sabato 1 luglio 2017

SULLA STAMPA DI SABATO 1 LUGLIO
http://spogli.blogspot.com/2017/07/sulla-stampa-di-sabato-1-luglio.html

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La Stampa 1.7.17
Il Pd rinuncia alla testata “L’Unità”
Nasce “Democratica”, ma solo online
I giornalisti del quotidiano chiuso: il Pd ci ha abbandonati
di Francesca Schianchi

Il titolo di prima pagina è «Ripartiamo dal Pd. Oggi l’assemblea dei circoli: al centro le idee, non le polemiche». Poi c’è un articolo sul tema delle periferie, con tanto di riproposizione dell’antico motto di Renzi «un euro in sicurezza e uno in cultura». Una pagina dedicata ai social, con tweet del segretario e alcuni fedelissimi come Giachetti e Malpezzi, e un sondaggio Swg che dà il Pd primo partito al 28,5 per cento e il M5S al 25,9. In mattinata è proprio Roberto Giachetti ad annunciare la novità del Pd renziano, otto pagine di «quotidiano digitale e multimediale», diretto dal deputato ed ex condirettore dell’Unità Andrea Romano, da diffondere gratis attraverso i canali social a iscritti e simpatizzanti Pd. Democratica, «la voce del Pd» che il segretario in persona presenta orgoglioso via Facebook: e che invece osservano sbigottiti i giornalisti dell’Unità, da aprile senza stipendio né cassa integrazione, che nulla sapevano dell’iniziativa editoriale del partito. «Ma sapevamo di essere rimasti da soli a difendere l’Unità», si legge in una nota della rappresentanza sindacale, il Comitato di redazione (Cdr).
«Hanno fatto tutto di nascosto – lamenta Sergio Staino – ufficialmente c’è ancora L’Unità, io sono ancora il direttore, ma in realtà non c’è nulla, e il Pd ci ha abbandonato di fatto». Il partito è socio di minoranza della società editrice, al 20 per cento, attraverso la Fondazione Eyu (l’80 per cento appartiene alla Piesse), e il Cdr denuncia una assoluta latitanza dei vertici dem nella trattativa. Che, al momento, è allo stallo: «Ci sono 35 persone tra giornalisti e poligrafici che vivono in una bolla, con il giornale che ormai da un mese non esce, senza stipendio né ammortizzatori, e da settimane nessuno ci risponde più», spiega Maria Zegarelli del Cdr. Per questo, lascia l’amaro in bocca la nuova iniziativa dem strombazzata con toni entusiasti, tanto più dopo che, giurano, da tempo chiedevano di avviare un proprio sito (Unità.tv non è curato dalla testata): «Possiamo dire che l’ipocrisia è caduta definitivamente e il Pd ha finalmente scoperto le carte seppellendo l’esperienza de L’Unità», prosegue la nota del Cdr: quando, tre anni fa, il giornale chiuse, titolò «Hanno ucciso l’Unità»: «Anni dopo si svelano gli autori del delitto perfetto».
Il direttore Staino attacca Romano, oggi alla guida di Democratica, che lo affiancò per un po’ prima di andarsene causa forti divergenze tra i due: «Rappresentava l’antigiornalismo in persona, mi ha fatto difficoltà ogni volta che c’erano da pubblicare pezzi critici nei confronti di Renzi». E Romano, oltre a difendersi («mi sarebbe piaciuto che Staino dicesse: ho fallito come direttore di un quotidiano di cui non sono riuscito ad aumentare le copie vendute») prova a spiegare l’iniziativa: «Democratica non ha niente a che vedere con il quotidiano cartaceo», potrebbero, dice, «integrarsi in termini politici, ma il problema oggi è che il giornale è controllato da un socio di maggioranza che ha congelato la situazione». E non è molto rassicurante il commento di Lorenzo Guerini: «Mi auguro ci sarà una soluzione».

