in molti casi veri e propri rifacimenti a partire da miseri ruderi hanno ricostruito la spettacolare città vecchia di Khiva, con le sue mura, i suoi palazzi, le sue moschee, le sue madrasse, i suoi minareti, le sue cupole lucenti di verde e d’azzurro, i suoi ayvan decorati di maioliche blu dai fitti disegni floreali, le sue mille porte e colonne lignee splendidamente lavorate, così come è accaduto nella Bukhara dei Samanidi e nella Samarcanda di Tamerlano.
Qui purtroppo, vicino alla spettacolare piazza Registan, con le sue grandiose madrasse scintillanti di multicolori maioliche a mosaico, è stato inaugurato pochi mesi fa un imponente monumento in puro stile staliniano dedicato a Islom Karimov, già segretario del Partito comunista in età sovietica per mantenere poi il ruolo di padre padrone assoluto del paese dopo l’indipendenza, regolarmente rieletto presidente della repubblica dal 1991 al 2016, anno della sua morte, con percentuali intorno al 90 per cento. Processi analoghi, del resto, si sono verificati anche negli altri Stati dell’Asia centrale emersi dalla dissoluzione dell’URSS, nella sostanziale continuità di un sistema basato su autoritarismo repressivo e censura di ogni dissenso, manipolazione dell’opinione pubblica e dei risultati elettorali, endemica corruzione nell’uso delle risorse naturali del paese. Molti in Uzbekistan, per esempio, credono che Karimov non sapesse nulla delle voraci ruberie della bella figlia Gulnara, cantante e stilista, arrestata nel 2014 e condannata l’anno dopo, ma con numerosi processi ancora in corso per chiarire le origini di conti bancari per oltre un miliardo e mezzo di dollari, di palazzi, ville e proprietà in mezzo mondo, tra cui un castello in Francia. Poco si sa di che ne sia di lei sotto il nuovo presidente Shavkat Mirziyoyev, già primo ministro di Karimov, che ha tuttavia annunciato importanti riforme.
Non molto sembra dunque essere cambiato da tempi antichi nell’esercizio del potere in queste terre. Le fotografie degli ultimi khan di Khiva o emiri di Bukhara alla fine dell’800, con le loro vesti sontuose, i loro colbacchi di astrakan e i loro turbanti, le loro sciabole cesellate, restituiscono un mondo lontanissimo dall’Europa della regina Vittoria e di Bismarck: un mondo dove esistevano ancora migliaia di schiavi, dove i prigionieri che cercavano di fuggire venivano inchiodati per le orecchie alle porte delle baracche perché non potessero addormentarsi, dove la successione al trono era spesso regolata dagli intrighi dell’harem, dove a neutralizzare i propri avversari bastava uno spillo incandescente piantato nelle pupille, dove le rivalità dei piccoli potentati locali non facevano che alimentare gli appetiti delle grandi potenze. Un mondo al suo definitivo e silenzioso tramonto, che tuttavia portava ancora con sé l’eredità di Gengis khan e Tamerlano da cui quei piccoli e residuali khan discendevano, e ancor prima dell’antica via della seta, ormai del tutto esaurita, ma allora come oggi iscritta nello spettacolare patrimonio culturale di quelle antiche città, il cui solo nome è capace di evocare ancor oggi favolosi miti d’Oriente.

Il Sole 24.9.17
La traduzione trasparente
di Claudia Zonghetti

Essere ininfluente come vetro: è inseguendo questo umile ideale che nel far passare le parole da una lingua all’altra si è autori
Del perché, come ha spiegato Albert Einstein, chi dice che una cosa è impossibile non dovrebbe disturbare chi la sta facendo.
In geometria le figure impossibili sono figure tridimensionali incongrue che non corrispondono a un oggetto reale (o materialmente costruibile), ma che del reale producono l’effetto. Sono illusioni cognitive dovute all’interpretazione che il cervello dà delle immagini.
Qualcosa del genere, per intenderci:
Quel forcone pare un forcone, ma non lo è; quella piramide è tutto meno che perfetta.
Fatta la tara alla boutade, tradurre è una figura impossibile (o dell’impossibile). Una traduzione è soprattutto qualcosa che non è. Anna Karenina non è A??a Kape???a a dispetto del medesimo titolo in copertina. Il metatesto non è il prototesto, che non può essere uguale a sé stesso in un’altra lingua. Sai che novità.
Eppure.
Eppure l’impossibile esiste. In tanti lo decliniamo ogni giorno, ognuno aggrappato a certezze-chiodo capaci di sostenerlo in un mestiere che è caduco per definizione.
Pur leggendo con discreto (in più di un’accezione) appetito molto di quanto si pubblica, non posso dirmi davvero competente riguardo a translation studies, traductologie e Translations¬wissenschaft, strumenti eccezionali per sottoporre al vaglio del dubbio ogni passo del nostro mestiere e per fissarne alcuni punti fermi. Di recente, però, qualcun altro mi ha costretto a pensare a quello che faccio e a come lo faccio più di Popovi?, Berman, Venuti, Bassnett e compagnia. Ho in mente un’ottantenne vicina di ombrellone che mi conosce da quando ero bambina, addentavo banane impanate di sabbia e frignavo senza consolazione perché mi veniva negato un bagno in pieno e letalissimo processo digestivo. Qualche settimana fa mi ha fissato a lungo con sospetto prima di chiedermi: «Scusa, sa’, cocca. Ma una traduzione della Karenina non c’era già? Più d’una, dici? Ma erano così sbagliate, quelle di prima? No? Cos’è, hai capito meglio tu quello che voleva dire? Non è detto? Allora ci hai messo del tuo?»... Vederla girare le spalle dopo avermi sentito biascicare «la lingua invecchia... l’italiano delle traduzioni di una volta era un po’ uguale per tutti... i vari studi ci hanno aiutato a capire meglio la struttura del romanzo, la lingua dei personaggi...» e captare il suo «Mo’, sarà...», superato uno scorno giocoso e colorato di nostalgia mi ha costretta a qualche pensiero in più.
Soprattutto quel «Ci hai messo del tuo».
Nel 2011, in occasione del Premio Gor’kij, un giornalista russo mi chiese che cos’era per me tradurre, e io gli spiegai compresa e convinta che mi sentivo una lastra di vetro, trasparente e ininfluente nella tra-duzione da una lingua all’altra di parole altrui. Non uno specchio, specificavo ancora più compresa, perché lo specchio riproduce, sì, l’immagine con assoluta fedeltà (non aprirò quella porta, rassicuratevi), ma lo fa appunto specularmente, rovesciandola e, dunque, deformandola.
Trasparente e ininfluente.
Figurarsi.
Per poter essere trasparenti e ininfluenti bisogna essere certi di avere colto in modo univoco ogni piega del testo e ogni più remota intenzione dello scrittore, bisogna essere convinti che a ogni lemma (o binomio o fraseologismo) in un’altra lingua corrisponde un unico e solo altro lemma (o binomio o fraseologismo) nella propria, e bisogna essere sicuri di sapere scegliere senz’ombra di dubbio e di errore quell’unico accoppiamento possibile. Parafrasando Somerset Maugham, se è vero che «ci sono tre regole per scrivere una traduzione, ma sfortunatamente nessuno sa quali siano», lo è ancora di più che possiamo cominciare a restringere il campo eliminando i tre punti di cui sopra.
Perché l’umiltà del vetro è solo presunta e rivela, piuttosto, un’arroganza tanto candida quanto perniciosa.
Chi traduce non è per nulla trasparente. Chi traduce fa suo (possesso, appropriazione) un testo. Chi traduce osserva, ascolta, studia una scrittura che non gli appartiene, la lascia passare attraverso le proprie competenze e il proprio talento di esploratore di compromessi e la restituisce, poi, a chi legge. E con tutta l’indispensabile, essenziale, imprescindibile lealtà (grazie, Franco Buffoni) allo scrittore, alla scrittura, a stile, registri e linguaggi, sceglierà le parole che lui ritiene giuste fra le parole di cui lui dispone o che lui saprà stanare e mettere in dispensa. Dunque chi traduce ha almeno tre filtri individuali fra sé e la pagina: bagaglio culturale, discernimento, capacità di scelta.
