Corriere 22.9.17
Una identità non negoziabile per re-inventare la sinistra
di Paolo Franchi
C’è qualcosa che si fatica a capire nel confronto spesso assai polemico aperto alla sinistra del Pd in vista delle elezioni politiche; o, almeno, nella rappresentazione che se ne dà. Qualcosa che non si lascia spiegare solo da una connaturata tendenza a farsi del male da soli, ricercando sempre nuovi motivi di divisione con il vicino («fratelli, coltelli», scriveva tanti anni fa Gramsci) quando, al contrario, è di un minimo di unità contro il comune avversario che ci sarebbe bisogno.
Un po’ di realismo politico non guasterebbe. Può darsi, anche se è lecito dubitarne, che si arrivi in extremis a un cambiamento della legge elettorale. Anche in questo caso, però, molto difficilmente le elezioni ci consegneranno un vincitore certo alla Camera e al Senato, e molto probabilmente, chi avrà più voti dovrà provarsi a metter su una maggioranza di coalizione, se possibile non contronatura. A questa elementare considerazione si è sempre rifiutato il Pd (o quanto meno sua grande maggioranza) lasciando spazio a un’infinità di sospetti sulle intenzioni future. Chi si propone l’obiettivo fatidico del 40% dei voti sapendo benissimo che non lo conseguirà, sembra chiedere non tanto una pressoché impossibile investitura maggioritaria, quanto la possibilità di avere «mani libere», come si diceva una volta, nella prossima legislatura. La galassia (o qualcosa di più) che si situa alla sua sinistra ha tutte le ragioni per contestarglielo. Se è il centrosinistra il campo in cui si riconosce tuttora, il Pd dovrebbe riconoscere che lì ha oggi i suoi principali (e naturali) interlocutori, domani i suoi principali (e naturali) alleati. Ci deve pur essere qualche ragione politicamente più significativa dell’eredità velenosa di rottamazioni, di guerre intestine e di scissioni a impedirgli di farlo, o a indurlo a provare di risolvere un problema politico mediante una legge elettorale ad hoc.
Se neo-ulivisti e sinistra-sinistra si limitassero a contestare uniti, anche duramente, questa posizione, avrebbero molte più frecce al loro arco per la loro propaganda (non è una parolaccia). Ma lo fanno a giorni alterni, dando così l’impressione di dividersi tra chi (Giuliano Pisapia) sostiene, seppure non sempre con grande chiarezza, che con il Pd occorre competere sì, e però come lo si fa con un naturale (e ovviamente decisivo) alleato, e chi (Massimo D’Alema) sembra considerare Renzi il nemico principale, lasciandosi rappresentare (proprio lui...) come l’aspirante federatore della sinistra più radicale.
Più o meno tutti gli interessati, e in particolare i post comunisti, sostengono che l’area politica, culturale e sociale cui si rivolgono, più ancora che dall’attuale elettorato del Pd, è costituita da una quantità di elettori di sinistra che da anni disertano le urne, nella convinzione che la loro vieille maison non ci sia più e che di una casa nuova non se ne parli nemmeno. Non sapremmo quantificare, ma di sicuro si tratta di un mondo della cui consistenza, più che degli attuali, striminziti sondaggi, parla, per fare il più classico degli esempi, l’astensionismo politico diffuso in quelle che un tempo si chiamavano le «regioni rosse». E tuttavia: anche ammesso che questa «sinistra sommersa» sia rimasta negli anni sempre uguale a se stessa, una specie di bella addormentata in attesa del principe azzurro, si può escludere in partenza che una contesa da ceto politico, ora esplicita, ora latente, sia il modo migliore per cominciare a risvegliarla.
È vero che la memoria si è fatta cortissima. Ma, durante la Prima Repubblica, la sinistra italiana, seppure divisa e percorsa da guerre feroci, era forse la più forte d’Europa. Per un lungo periodo della Seconda, parve che di sinistre, in Italia, ce ne fossero addirittura due: riformista l’una, radicale l’altra. Certo non risorgeranno né i partiti vecchi né quelli seminuovi, frettolosamente impiantati negli anni 90. Ma resta lo stesso sconcertante la prospettiva che nella Terza Repubblica, sempre che riesca a prendere corpo, di sinistre politiche e sociali propriamente dette non ce ne debba essere nessuna. Principi azzurri non sono alle viste: né pantere grigie alla Bernie Sanders o alla Jeremy Corbyn né giovanotti baldanzosi alla Julio Iglesias.
Ci sono, invece, dei «box da aprire», come li definisce Interel, un network internazionale di società di consulenza in public affairs e lobbying, gli stessi, a guardar bene, in cui dovrebbero mettere mano, cervello e cuore un po’ tutti i partiti socialisti. Secondo Interel, si chiamano questione europea, questione programmatica, questione mediatica, questione del governo. Volendo, ce ne sarebbero anche altri. Ma se si provasse ad aprirne almeno un paio, e a mettere a fuoco una proposta, un’idea forza, un tema identitario non negoziabile, sarebbe tanto di guadagnato. Per la campagna elettorale, domani. E dopodomani per verificare con il Pd se ci sono le condizioni per un’alleanza, si vedrà se di governo o di opposizione, e, se non ci fossero, per renderne chiaro il perché.
Il resto è chiacchiericcio politicante. E con il chiacchiericcio politicante, anche se rumoroso, di questi tempi non si va da nessuna parte.
il manifesto 22.9.17
Il 21 ottobre manifestazione a Roma contro ogni forma di razzismo
In un momento difficile della storia del paese e del pianeta intero, dobbiamo decidere fra due modelli di società. Quello includente, con le sue contraddizioni, e quello che si chiude dentro ai privilegi di pochi.
Sembriamo condannati a vivere in una società basata su una solitudine incattivita e rancorosa, in cui prendersela con chi vive nelle nostre stesse condizioni, se non peggiori, prevale sulla necessità di opporsi a chi di tale infelicità è causa.
Una società che pretende di spazzare via i soggetti più fragili a partire da chi ha la «colpa» di provenire da un altro paese, rievocando un nazionalismo regressivo ed erigendo muri culturali, normativi e materiali.
Una società in cui il prevalere di un patriarcato violento e criminale è l’emblema evidente di un modello tradizionale che sottopone le donne alla tutela maschile e ne nega la libertà.
Disagio e senso d’insicurezza diffuso sono strumentalizzati dalla politica, dai media e da chi ha responsabilità di governo. Si fomentano odi e divisioni per non affrontare le cause reali di tale dramma: la riduzione di diritti, precarietà delle condizioni di vita, mancanza di lavoro e servizi.
Eppure sperimentiamo quotidianamente, nei nostri luoghi di vita sociale, solidarietà e convivenza, intrecciando relazioni di eguaglianza, parità, reciproca contaminazione, partendo dal fatto che i diritti riguardano tutte e tutti e non solo alcuni.
Scegliamo l’incontro e il confronto nella diversità, riconoscendo pari dignità a condizione che non siano compromessi i diritti e il rispetto di ogni uomo o donna.
Vogliamo attraversare insieme le strade di Roma il 21 ottobre e renderci visibili con una marea di uomini, donne e bambini che chiedono eguaglianza, giustizia sociale e che rifiutano ogni forma di discriminazione e razzismo.
Migranti, richiedenti asilo e rifugiati che rivendicano il diritto a vivere con dignità insieme a uomini e donne stanchi di pagare le scelte sbagliate di governi che erodono ogni giorno diritti e conquiste sociali, rendendoci poveri, insicuri e precari.
Associazioni, movimenti, forze politiche e sociali, che costruiscono ogni giorno dal basso percorsi di accoglienza e inclusione e che praticano solidarietà insieme a migranti e richiedenti asilo, convinti che muri e confini di ogni tipo siano la negazione del futuro per tutti.
Ong che praticano il soccorso in mare e la solidarietà internazionale.
Persone nate o cresciute in Italia, che esigono l’approvazione definitiva della riforma sulla cittadinanza.
Giornalisti che tentano di fare con onestà il proprio mestiere, raccontando la complessità delle migrazioni e prestando attenzione anche alle tante esperienze positive di accoglienza.
Costruttori di pace mediante la nonviolenza, il dialogo, la difesa civile, l’affermazione dei diritti umani inderogabili in ogni angolo del pianeta e che credono nella libertà di movimento.
Vogliamo ridurre le diseguaglianze rivendicando, insieme ai migranti e ai rifugiati, politiche fiscali, sociali e abitative diverse che garantiscano per tutte e tutti i bisogni primari.
Il superamento delle disuguaglianze parte dal riconoscimento dei diritti universali, a partire dal lavoro, a cui va restituito valore e dignità, perché sia condizione primaria di emancipazione e libertà.
Chiediamo la cancellazione della Bossi-Fini che ha fatto crescere irregolarità, lavoro nero e sommerso, sfruttamento e dumping socio-lavorativo.
Denunciamo l’uso strumentale della cooperazione e le politiche di esternalizzazione delle frontiere e del diritto d’asilo.
Gli accordi, quasi sempre illegittimi, con paesi retti da dittature o attraversati da conflitti; le conseguenze nefaste delle leggi approvate dal parlamento su immigrazione e sicurezza urbana che restringono i diritti di migranti e autoctoni (decreti Minniti Orlando) di cui chiediamo l’abrogazione; le violazioni commesse nei centri di detenzione in Italia come nei paesi a sud del Mediterraneo finanziati dall’Ue. Veri e propri lager, dove i migranti ammassati sono oggetto di ogni violenza. Esigiamo che delegazioni del parlamento europeo e di quelli nazionali si attivino per visitarli senza alcun vincolo o limitazione.
Chiediamo canali di ingresso sicuri e regolari in Europa per chi fugge da guerre, persecuzioni, povertà, disastri ambientali.
Occorrono politiche di accoglienza diffusa che vedano al centro la dignità di chi è accolto e la cura delle comunità che accolgono. Politiche locali che antepongano l’inclusione alle operazioni di polizia urbana. E occorre un sistema di asilo europeo che non imprigioni chi fugge nel primo paese di arrivo.
Il 21 ottobre uniamo le voci di tutte le donne e gli uomini che guardano dalla parte giusta, cercano pace e giustizia sociale, sono disponibili a lottare contro ogni forma di discriminazione e razzismo.
Repubblica 22.9.17
Libia, ripartono i barconi subito una nuova tragedia Annegati cento migranti
Alla deriva per cinque giorni dopo essere rimasti senza benzina È il primo incidente post accordi, con meno navi umanitarie
di Alessandra Ziniti
Dalle spiagge della Libia hanno ripreso a partire e purtroppo anche a morire. Un centinaio, dicono i pochi superstiti, i migranti annegati dopo essere caduti o essersi buttati per disperazione da un vecchio barcone che sarebbe rimasto senza benzina, alla deriva, per cinque giorni nel tratto di mare di fronte Sabratha fino a qualche settimana fa presidiato dalla flotta, ormai più che dimezzata, delle navi umanitarie e ora invece sostanzialmente sguarnito di soccorsi e lasciato ai pattugliamenti della Guardia costiera libica.
È la prima tragedia del mare dal blocco delle partenze seguito agli accordi stretti tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e il governo libico di Al Serraji e al disimpegno di molte delle Ong che hanno preferito abbandonare i soccorsi in mare dopo la stretta fissata dal codice di comportamento varato dal Viminale ma soprattutto dopo le minacce della Guardia costiera libica che, anche a colpi di mitraglia, ha vietato loro l’ingresso nelle acque definite unilateralmente di propria competenza.
«Di fronte a questa nuova catastrofe è più che mai urgente intervenire nel Mediterraneo», l’appello di Sos Mediterranèe, ancora in acqua con la nave Aquarius.
La ricostruzione di quanto avvenuto, rende plasticamente la situazione nelle acque che fronteggiano le coste libiche dalle quali, negli ultimi dieci giorni, i trafficanti hanno ripreso a mettere in mare gommoni sgonfi e vecchi barconi. Per cinque giorni incredibilmente nessuno si sarebbe accorto di quella imbarcazione di legno che, rimasta senza carburante, andava alla deriva mentre le condizioni meteo peggioravano sensibilmente. Sembra che dei 130 migranti a bordo, almeno novanta siano scomparsi in mare mentre la barca si inclinava sbilanciata dai movimenti scomposti di chi, per la disperazione, aveva deciso di buttarsi in acqua per tentare di raggiungere a nuoto la costa di Al Zuwara visibile ad occhio nudo. Quattro i corpi (tra cui due donne) recuperati dalla Guardia costiera libica, sette i superstiti in grave stato di ipotermia e disidratazione, uno è morto subito dopo il ricovero in ospedale. Altri trenta (tra cui una bambina) sono stati ritrovati in vita poche ore dopo in mare.
A dare notizia del naufragio è stato il portavoce della Marina libica Ayoud Qassem: «La guardia costiera di Zuwara è riuscita a salvare solo sette migranti su una nave di legno a una ventina di chilometri dalla costa», ha detto Qasem che ha poi sottolineato come negli ultimi dieci giorni la Marina libica ha salvato più di tremila migranti in ben dodici operazioni. Un trend non tanto diverso da quello dell’inizio dell’estate precedente all’accordo tra Minniti e al Serraji, una cifra a cui vanno ad aggiungersi i quasi tremila migranti recuperati dalle navi delle Ong sotto il coordinamento della Guardia costiera di Roma e sbarcati in Italia dove il numero degli arrivi nel 2017 sta per raggiungere quota 103.000, con una diminuzione del 21 per cento rispetto allo scorso anno.
A preoccupare è proprio il numero delle vittime ( quasi 2.400 nel 2017) che, seppure più basso di quello del 2016, ha fatto registrare un aumento, tra agosto e settembre, nonostante la netta diminuzione dei viaggi sulla rotta del Mediterraneo. Una rotta diventata nuovamente rischiosa dopo l’abbandono delle navi delle Ong che, nell’ultimo anno, schierate al limite delle acque libiche, soccorrevano i gommoni dopo poche ore di navigazione con un evidente abbassamento del rischio per chi saliva a bordo di imbarcazioni che non erano in grado di affrontare più di poche miglia di navigazione. Adesso invece, per le barche che bypassano i pattugliamenti libici, la meta di nuovo lontana è la Sicilia.