Nasce “Democratica”, il nuovo quotidiano in formato Pdf diretto da Andrea Romano. È l’unico sistema per scaricare Renzi
www.forum.spinoza.it

il manifesto 1.7.17
Gramsci stai sereno. Ora Renzi si fa il suo giornale online e in pdf
Editoria & Politica. Nasce «Democratica», dopo la rottamazione dell'«Unità». Il primo numero riporta una citazione di Schröder al congresso della Spd: «Venceremos!»: una sintesi tra Inti-Illimani e social-liberismo
di Roberto Ciccarelli

ROMA L’Unità non c’è più, al suo posto arriva «Democratica». Questo è il nome della pubblicazione multimediale di otto pagine, in formato pdf, lanciata ieri dal palco del teatro Linear-Ciak di Milano. Sarà scaricabile dalla piattaforma «Bob» – quella che nelle intenzioni del Pd dovrebbe far concorrenza al «Rousseau» del Movimento 5 Stelle – e consultabile sui siti unità.tv e su quello del partito democratico. Ci lavoreranno sette giornalisti dell’Unità.tv.
«Democratica» è concepito come un «quotidiano politico» e sarà pubblicata ogni giorno alle 13,30. Lo dirigerà il deputato Pd Andrea Romano, già con-direttore con Sergio Staino dello storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», già quotidiano di riferimento del Nazareno, ormai chiuso da settimane.
Sfogliando il pdf di «Democratica» diffuso il giorno prima dell’assemblea dei circoli Pd a Milano – la contro-piazza renziana di oggi contrapposta a piazza San Silvestro a Roma di Pisapia e scissionisti di Mdp (D’Alema, Bersani & Co.) – colpisce il sottotitolo: «Venceremos!».
La citazione degli Inti-Illimani, in spagnolo, è di Gerhard Schröder al congresso della Spd a Dortmund. Il bannerino cambierà, forse, ogni giorno, ma colpisce l’incongruità della frase: allude a Podemos o ai socialisti spagnoli ora guidati dal rieletto Sanchez su un programma diverso dal social-liberismo per cui è ricordato ancora oggi Schröder?
L’ex cancelliere tedesco è ricordato per l’«agenda 2010» e le leggi Hartz (I-IV) che hanno creato i «mini-jobs». Quelle leggi che l’attuale candidato Spd alla cancelleria Martin Schulz intende cambiare per eccesso di precarietà e impoverimento. Schröder è noto per avere accettato, pochi mesi dopo la fine del mandato, la nomina di Gazprom a capo del consorzio Nord Stream AG, il gasdotto russo-tedesco sotto il Mar Baltico e per essere stato consulente per lo sviluppo dell’attività di Rothschild nell’Europa centrorientale. Non diversamente dall’ex presidente della Commissione Ue Barroso, già presidente non esecutivo e advisor di Goldman Sachs, Schröder è considerato un esempio di commistione tra affari pubblici e interessi privati. Ora è diventato anche il riferimento politico-ideale del primo numero del nuovo quotidiano del Pd.
Un contributo alla confusione politico-ideologica (attardato neoliberismo da Terza Via o allusiva socialdemocrazia laburista? Blair o Corbyn?) che sta attraversando il Pd dopo la batosta delle amministrative, ad appena due mesi dal congresso che ha reincoronato Renzi ma non ha fatto passare i maldipancia ai «tenori» del partito scottati dalla sconfitta al referendum del 4 dicembre.
«Non mi hanno detto nulla, hanno fatto tutto di nascosto – ha reagito l’ex direttore de L’Unità Sergio Staino – mentre chiedevo incontri ai rappresentanti Pd, stavano preparando questa nuova iniziativa, proprio con colui che era il mio condirettore e che avevo allontanato perché rappresentava l’antigiornalismo in persona. Mi ha fatto difficoltà ogni volta che pubblicavo pezzi critici con Renzi». «Mi sarebbe piaciuto che Staino avesse detto “mi dispiace, ho fallito come direttore di un quotidiano di cui non sono riuscito ad aumentare le copie vendute”, invece di prendersela con gli altri, ma ognuno ha il suo stile» ha replicato Romano.
Schermaglie che trovano nel comunicato del comitato di redazione dell’Unità un chiaro riferimento polemico: il Pd e il suo segretario Renzi. «Il 30 luglio 2014 la prima pagina del nostro giornale recitava “Hanno ucciso l’Unità” – sostengono i giornalisti – Due anni dopo si svelano gli autori del delitto perfetto, quello di allora e quello di oggi». «Il giornale non è più nelle edicole perché gli azionisti di maggioranza Guido Stefanelli e Massimo Pessina fra i tanti non hanno saldato i debiti con lo stampatore, il Pd (che della società editrice del giornale è socio al 20%) lancia il suo nuovo quotidiano on line senza ancora aver fatto nulla di concreto per garantire ai dipendenti almeno il diritto agli ammortizzatori sociali».