E addio trasparenza e ininfluenza.
Ma allora?
Se chiedete a un traduttore che cosa pensa degli scrittori che traducono, la prima osservazione che vi farà (anche senza un sorrisetto di scherno, se è di buon umore) è che “la penna” di uno scrittore è già in partenza più connotata, più invadente di quella di un traduttore tout court e lascerà tracce più smaccate. Se il traduttore in questione ha qualche dimestichezza con il tedesco vi elargirà un accenno alla differenza fra Übersetzung e Nachdichtung. Se il traduttore in questione sono io, mi sentirete aggiungere che la differenza (per me) sta esattamente nella sorveglianza, nella vigilanza (???????????? - bditel’nost’, parolina adorata in era sovietica) necessaria a chi traduce per arginare la propria autorialità, mettendola ogni volta al servizio di colui che sta traducendo. Perché la nostra autorialità non è primigenia, dunque non può che essere responsabile, misurata, giudiziosa. E con giudiziosa non intendo mortificata nella propria creatività, bensì - e di nuovo - rispettosa e consapevole del proprio essere ausiliaria.
Diversi colleghi sostengono la co-autorialità del traduttore. Io no. Non mi sento co-autrice di Anna Karenina (o di Vita e destino, o delle pagine di Anna Politkovskaja, Florenskij, Šalamov, Gazdanov e via dicendo, fino al minore dei minori e senza che i grandi nomi rendano più semplice annuire a ciò che intendo).
Mi sento, però e fortissimamente, autrice (lo sottolineo: autrice) delle traduzioni (lo sottolineo con convinzione ancora maggiore: delle traduzioni) di Anna Karenina, Vita e destino, Višera eccetera. Sono un’autrice “funzionale”. Un’autrice al genitivo. Che nell’assenza di quel co- non vede mortificati né sminuiti il proprio mestiere e il proprio ruolo e tanto meno i diritti che dovrebbero derivargliene in quanto autore.
Ma questa, per chi la volesse intendere, è già un’altra storia.

Il Sole 24.9.17
Storia della medicina
Mangiare come Ippocrate
di Carlo Carena

Serena Buzzi raccoglie una serie di saggi di italiani e stranieri sui regimi alimentari dalla dieta nell’Antica Grecia alla epigenetica, attraverso la ricerca del principio dell’armonia
Il «Nulla troppo» ispirato dal dio e inculcato dai filosofi nell’etica è alla base anche nella prassi delle scienze dell’uomo. Nella medicina antica moto e quiete vengono alternati misuratamente, e la moderazione e l’equilibrio sono elevati a categorie fondamentali del benessere fisico come di quello interiore. E così anche in categorie assai meno elevate, nella dieta alimentare e nell’ordine sanitario, premesse alla buona salute non solo del corpo ma anche dell’animo.
Sui regimi della nutrizione e delle attività fisiche vertono un buon numero di saggi di studiosi italiani e stranieri raccolti in un volume Il regime della salute in medicina. Dalla dieta ippocratica all’epigenetica organizzato da una classicista, Serena Buzzi, particolarmente interessata alla medicina greca e associata all’Accademia di Medicina di Torino.
La nascita stessa della medicina è ridotta nel Corpo ippocratico ad una semplicità che quasi la elimina anziché promuoverla: là dove si dice che «il tuo cibo sia la tua migliore [o: la tua sola] medicina». Ma poi, con un passo innanzi, Galeno arguisce che in realtà la medicina fu ricercata necessariamente poiché ai malati non conviene il nutrimento dei sani. Ad essi convengono cibi caldi, umidi, lisci, rilassanti; perciò sono eccellenti le uova, riscaldanti e umidificanti, ingerite appena deposte e ancora calde, con un po’ d’olio.
A sua volta Ippocrate apre il trattato Sulla dieta con l’elenco dei cereali (avena, grano: il «dono di Demetra»e il consumo del frumento, dirà Isocrate nel Panegirico, trassero gli Ateniesi da un modo di vivere bestiale e lo elevarono a quello civile); prosegue poi con i legumi (fave, lenticchie, lupini, sesamo) e le carni di bue, di capra, di porco, di agnello, di asino, di cavallo, di cane, di cinghiale, di cervo, di lepre, di rana, di riccio, di piccione, di oca, di anitra… e i pesci e i crostacei, i formaggi e le bevande (vino, mosto, aceto). Fra i primi eccelle l’orzo, fra le seconde le carni di porco sono le più nutrienti poiché contengono poco sangue e molta polpa, diversamente da quella di bue, perciò difficile da digerire.
Nel testo che in questo volume si occupa di tale argomento l’autore, Andrea Fesi, della Sorbona, conclude che oggi, certamente, il sapere medico ha raggiunto una distanza incommensurabile dalle conoscenze mediche ippocratiche; però taluni aspetti di quella medicina rimangono attuali. In essa si dimostra l’importanza fondamentale dell’osservazione del malato e della malattia.
E qui Alberto Angeli, esponente di primo piano della bioetica in Italia, nel suo saggio al termine del volume mette in rilievo come oggigiorno nella ricerca biomedica la prassi puramente formale e impersonale si sia stemperata in una medicina personalizzata. Se l’antico medico non conosceva esattamente il funzionamento del corpo umano, seppe identificare mediante l’osservazione e in un quadro complessivo le cause che potevano sconvolgere l’organismo. Dove riappare il sommo principio dell’armonia e dell’ideale della sua protezione e, là dove si laceri, del suo ristabilimento.
Non mancarono nella medicina antica, e sempre a quello scopo, anche l’attenzione, lo studio e la trattazione degli esercizi fisici: qui in un saggio di Brigitte Maire dell’Università di Losanna riferito al primo libro del De medicina di Celso, un enciclopedista di età tiberiana, che si apre con questo inno brioso: «Un uomo in buona salute, vigoroso e padrone sé, non deve sottoporsi a nessuna regola fissa né ricorrere a medico o massaggiatore. Il suo regime di vita sia vario, ora in campagna ora in città, ma piuttosto fra i campi; navighi sul mare, vada a caccia, talora riposi ma più spesso si eserciti, poiché l’inattività indebolisce il corpo mentre la fatica lo rafforza, l’una affretta la vecchiaia, l’altra prolunga la giovinezza».
Stiano attenti soprattutto, poiché sono più deboli, i residenti in città e i fanatici della letteratura, ricostituendo con le terapie ciò che sottraggono la sedentarierà e gli studi. Esercizi utili saranno la lettura ad alta voce, il gioco della palla, la corsa, il passeggio all’aria aperta e al sole. Alimentazione misurata, né eccessiva né scarsa; se mai meglio eccedere nel bere che nel mangiare. Tanto più che l’alcolismo è rimediabile con l’ingestione di una decina di mandorle amare, praticata preventivamente a Roma dagli invitati ai banchetti di Druso figlio di Tiberio per evitare i postumi delle sbornie là immancabili.
Ci fu chi si occupò di ovviare con la medesima filosofia anche a problemi di estetica. In un capitolo De capillis cadentibus del Libro delle diete di Alessandro di Tralle, medico e filosofo del tardo Impero, si spiega che occorre ristabilire l’apertura e l’umidità dei pori, le quali diminuiscono con l’età, mediante verdure, cipolle, aglio, lattuga, malva, cetrioli e carni magre; niente vino e molta acqua.