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Migranti su un barcone FOTO: ©TONY GENTILE/REUTERS
Repubblica 22,9,17
I clochard via da San Pietro dopo le proteste dei cardinali
I monsignori: troppa sporcizia Svolta anche per la sicurezza: borsoni e valigie non possono essere controllati di continuo
La gendarmeria allontana i senzatetto che vivono sotto il colonnato “Restano bagni e docce, di notte potranno tornare”. Il Papa informato
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO. Francesco ha dato il suo ok all’allontanamento nelle ore diurne dei clochard da sotto il colonnato di piazza San Pietro. Spostati per ragioni di «decoro» e di «sicurezza», i senzatetto possono tornare al riparo sotto le volte del Bernini nelle ore notturne, mentre di giorno possono restare ma non bivaccare. La decisione è stata presa dalla gendarmeria vaticana e dall’elemosiniere pontificio Konrad Krajewski, in accordo con l’ispettorato di Polizia di Borgo Pio (alcuni agenti in borghese hanno dato supporto ai gendarmi), con il Comune e con l’Ama. Il portavoce della Santa Sede Greg Burke ha spiegato che «non è cambiata l’accoglienza dei senza tetto». I clochard, ha spiegato, «di giorno non possono più restare per ragioni di sicurezza: le loro borse e valigie non possono essere continuamente controllate e non sempre si riusciva poi a sapere di chi erano quando le lasciavano per andarsene in giro».
Alcuni hanno letto la notizia come una frenata di Francesco dopo i primi anni di pontificato spesi per affermare l’idea di una Chiesa povera e per i poveri. Prima dei clochard ci sono state anche le parole da lui pronunciate di ritorno dalla Colombia sull’integrazione dei migranti in Italia, doverosa per il Papa ma accompagnata da una domanda: «Quanti posti ho?». Oltretevere, tuttavia, invitano a non fare di tutta l’erba un fascio. Bergoglio, infatti, non si è mai ritrovato nelle letture troppo a sinistra delle sue azioni. Che non si possa accogliere i migranti senza prudenza, non a caso, l’aveva già detto un anno fa in Svezia: bisogna accoglierli, «ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare», disse. Mentre per quanto riguarda i clochard raccontano che abbia semplicemente accettato per buonsenso il suggerimento della gendarmeria e di Krajewski che gli hanno fatto notare come durante il giorno il rischio per la sicurezza sua e in generale del Vaticano fosse troppo elevato.
Di certo c’è che i malumori, intorno al colonnato, non sono stati pochi negli ultimi mesi. Alcuni monsignori e cardinali residenti nelle vie adiacenti da tempo si lamentano per la presenza dei senzatetto perché, a loro dire, sporcano e rendono maleodorante l’ambiente. Di qui le proteste fatte pervenire dentro le mura affinché qualcuno facesse qualcosa. Di fatto, la medesima operazione messa in campo questa volta da ambienti italiani affinché Francesco mostrasse una linea più prudente sui migranti. Nel primo caso è bastato l’intervento di Krajewski. Nel secondo caso è stata la segreteria di Stato vaticana a far notare a chi chiedeva risposte come dal viaggio in Svezia in avanti tutto fosse già chiaro. Poi, certo, la visita del ministro Minniti Oltretevere ha fatto il resto e ha portato all’esposizione pubblica di una linea già presente.
Per quanto riguarda i migranti, più che le pressioni dei vescovi conservatori sono stati i racconti dei presuli locali a convincere il neo presidente dei vescovi Gualtiero Bassetti a sposare de facto la linea Minniti. Da Bassetti al Vaticano il passo è stato breve: Minniti, forte del sostegno della Cei, ha ottenuto il placet che cercava. Per Francesco il parere dell’episcopato locale, dei vescovi sul territorio, è decisivo. Lo ha dimostrato assecondando in Venezuela la linea della Chiesa anti-Maduro. Lo sta facendo in Italia invitando alla «prudenza» e alla «responsabilità» sui migranti.
il manifesto 22.9.17
L’eterna invenzione dell’altro da sé
Passato&Presente. Una riflessione sui trascorsi coloniali italiani, tra dopoguerra e attualità. Dalla perdita del dominio africano fino agli sgomberi di piazza Indipendenza: è possibile una rimozione?
di Gabriele Proglio
L’Italia ha davvero rimosso il passato coloniale? In questo articolo, proveremo a dare una risposta, sebbene parziale. Due saranno i percorsi per ridiscutere la rimozione: uno sincronico, che interroga il dopoguerra; l’altro diacronico, che legge la condizione postcoloniale guardando al passato.
L’anno da cui cominciare è il 1941, quando l’Italia perde l’Africa Orientale Italiana. Due anni dopo è la volta della Libia. Con il trattato di Parigi (1947) si ufficializza tale condizione. I tentativi di riavere le colonie sono molteplici: con il memorandum redatto da Cora e Cerulli, nel 1948; con interventi dagli scranni delle Nazioni Unite; con pubblicazioni e congressi dei profughi d’Africa; con azioni di vari schieramenti politici, della diplomazia internazionale, di alcuni studiosi (ministero dell’Africa Italiana, Istituto per l’oriente, ecc.). Si giunge all’accordo Bevin-Sforza, siglato in segreto il 6 maggio 1949, tra i ministri dell’interno inglese e italiano per l’attribuzione, su base coloniale, delle ex-terre d’oltremare. Accordo che dovrebbe essere approvato in sede Onu. Ma Haiti vota contro e quindi fa mancare il quorum.
CON UNA REAZIONE scomposta, l’Italia chiede, allora, l’indipendenza della Libia e dell’Eritrea. L’Assemblea generale approva due risoluzioni che recepiscono tale istanza. Così, la Libia diventa indipendente, il 24 dicembre 1951, e l’Eritrea una zona federata dell’Etiopia, il 15 settembre 1952. La Somalia è affidata all’amministrazione fiduciaria italiana dal 1 aprile 1950 e per un decennio.
Che cosa succede, nel frattempo, alla cultura italiana? L’imponente archivio di immagini, pratiche e discorsi coloniali si rompe definitivamente nel 1947? La risposta è negativa. Cristina Baldassini, nel suo L’ombra di Mussolini, ha dedicato un capitolo a studiare la memoria del colonialismo sulle colonne di riviste popolari come Epoca, Oggi e Il Borghese. «Il ricordo della conquista d’Abissinia – scrive l’autrice – inizia ad avere un posto centrale all’interno di questa raffigurazione del Ventennio nel corso degli anni Cinquanta, in coincidenza del passaggio da un atteggiamento difensivistico nei confronti del passato alla non celata nostalgia di alcune sue parti».
Si può provare, partendo da questo indizio, ad allargare lo sguardo, inseguendo altre tracce dell’eredità coloniale. Le troviamo, prima, nel genere peplum, ossia quel cinema che riprende, nei vari colossal, il mito della Roma imperiale; poi negli spaghetti-western, nel tema della conquista; nei film di Totò, con un umorismo che talvolta richiama l’immaginario sui selvaggi neri, sull’Africa, sulla Somalia. Scopriamo narrazioni a proposito della linea del colore nelle pubblicità che parlano di Mediterraneo – si pensi, per esempio, alle creme solari. Altre, orientaliste, propongono crociere da sogno in Nord Africa e Medio Oriente. Non mancano i reportage sulle guerre di liberazione in Africa e Asia, su popoli considerati non (ancora) bianchi/civili/sviluppati.
POI CI SONO I TESTI scolastici, alla voce colonialismo; la letteratura e alcuni editoriali giornalistici, come ha fatto notare Valeria Deplano. E la televisione? Un caso su tutti: l’intervista di Bisiach a Montanelli. Il giornalista si vanta di aver comprato una ragazza dodicenne bilena. «In Africa è un’altra cosa», confessa orgoglioso al pubblico. È già il 1969.
Non è possibile dunque parlare di rimozione. Gli italiani dimenticarono l’oltremare, ma tennero ben impresse, nelle loro menti, le forme del dominio e gli stereotipi a esse legate. E declinarono questi ultimi su altri corpi, in altri contesti, a partire dal dopoguerra.
C’è poi un’altra questione. Chi avrebbe rimosso l’oltremare? Tutto il Paese? Difficile pensarlo. Forse, allora, solo la parte che aveva conosciuto, direttamente o meno, le colonie. Pur prendendo quest’ultima ipotesi per buona, bisognerebbe capire come avrebbe fatto un gruppo a imporre una rimozione a tutti. Che, ricordiamolo, è cosa ben diversa dal dimenticare, dall’oblio, dall’amnesia. Si rimuove per un trauma subito. Ed eccoci, quindi, alla seconda questione: perché a rimuovere quel passato dovrebbe essere stato un Paese colonizzatore? E non, invece, chi subì le violenze dagli italiani? Questo cambio di prospettiva, tra vittime e carnefici, è inquietante. Chi visse in colonia, probabilmente, non ne parlò per imbarazzo, nostalgia, malinconia, rabbia.
Infine, solo una parte minima del problema riguarda il ritardo della storiografia nello studio del colonialismo. Il centro della discussione va trasferito dallo sviluppo della disciplina storica alla società italiana, alla cultura del Paese. Questo spostamento di sguardo – che poi, come ha insegnato Stuart Hall, lo è anche dal punto di vista dei significati – permette di studiare la memoria pubblica e privata.
Anche dietro l’attuale sgombero di piazza Indipendenza: c’è una mancata rielaborazione, una mancata decolonizzazione. La memoria, in tal senso, è intesa come causa. Ma è vero pure il contrario. Può essere medium e archivio nella costruzione degli immaginari del presente, delle memorie del futuro, determinando le condizioni (inter)soggettive che portano alla classificazione del mondo, alla scelta, all’azione.
In tale processo è evidente il ruolo della trasmissione dei significati: idee, immagini e pratiche sono giunte, talvolta modificandosi, fino all’oggi. Sono possibili molteplici processi di memoria, ma non la rimozione che, per caratteristica, prevede la rottura del discorso per un trauma. In una frase: gli italiani hanno dimenticato le colonie, non come si inventa l’Altro.
NON A CASO, l’immagine del poliziotto che tiene la testa della donna eritrea è stata letta, da alcuni, in modo paternalistico. Questa, sì, potrebbe essere un’eredità diretta della «colonia per maschi» di cui parla Giulietta Stefani nel suo libro. È qualcosa che urta, se si ricordano le fotografie ingiallite dell’oltremare così ben analizzate da Alessandra Ferrini nel documentario Negotiating Amnesia. E quelle di uomini che posarono davanti alla macchina da presa ghermendo, con le loro mani bianche, corpi neri. Donne metafore della conquista della terra e del paese, di un popolo; donne oggetto di violenza e poi abbandonate. Come nell’operazione di «cleaning» di piazza Indipendenza.
IL DISCORSO VALE anche per il manifesto diffuso da Forza Nuova sullo stupro di Rimini; manifesto che ne risignifica uno della Rsi contro lo sbarco degli americani in Italia: cambiano contesto e riferimenti, ma rimangono i contenuti; vale per il titolo di Libero, «Dopo la miseria portano malattie», che se decostruito porta a molteplici narrazioni sulla razza, non solo coloniali. E per le voci contrarie allo ius soli che sono, evidentemente, legate alla mitologia del sangue come costruzione razziale di una nazione, di una patria.
La memoria può essere soggetta a molteplici processi. Certo, la rimozione, ma anche l’amnesia, il ricordo, l’afasia, il silenzio, l’oblio, la risignificazione. Per decolonizzare la memoria non basta, purtroppo, ricostruire gli eventi d’oltremare. È necessario comprendere come funziona l’archivio che ha prodotto tali processi e le narrazioni relative.
Ann Laura Stoler mette in guardia, in Duress: Imperial Durabilities in our Times, sull’intendere la relazione coloniale-postoconiale come lineare, diretta, consequenziale. Invita a interpretare i rapporti di potere, passati e presenti, come una mancanza da indagare. La rimozione, in tal senso, non permetterebbe lo studio sui processi culturali, ma solo degli esiti prodotti. Inoltre, è essenziale decentrare lo sguardo dalla relazione nazione colonizzatrice-colonia, facendo attenzione all’influenza delle discorsività di altri colonialismi, come già chiariva Edward Said; della schiavitù e delle deportazioni; dall’antisemitismo e dalla xenofobia, ecc. Infine, è indispensabile adottare uno sguardo intersezionale, in modo da scorgere le genealogie dei rapporti di potere.
L’INVITO ALLORA è quello di pensare la memoria non solo come ricordo, ma anche quale strumento per analizzare le varie discorsività visuali, orali, scritte, presenti e passate. Mappare i molteplici processi che interessano la memoria del colonialismo. A sciogliere i nodi di tale eredità come pratica culturale.
La decolonizzazione del pensiero, perciò, riguarda tanto il passato, e lo studio storico degli spostamenti di memoria relativi all’oltremare, quanto il presente, ossia l’immaginario xenofobo, islamofobo, razzista e sessita che recupera, in modo incessante, immagini da quell’archivio ancora funzionante per inventare sempre nuovi nemici, interni ed esterni.
La Stampa 22.9.17
Renzi spera nel “voto utile”
Una legge per svuotare la sinistra
Ma sull’esito pesa l’incognita dello scrutinio segreto
di Carlo Bertini
Ad un certo punto, dal salone di Arcore dove Letta, Ghedini, Brunetta e Romani stanno radiografando le virtù del Rosatellum, parte una telefonata al numero del titolare del patronimico: Ettore Rosato, che in diretta spiega a Silvio Berlusconi i pregi della creatura che porta il suo nome. E se è stato lui nei giorni scorsi e non Renzi a parlarne con il Cavaliere, è perché il leader Pd da questa partita ne vuole stare alla larga. Non è la sua legge ideale e non è ottimista sull’esito finale in Parlamento: ma i suoi provano a motivarlo con l’argomento del «voto utile» innescato dai collegi. E con la presa sui gruppi, «perché i capi partito hanno più controllo col listino bloccato e con le candidature nei collegi sicuri o incerti».