il manifesto 1.7.17
«Insieme» ma senza Pd che chiude la porta: «Avanti con le riforme»
Oggi in piazza A Roma. Pisapia con Bersani oggi sul palco: jobs act e giustizia sociale. Pienone di dem e sinistra. No dei «civici»: non ci fanno parlare. Da oggi si capirà in quanti si uniscono al progetto. E se il nuovo amalgama progressista riuscirà bene
di Daniela Preziosi

Saranno fischiate le orecchie a Giuliano Pisapia ieri mentre, in viaggio verso Roma, limava il discorso che pronuncerà nel pomeriggio a piazza Santi Apostoli. A Milano, all’assemblea dei circoli Pd, c’è Renzi seduto in prima fila. Ma è l’ex sindaco il convitato di pietra. In molti parlano di lui.
LA GIORNATA DI OGGI è la rappresentazione plastica di una crepa ormai spalancata. E anche di una sfida, per il momento solo mediatica. Dal capoluogo lombardo il segretario dem lancerà il «nuovo Pd», e cioè la sua ennesima ripartenza dopo un’altra sconfitta. Da Roma Pisapia, insieme a Bersani e a Mdp, lancerà «Insieme», il «percorso largo e aperto» che dovrebbe sfidare – fra gli altri – il Pd alle politiche di primavera. «Insieme, nessuno escluso» è il loro slogan. Nessuno: tranne Renzi s’intende. Anche se gli organizzatori si sbracciano per ribadire che quella di oggi non sarà una piazza «contro» ma una piazza «per unire», «autonoma dal Pd ma rivolta al popolo del Pd», che chiede «discontinuità» delle politiche renziane e «no a una alleanza con il centrodestra».
Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 14-06-2017 - Roma Matteo Renzi ospite di Otto e mezzo Vincenzo Livieri - LaPresse 14-06-2017- Roma News Matteo Renzi guest at the tv show Otto e mezzo
Matteo Renzi – foto Vincenzo Livieri – LaPresse
RENZI DEL RESTO ha perseguito la rottura con cura e baldanza. Né ha intenzione di fare passi indietro. Ormai ha archiviato anche lo sforzo di mediazione di Romano Prodi (che ancora ieri ha invocato una legge maggioritaria per forzare le alleanze). E così ha innescato la rivolta delle correnti Pd (se dura, andrà in scena il 10 luglio alla riunione della direzione, la prima dopo la sconfitta delle amministrative). Oggi saranno in molti del Pd in piazza ad ascoltare Pisapia, in mezzo ai militanti (non c’è retropalco né area riservata ai politici): Orlando, leader di una delle minoranze, e i suoi; ma anche David Sassoli dell’area di Franceschini; e Marco Meloni e Alessia Mosca, rimasti vicini a Enrico Letta. L’ex premier vive e insegna a Parigi, dove ieri ha consegnato i diplomi ai suoi 650 studenti di Sciences Po, e da lì soffre la rottura finale del centrosinistra, ma resta fuori dallo scontro italiano.
PER I NOSTALGICI del centrosinistra le cose ormai si sono messe male. «Non è possibile un centrosinistra senza noi, a meno che non inseguiamo sogni velleitari», spiega Lorenzo Guerini, coordinatore Pd. Quanto a Pisapia «ascolteremo le sue proposte, siamo aperti all’incontro e al confronto con tutti ma serve innanzitutto un’intesa sul percorso: noi vogliamo continuare con le riforme avviate, dobbiamo andare avanti in quella direzione».
CHE PERÒ NON È QUELLA di Pisapia. Tantomeno quella di Bersani, D’Alema e Ditta. L’ex sindaco, che concluderà la manifestazione, parlerà di jobs act e diseguaglianze sociali, chiederà «cambiamento» e un impegno vero per approvare lo ius soli. È la prima bozza del programma della nuova «casa larga e aperta» (la parola centrosinistra è sempre meno utilizzata, viene spiegato, per evitare dibattiti su un passato ormai improponibile).
DA DOMANI si capirà se l’amalgama fra Campo progressista e Mdp-Art 1 riuscirà bene. E se questa bozza di programma è abbastanza per le anime della sinistra-sinistra che tentano di scongiurare la divisione in due (o più) liste. Sinistra italiana invia una delegazione (fra gli altri il capogruppo alla camera Marcon e Stefano Fassina), c’è Civati, c’è l’Ars di Vincenzo Vita nel ruolo di pontiere. Non ci saranno i «civici» animatori dell’assemblea del Teatro Brancaccio. Non li avrebbero fatti parlare dal palco: «Massimo rispetto per ogni tipo di incontro pubblico, e anche per ogni stile: ma in coscienza non ci sentiamo di interpretare il ruolo del popolo che legittima, con la sua plaudente presenza, la consacrazione di un leader e di un percorso già decisi dall’alto» dice fra l’altro il loro comunicato.
SUL PALCO SALIRANNO invece, chiamati dal giornalista Gad Lerner, dall’inizio – e da sempre – al fianco di Pisapia nel nuovo percorso: il costituzionalista Onida; il giornalista Carlo Romano; Stefania Catallo del centro antiviolenza di Tor Bella Monaca; Elvira Ricotta della Rete italiani senza cittadinanza; il sindaco Coletta di Latina e di Palermo Leoluca Orlando, Alessio Gallotta, sindacalista Cgil sul fronte della vertenza Amazon; la presidente Arci Francesca Chiavacci; la verde Luana Zanella. Videomessaggio dell’attore Claudio Amendola, colonna sonora, un grande classico: Rino Gaetano , «Io ci sto».