Ma alla fine, e ricominciando da capo, Ippocrate stesso in uno splendido passo del primo libro della Dieta scrive che la natura conosce da sé cosa fare ed essa è in tutto e per tutto pari all’arte medica, anzi un’arte medica. I costruttori ottengono l’armonia degli edifici umidificando o disseccando opportunamente i diversi materiali: ciò ripete la dieta umana, che ammorbidisce o irrigidisce secondo necessità, divide e ricompatta in armonia, quale gli strumenti musicali compongono con le medesime note, alte o basse, entrambe necessarie; poiché un musicista che componesse un motivo su un’unica nota non piacerebbe, né piacerebbe accostando note stridenti.
Il regime di salute in medicina , a cura di Serena Buzzi, Edizioni dell’Orso, Alessandria, pagg. X-228, € 20


Il Sole 24.9.17
astrofisica / 1
I nuovi confini del cosmo
Da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha ricominciato a mappare lo spazio
di Vincenzo Barone

«Dove sei?» è diventata, con l’avvento dei cellulari, la domanda d’esordio di ogni conversazione telefonica. Possiamo d’altra parte rispondere alla curiosità dei nostri interlocutori con una precisione inimmaginabile fino a qualche anno fa, grazie a sistemi come il GPS, che incorporano tanta splendida fisica. E non solo il nostro posto sulla Terra, ma anche quello nell’universo è ormai molto ben individuato. Viviamo su un confortevole pianeta a 150 milioni di chilometri da una stella di media grandezza, il Sole, collocata a 27.000 anni luce dal centro di una galassia a spirale, la Via Lattea (centomila anni luce di diametro), che fa parte del Gruppo Locale (dieci milioni di anni luce di diametro), un insieme di galassie appartenente al Superammasso della Vergine (cento milioni di anni luce di diametro), una delle componenti del Complesso dei Pesci-Balena, che si estende per un miliardo di anni luce.
Riusciamo insomma a collocarci precisamente in un universo che è miliardi di miliardi di miliardi di volte più grande di noi. È una conquista mirabile, la cui storia (ben illustrata nel libro di Tommaso Maccacaro e Claudio Tartari, Storia del dove, Bollati Boringhieri, recensito da Patrizia Caraveo sulla Domenica del 20 agosto) coincide in definitiva con la storia del pensiero e della scienza. Le frontiere della conoscenza e quelle fisiche del mondo si sono ampliate di pari passo, e il cosmo ha infine assunto proporzioni enormi, che sappiamo quantificare, ma facciamo fatica a concepire e a esprimere in termini familiari.
«Un indice del progresso della civiltà umana – osserva il fisico teorico e scrittore Alan Lightman in un piccolo e godibile saggio, L’universo accidentale, che racconta l’universo attraverso sette suoi attributi – è la scala crescente delle nostre mappe». In effetti, tra la tavoletta di argilla babilonese conservata al British Museum, che identifica il mondo con la regione dell’Eufrate, e la mappa della radiazione cosmica di fondo della missione Planck, che fotografa l’intero universo nella sua infanzia, 380mila anni dopo il Big Bang, si dispiega tutta l’avventura del pensiero umano – un’avventura che ha subìto un’accelerazione decisiva nei quattro secoli della scienza moderna. Dal Cinquecento a oggi l’universo noto si è dilatato di sedici ordini di grandezza (cioè di dieci milioni di miliardi di volte): un numero impressionante, che dà l’idea dell’impresa compiuta dagli astronomi. Alla vigilia della Rivoluzione Scientifica le stime delle distanze celesti erano ancora quelle di Tolomeo (II secolo d.C.) e dei suoi predecessori (Eratostene, Aristarco, Ipparco). Tolomeo attribuiva alla distanza Terra-Sole il valore di 1.200 raggi terrestri (venti volte meno del dato reale) e riteneva che la sfera delle stelle fisse, adiacente a quella dell’ultimo pianeta noto, Saturno, avesse una dimensione di 20.000 raggi terrestri, più o meno dieci milioni di chilometri.
Non era mancato, a dire il vero, chi già in epoca precedente aveva sfidato le stime tolemaiche. Nel Trecento, per esempio, Il rabbino catalano Levi ben Gershon (Gersonide) aveva sostenuto l’estrema lontananza delle stelle, collocate da lui a milioni di miliardi di chilometri dalla Terra (decine o centinaia di anni luce, in unità moderne). Le sue idee non ebbero però alcun seguito. Con diffidenza furono anche accolte, tre secoli e mezzo dopo, stime simili dovute a Huygens e Newton. Solo nell’Ottocento, con la misura della parallasse di 61 Cygni da parte di Friedrich Wilhelm Bessel, le distanze stellari cominciarono a essere determinate in maniera diretta, e la frontiera degli anni luce venne definitivamente varcata.
Nel frattempo, William Herschel aveva prodotto nel 1785 il primo modello della Via Lattea: un disco appiattito largo dieci milioni di miliardi di chilometri (cento volte meno del reale). Modelli sostanzialmente dello stesso genere, più raffinati, vennero proposti fino all’inizio del Novecento. Si pensava ancora che l’universo coincidesse con la nostra galassia, e alcuni – in assenza di prove contrarie – collocavano il Sole in posizione centrale (ultimo residuo di antropocentrismo). A cambiare tutto arrivò dapprima un’astronoma di Harvard, Henrietta Leavitt, che con le cefeidi – stelle di luminosità assoluta nota – fornì finalmente un “metro” affidabile e universale per misurare gli spazi siderali, e poi un altro scienziato statunitense, Edwin Hubble, che rivoluzionò la cosmologia, mostrando che la Via Lattea è solo una delle tante galassie disseminate in uno spazio sterminato (con il Sole, peraltro, in posizione defilata), e soprattutto che l’intero quadro è dinamico: l’universo si espande e ha una storia. L’attualità è nota. Sappiamo di essere abitanti di un cosmo in espansione accelerata, globalmente piatto, vecchio di 13,8 miliardi di anni. Quanto più ci addentriamo nelle sue profondità, tanto più indietro andiamo nel tempo. Esiste quindi un orizzonte – alcune decine di miliardi di anni luce – che limita il nostro sguardo, giacché non possiamo ricevere segnali da un tempo anteriore all’inizio dell’universo.
Per il frontespizio dell’Instauratio Magna, del 1620, che conteneva il Novum Organum, manifesto metodologico della nuova filosofia naturale, Francesco Bacone scelse un’immagine emblematica: due navi a vele spiegate che oltrepassano le Colonne d’Ercole. Era al tempo stesso una raffigurazione di ciò che stava accadendo realmente, con le imprese dei grandi navigatori, e una metafora della scienza moderna, come conquista di nuovi territori del sapere. Il versetto biblico che accompagnava l’immagine – Multi pertransibunt et augebitur scientia («Molti passeranno e la scienza crescerà») – è una profezia ampiamente realizzatasi, al di là di quanto il Lord Cancelliere potesse immaginare. Dopo aver a lungo scrutato l’universo dalla finestra di casa, con strumenti sempre più raffinati (e ingombranti), da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha cominciato a mandare le proprie navi oltre le Colonne d’Ercole.
La sonda Voyager è laggiù: ha fotografato quel «puntino celeste» (definizione di Carl Sagan) che è la Terra vista dalla periferia del Sistema Solare e oggi, a 20 miliardi di chilometri di distanza da noi, è l’oggetto artificiale più lontano. E già qualcuno progetta di andare a vela – spaziale – verso Alpha Centauri, più di 4 anni luce da percorrere in una ventina d’anni (è l’idea del miliardario russo Yuri Milner, sostenuta da Stephen Hawking). Il bello delle frontiere dell’universo è che sono sempre in movimento.