Il primo handicap, sospirano però gli strateghi renziani, è il regolamento della Camera che permette i voti segreti, perfino in caso di fiducia: la paura è che il film sia subito interrotto dai franchi tiratori come l’ultima volta, creando un altro danno di immagine al Pd. Secondo handicap, il fattore tempo che impedisce un blitz: bene che vada questa legge potrà superare le forche caudine del Senato (dove dalle prime stime non ci sarebbe una maggioranza esorbitante) a fine novembre dopo il voto sulla manovra. E ciò riduce le possibilità che possa superare indenne due mesi di fuoco ad alzo zero di grillini e compagni vari. Per questo Renzi è molto cauto, lascia andare avanti i suoi, Guerini, Rosato e gli altri, ma non si spende per la causa. A convincerlo ad andare avanti è stato il via libera arrivato da Arcore, ottenuto dai suoi innalzando il rapporto proporzionale-maggioritario a due terzi-un terzo. E il pressing dal Colle.
Niente più voto anticipato
Ma nella war room del leader si respira comunque una certa serenità, perchè a differenza di luglio l’ok alla legge elettorale non determinerebbe la fine anticipata della legislatura; e perché tra i peones di ogni partito c’è una paura diffusa delle preferenze previste dal sistema attuale della Consulta. «Le considerano tutti un salto nel vuoto molto costoso per giunta e dunque un sistema con liste bloccate e con collegi tranquillizza di più». Insomma non è detto che non vada bene questo ultimo tentativo in zona Cesarini.
Pisapia di fronte al bivio
«Certo che Pisapia ora è in crisi», sorride serafico mentre solca il Transatlantico Emanuele Fiano, il “presentatore” ufficiale di questa nuova edizione - dopo la parentesi di maggio - del festival della legge elettorale: il nuovo «Rosatellum» comunque vada in aula ci andrà, prevede il presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera Andrea Mazziotti mentre uno che la sa lunga come Rocco Palese di Forza Italia annuisce. Sorride Fiano e con lui tutti i renziani, perché se un risultato questo nuovo coniglio dal cilindro lo otterrà di certo, è quello di mettere in difficoltà la sinistra. Quella di Pisapia che predica da mesi «coalizione coalizione» e che faticherà a respingere una legge che le favorisce.
Coalizioni nei collegi
Il secondo risultato però, visto con gli occhi di Matteo Renzi, è più grosso assai. Ed è la speranza molto concreta che la paura di far vincere il candidato «delle destre» inneschi appunto nei collegi il «voto utile», quello che potrebbe far lievitare un Pd oggi ammaccato e restringere il consenso ai fuoriusciti bersaniani. Sorride dunque anche il numero due del Pd Lorenzo Guerini quando conversando in un capannello alla Camera, sia Gianni Cuperlo che Andrea Martella danno la loro benedizione al Rosatellum», considerato «un passo avanti che favorisce il formarsi di coalizioni», per dirla con il braccio destro di Andrea Orlando nella corrente di minoranza del Pd. Che si è convinta a dire sì quando ieri si è sgonfiato il timore di un nuovo inciucio post-voto con Berlusconi. «Noi vogliamo la coalizione, quelli di Mdp no», è il nuovo mantra dei renziani. «Se permangono spinte divisive non vengono dal pd», chiarisce il tessitore per antonomasia, Guerini. «È una proposta su cui c’è ampia convergenza dentro il partito e che mette in campo il tema coalizione. E spetta non solo a noi ma anche agli altri costruire condizioni per realizzarle».
il manifesto 22.9.17
Arriva le legge elettorale alibi
Alla camera. Depositato in commissione il Rosatellum-bis. Aula da ottobre. Penalizza i grillini ed è pieno di tentazioni per Berlusconi. Soprattutto le elezioni suppletive con cui il Cavaliere potrebbe tornare in parlamento. A Renzi serve a dimostrare al Quirinale di averci provato e a trasferire un po' di problemi alla sinistra e a Pisapia: coalizione oppure no?
di Andrea Fabozzi
Partire parte, ma che arrivi a destinazione lo credono in pochi. Non molta fiducia accompagna quello che martedì prossimo diventerà il quarto testo base (in quattro mesi) di riforma delle leggi elettorali, stavolta con l’appoggio sulla carta di Pd, Forza Italia, Ap e Lega. Sulla carta, perché il regolamento della camera consente in aula i voti segreti che già hanno fermato il precedente tentativo sul sistema simil tedesco. E allora c’era tra i favorevoli anche il Movimento 5 Stelle, che adesso invece potrà scatenarsi nell’ostruzionismo. Favorito dal fatto che la legge non riuscirà ad arrivare in aula a settembre – dunque niente tempi contingentati a ottobre.
Tra gli emendamenti più a rischio quello per introdurre le preferenze: le liste bloccate sono in cima alle critiche dei contrari, anche di chi – come Articolo 1-Mdp – ha nostalgia del Mattarellum che prevedeva gli stessi listini. Così come consentiva alle coalizioni costruite nelle urne di spaccarsi in parlamento (ci sono passati sia il centrosinistra che il centrodestra), quelle che adesso i bersaniani chiamano «coalizioni farlocche».
Sono proprio le alleanze elettorali il cuore di questo «Rosatellum-bis» depositato ieri pomeriggio dal renziano Fiano. Tornano in grande stile, a dispetto di anni di «vocazione maggioritaria», con una mossa del Pd spiegabile solo con la tattica. La legge, infatti, se certamente penalizza i grillini, appare favorevole soprattutto per Berlusconi e al limite per un’aggregazione centrista. Per esempio prevedendo una soglia di sbarramento per le coalizioni (il 10%) più alta di quella per le liste solitarie (3%) che è un modo per far partecipare al computo dei voti anche i piccoli partiti coalizzati. Con Forza Italia (animalisti, o ultradestra) o con Alfano, nel caso dovesse mettere insieme un «polo» autonomo dal Pd.
LA COALIZIONE, ed è questa una forma di pressione del Pd su Pisapia (Orlando, soddisfatto, incontra oggi Speranza), sarà la stessa su tutto il territorio nazionale. Non è previsto però un «capo» unico della coalizione e neppure un simbolo: si lascia così spazio ai leader di partito nelle trattative per la guida del governo. E si favorisce la trasmissione del voto nei 231 collegi uninominali ai 386 proporzionali.
Resta il divieto di voto disgiunto, la novità è che i voti espressi solo barrando la casella con il nome del candidato uninominale, nel caso di coalizione, si ripartiranno tra le liste alleate proporzionalmente alla percentuale di ognuna. Un po’ come l’otto per mille nella dichiarazione dei redditi: chi non sceglie la destinazione favorisce la chiesa più grande. È un altro aiuto ai partiti più grandi, purché coalizzati (non M5S dunque). Il rischio è che a Pd e Forza Italia arriveranno tanti consensi extra da rendere insufficienti i candidati nel proporzionale (i listini sono di quattro nomi al massimo) un po’ come accadde nel 2001 a causa delle liste civetta. Solo che adesso la legge prevede un complicato sistema per coprire comunque i posti, anche assegnandoli in un’altra circoscrizione a un’altra lista. Persino lo scrutinio di queste nuove schede si annuncia complicato, lo provano le nuove disposizioni che allentano un po’ le maglie delle schede valide.
COMPLICATA sarà anche la definizione dei nuovi collegi: con l’eccezione dei 231 uninominali della camera (quelli del Mattarellum senato, vecchi di 25 anni) sono tutti da rifare. E chi vota la legge approva anche una delega al governo (Minniti) per disegnarli, ma in soli 30 giorni (altre volte erano 120) e accettando collegi molto grandi o molto piccoli, cioè che scartano dalla media nazionale della popolazione fino al 20%. Il precedente limite era il 10% e questa novità si spiega con il fatto che i pochi collegi uninominali del senato – 102 – dovranno essere disegnati senza varcare i confini regionali.
Nelle leggi elettorali sono sempre i dettagli a essere interessanti, e il Rosatellum bis ne nasconde altri due. Il primo è un evidente dispetto ai bersaniani, in base al quale saranno obbligate a raccogliere le firme per presentare le liste – non poche, circa 600mila – solo i partiti non rappresentati come gruppo in parlamento a gennaio 2017: Mdp si è costituito in febbraio. Il secondo è l’ennesimo gancio a Berlusconi. Il ritorno ai collegi uninominali dove chi vince vince sul serio (non era così nel «Tedeschellum») consente di recuperare l’istituto delle elezioni suppletive. Il cavaliere, si sa, molto difficilmente sarà candidabile nella primavera 2018. Ma se un deputato o un senatore di Forza Italia eletto nell’uninominale si dimettesse dopo la riabilitazione, ecco la strada spalancata per il ritorno in parlamento del leader di Arcore.
Sicuramente c’è anche questo dietro il primo via libera di Forza Italia, oltre alla dichiarata volontà di far scrivere la legge elettorale alle camere e non alla Consulta. E non (almeno in parte) al governo, con un decreto che nel caso di fallimento anche di questo tentativo riprenderebbe quota.
Se tutto crollasse, magari a causa dei franchi tiratori di Pd e Fi (come il «Tedeschellum») che hanno fatto i calcoli sulle loro convenienze personali, di certo non sarebbe un gran problema per Renzi. Che ha fatto confezionare una legge più favorevole a Berlusconi che a lui. Utile solo a trasferire un po’ di pressione alla sua sinistra (coalizzarsi oppure no?) e a dare l’impressione che il segretario Pd ci ha almeno provato.
Il Fatto 22.9.17
Il Rosatellum conviene solo a B. Suicidio Pd per l’inciucio futuro
La legge elettorale presentata ieri premia le coalizioni che hanno molte liste civetta: Berlusconi le ha, Renzi no. Fortemente penalizzato chi va da solo: 5 Stelle e sinistra
di Marco Palombi
Prima di inoltrarci nei dettagli conviene partire dal senso: il “Rosatellum 2.0” – la nuova proposta di legge elettorale depositata ieri dal Pd che porta il nome del capogruppo Ettore Rosato e piace anche ad alfaniani, Forza Italia e Lega – conviene solo al centrodestra e, in particolare, a Silvio Berlusconi; per il Pd è un mezzo suicidio basato sul rischioso calcolo di Renzi che in questo modo potrà restare il playmaker della prossima Grande Coalizione; i 5 Stelle e i bersaniani di Articolo 1 – Mdp sono fortemente penalizzati (effetto che certo non dispiace al solito Renzi).
E ora veniamo a come questo capolavoro politico prende forma tecnicamente. La nuova legge prevede l’elezione con sistema maggioritario (collegi uninominali) di oltre un terzo del Parlamento (231 deputati e 103 senatori, escluso il Trentino Alto Adige, che può continuare a fare caso a parte per la gioia della Südtiroler Volkspartei). I restanti due terzi si eleggono invece col proporzionale attraverso listini bloccati da 2 a 4 nomi (tecnicamente, dunque, trattasi di una caterva di “nominati”). La soglia di sbarramento, infine, è fissata al 3 per cento dei voti nazionali.
E qui c’è il capolavoro. Il Rosatellum 2.0, infatti, resuscita le coalizioni e lo fa con modalità che fanno ridere di gioia Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Intanto sono coalizioni false: non hanno simbolo, programma, né leader comune (ogni partito invece indica il suo “capo della forza politica”). Poi sono costruite attorno a quelle che potremmo definire “liste civetta”: al risultato totale, infatti, non concorre solo chi ottiene il 3%, ma chi supera l’1% (che con le ultime affluenze significa racimolare 300-350 mila voti in tutto il Paese). Questo meccanismo comporta un vantaggio straordinario per i grandi partiti delle coalizioni, specialmente quelli presenti su tutto il territorio nazionale: sono loro a conquistare i collegi maggioritari e sempre loro a beneficiare maggiormente dell’apporto di voti delle liste civetta.
E chi sta costruendo da mesi – accanto all’asse Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia – una serie di bad company elettorali? Silvio Berlusconi. L’ex Cavaliere, per dire, ieri mattina ha visto Enrico Zanetti e Mariano Rabino, i vertici di quel che resta di Scelta Civica, oggi accasati tra i “liberali” di Denis Verdini (tornato, per così dire, alla casa del padre). Ma non ci sono solo i verdiniani: c’è il partito animalista di Michela Brambilla, gli ex Dc coi voti tipo Fitto o Mastella; il gruppo parlamentare di Quagliariello e Augello (Idea); alfaniani in libera uscita e popolaristi europei d’ogni ordine e grado. Queste disponibilità vanno certo compensate a colpi di seggi sicuri, ma i posti, quando servono, si trovano.
Matteo Renzi, d’altra parte, ha passato gli ultimi quattro anni a distruggere la coalizione di centrosinistra e ora si troverebbe a doverne costruire una. Al Nazareno, ieri, ancora spiegavano che adesso Giuliano Pisapia si staccherà dai reprobi Bersani e D’Alema per fare la stampella (a sinistra) del Pd insieme ad Alternativa popolare di Alfano e forse a una cosa tipo la fu Rosa nel pugno (socialisti, radicali e altri cespugli). Un po’ pochino, ma il segretario dem spera che queste sigle portino abbastanza sangue alla coalizione da trasformare il Pd nel primo partito nel futuro Parlamento se non nelle urne: in questo caso, se pure non andasse a Palazzo Chigi, Renzi sarebbe comunque l’azionista di maggioranza del prossimo governo di Grande Coalizione.