il manifesto 1.7.17
Sinistra italiana verso Sinistra europea, ok del Prc (con qualche critica)

Sinistra italiana entra da «osservatore» nella Sinistra europea, la richiesta – avanzata dopo il congresso di Rimini – è stata accolta dall’assemblea di Bruxelles. Lo annuncia Erasmo Palazzotto, responsabile esteri di Si. «La sfida per arginare le destre nazionaliste e rigoriste deve giocarsi in primo luogo su scala europea», spiega, ma «la socialdemocrazia europea rappresenta in questo contesto una parte consistente del problema. La subalternità alle politiche liberiste è non solo causa della sua crisi di consenso, ma anche del disastro economico e sociale determinato dalle politiche di austerità che hanno spianato la strada alle destre xenofobe e populista». Soddisfazione per il «passo a sinistra» anche da parte del Prc, che ha dato il suo ok anche se, si sottolinea, «nel corso del dibattito sono emersi elementi critici relativi alla collocazione dell’unico parlamentare europeo di Si nel gruppo socialista e non nel Gue e sulle titubanze di Si rispetto a un processo di unitario della sinistra antiliberista in Italia». Il primo riferimento è all’europarlamentare Sergio Cofferati, che in effetti non è nel Gue ma aderisce al Progressive Caucus, intergruppo composto di socialisti, verdi e membri del Gue. Il secondo riferimento è al processo di costruzione di una lista unitaria per il voto italiano.

Il Fatto 1.7.17
“Sesso in sagrestia e molestie”: tutte le accuse al cardinale Pell
La polizia australiana ha aperto il fascicolo nel luglio 2016: deve rispondere di pedofilia e stupro
di Leonardo Coen