Alan Lightman, L’universo accidentale. Sette riflessioni cosmologiche
sul mondo che credevi di conoscere , traduzione di Paola Borgonovo, Sironi, Milano, pagg. 142, € 16


Il Sole 24.9.17
astrofisica / 2
Nell’oscurità dell’Universo
di  Patrizia Caraveo

Uno dei risultati più spettacolari dell’astrofisica del secolo scorso è stata la scoperta dell’espansione dell’Universo. La conosciamo come legge di Hubble ma è la somma del lavoro di molti, primo fra tutti l’abate Lemaitre. Tuttavia fu Hubble a costruire il semplicissimo grafico dove riportava su un asse le distanze delle galassie e sull’altro le loro velocità. Era il 1929 e, con poche decine di galassie osservate in modo approssimativo, Hubble seppe intuire una profonda verità: le galassie sembravano allontanarsi con una velocità che è proporzionale alla distanza. Quelle più lontane si muovono con velocità sempre più grandi. In effetti, oggi sappiamo che è lo spazio che si espande e le galassie non possono fare altro che seguire questo moto universale. Ad Einstein non piacque per niente e ci mise del tempo ad accettare questo fatto.
L’esistenza dell’espansione ha implicazioni profondissime perché ci dice che l’Universo ha avuto un inizio, quando lo spazio ha iniziato a crescere e il tempo ha cominciato a scorrere. Stiamo parlando di uno dei pilastri della cosmologia moderna: nessuno dubita della sua veridicità ma ci sono state dispute infinite sull’entità dell’espansione. La proporzionalità tra velocità e distanza è un aiuto fondamentale per gli astronomi che, data una quantità, possono ricavare l’altra. Infatti, mentre la distanza di un oggetto celeste è notoriamente difficile da misurare, la sua velocità può essere stimata direttamente misurando lo spostamento delle righe presenti nello spettro della luce che emette. La conoscenza precisa della costante di proporzionalità, la famosa costante di Hubble, è quindi di fondamentale importanza.
I cosmologi, scherzosamente descritti come una genia di scienziati often in error, never in doubt (spesso in errore, mai in dubbio) si sono insultati sanguinosamente per decenni a proposito dell’esatto valore della costante che, legando velocità e distanza, ha le dimensioni di una velocità (km al sec) diviso una distanza (che gli astronomi misurano in Megaparsec).
Sbagliando clamorosamente, Hubble stimò il suo valore in 500, cosa che implicava che l’universo avesse poco più di 2 miliardi di anni, un’età inferiore a quella delle stelle più vecchie che conosciamo. Quando entrò in funzione il telescopio di Monte Palomar, la qualità dei dati migliorò decisamente e il valore scese, ma non in modo univoco. La comunità astronomica si divise tra coloro che sostenevano che la costante di Hubble fosse 100 e quelli che preferivano il valore di 50. Ci sono voluti lunghi programmi dedicati dello Hubble Space Telescope, coordinati con tenacia da Wendy Freedman, per ridurre gli errori e sedare gli animi, facendo convergere i valori al numero magico di 72, recentemente aggiornato a 73,24.
La pace cosmologica ha avuto vita breve perché, nel frattempo, era stato sviluppato un modo indipendente di calcolare la costante di Hubble partendo dalle mappe del rumore cosmico di fondo, quello che resta del primo vagito dell’Universo. E’ una mappa molto importante perché contiene informazioni preziose sulla geometria dell’Universo che è direttamente legata alla massa totale. È esaminando la mappa del fondo cosmico che abbiamo capito che siamo azionisti di minoranza in un Universo dominato da componenti ignote, quindi oscure. Le stelle, le galassie e tutto ciò che è fatto della materia della quale siamo fatti noi arriva a malapena al 5% del totale della materia che viene mappata dalla geometria. Il 25% è dovuto a materia che pesa ma non sappiamo cosa sia, mentre il restante 70% è oscuro di nome e di fatto.
Il satellite europeo Planck, forte della mappa più precisa mai ottenuta del rumore di fondo del cielo, ha assegnato alla costante di Hubble il valore di 67,8. Gli errori di misura sono molto piccoli e la differenza tra 73,24 e 67,8 non può essere ignorata. Visto che si tratta di valori ottenuti da due gruppi indipendenti utilizzando dati completamente diversi, è legittimo chiedersi se non ci sia qualche errore nascosto nell’analisi dei dati, errore che deve essere sottile perché è sfuggito a innumerevoli verifiche.
I planckiani sostengono che l’errore l’hanno fatto gli ottici e dicono che riprenderanno in mano tutti i dati dello Space Telescope per rifare l’analisi dall’inizio. Wendy Freedman, invece, confessa che sperava di potersi occupare di qualche altro problema, ma non si tira certo indietro. Così progredisce la scienza.
D’altro canto, è possibile che entrambi i gruppi abbiano ragione e che sia invece l’espansione e giocare qualche brutto scherzo, obbligandoci ad esplorare nuovi orizzonti. Dopo tutto, lo Hubble Space Telescope misura l’espansione in epoche “recenti” mentre Planck la misura quando l’Universo aveva appena 380mila anni, un’inezia rispetto ai 13,7 miliardi di anni attuali. Se accettiamo questa visione, ci troveremmo a vivere in un Universo che ha premuto sull’acceleratore. Dal momento che, per accelerare qualcosa bisogna spingere, cosa potrebbe fornire l’energia necessaria? Il pensiero va subito alla parte più misteriosa del nostro Universo, che è anche la parte maggioritaria, quella che noi chiamiamo energia oscura. Variando la quantità dell’energia oscura in funzione dell’età dell’Universo si potrebbe spiegare la differenza nelle misure ottenute in diverse epoche. Giusto quello che ci voleva per ravvivare il fuoco che covava sotto le ceneri e fare ripartire le dispute tra i cosmologi.
Se vi siete persi nell’oscurità di questa affascinante storia, potreste trovare uno spiraglio di luce nel libro l’Universo Oscuro di Andrea Cimatti che ha fatto prodigi di valore per rendere comprensibile un argomento veramente difficile. Con un linguaggio molto chiaro, di chi si è spesso trovato a spiegare queste tematiche al grande pubblico, Andrea parte dalla contemplazione di una notte stellata per arrivare a fare apprezzare al lettore la complessità del sistema che noi ammiriamo e cerchiamo di capire. Ci sfugge il 95% di ciò che lo compone, ma ci stiamo lavorando.
Andrea Cimatti, L’universo oscuro , Carocci, Roma, pagg.172,€ 14
Il Sole Domenica 24.9.17
Farmaci tra storia e scienza
La pillola che allunga la vita
di Elena Cattaneo

È affascinante ripercorrere, immersi nella lettura del libro di Corbellini e Pani, le tappe che hanno trasformato la medicina in una disciplina scientifica che si occupa della salvaguardia della salute dell’uomo. Una pratica nella quale all’empirismo, all’esoterismo e agli imbonitori, progressivamente, e in particolare negli ultimi 150 anni, si sono sostituiti l’irrinunciabilità delle prove controllate, la ricerca delle basi molecolari e cellulari delle malattie e quindi lo sforzo diagnostico, la capacità di isolare e purificare sostanze naturali, lo sviluppo di metodi per riprodurle chimicamente potendole così modificare, migliorare e sintetizzare nelle quantità necessarie, in modo, sicuro, affidabile e riproducibile. Ecco documentati con precisione ma senza eccessivi tecnicismi gli sviluppi della farmacologia, volti a verificare e sfruttare il particolare metabolismo del principio attivo a contatto con i nostri organi, e quindi la sua biodisponibilità, per capire anche come stabilizzarlo nei preparati, conservarlo e renderlo accessibile a larga parte (non tutta purtroppo) del mondo.