Qual è, infatti, l’altro aspetto da sottolineare? Questo: che il Rosatellum non garantisce affatto che qualcuno vinca, anzi coi sondaggi attuali garantisce il contrario. Spiega Federico Fornaro, senatore di Mdp ed esperto di sistemi elettorali: “Il deprecato e inaccettabile Porcellum aveva almeno il pregio di garantire la governabilità: questo ne ha tutti i difetti senza neanche quel pregio”.
Un po’ da tecnico e un po’ da politico, Fornaro spiega anche perché il sistema è pensato per favorire i grandi partiti coalizzati penalizzando chi corre da solo (M5S e, appunto, sinistra): “Una forza politica che, avendo ottenuto un milione di voti, entrasse in Parlamento col 3% si ritroverebbe – detratti i collegi maggioritari, quelli esteri e del Trentino Alto Adige – ad avere 15-20 eletti tra Camera e Senato”.
In sostanza, Movimento 5 Stelle e Articolo 1 sono le vere vittime di questo sistema: entrambi non vogliono coalizzarsi e i primi rischiano pure di perdere in tutti i collegi uninominali contro le coalizioni. Un loro eventuale 30%, ammesso che ci arrivino, varrebbe non 300 parlamentari ma 175-180 al massimo, cioè meno del 20% delle future Camere.
Cosa rischia Renzi? È semplice: l’ex premier scommette che questo sistema – grazie all’aiuto che concede ai grandi partiti coalizzati – rafforzerà il Pd, ma anche Forza Italia (oggi data al 13-15%) abbastanza da reggere un governo di coalizione a guida dem (col solito Alfano o chi per lui). Problema: la bolla “politica” della finta coalizione di centrodestra potrebbe funzionare assai meglio di quanto pensi l’apprendista stregone di Rignano sull’Arno, finendo per regalare a Berlusconi la golden share sul governo.
Infine c’è la questione settentrionale, vitale per il Rosatellum 2.0, essendo l’unica su cui può cadere in Parlamento (l’idea del Pd è approvarlo alla Camera entro il 15 ottobre, prima che inizi l’iter della legge di Bilancio).
Perché è così importante? Per due motivi. Il primo: il Pd, a sondaggi attuali, avrà un drastico calo di eletti in tutte le regioni del Nord diventando un partito centro-meridionale. Il secondo: il successo del centrodestra al Nord rischia di gonfiare troppo la Lega rispetto a Forza Italia, non abbastanza forte ormai da riequilibrare il risultato coi voti del Sud. Sono rischi, ma d’altronde tutti i sistemi elettorali sono rischiosi quando non si hanno i voti.
Il Fatto 22.9.17
Patto tra mafia e politica: arrestato ex sindaco Pd
In manette Giuseppe Nicosia e indagato pure il successore Moscato per corruzione elettorale: a Vittoria, nel Ragusano, era la potente “Stidda” a decidere appalti e assunzioni
Patto tra mafia e politica: arrestato ex sindaco Pd
di Saul Caiae e Antonio Massari
La Stidda non ha preferenze e quando si tratta di elezioni è sempre sul cavallo vincente. Siamo a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove la Stidda è più “grossa” di Cosa Nostra: nel 2016 al ballottaggio restano le liste civiche di Giovanni Moscato e Francesco Aiello, e gli stiddari, secondo le accuse della Procura di Catania, dirottano i loro voti verso il primo.
L’attuale primo cittadino Moscato è indagato per corruzione elettorale: non appena eletto, scrive il gip, stabilizzava senza contratto indeterminato 60 dipendenti, che non ne avevano diritto, nella società che si occupa del servizio raccolta dei rifiuti. E in questo modo il sindaco “portava a compimento il progetto di stabilizzazione in cambio di voti, da prima convogliati all’elezione di Fabio Nicosia a consigliere comunale” e “poi dirottati in sede di ballottaggio” per la sua elezione.
L’accusa più grave, nell’inchiesta condotta dal Gico e dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza guidati dal generale Antonio Quintavalle, riguarda però i fratelli Fabio e Giuseppe Nicosia, esponenti del Pd locale e da ieri agli arresti domiciliari, accusati di scambio elettorale politico-mafioso con Venerando Lauretta e Giambattista Puccio, esponenti “apicali” del clan Carbonaro-Dominante riconducibile alla Stidda. La Procura guidata da Carmelo Zuccaro individua due intermediari tra clan e politica – Raffaele Giunta e Raffaele Di Pietro – sostenendo che Lauretta avrebbe ottenuto la promessa “dello sgombero di un edificio pubblico dove intendeva avviare un centro di assistenza per disabili”, mentre Puccio era interessato a una “illecita attività di smaltimento rifiuti condotta dal figlio” che consisteva nell’“indebito utilizzo di mezzi pubblici idoneo alla raccolta di rifiuti”.
Di Pietro infine era interessato alla stabilizzazione della sua situazione lavorativa all’interno della Tekra, già ottenuta da Giunta quando Giuseppe Nicosia era sindaco di Vittoria.
Nel 2016, peraltro, la lista “Nuove idee” che vedeva candidato al consiglio comunale Fabio Nicosia in appoggio al Pd, secondo l’accusa nasceva con una “molteplicità di false sottoscrizioni”. E proprio per raccogliere voti da convogliare su Fabio Nicosia che veniva promessa la stabilizzazione dei 60 dipendenti all’interno della società che si occupava di raccolta di rifiuti.
Però qualcosa va storto. L’“intermediario” Raffaele Giunta, che si era candidato per la lista di Nicosia, è costretto ad abbandonare la campagna elettorale: il collaboratore di giustizia Bruno Carbonaro lo accusa di aver “reperito armi per il clan Dominante-Carbonaro” e la notizia finisce sui giornali. A questo punto Giunta “si dedica esclusivamente a curare la campagna elettorale di Fabio Nicosia”. Ed è molto deluso perché nessuno del Pd, né locale né regionale, prende le sue difese. Si lamenta di aver fatto la campagna elettorale per oltre dieci anni per la Margherita e il Pd, sostenendo di aver portato voti anche all’attuale governatore siciliano Rosario Crocetta.
Non si può escludere che l’“intermediario” stia millantando, considerato che le sue affermazioni avvengono in un momento di rabbia per il silenzio al ritiro della sua candidatura. Resta il fatto che da ieri, dopo l’inchiesta della pm Valentina Sincero, iniziata dalle collaborazioni dei pentiti Rosario Avila e Biagio Gravina, il Pd ragusano è davvero nei guai. L’ex sindaco Giuseppe Nicosia e suo fratello Fabio, candidato nelle liste del centrosinistra, sono agli arresti domiciliari, così come il “procacciatore di voti” ed ex candidato Giunta, per i loro rapporti con la mafia locale. E anche l’opposizione, con l’attuale sindaco Moscato indagato per corruzione elettorale, sebbene non sia stato arrestato, dovrà fare i conti con l’inchiesta catanese.
Repubblica 22.9.17
Mafia, voto di scambio arrestato ex sindaco Pd aveva un patto col rivale
di Alessandra Ziniti
PALERMO. Le promesse agli operatori ecologici della Tekra, la società dello smaltimento dei rifiuti, andavano mantenute a tutti i costi. Troppo importante a Vittoria, la città del più grande mercato ortofrutticolo del Meridione, conservare l’esclusività del rapporto con quei settori in mano alla criminalità organizzata che controllano un ampio bacino elettorale. E così l’ex sindaco del Pd Giuseppe Nicosia e suo fratello Fabio, consigliere comunale e candidato in pectore nella lista del Megafono del governatore Crocetta per le prossime Regionali, rimasti fuori dal ballottaggio alle amministrative del 2016,pur di garantire quel patto criminale avrebbero addirittura convogliato i loro voti sul candidato del centrodestra, Giovanni Moscato che, con la sua elezione, ha posto fine a 70 anni di indiscusso dominio della sinistra a Vittoria. In cambio del sostegno elettorale degli avversari il neosindaco avrebbe assunto i 60 netturbini.
Un ex sindaco del Pd agli arresti domiciliari e il nuovo sindaco di centrodestra indagato. Appalti e posti di lavoro la merce di scambio di quel patto che, per dieci anni, secondo le indagini del Gico della Guardia di Finanza, avrebbe legato pezzi del Pd ai clan di Vittoria. Con l’accusa di voto di scambio politico mafioso, che si sarebbe perpetrato in tutte le tornate elettorali, amministrative, regionali e politiche, susseguitesi dal 2006 ad oggi, la Dda di Catania ha ottenuto dal gip gli arresti per l’ex sindaco Giuseppe Nicosia, per suo fratello Fabio e per altre quattro persone, trait d’union con le cosche, come Raffaele Giunta, anche lui candidato alle scorse comunali poi costretto al ritiro proprio per i suoi rapporti in chiaro con alcuni esponenti della Stidda.
L’attuale sindaco di destra è indagato per corruzione elettorale, un reato che — ha precisato il procuratore di Catania Zuccaro — non prevede l’arresto. Una interlocuzione costante, quella tra clan ed esponenti politici. «Farò chiarezza sulla mia posizione », promette il sindaco Moscato preannunciando una conferenza stampa per oggi. Il primo giro di boa dell’inchiesta arriva a poco più di un anno di distanza dagli avvisi di garanzia e dalle perquisizioni nei comitati elettorali di quasi tutti i candidati a sindaco nelle ultime amministrative, compreso l’uomo storico del Pci di Vittoria, il cinque volte sindaco, ex assessore regionale ed ex parlamentare Francesco Aiello che, a 70 anni, si era ricandidato alla guida del Comune di Vittoria. Per lui, che alle elezioni fu sconfitto al ballottaggio da Moscato, nessun provvedimento.
Il Fatto 22.9.17
Stati Uniti o Corea: chi è più canaglia?
di Massimo Fini
Il discorso di Trump alle Nazioni Unite è stato, come suo solito, bifido. Era partito bene, America first, “metterò sempre l’America al primo posto, esattamente come ciascuno di voi fa con il proprio Paese”. Bene, direbbe uno, Trump è ritornato al vecchio, anche se ormai molto antico, ‘isolazionismo’ americano. Ma quasi subito ha svoltato bruscamente negando di fatto questa affermazione: gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, gli altri Paesi, se i loro interessi contrastano con quelli yankee, no. Insomma America über alles in nome del loro autoproclamato ‘eccezionalismo’ (ma dove, ma quando?).
Donald Trump è riuscito a superare persino George W. Bush. Ha inserito nella lista nera degli ‘Stati canaglia’ il Venezuela, erede, con Cuba, del “fallimentare socialismo-comunismo” dell’Unione Sovietica, un regime “corrotto e destabilizzante” diretto da “un dittatore socialista” (il lettore ci darà atto che siamo stati i primi ad avvertire che il prossimo obiettivo Usa sarebbe stato il Paese sudamericano). Adesso uno Stato non può più nemmeno permettersi di essere socialista o, dio non voglia, addirittura comunista. In nome dell’‘eccezionalismo’ americano.
Nella minacciosa area degli ‘Stati canaglia’ viene ora reinserito il sempiterno Iran: “Una dittatura corrotta travestita da falsa democrazia, uno Stato canaglia che esporta violenza, stragi e caos, che finanzia gli Hezbollah e altri terroristi che attaccano i pacifici Paesi arabi e Israele”. In nome dell’‘eccezionalismo’ americano uno Stato non può essere teocratico, ha l’obbligo di essere democratico. Peccato che in Medio Oriente i pasdaran iraniani, sciiti, il cui terrorismo non è mai stato dimostrato, combattano al fianco degli americani contro l’Isis sunnita. Per la verità a combattere sono solo i pasdaran, i reparti speciali Usa se ne stanno ben al coperto (vedi mai che qualcuno si faccia male) limitandosi a indirizzare i bombardieri e i droni.
Corea del Nord. Verrebbe da ridere, se non fosse tragico, vedere un Tale seduto su un arsenale di 7.500 Bombe Atomiche che ne minaccia un altro che ne ha tre e vuole proseguire nel suo armamento nucleare. Se la questione fosse posta sul piano dei rapporti di forza non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma gli americani hanno la pretesa di metterla sul piano del diritto e per questo hanno ottenuto dall’Onu nuove, dure, sanzioni contro Kim Jong-un. Sulla base di quale diritto la Corea del Nord non può avere la Bomba e Israele, nel complice silenzio generale, sì, il Pakistan sì, l’India sì, il Sudafrica sì, mentre Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia quest’arma micidiale la posseggono praticamente da quando è stata inventata? È chiaro che a Kim Jong-un l’Atomica serve come deterrente perché lui e il suo Paese non facciano la fine dell’Iraq di Saddam Hussein e della Libia di Muhammar Gheddafi. Anche Kim potrebbe dire, legittimamente: “Korea first”.
In realtà i più preoccupati del bellicismo trumpiano, molto apprezzato da Israele, sono proprio gli alleati dell’‘amico americano’, in particolare gli abitanti della Corea del Sud. Perché sanno benissimo che se le cose si mettessero male sarebbero i primi ad andarci di mezzo. Anche perché hanno scoperto che gli armamenti e i missili con testata nucleare che gli Stati Uniti stanno ammassando ai confini della Corea del Nord non sono a corto ma a lungo raggio, cioè non hanno lo scopo di difendere la Corea del Sud ma di abbattere un eventuale missile che Kim lanciasse verso Guam o altri territori degli Stati Uniti (America first). Nelle scorse settimane ci sono state in Corea del Sud imponenti manifestazioni popolari contro il posizionamento di questo nuovo armamentario e anche il tentativo di bloccarne, senza ricorrere alla violenza, i rifornimenti militari. Alla guida di queste manifestazioni c’è la componente buddista, pacifista, della popolazione sudcoreana. In una bella inchiesta di Sky, l’inviato Pio D’Emilia chiede a una donna buddista, sulla quarantina, cosa pensi dei suoi vicini d’oltreconfine. “Non ho una cattiva opinione della Corea del Nord, in fondo siamo tutti coreani. In realtà siamo le vittime del gioco delle grandi potenze”.