Fu nel luglio del 2016 che la polizia australiana aprì un nuovo fascicolo sul cardinale George Pell per abusi su minori. La delicatezza dell’inchiesta e le implicazioni diplomatiche imposero prudenza e tatto: i detective della speciale Task force Sano istituita dalla Royal Commission into Institutional Responses to Child Sexual Abuse, la commissione governativa creata nel 2012 che per quattro anni ha indagato sui crimini di pedofilia commessi dal clero, sapevano che si sarebbero scontrati con un muro di silenzi, di reticenze, di menzogne. Pell era il numero 3 del Vaticano. E loro avevano come punto di partenza le denunce di due uomini che alla fine degli anni Settanta erano stati allievi nella scuola elementare di St. Alipius (con annesso presbiterio), fondata a Ballarat nel 1905, al numero 85 di Victoria Street, a meno di due chilometri dalla cattedrale St. Patrick. La parola del potente cardinale, che si vantava d’essere il paladino della lotta contro la pedofilia nella Chiesa e nella società, e le presunte verità di chi invece dichiarava l’esatto contrario. Come se Pell fosse mr. Hyde e anche il dottor Jekyll.
Quanto complesso e irto di difficoltà sia stato il lavoro degli investigatori lo dimostrano le centinaia di pagine dei verbali raccolti dalla Royal Commission quando è stata costretta ad affrontare il potente cardinale per vicende legate ad abusi commessi nel periodo in cui lui era responsabile della diocesi di Baccarat e di Melbourne.
I lavori della commissione sono disponibili in Internet. Più difficile, invece, è stato sollevare l’oscuro sipario di segretezza che occultava remote vicende le cui radici affondavano in un passato dai contorni resi opachi dall’usura del tempo e forse della memoria. Un passato ignobile che Pell confuta “strenuamente”. Dovrà smentire, per esempio, due supertestimoni che lo hanno chiamato in causa, sebbene dopo quasi quarant’anni, si chiamano Lyndon Monument e Damian Dignan: hanno depositato i loro esposti contro il cardinale Pell – all’epoca dei fatti di cui l’accusano, Vicario Episcopale per l’Educazione della diocesi di Ballarat – nel 2015, in luoghi e momenti diversi. Rimproverano al cardinale di avere avuto dei gesti “inappropriati” nei loro confronti quando si trovavano nella piscina pubblica Eureka, durante l’estate 1978-1979, accusandolo di averli palpeggiati “ripetutamente” nelle parti intime mentre facevano il bagno. Lo scandalo è cavalcato dalla televisione ABC che intervista Lyndon Monument, il quale non nasconde la sua (comprensibile) riluttanza nel rivangare quelle molestie. Perché era rimasto in silenzio tutti questi anni? “Perché sapevo che Pell era un uomo molto potente e questo mi spaventava”. Dignan, che soffre di leucemia, aggiungeva un dettaglio penoso: “Mi toccava soprattutto attorno all’ano”. Era così insistente, quel prete, che decise di non andare più in piscina.
L’emittente ABC, interpretando l’indignazione nazionale, rivela che i verbali contro Pell sarebbero almeno otto. Uno dei testimoni asserisce che si sarebbe mostrato nudo davanti a tre ragazzini che avevano tra gli 8 e i 10 anni, mentre si trovavano nello spogliatoio di un club di surf della spiaggia di Torquay, durante l’estate del 1986-1987. Così come ci sarebbe un altro episodio, databile all’inizio degli anni Novanta, quando Pell era già arcivescovo di Melbourne. Vittime due ragazzi del coro della cattedrale: uno dei due è morto per overdose nel 2014. È la madre che riporta una versione del fatto, “Pell abusò sessualmente dei due giovani coristi della cattedrale di St. Patrick nella sacrestia, appena terminata la messa, dopo che gli aveva fatto bere il vino della consacrazione”.
Per tre volte il cardinale Pell è stato ascoltato dalla polizia australiana e sempre si è difeso dichiarandosi totalmente estraneo alle accuse, anzi, le ha rigettate con sdegno biblico (“sono orribili, infamanti calunnie”), conclamando la sua innocenza, “sono vittima di un complotto”, di una sistematica campagna denigratoria orchestrata dai mezzi di comunicazione e dalla polizia, basata su asserzioni da lui bollate come character assassination, cioè vero e proprio linciaggio mediatico.
Del resto, gli era già capitato di finire dentro i vortici di fango della centrifuga giudiziaria: successe nel 2002, quando venne accusato di abusi sessuali su di un chierichetto, negli anni in cui stava a Ballarat e a Melbourne. In quell’occasione venne assolto. Poche settimane fa, il 14 maggio, è uscito in Australia un saggio dall’inequivocabile titolo: Cardinal: the Rise and the Fall of George Pell. L’ha scritto Louise Milligan, nota giornalista investigativa del network ABC, origini irlandesi e grande fede cattolica. Il libro riporta numerose testimonianze che alludono a nuove accuse di abusi sessuali su minori da parte del cardinale.
Ma ancor più grave è la tesi portante: ossia l’attività di grande insabbiatore, perché secondo la Milligan, che ha basato il saggio sui verbali e i documenti della Royal Commission, Pell sapeva quel che succedeva realmente all’ombra delle parrocchie, degli oratori e dei presbiteri, ma evitava di denunciarlo alle autorità civili. In fondo, il fulcro dell’inchiesta governativa: nel caso di Pell, ci sono 57 case study in cui gli inquirenti hanno cercato di capire il suo livello di coinvolgimento, quale responsabile diocesano e vescovile. In questo senso, il processo che vedrà alla sbarra Pell il 18 luglio – sempre che si rechi in Australia, come promette – è altamente simbolico: perché ha l’ambizione di mostrare che nessuno è al di sopra della legge, nemmeno chi ha Dio al suo fianco.