La ricca parte storiografica del volume, estesa a moltissime delle sostanze medicinali oggi in uso, fa comprendere bene quanto fosse diversa la condizione di un malato e dei suoi famigliari, migliaia di anni fa o anche solo 200, rispetto a quella vissuta oggi alle nostre latitudini. Le possibilità di trattamento erano legate, ad esempio, a scoperte casuali di principi attivi nelle piante. In queste pagine possiamo risalire fino a 5000 anni fa quando la Cannabis sativa era usata come sedativo, o al tempo in cui le proprietà anestetiche – allora sconosciute - della Mandragora officinarum (pianta che contiene importanti alcaloidi utili da un punto vista terapeutico), così denominata dal medico greco Ippocrate, contribuirono ad attribuirle, nelle credenze popolari, poteri sovrannaturali. Era un’epoca in cui il concetto di dose, di singole molecole da somministrare e soprattutto le basi eziologiche delle malattie non appartenevano al linguaggio corrente. Ma proprio quella casualità e l’impiego di frammenti o estratti di piante, in preparati artigianali, comportava effetti collaterali con irrimediabili conseguenze, causando spesso la morte del malato in cura. Ricordano Corbellini e Pani, che fino alla fine del XVI secolo si riteneva che la qualità e l’efficacia dei preparati dipendesse dal numero degli ingredienti, un concetto totalmente contrario a quello che perseguiamo oggi.
Ripercorrendo le esperienze del passato ecco emergere nitidamente quella consapevolezza che rende ancora più palese come l’uso scientificamente sperimentato e medicalmente appropriato di un medicinale, altro non sia che l’espressione e il risultato della straordinaria capacità dell’intelligenza umana di procedere, con uno sforzo conoscitivo, verso l’ignoto, per rendere conoscibile una malattia, identificare un bersaglio da colpire, fino a riuscire ad impiegare, con un certo grado di sicurezza, uno specifico rimedio.
È bello vivere con le parole e i dati proposti dagli autori la storia dei traguardi raggiunti. E lo è ancora di più nel nostro Paese dove alla responsabilità, alla fatica e alle conquiste della scienza e della medicina in tema di salute, spesso si antepongono, fino a contrapporsi, le emozioni e le superstizioni, talvolta in quella forma deteriore che potremmo assimilare al «tifo da stadio». L’Italia, a volte, non sembra molto diversa da quelle praterie degli Stati Uniti del 1900 solcate da venditori di olio di serpente spacciato per rimedio per mille malattie, in assenza di alcuna legislazione efficace (oltre che ovviamente di prove) a tutela dei consumatori.
E come ricorda questo volume, fu a seguito di un’indagine giornalistica su una di queste miracolose pozioni che il clima cominciò a cambiare e la sicurezza dei farmaci divenne una priorità, con l’insediamento del primo nucleo di quello che sarebbe diventata la Food and Drug Administration americana. Addirittura nel nostro Paese si sono autorizzate per via parlamentare, imposte per via giudiziaria e alimentate per via mediatica le pseudocure di Stamina, salvo poi un doveroso e provvidenziale ravvedimento collettivo che ha riconosciuto la “cura” Vannoni per quello che era: una truffa. È anche il Paese delle polemiche contro i vaccini che recentemente hanno trasformato il dibattito Parlamentare sulla legge che ne ha promosso l’obbligo per l’iscrizione al nido e alle scuole come strategia per porre rapido rimedio ai cali vaccinali, in una bagarre ideologica tra favorevoli e contrari.
È bene, poi, che questo libro esca in questo momento, a valle di Stamina, nella temperie del dibattito sull’estensione dell’obbligatorietà vaccinale e dopo che le cronache mondiali si sono occupati del caso del piccolo Charlie, perché ci ricorda anche che i medici devono parlare con il paziente (e che sia riconosciuto a loro il tempo per farlo), non devono mentire, né fingere di sollecitare speranze quando in realtà le prove non portano in quella direzione.
Vi sono altri due aspetti innovativi nel libro. Il primo consiste nel fare emergere con chiarezza, coraggio e lucidità il ruolo della proprietà intellettuale e il giusto merito, ad esempio, dell’industria farmaceutica che si attrezza per trasformare un’intuizione o un risultato da laboratorio che tale rimarrebbe, in un complesso processo a stadi progressivi il cui superamento porta la molecola in esame sempre più vicino alla sperimentazione clinica nell’uomo. Corbellini e Pani non possono che riconoscere a questo importante alleato della ricerca e della salute dell’uomo un ruolo che nessuno Stato (e nessun ente di ricerca pubblico o privato) potrebbe mai sopportare.
Quello cioè di raccogliere e costruire competenze e livelli d’indagine su più sostanze e loro modificazioni contemporaneamente, accettando il rischio del fallimento scientifico, tecnico ed economico, con l’unica tutela della copertura brevettuale sulla molecola che risulterà vincente e il suo impiego. Brevetto che, ancora oggi, rappresenta la forma più civile che si è riusciti ad immaginare per dirimere la questione del riconoscimento a chi ha investito denaro e corso rischi. L’alternativa per chi è ossessionato dalle «multinazionali da contrastare» (quelle multinazionali che ci forniscono i migliori farmaci anti-rigetto, gli anti-aritmici, i chemioterapici, e molto altro ancora…) e dalla perversa idea che occupandosi di salute lo debbano fare per beneficienza, è di prodursi tutto nel proprio garage.
Il secondo aspetto innovativo consiste nella descrizione di come si realizza e come evolve il rapporto tra Stato, con i suoi cittadini e le loro sempre maggiori aspettative nei confronti dei rimedi terapeutici, e l’industria farmaceutica che si attrezza per farvi fronte. Diventa quindi evidente che il punto di bilanciamento, ma anche la vera rivoluzione della medicina del nostro secolo, consiste nell’ingresso della regolamentazione come linea di demarcazione tra pseudo rimedi e terapie mediche. Ma anche come strumento per costruire procedure di riconoscimento, sperimentazione e immissione in commercio, capaci di intercettare ed escludere conflitti di interesse o interessi diversi da quelli del cittadino da tutelare, promuovendo fiducia, trasparenza, sicurezza, efficacia e politiche di salute pubblica che siano di beneficio al maggior numero di persone.
Ecco quindi emergere il peso delle agenzie di controllo e sorveglianza che studiano protocolli e documentazioni fornite dalle case farmaceutiche e che intervengono anche con pareri tecnici o ordinanze a tutela della salute dell’uomo. Fu con coraggio e consapevolezza del proprio ruolo che, nel 2012, nel vuoto assoluto, l’AIFA, la nostra agenzia regolatoria diretta in quei momenti da uno degli autori del libro, Luca Pani, sostenuta dai carabinieri dei NAS, produsse la sua prima ordinanza di blocco contro il «veleno di serpente» Stamina. Cinque pagine scolpite nella pietra ahimè travisate nei contenuti, nei principi, e nelle competenze da parte politica, giuridica e mediatica e che hanno lasciato spazio a scorribande di pirati e ciarlatani della salute con l’esito che tutti conosciamo: la nostra agenzia regolatoria aveva ragione, stava lavorando per tutti noi.
Il testo qui pubblicato è la prefazione al volume di Gilberto Corbellini e Luca Pani, Prescrivere valore.
Storia e scienza dei farmaci che fanno vivere più a lungo e meglio , Edra Editore, Milano, pagg. 275, € 19,90


Il Sole Domenca 24.9.17
Russia 1917
La Rivoluzione genera tiranni
I sovvertitori dei regimi sospendono le «libertà» e dichiarano illegittima ogni opposizione in nome di un’eguaglianza che non arriverà mai
di Michael Walzer

Libertà e uguaglianza sono due tra i concetti più dibattuti del pensiero politico. Ma la relazione tra i due non viene, a mio modo di vedere, sufficientemente discussa. È opinione abbastanza comune che siano in conflitto o che, perlomeno, vi sia tra i due una tensione tale che ogni società umana deve essere o più libera o più egualitaria. La spiegazione che sta dietro un conflitto di tale natura ha due varianti, una di sinistra e una di destra, e ciascuna è in parte corretta ma principalmente sbagliata. Voglio cominciare dalla versione di sinistra, che è stata enunciata molto, troppo spesso, nella storia delle politiche rivoluzionarie. È particolarmente importante, per il progetto politico che sostengo, convincervi che la versione di sinistra secondo cui libertà ed eguaglianza sono incompatibili è davvero sbagliata.