Nel suo discorso alle Nazioni Unite Donald Trump ha anche demolito, di fatto, l’Onu e la sua funzione: l’Onu o è americana o non è. Non ne aveva bisogno. Ci avevano già pensato i suoi predecessori. Aveva cominciato il democratico Bill Clinton nel 1999 aggredendo, contro la volontà dell’Onu, la Serbia di Slobodan Milosevic, paracomunista, ma forse sarebbe meglio dire socialista, e comunque cristiana ortodossa, aveva proseguito George W. Bush nel 2003 invadendo e occupando l’Iraq, contro la volontà dell’Onu, e ha completato l’opera, per ora, Barack Obama concorrendo nel 2011, contro la volontà dell’Onu, a eliminare Gheddafi, disarticolando la Libia.
E, allora, chi è lo ‘Stato canaglia’?
il manifesto 22.9.17
Catalogna, il rischio balcanico
di Tommaso Di Francesco
Da quando in qua un processo referendario in un paese europeo, anche se sull’indipendenza, diventa un «problema» democratico?
Accade in Spagna, dove il governo Rajoy, ormai decisivo nella compagine dell’Unione europea, entra come un elefante dentro una cristalleria. Commissaria le finanze della Generalitat catalana, arresta i funzionari, sequestra materiale di propaganda e milioni di schede lettorali, minaccia centinaia di sindaci e i giornalisti, entrando con la polizia nelle redazioni dei giornali.
Gettando la maschera sulla realtà del processo democratico in corso che vede la restaurazione del Partito popolare, a fronte della diffusa, perfino forte, ma non unita e per questo impotente e non alternativa, sinistra spagnola. Che ora si trova anche di fronte ai contenuti di una rivendicazione indipendentista «di sinistra» che, seppure non si dichiari nazionalista, rischia di imitare tutte le modalità e gli sviluppi «balcanici» del nazionalismo.
Così, sull’obiettivo dell’indipendenza della nazione catalana, sembrano essere messe a tacere tutte le voci, come quelle di Podemos e della sindaca di Barcellona Ada Colau, capaci di rilanciare un «autonomismo per tutti», non storico-identitario ma politico e sociale.
Una rogna per la Spagna che si ritrova a dover fare i conti con la sua reale statualità, specchio della irrisolta crisi sociale, dopo l’uscita dal buio del franchismo e la Costituzione del 1978.
E dopo i recenti fallimenti per definire un sistema nazional-federale. Ma anche una rogna per l’Unione europea che ieri, per bocca del portavoce Margharitis Spinas ha ribadito seccamente: «Rispettiamo l’ordine costituzionale della Spagna come facciamo con tutti gli stati membri».
«La posizione risale al 2004 – ha aggiunto il portavoce – guida le nostre competenze e passa per il rispetto del quadro costituzionale e dell’ordine giuridico di ogni stato membro».
A Bruxelles dopo il disastro della secessione della Brexit pensavano forse che tra gli Stati rimasti fosse pace fatta. Ma è all’interno di ogni Paese che covano particolarità perfino più pericolose del populismo. Che, rilanciate contro la stessa idea di Europa unita, possono riesplodere ogni momento di fronte alla divisiva crisi economica.
È una questione nascosta solo dal nuovo autoritarismo di Stato che in Europa centrale tiene a freno, per esempio, la preoccupante questione magiara, fronte aperto tra Ungheria e Romania; o quella macedone, che insidia la Grecia.
E per favore, nessuno citi la secessione «di velluto» tanto apprezzata della Cecoslovacchia, decisa a tavolino, senza referendum popolare, dai due presidenti ceco, Havel, e slovacco Meciar: Alexander Dubcek morì in un incidente stradale, correndo da una città all’altra per impedirla.
E poi, perché quel che è giusto per gli Stati membri dell’Ue non dovrebbe essere valido anche per gli altri? Perché la Catalogna indipendente non va bene e invece è stato riconosciuto lo «Stato» del Kosovo, grande meno del Molise e con una indipendenza decisa unilateralmente e con la violenza?
Due pesi e due misure che hanno visto fin dalla nascita nel 1991-92 l’Unione europea riconoscere tranquillamente indipendenze proclamate su base etnica, come per la Slovenia – ora decisivo Paese Ue – e per la Croazia mentre ancora esisteva la Federazione jugoslava.
Un vizio d’origine che oggi torna d’attualità. E pesa come una spada di Damocle.
Non ci schieriamo certo con l’indipendenza catalana, ma tantomeno con la Spagna o con l’Unione europea che di fronte a questa crisi sembra balbettare e tacere. Mentre il rischio di introiettare i «Balcani» si apre come una voragine.
Corriere 22.9.17
«Madrid doveva mostrarsi più ferma Un compromesso non è possibile»
di Elisabetta Rosaspina
Il referendum del primo ottobre per la nascita della Repubblica indipendente di Catalogna non si farà, è convinto Fernando Savater; e, se il governo centrale si fosse mosso prima e con maggior fermezza, non si correrebbe ora il rischio di veder scorrere il sangue per le strade di Barcellona. Basco di nascita, professore di Etica, opinionista politico, autore di decine di testi filosofici e firmatario, con altri 400 accademici spagnoli, di un «manifesto sulla situazione in Catalogna», Savater sintetizza il senso dell’appello in cinque parole: «Che Madrid applichi la legge». Ma dal testo trapela inquietudine per il modo in cui il governo autonomo ha alimentato «il fondamentalismo di un inesistente diritto a decidere» fino a «spaccare la società catalana e impedire l’esercizio dei diritti delle minoranze parlamentari, mettendo a rischio la convivenza e la pace civile».
Professor Savater, non c’era modo di evitare di arrivare a questo punto?
«Certo. Ma il governo centrale è stato inerte per cinque anni. Non ha fatto rispettare la Costituzione e ha adottato contromisure minime, insufficienti a impedire questa aggressione alla democrazia. Ha lasciato correre, sperando che il problema si sarebbe risolto da solo, mentre l’indipendentismo è andato crescendo».
E come si sarebbe potuto risolvere da solo?
«A differenza dei baschi, i catalani hanno fama di essere commercianti, gente ragionevole, moderata, disposta a scendere a patti. C’era l’idea, errata, che la questione sarebbe rimasta lì sul tavolo, senza andare oltre la discussione».
Nonostante gli indipendentisti siano arrivati al 48% alle ultime elezioni? Non era un campanello d’allarme?
«I partiti indipendentisti non hanno necessariamente l’indipendenza nel loro programma. Il Pnv (Partito nazionalista basco, ndr ) è un esempio. L’indipendenza è per molti di loro soltanto un luogo meraviglioso, come il cielo per i cattolici. Il guaio è che il governo catalano sia finito in mano a una minoranza estremista come la Cup (Candidatura di unità popolare)».
Il governo catalano sostiene di aver cercato invano un compromesso con Madrid.
«Un compromesso con che cosa? Bisogna chiedere a tutti gli spagnoli se sono d’accordo con l’indipendenza della Catalogna. E, prima ancora, se vogliono un referendum. Non è possibile che gli abitanti di una nazione si dividano il territorio a loro piacimento. Sarebbe come se i texani decidessero di staccarsi dagli Stati Uniti perché si ritengono differenti dai cittadini della federazione».
L’ondata di arresti, il sequestro delle schede elettorali non stanno dando una grossa mano alla campagna referendaria?
«Si sente dire, ma non è vero. Nel Paese Basco si sosteneva che, se fosse stata arrestata la direzione di Batasuna (partito messo fuori legge nel 2013 perché ritenuto il braccio politico dell’Eta, ndr ), si sarebbe scatenato l’inferno. È stato fatto, e l’Eta ha finito di uccidere. Madrid applichi seriamente la legge e smetta di dare tanti soldi alla Catalogna».
Tanti soldi?
«Sì, la Catalogna è la regione più indebitata di Spagna, con 75 miliardi di euro. Riceve il doppio o il triplo degli investimenti concessi ad altre regioni».
Si può arrivare a una soluzione senza umiliare una delle due parti in causa?
«No, non si può: l’umiliazione dei secessionisti è un momento di pedagogia, perché ciò che fanno è incompatibile con la democrazia. Bisogna portarli in tribunale e in carcere perché non si ripeta più».
Il ministro catalano Raül Romeva si è paragonato a Rosa Parks, che sedendosi in un posto riservato ai bianchi cambiò la storia americana.
«Se a Barcellona ci fosse Rosa Parks parlerebbe castigliano nelle scuole. Non esiste Paese in Europa dove non si possano educare i propri figli nella lingua ufficiale».
L’Europa dovrebbe prendere posizione?
«Sì, se vuole evitare ripercussioni. Difendere le leggi dello Stato spagnolo è difendere l’Unione Europea. Oggi è la Catalogna, domani saranno la Padania, il Veneto o la Corsica. Vogliamo un’Europa delle tribù?».
C’è da temere che la situazione degeneri nelle piazze?
«La Guardia Civil ha ricevuto ordine di non reagire, di non difendersi, di mantenere un profilo bassissimo. Ma se c’è un atto di violenza per qualcuno può finire male».
Il Fatto 22.9.17
“I profughi fanno paura, AfD lo ha capito”
Giovanni De Lorenzo - Il direttore dello Zeit: “La destra radicale e razzista tornerà in Parlamento”
“I profughi fanno paura, AfD lo ha capito”
di Andrea Valdambrini
Giovanni Di Lorenzo, giornalista italo-tedesco, è dal 2004 direttore del settimanale Die Zeit, uno tra i più importanti e letti del Paese.
Perché queste elezioni sono importanti?
Potrebbero rappresentare una cesura, intanto perché per la prima volta avremo in parlamento un partito, in parte, radicale di destra: Alternative für Deutschland (AfD). Proprio attraverso questa campagna elettorale, AfD si è rivelato revisionista, razzista, ha usato toni molto rudi come non eravamo abituati da tempo. Inoltre perché potremmo assistere a un minimo storico o addirittura a una disfatta del partito socialdemocratico Spd. Infine, perché potrebbe essere la fine della Grosse Koalition e invece l’inizio di una nuova coalizione con Liberali o Verdi, o forse entrambi. In ogni caso, lunedì sarà il primo giorno in cui si inizierà a discutere della successione di Angela Merkel.
Martin Schulz non è riuscito a convincere gli elettori di sinistra. Mancanza di leadership o abilità politica della Cancelliera?
Certo non sarà lui a guidare il prossimo governo. Schulz ha fatto certo tutto il possibile, però contro Merkel nessuno avrebbe avuto una chance di vincere. In una situazione di forte insicurezza internazionale, la gente tende a rimanere legata all’assetto politico stabile e in vigore. Così la Spd è stata schiacciata dalla Merkel, che ormai non fa più paura a nessun socialdemocratico, anzi. Inoltre, la sinistra ha puntato molto sul tema della giustizia sociale, ma non è sembrata credibile: gli elettori hanno ancora in mente l’agenda riformista di Gerard Schroeder. Un ultimo elemento che non ha giovato alla Spd è stato quello di non aver visto come il loro elettorato era spaventato dall’arrivo dei profughi. Gabriel si è corretto, ha parlato di “pensare ai tedeschi”, ma troppo tardi.
AfD è accreditato di circa il 10%: il rovescio della medaglia di alcune politiche troppo progressiste di Angela Merkel?
Posto che i sondaggi non sempre mostrano i voti reali, è probabile che AfD diventi terzo partito, con grande possibilità di retribuzione finanziaria e diritto a presiedere a commissioni importanti. È colpa del fatto che, durante la crisi dei profughi, non c’è stata una voce che abbia espresso idee chiare. E lì qualcosa è cambiato nel panorama politico tedesco. Tutte le grandi decisioni di Merkel sono state prese senza consenso dell’elettorato. Eccesso di centrismo e mancanza di dibattito sono le sue maggiori colpe.
Quali sono le priorità del prossimo, probabile, quarto mandato della leader Cdu?
Il più importante progetto è… Angela Merkel. Una battuta, certo, ma scherzando si potrebbe osservare come la Germania non è abbastanza pronta per essere guidata di nuovo da un uomo. Infatti molti, soprattutto i più giovani, non ricordano Berlino senza la Cancelliera.
Merkel è l’anti-Trump?
Non solo nello stile, ma soprattutto nel concepire la politica sono agli antipodi: per lei è importante essere al centro, trovare la misura, arrivare a un accordo tra le parti nell’interesse di tutti. L’inverso di America First, che poi significa soprattutto Trump First.
Repubblica 22.9.17
Una giornata con i volontari del partito di Schulz “A Berlino si sorprendono di vederci, ma quasi tutti ci incoraggiano”
L’ultima carta Spd il porta a porta nell’era dei social
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO. La porta si chiude con un rumore ovattato ma Axel Flasbarth non ha fatto in tempo di finire la frase. Si gira imbarazzato, «peccato», mormora, gli restano in mano il volantino e la penna rossa che avrebbe voluto regalare all’inquilino sgarbato. Scendiamo di un piano, e il copione cambia. Axel suona un campanello per la quattordicesima volta in dieci minuti. Si sentono risate di bambini, lui fruga velocemente nel sacchetto di stoffa della Spd e tira fuori due caramelle. «Buonasera », sorride, quando una mamma dall’aria trafelata gli apre la porta, «siamo della Spd e volevamo darle qualche informazione sulle elezioni di domenica. Intanto, per favore, vorrei dirle che è importante che lei vada a votare ». Mentre le sta allungando il volantino, le caramelle e la penna, la donna lo interrompe: «Guardi che ho già votato per posta. Però grazie, sono contenta che vi impegnate così».