Repubblica 1.7.17
L’intervista.
Parla Peter Saunders, vittima da giovane di preti pedofili, che l’anno scorso abbandonò polemicamente la commissione pontificia anti abusi
“Sul cardinale australiano avevo ragione io non ci si può nascondere alla giustizia per sempre”
Finora la Chiesa ha preferito coprire i responsabili di certi crimini, spero che ora si cambi strada
George Pell è stato nominato prefetto della Segreteria per l’economia nel 2014

CITTÀ DEL VATICANO. «Non capisco per quale motivo il cardinal George Pell sia stato nominato in una posizione così alta con quella nube oscura di accuse che lo riguardavano. Il mio sospetto è che c’è chi crede che portare queste persone a Roma o in Vaticano risolva i problemi, e che con essi le presunte vittime scompaiano. O addirittura, che molte di queste vittime lascino che la propria vita si perda, come purtroppo è accaduto con alcuni giovani della diocesi australiana di Ballarat. E così ogni problema si risolverebe da solo».
Peter Saunders, inglese, da ragazzo vittima di abusi sessuali da parte di sacerdoti, fu il primo a fare un passo indietro, ormai più di un anno fa, dalla Commissione pontificia per la protezione dei minori. Oggi torna a parlare del cardinale Pell al quale all’epoca rinfacciò di essersi sottratto alla giustizia australiana grazie a una serie di certificati medici, accusandolo al contempo di «prendersi gioco della commissione anti abusi e del Papa stesso».
Dopo le sue dimissioni ha mai incontrato il cardinale Pell? «Non ho avuto alcun contatto diretto con cardinale Pell, e in ogni caso non mi sono dimesso dalla Commissione anti pedofilia ».
In che senso?
«Sono a tutti gli effetti ancora un membro della Commissione pontificia, anche se per un periodo sono stato messo a riposo, un po’ come Pell. Ma Papa Francesco non mi ha mai “licenziato” ».
Pell ora però si presenterà di fronte alla giustizia australiana. Un passo in avanti?
«Si, ma avrebbe dovuto presentarsi davanti alla Royal Commission quando gli fu chiesto. Poteva facilmente viaggiare in momenti diversi. A proposito dei viaggi: scommetto che non voli in economy class come tutti noi. E allora mi domando: sull’aereo dove si sarebbe seduto Gesù?».
Con Papa Francesco ha mai parlato dopo il suo allontanamento dalla Commissione?
«Non ho parlato con Papa Bergoglio dall’ultima plenaria a cui partecipai a Roma diciotto mesi fa, quando lo invitai a venire a parlare nella nostra Commissione. Ma non venne».
Ritiene davvero che portare a Roma dei porporati sia un modo per farli fuggire dai processi sulla pedofilia?
«Il cardinale arcivescovo di Boston Bernard Law è scappato a Roma quando il suo arresto sembrava imminente. Cosa altro si può dire in merito?».
Pell in conferenza stampa ha dichiarato ancora una volta la sua innocenza.
«Devo ancora sentire una persona accusata che durante una conferenza stampa si alza e dice: “Sì, sono colpevole”».
Il Vaticano non sta lavorando in modo corretto contro gli abusi sessuali commessi dai preti?
«Oggi molti soldi verranno spesi per difendere il cardinale Pell, soldi che mai sono stati spesi per i lavori della Commissione pontificia per la protezione dei minori, o per sostenere le vittime e i sopravvissuti degli abusi clericali. Cosa altro dire? ».
Dove sbaglia la Chiesa?
«La Chiesa preferisce ancora evitare di affrontare i problemi, preferisce coprire, e perdonare gli abusi. Mentre la pedofilia è un grave crimine che devasta le vite spesso per sempre. Eppure capita ancora che la Chiesa agisca come ho detto».
Cosa sia aspetta faccia oggi Francesco?
«Mi auguro che Francesco lo congedi del tutto e lo lasci in Australia ad affrontare i suoi accusatori ».
( p. r.)
Peter Saunders