Prendo spunto da una frase di Albert Camus, che credo sia tratta da L’uomo in rivolta: «Il grande avvenimento del Ventesimo secolo è stato l’abbandono da parte dei movimenti rivoluzionari dei valori della libertà». Una frase potente. Aggiungerei: non soltanto del Ventesimo secolo, poiché i Giacobini del Diciottesimo secolo sono stati il primo movimento rivoluzionario ad abbandonare i valori della libertà. I movimenti rivoluzionari hanno prodotto, e l'hanno fatto in continuazione, regimi tirannici, e li hanno sostenuti con la brutalità e il terrore. Com’è possibile questo, dato il significato che noi (a sinistra) diamo alla parola “rivoluzione”? Ci aspetteremmo una rinascita della libertà, così come la creazione di una società di eguali. Ma la difesa della tirannia da parte dei rivoluzionari inizia con la convinzione che queste due aspettative non vadano assieme. Conosciamo tutti quest’argomentazione; alcuni di noi, ne sono certo, l’hanno espressa una volta o l’altra, perché ci sono sempre stati molti difensori, o apologeti, di varianti di sinistra della tirannia e del terrore. Il potere costituito, che si è trincerato, la forza delle strutture gerarchiche, la lunga storia di deferenza da un lato e arroganza dall’altro; tutto ciò può essere sfidato solamente - così vuole questa argomentazione - schierando l’ariete di uno Stato forte, in pratica di uno Stato tirannico. Parliamo di uno Stato che travolge tutti i vincoli legali e costituzionali del vecchio regime, che rimanda l’adempimento alle promesse della rivoluzione, che ritira la chiamata alle urne o consente a un solo partito di esprimere candidati, e che poi incarcera i compagni che denunciano quanto sta accadendo - tutto questo sulla strada per raggiungere l’uguaglianza. Al contrario - così prosegue il ragionamento - gli uomini e le donne preoccupati per la tirannia, i progressisti che non alzano la voce e i timidi socialdemocratici non riusciranno mai a creare una società di uguali. Manca loro quella rozza energia e la necessaria brutalità. Non faranno che scendere a compromessi, all’infinito, e non riusciranno mai a raggiungere la trasformazione radicale che fingono di auspicare. Servirà un’avanguardia determinata, un Leader Maximo, per distruggere il vecchio ordine sociale.
In questa accezione, l’eguaglianza richiede la sospensione (che sempre si vorrebbe temporanea) delle “libertà borghesi” quali la libertà di parola, di assemblea e il diritto di opposizione. Una volta che la rivoluzione ha inizio, la regola diventa: ogni opposizione è controrivoluzionaria. Un visitatore di Cuba nel 1960, poco dopo la rivoluzione, illustrò così questa regola: «Le carceri sono state riempite di prigionieri politici, e il governo insiste che il popolo dev’essere “limpido”, e cioè, al 100% favorevole a tutto ciò che esso fa». L’insistenza su questo tipo di “limpidezza” è un luogo comune rivoluzionario.
Un altro argomento si collega a questo, e forse ne è il fondamento. Il raggiungimento dell’uguaglianza non può essere il risultato di una campagna politica che rispetti la libertà democratica perché il demos, il popolo, non capisce ancora il valore dell’uguaglianza; molti non riescono a immaginarsi come uguali ai propri padroni; non parteciperebbero alla campagna per l’uguaglianza. A dire il vero, sono capaci di occasionali rivolte, come nelle jacqueries medievali, guidati da un lampo di consapevolezza: «Quando Adamo zappava la terra ed Eva filava, chi era allora il padrone?». Ma più spesso, è fin troppo chiaro chi siano i padroni. La classe lavoratrice è cresciuta in un mondo gerarchico; è abituata alla routine e conosce il linguaggio della gerarchia; le è stato insegnato che la disuguaglianza è naturale, risponde all’ordine divino; è divenuta un aspetto della sua vita quotidiana. I lavoratori sono vittime della “falsa coscienza”.
La teoria della falsa coscienza sta alla radice dell’argomento a favore del governo dell’avanguardia, perché ciò che la distingue e le dà la capacità di prendere il potere e governare senza opposizione è appunto l’essere in possesso di una vera coscienza.
È la fiducia prodotta dal conoscere la verità sulla storia e sulla società a dare all’avanguardia la determinazione necessaria per scardinare l’ordine esistente, utilizzando tutta la forza utile a tale scopo. Non vi descriverò come le avanguardie vengono incorporate o rimpiazzate dai Leader Massimi; di fatto, sono entrambe versioni molto simili al governo della tirannia. Piuttosto, voglio domandarvi: ma governanti di questo tipo sono davvero necessari, o quantomeno utili, al raggiungimento dell’uguaglianza?
Come probabilmente vi aspettate, sosterrò che in effetti non sono né l’una né l’altra cosa. Ma per argomentare ciò non mi concentrerò sul fatto che le avanguardie e i Leader Massimi, nel lungo periodo, non ci conducono all’uguaglianza (anche se è vero). Intendo piuttosto affermare che ci portano all’immediata realizzazione della disuguaglianza. Ammetto che “immediata” potrebbe essere un termine troppo forte. Spesso c’è un momento di gioia rivoluzionaria in cui ciascuno è cittadino o compagno. «Era una benedizione esser vivi in quell’alba», scrisse William Wordsworth nel 1789, «ma esser giovani era un paradiso». Ad ogni modo, la benedizione di Wordsworth non è durata a lungo, e il momento del cameratismo è breve. Rapidamente sono subentrate nuove strutture gerarchiche e burocrazie rivoluzionarie. Voglio sostenere che queste sono conseguenze naturali e inevitabili della sospensione della libertà politica.
La prima disuguaglianza di un regime rivoluzionario è quella della conoscenza; i nuovi governanti sono depositari delle «posizioni ideologiche corrette», e ai governati dev’essere insegnato cosa pensare. Pertanto tutti i mezzi di comunicazione e di istruzione devono essere confiscati e affidati a coloro che sono “limpidi” rispetto alla linea ufficiale. Ma la più grande disuguaglianza è quella del potere politico: i governanti hanno un potere soverchiante e i governati sono impotenti. Ugualmente impotenti: qui devo riconoscere l’effetto livellante della tirannia rivoluzionaria. Il tiranno, o l’avanguardia, insieme ai nuovi apparatchik, dominano una massa di donne e uomini spogliati di ogni potere.
Posso anche concedere che il regime rivoluzionario poiché è, dopo tutto, un regime di sinistra, migliori le condizioni dei membri più poveri della società. I governanti populisti dell’America Latina hanno promosso opere pubbliche, innalzato i salari minimi e investito denaro nei sussidi alimentari e per la casa – finché i soldi non sono finiti; dopodiché, i poveri tornano poveri ancora una volta, e i Leader Massimi rimpiazzano la generosità con la repressione. Le dittature comuniste dell’est Europa avevano istituito un welfare state di base, pur prevedendo privilegi per i membri del partito; avevano garantito la sicurezza del posto di lavoro, in fabbriche comunemente dirette da militanti di partito incompetenti. In nessun caso agli operai veniva permesso di costituirsi in sindacati indipendenti o in partiti politici per difendere i loro interessi così come li intendevano.