Axel annuisce, ringrazia, «arrivederci ». Ha 45 anni, lavora in una start-up e milita nella Spd da tempo immemore. A Tilmann Haeussler, che ha sedici anni di meno, spetta il pianerottolo successivo. Ai due sono state affidate alcune strade del centro di Berlino per due ore, alle otto devono aver suonato a tutti. Sono volontari, ma l’organizzazione è teutonica. Alla porta successiva apre un signore di mezz’età con aria di sfida. Lascia finire Tilman, poi il sorrisino ironico si allarga a un ghigno: «Ma ce la fate? No vero? ». Tilman si schiarisce la voce, biascica un «buonasera, grazie», si rimette le caramelle in tasca. Ma le caramelle?, chiediamo, inseguendo i due per le scale. «Dunque. Ai bambini diamo le caramelle e dolci. Quando mettiamo lo stand informativo all’università, distribuiamo preservativi, succo d’arancia e tappi per le orecchie». Tappi per le orecchie? «Sì, per la biblioteca. Vanno a ruba».
La campagna “porta a porta” della Spd non è solo una questione di piedi, ma di cuore. Ha una storia antica e nell’era di internet e Facebook, delle fake news, del quarto d’ora di notorietà concesso a chiunque, non è affatto banale. Per farci un’idea di come funzioni, abbiamo contattato Christian Gammelin, ventisei anni, militante socialdemocratico da quando andava a scuola. «Io credo nei valori della Spd e penso che abbiamo le idee migliori per governare questo Paese in modo solidale e giusto», ci dice a mo’ di benvenuto, stringendoci la mano. Altissimo, due spalle enormi, ride poco ma ha un entusiasmo contagioso. Nell’era delle campagne di odio, dell’antipolitica eretta a vessillo anche di chi sta nella politica da anni, Christian è una boccata d’aria. E quella del più antico partito socialdemocratico potrà sembrare una campagna anacronistica in un momento disperato, ma secondo i volontari funziona.
Christian ha una sensazione negativa, ovviamente, in vista delle elezioni di domenica - la Spd è data al 20-22%, rischia di incassare il peggior risultato della storia - ma a parte un signore che li ha rincorsi per le scale il giorno prima per cacciarli dal palazzo, racconta che in queste strade della “rossa” Berlino è difficile fare esperienze troppo traumatiche. Lo schema dei volontari è che al “porta a porta” si dedicano tre pomeriggi a settimana e che bisogna convincere la gente, intanto, ad andare a votare.
Il giurista ventiseienne è responsabile di un’area di un quartiere centrale della capitale, e il porta a porta funziona rigorosamente dalle 17,45 alle 20, per intercettare chi viene dal lavoro ma senza creare scocciature troppo tardi. Insieme ad Axel, Tilmann e Max Glass ci siamo dati appuntamento in un luogo, poi i quattro si dividono in due e setacciano le strade portone per portone. Tilmann racconta che cosa lo motiva a fare una campagna che molti definirebbero di un’altra epoca. «Lei non ha idea della gente che ci dice che è contenta che li andiamo a cercare personalmente. Ovvio che capitano quelli che si lamentano, che ci attaccano delle lagne o ci odiano palesemente. Ma tanti sono piacevolmente sorpresi quando ci vedono».
Max Glass, capelli biondi sparati in su, ha appena diciott’anni. Quando aprono la porta, tanti sorridono vedendo un militante così giovane. Ma lui, che abita in un quartiere borghesissimo come Charlottenburg, è spaventato da quello che vede a scuola. «Il 30-40% di quelli del mio liceo e che potrebbero votare domenica la prima volta, non lo faranno. A diciott’anni credono già di sapere che nessun partito rappresenta i loro interessi. Perciò io sono qui. Perché gli stand informativi in giro per le piazze o i post su facebook non bastano affatto. Ci va gente che ha già un minimo di curiosità; invece è importante andare a cercare quelli che non votano, che si sentono abbandonati dalla politica. Quelli che ci guardano con le sopracciglia aggrottate, quando aprono la porta. E ci salutano con un sorriso, quando ce ne andiamo».
“Lei non ha idea della gente che ci dice che è contenta che li andiamo a cercare personalmente” “Allo stand all’università, distribuiamo preservativi, succo d’arancia e tappi per le orecchie”
La Stampa 22.9.17
L’estrema destra cresce in silenzio
La sorpresa dell’ultima ora per Merkel
A Monaco i segnali dell’avanzata: l’AfD tiene comizi nascosti e soffia sulle paure Gli analisti: molti che sono stati esclusi dalla crescita guardano a loro
di Francesca Sforza
Ogni tanto qualcuno cade a terra, interrompendo il corso del lungo fiume di persone che seguono le frecce di vernice bianca sul marciapiede, con su scritta l’indicazione «Oktoberfest». Succede, se si comincia a bere dal mattino, così come è frequente che la massa umana, a Monaco, a forza di ridere, spintonarsi e barcollare, assuma un’andatura oscillante, e vista di spalle, con i pantaloncini corti in pelle traforata e gli abiti femminili stretti in vita su tessuti quadrettati e pizzi di foggia tradizionale, sembri una grande, e un po’ inquietante, danza popolare.
Ma cosa balla davvero nel cuore della Baviera, che con i suoi 568 miliardi di euro ha lo stesso prodotto interno lordo di tutta l’Argentina?
I primi a chiederselo sono i vertici della Csu, sorella bavarese della Cdu, il partito della cancelliera, che a tre giorni dal voto non nascondono la loro preoccupazione: il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) è forte, molto più forte di quanto i sondaggi non intercettino. «Abbiamo paura che arrivi al 20 per cento», ci hanno detto diversi rappresentanti del primo partito bavarese pregando di spegnere il registratore e posare il taccuino.
Non è come per i Länder dell’Est, dove gli estremisti di AfD puntano su un mix di disagio, scontento e invidia sociale nei confronti dell’Ovest più ricco e arrogante. Qui la strategia è diversa, e si riassume in un paio di slogan elettorali che campeggiano per le strade nella periferia di Monaco: «Chi vota Csu, poi si ritrova la Merkel», o anche «Franz Joseph Strauss (mitico e indimenticato governatore della Baviera) oggi voterebbe AfD». Niente a che vedere con Hitler e con le nostalgie neonazi - che pure in origine vengono proprio da queste verdi valli -. Qui l’AfD punta all’elettore anziano della Csu, quello della prima ora, quello che da sempre vede in Frau Merkel un’estranea, e nei migranti dei nemici. E se i partiti tradizionali scelgono le facili adunate nelle birrerie dell’Oktoberfest, i candidati dell’AfD si mettono a parlare all’interno di locali improvvisati in periferia, nei presidi sanitari - un paziente di Stoccarda è finito nelle cronache locali per aver dimostrato il proprio dissenso: «Non voglio andare dal medico e trovarmi in un covo di estremisti».
Sono comizi volanti, che si sciolgono così come si sono assembrati, di cui giornali e tv non parlano, ma che ci sono, lasciano una scia amara e forse profonda. «È vero che da quando ci sono così tanti stranieri i reati di molestie e abusi nei confronti delle donne sono aumentati?», chiede la conduttrice del Tg della sera sulla «Bayerischer Rundfunk» al sovrintendente alla sicurezza regionale. «Beh, sì, il numero dei reati sessuali da parte di stranieri è all’incirca raddoppiato - è stata la risposta -, anche se certo questo dipende anche dal fatto che ci sono in generale più stranieri che in passato».
Secondo gli ultimi sondaggi l’umore in Baviera è molto polarizzato: il 37 per cento considera i migranti un’opportunità, e un’analoga percentuale li trova indesiderabili. È chiaro che l’AfD punta a scalare la seconda cima, e lo fa con il richiamo a quei «valori identitari», che sono stati da sempre patrimonio elettorale della Csu.
E poi ci sono gli astenuti, un partito-ombra che alle ultime elezioni prese il 28,5 per cento. Oggi quegli stessi non votanti potrebbero essere trascinati a destra: «C’è una discreta fetta di popolazione - dice Sigrid Rossteutscher, politologa a Norimberga - che non ha partecipato alla crescita degli ultimi quindici anni, e che per questo è frustrata, distante, delusa».
I politici faticano ad avvicinarsi a queste realtà, perché al fondo pensano che l’astenuto sia una causa persa, e quindi lasciano che ai bordi delle grandi città crescano sempre nuovi non-elettori. «Ancora più grave – dice Michael Kaendig, docente di diritto a Monaco – è quando rimangono vittima del disinteresse le giovani generazioni, in particolare figli di stranieri, perché allora rischiano di perdere l’orientamento». Martin B., addetto in un negozio di componenti tecnologiche vicino alla stazione centrale di Monaco, racconta stupefatto di essersi trovato a cena con sei amici turchi (di seconda generazione) che voteranno tutti per l’AfD: «Capisce? Se anche i turchi votano per loro...».
C’entra sicuramente la posizione assunta dall’Spd nei confronti di Erdogan, ma il salto dal bacino socialdemocratico a quello inesplorato dei populisti di estrema destra fa riflettere. All’ultimo dibattito tra i candidati locali prima del voto, nella popolare trasmissione Muenchner Runde, il candidato dell’AfD non c’era. C’era quello della Csu, quello dell’Spd, la candidata verde Claudia Roth, persino il candidato del partito di sinistra Linke (che in Baviera si aggira intorno al 3 per cento dei consensi). Il rischio è che domenica si presentino in troppi, anche senza invito.
La Stampa 22 .9.17
Giochi di guerra in Europa
Se l’incubo del ministro della Difesa lituano diventasse realtà, sarebbe qui, tra le fitte foreste di pini e betulle del corridoio di Suwałki, che Putin farebbe il primo passo per «riprendersi i Baltici».
di Monica Perosino
Qui, oggi, lungo i 104 chilometri che collegano via terra l’enclave russa di Kaliningrad e l’alleata Bielorussia, si vedrebbero dispiegate le truppe meccanizzate di Mosca, a chiudere l’unica via d’accesso - e di rifornimento - dell’Unione europea alle tre repubbliche baltiche, che così rimarrebbero fatalmente isolate. L’occasione perfetta per ammassare truppe pronte a chiudere il corridoio con un cordone impenetrabile dal Mar Baltico a Minsk, secondo le intelligence lituana, lettone ed estone, è Zapad, la più imponente esercitazione militare russa dalla fine della Guerra fredda, che per una settimana ha causato brividi alle repubbliche ex sovietiche e uno stato di «vigile allerta» nei comandi Nato. «Useranno le esercitazioni come copertura - dice il ministro della Difesa di Vilnius, Raimundas Karoblis - per lasciare a Kaliningrad e in Bielorussia un dispiegamento permanente di truppe e mezzi».
Ed è così che la prima vittoria sul campo - diplomatico - l’ha portata a casa Mosca, che con il suo sfoggio muscolare lungo i confini di Lettonia, Lituania ed Estonia, e la costruzione di basi di lancio permanenti per missili a medio raggio a Kaliningrad, ha scosso l’imperturbabilità dell’fronte Est dell’Alleanza e allo stesso tempo ha messo pressione a Svezia e Finlandia. A Vilnius la paura di un’«invasione» è tangibile: «Abbiamo paura, sì, certo che abbiamo paura - dice Karoblis -. Abbiamo visto come sono andate le cose in Georgia, e poi in Crimea, sappiamo bene cosa sia una guerra ibrida e come la sappiano fare bene». Negli ultimi mesi, oltre alle violazioni degli spazi aerei da parte dei caccia russi - «test per valutare i tempi di reazione Nato» -, sono aumentati i cyber attacchi e la propaganda si è fatta più aggressiva: «I russi iniziano a dire che il nostro porto sul Baltico, Kalipeda, è un regalo di Stalin alla Lituania, esattamente come dicevano che la Crimea era un regalo di Krushev all’Ucraina».
Se l’incubo del ministro della Difesa lituano diventasse realtà, sarebbe Kybartaidi, l’ultimo centro abitato lituano sul «corridoio» prima del blindatissimo confine con Kaliningrad, a essere «invasa». Meno di cinquemila anime, un’unica strada su cui si affacciano basse casette di legno, e il nodo ferroviario di quel «treno fantasma», che tanto ha preoccupato gli osservatori internazionali, il convoglio blindato che dall’oblast russo arriva fino a Minsk e a San Pietroburgo. «Ogni tanto sentiamo i cannoni», racconta Jola Reza, contadina, che oggi, incurante del freddo e della pioggia battente, è venuta in città a vendere bacche rosse e mirtilli sul ciglio della strada. «Qui non c’è niente da prendere, perché vorrebbero farci la guerra? Ma un po’ di paura c’è». Il nipote di Jola è soldato: «Lui dice di stare tranquilla, che sappiamo difenderci».
A Vilnius, nel quartier generale dell’Nfiu (Nato Force Integration Unit), il comandante colonnello Jakob Sogard Larsen ripete come un mantra due parole: «prevenzione», «forza deterrente». «Il nostro messaggio alla Russia è chiaro - dice -: noi siamo uno per tutti, tutti per uno». Il comandante si riferisce alla forza multinazionale impegnata nell’Nfiu: «Attaccare un singolo Paese significherebbe attaccare tutti quelli dell’Alleanza, non credo il gioco valga la candela». Zapad - secondo le fonti ufficiali - ha coinvolto 12.700 militari, meno quindi dei 13 mila oltre ai quali è necessario, secondo la convenzione di Vienna, invitare osservatori internazionali. Ma secondo diverse fonti di intelligence i soldati sarebbero almeno 100.000. Larsen non vuole confermare i numeri, ma chiede: «Non le sembra strano, in 17 anni la Russia non ha mai invitato osservatori internazionali, l’ha fatto questa volta, ma indicando un giorno e un luogo preciso in cui potevano andare». L’«evento», sotto gli occhi della crema della stampa straniera, si è celebrato martedì al poligono Luzhsky (Leningrado) al cospetto dello stesso Putin.
«Mosca lancia un messaggio, la Nato ne lancia un altro: rappresentiamo 29 Nazioni, l’alleanza più forte al mondo. Non abbiamo intenzione di attaccare nessuno, ma siamo come una famiglia, e se qualcuno ne aggredisce un membro lo difenderemo». L’Alleanza usa la deterrenza dell’articolo 5, Putin rilancia con i numeri: nell’ultimo anno oltre 60.000 soldati sono stati impegnati in 50 esercitazioni militari dei Paesi occidentali vicino ai confini russi.