il manifesto 1.7.17
«Francesco da buon gesuita sa che l’autocritica è il rimedio contro le critiche»
Intervista. Augusto Cavadi, consulente filosofico e teologo laico
di Luca Kocci

Chiesa cattolica e pedofilia: crimini commessi da singoli e isolati preti e religiosi oppure problema più ampio che chiama in causa l’istituzione ecclesiastica nella sua struttura? Ne abbiamo parlato con Augusto Cavadi, consulente filosofico e teologo laico, autore, qualche anno fa, del volume Non lasciate che i bambini vadano a loro. Chiesa cattolica e abusi su minori (con prefazione di Vito Mancuso, Falzea editore).
Il cardinale Pell, incriminato per gravi reati sessuali, è un prelato ai massimi vertici della gerarchia ed è stato collocato in quella posizione da papa Francesco. Queste accuse possono gettare un’ombra anche sul pontefice e sulla azione riformatrice?
Penso che un papa, nel dare incarichi ai collaboratori, non possa basarsi su voci riguardanti i pregressi lontani. Deve valutare in base a dati oggettivi o, per lo meno, attendibili. Sarebbe stato grave, piuttosto, se avesse opposto qualche ostacolo a che, ora, il cardinale si presentasse in tribunale e venisse processato come un qualsiasi cittadino. Avrebbe significato far prevalere, ancora una volta, il principio omertoso dei panni sporchi che si lavano, quando si lavano, in famiglia. Ma a quanto pare Pell risponderà alle accuse, recandosi direttamente in tribunale, in Australia. Questo è un passo avanti.
È cambiato qualcosa nella Chiesa cattolica, sulla questione pedofilia, nel passaggio da papa Wojtyla, a papa Ratzinger fino, oggi, a papa Francesco?
Distinguerei i mutamenti di percezione del fenomeno dall’effettività dello stesso. È chiaro che con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI, il quale da cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede gestiva la questione anche prima di diventare papa, prevaleva la preoccupazione di salvare l’immagine della Chiesa-istituzione rispetto ai diritti degli abusati. E da questo derivava una certa resistenza delle autorità ecclesiastiche nel deferire i preti denunziati all’autorità giudiziaria civile».
E con Francesco?
Papa Francesco, da buon gesuita, ha capito che l’autocritica è il metodo migliore per arginare le critiche e che una maggiore trasparenza anche sui difetti ecclesiastici è l’unico modo per evitare il disastro irreversibile. Tuttavia episodi recentissimi, come le dimissioni dalla Pontificia commissione per la tutela dei minori di due autorevoli componenti laici come Marie Collins e Peter Saunders (a loro volta abusati da preti cattolici) i quali hanno denunciato resistenze e ritardi procedurali, attestano che, come in altri settori della vita cattolica, le conversioni proclamate dall’alto stentano a incarnarsi ai livelli inferiori. Qui, come in altri ambiti, non basta che cambi un papa se, negli anni del suo governo, non riesce a cambiare il papato e l’intera macchina ecclesiastica che, purtroppo per chi condivide la fraternità annunziata da Gesù, dal papato, verticisticamente, dipende.
Perché la pedofilia clericale è una piaga così difficile da estirpare? Si tratta di errori compiuti da poche «mele marce» o c’è invece un problema strutturale che riguarda l’istituzione ecclesiastica?
Pur essendo stato violentemente attaccato da molti preti per il mio libro sulla questione pedofilia, ci tengo a ribadire, per onestà intellettuale, quello che ho scritto nelle prime pagine: la pedofilia non è statisticamente più diffusa tra preti celibi che tra i pastori protestanti sposati, insegnanti, allenatori di calcio o commessi viaggiatori. Vi sono dunque cause remote, generali e generiche, che non vanno sottovalutate. Poi ci sono delle concause specifiche legate soprattutto al mondo cattolico.
Quali?
Ne evidenzio due: il clima di morbosità che nella formazione dei preti avvolge e deforma tutta la sfera sessuale e il ruolo di padre-padrone che il prete svolge nella comunità parrocchiale. Il primo fattore influenza gli atteggiamenti perversi degli adulti, il secondo condiziona il silenzio reverente degli abusati. Se a questi due elementi aggiungiamo la quasi certezza dell’immunità dei colpevoli nel passato, anche recente, abbiamo una griglia interpretativa abbastanza chiarificatrice.