L’immediata istituzione della disuguaglianza politica è evidente a occhio nudo (per chi sia disposto a osservare), ma di rado se ne discute nella letteratura rivoluzionaria, che si concentra sulla disuguaglianza economica e sociale. Potrebbe essere vero che solo i governanti con poteri assoluti possono abolire i privilegi aristocratici e confiscare e ridistribuire la ricchezza capitalistica. Con una serie di decreti imposti brutalmente, possono cancellare il feudalesimo; possono socializzare l’economia capitalista e destinare fondi ai più poveri dei poveri. A quel punto -Marx ci insegna- dovremo per forza trovarci sulla strada giusta verso una società di uguali, perché la disuguaglianza politica non è che il riflesso di quella economica; se si abolisce l’una, l’altra cadrà. Se impieghiamo il potere statale per creare l’uguaglianza economica, ciò nel tempo porterà all’estinzione dello Stato. Ma se è questo ciò in cui Marx davvero credeva, si sbagliava terribilmente, come abbiamo già avuto modo di scoprire molte volte.
La disuguaglianza politica è, per così dire, indipendente, autonoma, e creerà sempre e immancabilmente nuove disuguaglianze in tutto l’ordine sociale.
Queste nuove disuguaglianze saranno sempre più difficili da superare a causa della pretesa del regime rivoluzionario di avere quella peculiare legittimazione che viene dal vero sapere – e anche dal suo supposto impegno a usare quel sapere per creare una società di uguali. «Il compito dell’intellighenzia – ha scritto Lenin - è rendere non necessari i leader dell’intellighenzia stessa». Ma una volta che gli onniscienti intellettuali si sono dichiarati necessari al “compito” di rendere se stessi non necessari, è molto difficile persuaderli che il loro compito è stato svolto, e che non c’è più bisogno di loro. Si aggrappano al potere esattamente come avevano fatto i loro predecessori. E a coloro tra noi che si sono opposti al regime, che si sono rifiutati di essere “limpidi”, non verrà riconosciuta alcuna credibilità. Presto diventeremo dei “dissidenti”, costretti a nascondersi dalla polizia segreta. E questa è una condizione di disuguaglianza molto pericolosa.
– traduzione di Stefano Ignone

Il Sole Domenica 24.9.17
L’ineluttabile a scuola
Il telefonino nelle aule come strumento didattico? La logica sembra quella del «visto che, tanto vale». Ma a cosa ci può portare?

I telefonini nelle scuole: finora vietatissimi, da adesso in poi è possibile che entrino a pieno diritto nelle aule come strumento didattico innovativo.
Non è ancora detto, non è certo. Una commissione ministeriale ci lavorerà nei prossimi giorni. Ma è nell’aria, era da tempo prevedibile che arrivassimo a questo, nella nostra forsennata rincorsa a essere sempre più nuovi, tecnologici, digitali.
Ma mi sgomenta lo schema logico-argomentativo, che sembra essere alla base del ragionamento, e mi par tipico dei nostri tempi: lo schema del «visto che, tanto vale». Visto che il telefonino è entrato nelle nostre vite quotidiane, tanto vale farlo entrare anche nella scuola. Ovvero: sarebbe innaturale vietare a scuola qualcosa che, fuori della scuola, è normalmente, proficuamente e collettivamente in uso.
L’abbiamo già fatto, e lo faremo ancora: visto che i ragazzi non sanno più scrivere aboliamo il tema; visto che copiano le versioni da internet, aboliamo o riduciamo la versione dal latino e greco; visto che non sanno più scrivere in corsivo, che scrivano su tastiera; visto che faticano a fare i calcoli, che usino la calcolatrice.
Potremmo continuare: visto che ai giovani piace bere birra, ammettiamola come bevanda nell’intervallo; visto che i nostri figlioletti si mettono le dita nel naso, tanto vale insegnar loro un metodo migliore per farlo anche in pubblico; visto che ai ragazzini portati la sera al ristorante piace correre tra i tavoli, inutile costringerli a stare seduti, tanto vale installare dei semafori.
Invece di vietare, assecondare, facilitare. Non porre barriere, non ostacolare. Agevolare, rilanciare, superare le attese, precederle, spiazzare. Dimostrare che noi adulti, genitori e insegnanti, siamo più avanti: comprensivi, collaborativi, complici.
Non capisco se si tratti di una debolezza o di una vera e propria convinzione: cioè, non ci opponiamo all’uso clandestino dei telefonini in classe perché tanto non ce la faremo mai a scovarli, requisirli o vietarli (la battaglia è persa in partenza, dunque inutile combatterla)? Oppure ci crediamo veramente, siamo davvero convinti che i telefonini siano meravigliosi strumenti di un nuovo apprendimento?
Il telefonino ormai è entrato nelle nostre vite. Quindi, ineluttabile. Tutto quel che oggi ci circonda – oggetti, eventi, comportamenti – ci pare ineluttabile. Inevitabile, necessario, incontrastabile, inesorabile: fatale. Al di là del nostro potere, di ogni nostro eventuale intervento. Impotenti e supini come di fronte a un fiume universale perennemente in piena che ci travolge. Non ci chiediamo più che cosa ci sembra sensato e che cosa insensato. Forse non lo sappiamo più. Siamo tronchi galleggianti nella corrente.
Dimentichiamo che molto di quel che ci circonda e compone il nostro attuale vivere sociale non è un fiume, ma il frutto delle nostre scelte. Noi esseri umani possiamo determinare le cose, abbiamo questa facoltà. Certo non totalmente, ma in una certa misura sì. Esempio: se i telefonini sono entrati così pesantemente nella nostra vita, e nella vita dei nostri figli, è perché noi genitori abbiamo deciso di dare un telefonino (o tablet o altro) in mano ai nostri figli dai due anni in poi, e permettiamo loro di usarlo tutto il giorno e in qualunque luogo (vedasi ristoranti), più o meno senza limitazioni alcune. L’abbiamo deciso! Perché così va il mondo, ma soprattutto perché ci fa estremamente comodo: un tablet è un mirabile strumento di intrattenimento, a metà tra il giocattolo e la babysitter a costo zero, una meraviglia che ci permette qualche ora di pace, cioè di disconnessione dai figli e liberazione dall’urgenza costrittiva di prendercene cura, e magari anche di educarli.
In effetti, quelli che chiamiamo “nativi digitali” sono in realtà, in origine, semplicemente “nativi”: cioè sono nati, hanno solo compiuto il gesto di nascere, che di per sé è neutro e incolore. Siamo noi che, per indifferenza, esaltazione tecno-progressista, comodità, opportunismo, li rendiamo “digitali” (basterebbe esentarli dall’uso dei tablet, e sarebbero dei bambini perfettamente uguali a quelli delle generazioni precedenti).
Quindi, bizzarro che ora si portino i telefonini nella scuola per il fatto che tanto li usiamo fuori. Chiediamoci perché li usiamo in modo così massiccio fuori, e se non sarebbe invece il caso di diminuirne l’uso…
Siamo di sicuro tutti molto agevolati dall’uso di telefonini e tablet nella nostra vita quotidiana, e mai penseremmo di farne senza. Ma è anche vero che ne siamo oppressi e imprigionati. Viviamo schiavi di una connessione perpetua, vittime del chiacchiericcio sui social, drogati da una frequentazione continua e spossante su internet. I nostri ragazzi, li vediamo?, vivono digitando e navigando, in casa, sul pullman, in auto, per strada, in treno, al mare, al bar. Esisteva per loro un’isola protetta, un’oasi di silenzio digitale e sereno spegnimento della rete: la scuola. E ora invece, forse, non avranno più nemmeno quelle cinque ore al giorno di pace de-connessa.
Perché vogliamo questo? Pensiamo di diventare più attraenti, motivanti, interessanti? Abbiamo così poca fiducia nelle naturali fascinazioni della scuola: leggere ad alta voce un racconto, commentare una poesia, risolvere un problema alla lavagna, usare la nostra voce, la nostra passione, il nostro entusiasmo per fare una meravigliosa lezione di storia, filosofia, biologia? Abbiamo davvero così bisogno, per fare una scuola buona, di supporti elettronici, di far vedere un video, di entrare in un sito, digitare un link, chattare in rete, scaricare una app? Arriveremo anche a proporre la musica tecno come sottofondo in classe perché i ragazzi si sentano più a loro agio, più nel loro mondo? E siamo sicuri che, posti davanti al loro amato iPhone anche durante le ore di lezione, saranno più attenti, interessati allo studio, più… “motivati”? Davvero li consideriamo così ingenui e sprovveduti? Abbiamo così poca fiducia in loro? O siamo noi tanto ingenui da pensare di abbindolarli?