Siamo ai messaggi e alle risposte da una parte all’altra dei confini, come due pugili sul ring che, per ora, si studiano e si provocano, sempre più vicini. Siamo anche alle manovre e contromanovre militari. Mentre Putin e Zapad pretendono l’attenzione totale, più a Sud, dove l’Europa e la Federazione russa si sfiorano, quindici Paesi si esercitano in Ucraina, mentre la Polonia, a fine settembre, inizierà «Dragon» (17.000 soldati) e la Svezia - che non fa parte dell’Alleanza - porta avanti le sue più vaste esercitazioni militari degli ultimi 23 anni, alle quali parteciperanno anche gli Usa e alcuni Paesi della Nato cosa che, come ha detto il ministro della Difesa Peter Hultqvist, è già da sola «una dichiarazione di intenti». Putin non ha mancato di avvisare Stoccolma: se la Svezia entrerà nella Nato «cambieremo strategia nei sui confronti».
A Rukla c’è uno dei 4 battaglioni multinazionali (tre sono nei Baltici, uno in Polonia) composto da 1000 soldati, 500 mezzi. Sono i «boots on the ground» dell’Alleanza in Lituania. «Se attaccassero il corridoio di Suwałki saremmo lì in poche ore - assicura il capitano della brigata Iron Wolfe, Povilionis -. Ma ora non muoviamo un dito, non vogliamo provocare Putin». La «breccia» tra Lituania e Polonia è uno dei punti caldi su cui si concentra la Nato: «Suwałki è fondamentale - spiega Checco Tosato, analista militare del Centro Studi Internazionali -, essendo l’unica strada percorribile, visto che la via marina è preclusa dall’ipermilitarizzata Gotland».
«Con Zapad Mosca ci sta mandando un chiaro messaggio - spiega il maggiore Martijn Pothuizen - e anche noi ne stiamo mandando uno, che la Nato è forte». A Rukla tutti concordano: Putin non vuole un’altra Crimea, per ora. «Ma la situazione è delicatissima - aggiunge Pothuizen -. La storia ci insegna che quando si mettono imponenti forze armate una vicino all’altra può succedere qualsiasi cosa: basta un errore, è sufficiente che un tank superi un confine perché la situazione precipiti. Spero che i ragazzi laggiù, sia i russi sia i nostri, non perdano la calma. Che abbiano sempre ben chiaro che le guerre sono un disastro sociale irrimediabile».
il manifesto 22.9.17
Parade, il sipario di Picasso
Mostre. La grande tenda, dipinta dall'artista spagnolo a Roma per il celebre balletto russo di Djagilev è a Palazzo Barberini, come biglietto da visita per la rassegna dedicata al pittore alle Scuderie del Quirinale
di Arianna Di Genova
Sopra, nella grande sala di Palazzo Barberini c’è un roboante cielo affrescato da Pietro da Cortona. Ad altezza d’uomo, c’è invece quel sipario dipinto da Pablo Picasso proprio a Roma nel 1917 per Parade, la rivoluzionaria messa in scena dei Balletti Russi di Djagilev. Una sintesi visiva che fa esplodere insieme diversi linguaggi – dalla danza fino alla pubblicità, la letteratura e, naturalmente, il circo.
Opera maestosa, destinata a fare da «ouverture» a uno degli spettacoli che cambiarono il modo di stare a teatro – quel Parade che sfruttò l’incontro di personalità irripetibili, l’impresario Djagilev, il poeta Apollinaire, lo scrittore Cocteau, il musicista Satie, il danzatore e coreografo Massine, oltre al pittore spagnolo (che a Roma finirà engagé con una ballerina russa della compagnia, Ol’ga Stepanivna Khochlova, divenuta poi sua moglie) – è anche una prima avvisaglia del ritorno imperioso al classicismo e dell’abbandono della furia iconoclasta di matrice cubista.
SE SI ESCLUDE l’affastellamento dei soggetti, la mescolanza dei punti di vista che rimane intatta, data per acquisita, Picasso in questo «rideau» – sorta di tenda dipinta che stava dietro al sipario vero e proprio del teatro – gioca con la finzione spaziale (è quasi una scatola prospettica) e congela un momento di riposo di alcuni saltimbanchi con i loro animali, attenendosi al canovaccio «cucito» da Cocteau per il balletto.
Vaga tra i miti, torna sui suoi Arlecchini e inserisce anche un souvenir di un recente viaggio a Pompei (sullo sfondo, ruderi romani e un vulcano), placando l’ansia che destrutturava ogni forma in una ricomposizione a tema, dal sapore incantato. Quasi il contrario di ciò che sarà poi, una volta aperto il vero sipario, l’adrenalinico balletto russo (che quando andò in scena al Théâtre du Châtelet di Parigi, il 18 maggio del 1917, suscitò l’ira del pubblico, tranne quella di uno spettatore: Marcel Proust).
Grande circa 16 metri per 11, esposto già a Napoli prima della tappa romana, quel Parade dipinto fa da biglietto da visita alla mostra presso le Scuderie del Quirinale Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925, dove si raccolgono un centinaio di capolavori, scelti dal curatore Olivier Berggruen, in collaborazione con Anunciata von Liechtenstein.
L’ICONOGRAFIA è molto particolare: Picasso usa gli attrezzi circensi – dalla sfera alla scala – per arrampicarsi verso mondi sconosciuti, così come la Scala paradisi fin dall’epoca bizantina illustrava l’ascesa delle anime e il progredire spirituale. Ma il malagueño, abituato a una stretta frequentazione con acrobati e gente da fiera, inverte la marcia e piazza alla sommità dei pioli una scimmia, imago diaboli.
C’è anche l’amato Arlecchino a fare da spartiacque, d’altronde era lui un tempo il guardiano del regno dei morti. Il suo è un sogno a occhi aperti pronto a trasformarsi in un incubo, raccontando l’eterna lotta tra il bene e il male, da cui gli artisti si tirano fuori.
Repubblica 222.9.17
Il vento della psichiatria
Dracula
La vera storia del vampiro prima di diventare il principe della notte
“È un personaggio che mette insieme le paure dei bambini con quelle che assillano gli adulti”
J.D.Barker sta scrivendo un prequel del romanzo di Bram Stoker insieme all’erede dell’autore irlandese Compaiono le creature che ispirarono lo scrittore. Il quale ai morti non-morti credeva
di Susanna Nirenstein
A fine Ottocento, tra le nebbie di Londra, un vortice avvolse una serie di geniali outsider arrivati nella capitale: il vento della psichiatria aveva iniziato a lambire anche le coste britanniche e a toccare le anime più inquiete: il tema del doppio si impose a Stevenson (“Lo strano caso del Dr Jeckyll e Mr Hyde”), a Henry James (“Giro di vite”), a Oscar Wilde (“Ritratto di Dorian Gray”). L’incrocio di quella tensione con quella per il razionalismo scientifico da un lato e il mito di sapore gotico dall’altro influenzò anche Bram Stoker e la nascita del suo “Dracula” nel 1896, immortale icona del male che l’uomo deve sconfiggere dentro e fuori di sé, dell’abbraccio tra eros e tanatos, della tradizione millenaria del
non-morto che sopravvive succhiando sangue umano, capolavoro moderno capace di trasporsi in mille facce nel cinema, per approdare nel nostro immaginario con i mille Twilight.
Ma tra poco potremmo sapere qualcosa di più del principe dei vampiri: J.D.Barker, autore americano classe 1971 di horror/detective/ science fiction di cui sta uscendo in Italia un ottimo thriller — La quarta scimmia — sta scrivendone il prequel insieme al pronipote di Stoker, Drake. Intitolato Dracul, il romanzo, collocato nel 1868, vede il giovane Bram incontrare alcune delle creature di cui avrebbe scritto. Dovrebbe uscire nel 2018 e radicarsi nel primo progetto di Stoker: dall’originale infatti l’editore aveva tagliato 101 pagine iniziali, alcune delle quali sono poi riapparse. Unite alle note e ai diari in possesso della famiglia, alle innumerevoli biografie esistenti, al possibile genio degli autori, dovrebbero portare alla ricostruzione degli eventi nella gioventù di Stoker che l’hanno portato a scrivere Dracula, compreso l’incontro con un impossibile essere malefico che Bram riesce a chiudere in un’antica torre. Un prequel insomma, già acquistato dalla Paramount per un film, pensato come se i demoni di Stoker fossero stati veri.
Per uno scrittore come J.D.Barker, il salto nel terrore e nell’alta tensione non è difficile. La sua «mente meravigliosamente deviata » — definizione di Jefferey Deaver — ha appena partorito questo La quarta scimmia (già opzionato da cinema e tv), dove un serial killer dall’infanzia pulp manda in giro per la città scatole bianche dal fiocco nero con dentro orecchie, occhi, lingua delle sue vittime».
Mr Barker, pezzi di corpi spediti per posta, eserciti di topi che mangiano uomini, un bambino dalla mente diabolica, una squadra affiatata di poliziotti: nel suo romanzo c’è tutto questo e di più. Quali sono gli elementi necessari a un buon thriller?
«Il mio filo rosso è la suspense. Ho scritto horror, thriller, fantasy, fantascienza, ho lavorato perfino su un western. Ma tutto quel che voglio è raccontare una buona storia e intrattenere le persone, aiutarle a dimenticare il mondo reale e a perdersi nella fiction. Prima di cominciare voglio conoscere bene i miei personaggi. Sapere perfino quanto zucchero mettono nel caffè. Progetto gli snodi più importanti, ma non l’intero romanzo. Lascio ai protagonisti raccontare la storia. Stephen King una volta ha detto che se lui non sa dove la vicenda va a parare, non lo immaginerà nemmeno il lettore. Aveva ragione».
Meglio l’horror o il thriller?
«Mi piacciono libri di tutti i generi. Sto scrivendo un romanzo che si ispira a Grandi speranze di Dickens. Amo Stephen King, Dean Koontz, Lee Child... Leggo classici e best seller, non vado da nessuna parte senza un libro».
Come ci si sente a dover scrivere il prequel di Dracula?
«È stato il primo libro “da adul- ti” che lessi da bambino. Sono onoratissimo. E sono stato fortunato da aver visto gli appunti e i diari di Bram Stoker (anche il manoscritto che Paul Allen, il cofondatore di Microsoft, ha comprato all’asta, n. d. r.). È stato fantastico. Dracula è un’icona».
Perché il suo mito sopravvive?
Come ha potuto resistere al tempo, diventare quasi un’ossessione per le ultime generazioni? Cosa gli ha dato questo fascino immortale e ne ha fatto il principe della notte e del sovrannaturale?
«I vampiri erano apparsi in letteratura ben prima di Stoker, ma il suo personaggio riesce a connettere tutte le paure infantili e quelle degli adulti. Rappresenta il male e la storia racconta come delle persone normali lo possono sconfiggere. È perfetto. Mi fa ancora paura».
Prima di Stoker il vampiro cosa era?
«Ce ne erano molti. Stoker li studiò tutti, così come le superstizioni del tempo che sopravvivono ancora oggi. Solo 10 anni fa venne dissotterrato un sospetto vampiro in Romania, gli fu staccata la testa e poi fu rimesso nella fossa con un aglio in bocca».
Cosa pensa dei vampiri alla Twilight?
«Il vampiro non è mai frizzante. Se mettesse Dracula nella stessa stanza con Edward Cullen, penso Eddie sarebbe in grossa difficoltà. Il nostro prequel riporta
il vampiro alle sue origini, a una creatura agghiacciante».
Rileggendo il libro, ha scoperto qualcosa di nuovo?
«Abbiamo usato molto il testo originale, ed è stato importante armonizzare la scelta delle parole, il ritmo. Ho letto Dracula e ho ascoltato l’audiolibro tutto il tempo. Non distinguevo più la mia voce dalla sua».
Perché ai lettori piace aver paura?
«Che sia sull’ottovolante o sulle pagine di un romanzo, tutti sono attratti dalle emozioni estreme. Io vado pazzo per il paracadutismo. Una buona storia ci può portare dove non siamo mai stati, presentarci persone mai viste e, sì, spaventarci. A volte puoi chiudere le pagine e sentirti salvo, altre volte ti insegue, i mostri trovano le ombre intorno a te — se quella fifa si insinua fuori dal libro e ti ritrovi a lasciare accese le luci, allora sai che è stato fatto un buon lavoro ».
Nel suo blog lei sottolinea quanto Stoker pensasse che i fatti raccontati in Dracula «fossero successi davvero».
Crede ai vampiri?
«La leggenda dei vampiri è radicata nella verità, e a un certo punto si può sapere come. Fino a quel giorno, mi tengo vicino un po’ di aglio, una croce e apro la mente. Meglio crederci ed essere preparati che ritrovartene uno alle spalle».