Esiste ormai da una decina d’anni una rigogliosa letteratura che mette in guardia dall’uso smodato di internet e social. È un’onda contraria, un pensiero critico, in controtendenza, forse l’inizio di una vera e propria ribellione, che spesso parte proprio da coloro che sono stati i più convinti fautori dell’innovazione tecnologica. Si vedano, solo per dirne tre, J. Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori 2010; N. Carr, Internet ci rende stupidi?, Cortina 2011; e M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio 2012. E, ultimissimo, un saggio appena uscito di Jean Twenge dal titolo iGen: why today’s super connected kids are growing up less rebellious, more tolerant, less happy and completely unprepared for adulthood (Atria Books), in cui l’autrice, docente di Psicologia alla San Diego State University, sostiene che l’iPhone abbia distrutto una generazione.
È altresì ormai provato, da numerosi studi scientifici, che scrivere a mano è molto diverso che scrivere su tastiera, e che leggere su pagina è diverso che leggere su schermo: si attivano altre zone del cervello, e lo studio, che è un lento e complesso processo mentale, si avvantaggia di molto con la scrittura a mano e la lettura sui libri. È stato anche provato che il multitasking non è affatto quella nuova strabiliante capacità intellettiva che ci piace attribuire ai nuovi giovani, ma piuttosto un limite, un difetto che rende più difficile organizzare in modo logico i pensieri; e che esistono problemi gravi connessi al sovraccarico di informazioni: si veda la sindrome da stress denominata IAD, Internet addiction disorder.
Ceronetti ha scritto che: «nell’insegnamento elementare la comunicazione elettronica deve essere responsabilmente bandita». Steve Jobs proibiva ai suoi figli, da piccoli, l’uso di iPad, iPod e iPhone. E Evan Williams, fondatore di Twitter, ha educato i figli abituandoli alla lettura dei libri e cercando di tenerli il più possibile lontani dagli smartphone e iPad.
Quindi, perché certi segnali, dal Ministero, sull’opportunità di usare i telefonini in classe? Gradiremmo atteggiamenti più dubbiosi...
Mi pare che commettiamo sempre lo stesso errore: perché la scuola sia sempre più alla portata di tutti e soprattutto di chi ha difficoltà, perché risponda sempre più alle richieste dell’utente (cliente!), la svuotiamo della sua vera sostanza, culturale, e la rendiamo sempre più simile a quel che c’è fuori, a quel che “scuola non è”. Così è più accogliente, fa meno paura, sembra meno aliena. Ci adeguiamo a quel che pensiamo che i giovani vogliano, ci mettiamo noi al loro livello invece di portarli al nostro, scendiamo nel loro campo, usiamo i loro linguaggi, i loro segni: in poche parole, diamo loro sostanzialmente quel che hanno già. Usate i telefonini tutto il pomeriggio e sera? Bene, allora ve li facciamo usare anche al mattino, non sia mai che la scuola sia un’isola appartata e sconnessa, aggiungiamo altre 4 o 5 ore alle 7 ore che già dedicate a internet e social.
Abbiamo l’idea, sbagliata, che una scuola tanto più diventi democratica quanto più si adegui alle esigenze-desideri-preferenze (presunte) della maggioranza. Il risultato è una scuola che insegue i like, vuole follower, stellette, punti. Patetica infinita captatio benevolentiae che ha l’aria di una indagine di customer satisfaction. Penoso blandire le peggiori debolezze dei nostri giovani, invece di dirottarli su comportamenti più virtuosi, verso mete cognitive più alte.
Non si potrebbe fare esattamente il contrario? Non si potrebbe dire: visto che coi telefonini smanettate già un bel numero di ore al giorno, almeno a scuola vi daremo altro? La scuola come altro possibile uso del tempo, altra possibile vita, altro modo di vedere le cose, di pensare, di entrare in relazione col mondo. Vi daremo, guarda un po’, sempre più libri, invece di ri-darvi i telefonini! I libri non sono nella vostra vita? Benissimo! A scuola troverete solo libri! (solo libri: così, con questo coraggio anche un po’ drastico, estremo!). Saranno un’alternativa, un’aggiunta, una cosa in più a cui magari non avreste pensato, un’opzione diversa che non avreste cliccato mai, dunque un arricchimento, una chance in più per la vostra vita.
Potremmo fronteggiare l’onda-orda dei telefonini, invece di cavalcarla assecondando, e di fatto anticipando, il maremoto. Potremmo, proprio partendo dalla scuola, cominciare una lenta opera di disintossicazione e progressiva disconnessione, invece di incrementare l’irretimento nella rete fin dalla più tenera età!
Mi si dirà che l’uso dei telefonini in classe non intaccherebbe per nulla l’uso dei libri. Può darsi che nelle intenzioni sia così. Ma nella realtà? Tra lavagna elettronica, computer in classe, tablet personale, la scuola si va digitalizzando. Questo è il piano (Piano Nazionale Scuola Digitale, della Buona Scuola), e il telefonino è solo l’ultimo tassello. La brevità, l’immediatezza, la velocità, l’appeal visivo, la luminescente fascinazione dei mezzi digitali per forza di cose avranno la meglio. Vedo difficile, da lì, tornare alla lunghezza e alla grigia omogeneità di una pagina stampata, che richiede tempo, attenzione, indugio, capacità riflessive astratte.
Leggere-studiare un libro è un’esperienza cognitiva complessa. Se a lungo andare i ragazzi perderanno la capacità di stare su un testo, di comprenderne il senso, se diventeranno sempre più inabili allo studio astratto, sarà unicamente a causa delle scelte che noi adesso stiamo compiendo, non certo a causa del deterioramento del loro cervello, o di mutazioni antropologiche di cui tanto ci piace fantasticare. Cito Alberto Contri, il quale nel suo ultimo libro (McLuhan non abita più qui?, Bollati Boringhieri, 2017), dopo aver ricordato che il nostro “neocervello” risale a circa 200 milioni di anni fa, scrive: «Davvero risibile, quindi, anche solo immaginare – come sostengono alcuni - che il cervello dei ragazzi si stia modificando grazie allo sviluppo delle tecnologie avvenuto negli ultimi vent’anni. In realtà sta reagendo come meglio può alle violente accelerazioni e allo stress cui viene sottoposto, e già cominciano a vedersi i primi danni, come una palese destrutturazione del pensiero, un impoverimento complessivo del linguaggio e della scrittura. L’essere continuamente connessi dà ai nativi digitali e millennial l’illusione di essere al centro della realtà, mentre rischiano di rimanerne al di fuori, perché sempre altrove e costantemente distratti».
Ecco, bisognerebbe dunque invertire l’ordine causale: non è che noi dobbiamo adeguare il sistema dell’istruzione al nuovo cervello dei nuovi giovani; è che il loro cervello si sta sforzando, faticosamente e talora dolorosamente, di adeguarsi alle nostre attuali pericolose scelte!
Il telefonino in classe potrebbe agevolare l’ormai iniziata, lenta, progressiva dismissione dei libri, che abbiamo sotto gli occhi e che ipocritamente continuiamo a negare. Un ulteriore, durissimo colpo al valore della concentrazione, dell’introspezione, della memoria, dell’attenzione, della riflessione. Dispiacerebbe che fosse proprio la scuola a contribuire in modo così massiccio a relegare i libri negli ombrosi, umidi e ammuffiti scantinati delle nostre esistenze. Proprio la scuola che dovrebbe essere l’ultimo baluardo, l’isola di resistenza da cui, semmai, far ripartire una battaglia culturale.