Repubblica 22.9.17
Ma dopo Porta Pia il popolo romano scoprì la partecipazione politica
di Corrado Augias
Con il 20 settembre 1870 si sviluppa una nuova coscienza di quella che fino a quel momento era stata considerata solo plebe
Il 20 settembre 1870 si chiude una fase di quel complesso – e discusso, come dimostra anche l’articolo di Maurizio Maggiani uscito su Repubblica due giorni fa – movimento politico-militare che chiamiamo Risorgimento. È curiosa la tendenza italiana a definire in questo modo le fasi cruciali della storia. Gli inglesi hanno la “Glorious Revolution”, i francesi la “Révolution” per eccellenza, gli americani “The War of Independence”, noi abbiamo il Ri-nascimento e il Ri-sorgimento quasi fosse necessario riaffermare ogni volta un problematico ritorno alla vita. Comunque così fu, il 20 settembre con l’unificazione totale della penisola si concludeva la fase di costruzione fisica dell’unità; aveva inizio la fase successiva, ovvero politica, certamente per Roma, più in generale per l’intero Regno d’Italia. Per tutto il periodo della dominazione pontificia, la città destinata a diventare fatalmente la capitale, era rimasta in pratica tagliata fuori dal “concerto delle nazioni”, secondo l’abituale definizione ottocentesca. Basta pensare che i primi veri ammodernamenti erano stati introdotti dai francesi quando, nell’estate del 1809, avevano occupato nuovamente Roma e papa Pio VII, come già il suo predecessore, era stato trasferito prigioniero in Francia. Se si guarda solo all’efficienza, ovvero prescindendo da ogni altro elemento, l’amministrazione napoleonica dimostrò notevole vigore. Per esempio venne sistemata la zona compresa tra ponte Milvio e la porta del Popolo aprendo una grande strada rettilinea parallela alla via Flaminia (oggi viale Tiziano), progettando il contenimento del Tevere tra due muraglioni nel suo tratto urbano. Si mise anche mano al prosciugamento delle paludi pontine già iniziato sotto Pio V, poi completato durante il fascismo, si crearono spazi per bar, ristoranti, palestre, teatri, svaghi all’aria aperta. Si pensò anche ai morti progettando il nuovo cimitero detto del Verano.
Solo dopo il 1870 il popolo romano, ridotto alla condizione di plebe come illustrano le cronache dell’epoca e raccontano i sonetti del Belli, cominciò ad avere cognizione della possibilità di una partecipazione politica alla vita cittadina e nazionale. Infatti, il generale cambiamento avvenne appunto a livello nazionale. I partiti politici, rimasti allo stato embrionale nel corso del processo risorgimentale, prendono forma coagulandosi attorno a una dottrina e/o a una personalità. In alcuni casi si potrebbe addirittura parlare più che di dottrina di una vera e propria fede. Per esempio nella nascita del (primo) Partito d’Azione, fondato nel 1853 da quel grande visionario che è stato Giuseppe Mazzini. Ebbe vita breve ma forte di principi d’avanguardia – elezioni a suffragio universale, libertà di stampa e di pensiero, responsabilità dei governi di fronte al popolo – destinati a perpetuarsi nella vita pubblica del Paese anche dopo la fine della monarchia in alcuni piccoli movimenti politici, correnti di pensiero, singoli pensatori (Piero Gobetti in primis), iniziative editoriali e pubblicistiche tra le quali la nascita di questo giornale. Sono gli stessi principi che ispirarono nel 1849 la breve vita della Repubblica Romana, guidata appunto da Mazzini insieme a Carlo Armellini e Aurelio Saffi, e la sua costituzione fondata su principi generali così avanzati che, esattamente un secolo dopo, vennero travasati quasi alla lettera nella Costituzione della Repubblica Italiana ancora oggi in vigore.
Il Risorgimento è un fenomeno complesso, bloccarlo alla fase militare delle guerre d’indipendenza, della spedizione garibaldina del 1860, della gloriosa Mentana nel 1867, significa mutilarlo della sua parte forse più importante, del suo significato storico e ideale, ovvero la componente politica rimasta di necessità in secondo piano fino a quel 20 settembre 1870. La faticosa costruzione di una nazione conoscerà in seguito altre fasi militari. Una robusta corrente di pensiero considera la Grande Guerra alla stregua di una guerra risorgimentale per il completamento a nord-est del territorio nazionale. Lo storico Claudio Pavone (ma altri con lui) in un suo saggio fondamentale, usò per la prima volta “da sinistra” la dicitura “Guerra civile” rimasta fino a quel momento appannaggio dei neofascisti; nello stesso tempo individuò nel movimento di Resistenza anche una componente patriottica vale a dire risorgimentale. Il 20 settembre 1870 resta una tappa fondamentale ma la costruzione dell’Italia (si potrebbe anche dire degli italiani) era cominciata prima e per molti aspetti è ancora oggi in corso.
Corriere 22.9.17
Riparte l’Istituto di studi filosofici Entra nel direttivo Aldo Masullo
di Antonio Carioti
«È stato un momento di gioia intensa, ho risentito la presenza di mio padre più vivo che mai». Non nasconde la sua soddisfazione l’avvocato Massimiliano Marotta, presidente del Consiglio direttivo dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, per la conclusione dell’annosa vertenza giudiziaria che aveva messo a rischio il prestigioso polo culturale partenopeo. La questione risale al 2002, quando l’Istituto fondato dall’avvocato Gerardo Marotta, scomparso nel gennaio scorso, fu escluso da finanziamenti che gli spettavano. «Abbiamo fatto ricorso — ricorda Massimiliano Marotta — e la magistratura ci ha dato ragione, ma nel frattempo abbiamo dovuto ovviare alla crisi che si era determinata sacrificando i beni della nostra famiglia. Ora abbiamo raggiunto una transazione che, rinunciando al risarcimento dei danni subiti, ci consente di ripartire subito a pieno regime con le nostre attività, in primo luogo l’erogazione delle borse di studio ai giovani».
Inoltre nel Consiglio direttivo dell’Istituto è entrato il filosofo Aldo Masullo. «Non si tratta di una nomina onorifica — sottolinea il direttore di studi dell’Istituto Geminello Preterossi — perché Masullo porterà un contributo prezioso di sostegno e di indirizzo al nostro lavoro».
Corriere 22.9.17
Amore e uova sode? Lo chiedo al web Tutte le piattaforme «saputelle»
Da Yahoo Answer a Quora: i siti ci rispondono (ma nessuno batte Google)
di Giulia Cimpanelli
Vuoi sapere che cos’è il machine learning ? Ti chiedi perché ti faccia male un ginocchio in determinate condizioni? O ti interroghi sull’amore, per capire se la persona che hai incontrato sia o meno la tua anima gemella? In generale, vuoi toglierti una serie di dubbi irrisolti? Negli anni ‘80 i bambini si rivolgevano al libro dei perché, una mini enciclopedia di domande e risposte. Ora per qualsiasi quesito c’è il web. Non solo l’«onnisciente» Google, ma tantissime piattaforme specializzate che ci consentono di interagire con altri utenti (che magari ne sanno più di noi).
Recentemente il gigante di Mountain View ha radunato in un’infografica le domande ricorrenti poste dagli utenti: il titolo che ha scelto è eloquente - How To Fix a Toilet (Come riparare un gabinetto). Perché a Google chiediamo tutto, proprio tutto. Si va dalle riparazioni casalinghe alle ricette (anche le più semplici: la più gettonata è quella dell’uovo sodo), dalle problematiche di coppia (come si dà un bacio?) alla salute e al benessere (come perdere peso è la più diffusa) passando dal «Come fare il nodo alla cravatta».
Insomma, noi chiediamo, Google risponde. O meglio, altri siti lo fanno perché, come sappiamo, Google rimanda a contenuti terzi. Se vogliamo fare una domanda specifica e avere una risposta esclusiva da una persona in carne e ossa possiamo comunque contare sul web. Quora è un sito, nato in America nel 2008 e da quest’anno è anche in italiano. Il modello di Quora entra nel vivo di un tema molto discusso, quello dell’attendibilità delle informazioni sul web: «Tutti si possono iscrivere alla rete — spiega il fondatore Adam D’Angelo — e porre o rispondere a domande. È Quora che sceglie di proporle alle persone che hanno la possibilità di fornire risposte di qualità e utili, basate sulla loro competenza ed esperienza relative all’argomento». Non a caso il primo step per iscriversi propone una vasta selezione di argomenti e chiede all’utente di selezionare quelli in cui è esperto. Un sistema di feedback tra utenti «alla Tripadvisor» garantisce l’attendibilità delle risposte e la credibilità dei membri della community. Insomma, se si pone a Quora un quesito di argomento scientifico, a rispondere potrebbe essere uno specialista: da un biologo a un chimico. Inoltre, le identità su Quora sono un’estensione di chi si è nel mondo reale. Ma per usarla non è fondamentale essere degli esperti di un settore. Alla piattaforma si possono persino chiedere consigli su dove affittare un appartamento in una città o su quale sia il ristorante più buono.
Così accade anche, fin dagli anni ‘90, su Yahoo Answers, la piattaforma di domande e risposte più usata al mondo. Non sempre le spiegazioni date dalla community sono precise o attinenti, ma anche in questo caso i feedback della comunità fanno da filtro e l’utente può votare la risposta migliore tra quelle ottenute.
Se c’è un tema che proprio non digerite potete rivolgervi, su Facebook, a «Te lo spiego», una pagina che produce veri e propri video animati per rispondere a dubbi su temi d’attualità (da come votare al referendum, a cosa sono i vaccini e come funzionano). Ma attenzione, trattandosi di un’agenzia che realizza le «spiegazioni animate» sappiate che non troverete risposta a qualsiasi domanda, perché vengono selezionate quelle più ricorrenti.
Non si può tralasciare l’enciclopedia dello scibile, Wikipedia, costantemente aggiornata dagli utenti stessi, che contiene voci da «America» a «Cristiana Capotondi» passando per «equazione di secondo grado». Impossibile trovare un argomento mancante.
Insomma, le piattaforme «saputelle» ci danno una mano, ma non dimentichiamo di valutare sempre in maniera critica le risposte ai nostri quesiti. Anche e soprattutto in base alla domanda posta. Se chiediamo per esempio «Che cos’è il Pil?», difficilmente qualcuno ci risponderà qualcosa di diverso da Prodotto interno lordo. Ma se ci vogliamo far spiegare come funziona l’intelligenza artificiale la risposta potrà avere livelli di specificità e approfondimento differenti. In que sto caso, conviene rivolgersi a diverse piattaforme così da valutare l’attendibilità delle informazioni. Per sapere cosa sia l’amore, invece, su Quora hanno risposto citando Hegel, Tolstoj e Dante. Qualcuno ha provato a darmi una definizione scientifica e qualcun altro ha citato quelle più ingenue dei bambini. Ma probabilmente, in questo caso, nulla è migliore della propria interpretazione e idea personale. Quindi spegnete il Pc e trascorrete del tempo con la vostra famiglia, il vostro partner, i vostri amici, il vostro animale domestico. Poi rifletteteci: «Cos’è l’amore?». Forse potete rispondere a Quora.
Repubblica 22.9.17
Se la voce del dolore è una esibizione social
di Michele Serra
LA SFORTUNATA madre della povera ragazza Nicolina ha concesso una lunga e quasi ciarliera intervista a una trasmissione Mediaset del mattino mentre la figlia agonizzava in ospedale, colpita in faccia (in faccia!), mentre andava a scuola, dalle pistolettate di un ex fidanzato di mamma, uno dei tanti ributtanti maschi omicidi (e poi suicidi) che non tollerando di essere lasciati da una femmina soffocano l’onta nel sangue.
Non si pretendono, dalla gente semplice, i toni della tragedia greca. Ma la gente semplice, fino a non tanti anni fa, sapeva ammutolire. Chiamatelo pudore, dignità, vergogna, chiamatelo come preferite, ma quando la voce del dolore rimaneva chiusa nelle stanze dei disperati, il Male non mieteva un successo così corale, e non trovava inserzionisti pubblicitari, già al mattino presto, disposti a cavalcarlo. Il crocchio dei curiosi, e tanto più il lutto delle vittime, rimanevano confinati in una dimensione di bisbiglio o di pianto o di scoramento inerte (quando si diceva: «Non ha più neanche le lacrime per piangere»). Qui ora, nel caso di questo ultimo delitto atroce (uccide per vendetta la figlia adolescente della donna che non riesce a rintracciare per ucciderla…), ma anche di molti altri, c’è intanto da rintracciare, alle spalle dell’evento, l’immancabile “dietro le quinte” delle paginette Facebook dei protagonisti, che a leggerle dopo quello che è successo, signora mia, già lasciano capire come sarebbe andata a finire. E spesso, effettivamente, traboccano odio, ignoranza e vanità (che non sono colpe, no, ma neanche bandierine da sventolare online), come per preparare il terreno all’arrivo, a cose fatte e a cadavere caldo, delle telecamere e dei microfoni, fratelli maggiori che hanno fatto carriera. Anche loro, in fin dei conti, “social media”, per giunta di calibro infinitamente maggiore, e padroneggiati da veri professonisti nella zoomata sulla piaga, della catalogazione del Male a seconda della sua telegenia. Non si dubita che quella povera madre pugliese fosse sotto choc. Chi non lo sarebbe. Resta da capire come mai le persone sotto choc (non solo lei: parlo dell’abbondante cast di vittime e protagonisti di delitti efferati, che alle interviste neanche si sognano di sottrarsi) si consegnino con tanta naturalezza ai palinsesti. Eravamo rimasti alle persone sotto choc che crollano o fuggono o smaniano, quando era ancora impensabile che diventassero docili ingredienti delle infernali cucine della televisione del dolore: che sarebbe ora di chiamare in modo diverso, perché di doloroso ha veramente poco, la televisione del dolore. La popolarità del male è uno stato d’animo a suo modo spigliato, di mondo, si parla della morte degli ammazzati, e dei delitti degli assassini, con un tono appena compunto, però dinamico e informato, senza trasalimenti, senza esitazioni o silenzi, senza arretrare di fronte ad alcunché, ci sono scalette da rispettare così come, su Facebook, ci sono controinsulti e controminacce da digitare in fretta, a raffica, colpo su colpo. Ha ritmo, ha passo spedito, la popolarità del male, Dostoevskij ci metteva duecento pagine per dire le stesse cose che si possono dire in trenta secondi di televisione, o in dieci parole sullo smartphone.
Nicolina nel frattempo se ne è andata. Ci aspettano i reperti – parole e immagini – della sua breve vita, spremuti dalle sue chat. Anche le vittime, malgrado spariscano dalla faccia della terra, sono scritturate a vita. Se ragazzine graziose e innocenti, poi, allora è il massimo.
Le vittime sono scritturate a vita Se graziose, poi, è il massimo