Il Fatto 1.7.17
Il 18 in Tribunale
Il porporato dovrà pagarsi le spese legali: viaggi in aereo o nave?

Nulla lascia pensare che il cardinale George Pell non possa subire un “equo processo” quando dovrà affrontare multiple accuse di pedofilia, dopo l’annuncio della sua incriminazione da parte della polizia dello Stato australiano di Victoria, che gli intima di comparire il 18 luglio davanti a un Tribunale di Melbourne. È l’opinione dell’esperto giurista internazionale Gideon Boas, docente di Diritto all’Università La Trobe di Melbourne, in risposta a commenti anche da parte di altri prelati. Pell riceverà un alloggio dall’arcidiocesi di Sydney, ma sarà costretto a finanziare le spese legali, che costeranno centinaia di migliaia di dollari. È possibile che la sua difesa sarà finanziata da ricchi sostenitori della Chiesa. Non è chiaro, infine, come tornerà in Australia il cardinale, che a causa di problemi cardiaci non era tornato nel 2014 per rispondere davanti alla Commissione d’inchiesta sulle risposte istituzionali agli abusi e aveva poi deposto da Roma in videoconferenza. Si specula che possa venire via nave o che affitti un jet ambulanza, con a bordo un medico, un’infermiera e adeguato equipaggiamento medico e la possibilità di scali multipli. Costerebbe circa 15 mila dollari l’ora, per un totale stimato di 350 mila dollari.

Corriere 1.7.17
Renzi nella morsa del vecchio derby Prodi-Berlusconi
di Francesco Verderami

Rieccoli: Berlusconi contro Prodi, Prodi contro Berlusconi. Ventuno anni dopo il loro primo duello, i protagonisti della Seconda Repubblica tornano a rivaleggiare. Stavolta sulla legge elettorale. Il Cavaliere è per il proporzionale, il Professore per il maggioritario: quando si dice una scelta di campo.
In palio non c’è più Palazzo Chigi ma il suo controllo, la capacità cioè di influire sugli uomini e sui futuri assetti di governo. Cinquestelle permettendo. Come se il tempo non fosse passato, Prodi e Berlusconi ripropongono il vecchio derby. Sembrano usciti dalla piscina di Cocoon, rinvigoriti politicamente dal consenso che avvertono a ogni loro uscita pubblica. «Non mi sono mai sentito così bene», sorrideva il Professore giovedì dopo l’ovazione che gli era stata tributata alla convention della Cisl. «Appena scendo dall’auto, c’è la fila di ragazzi che vogliono farsi la foto con me», commentava il Cavaliere qualche settimana fa: «Al Tg5 invece ho visto un servizio e non c’era nessuno attorno a Renzi».
Renzi, appunto. Dovrebbe dipendere da lui l’ultima parola sul modello elettorale, e infatti è a lui che il Cavaliere e il Professore si rivolgono: il primo per puntare all’accordo di larghe intese dopo il voto, il secondo per impedire che l’accordo tra i due si realizzi dopo il voto. Cinquestelle permettendo. Così lo scontro a distanza è ripreso. Con il fondatore del centrodestra che — rivedendo il rivale in scena — si è chiesto se «esser stato umiliato tre volte dai suoi non gli è bastato». E con il fondatore dell’Ulivo che — divertito — insieme ad alcuni amici si è chiesto se al rivale «esser stato sempre battuto da me non gli è bastato».
E poi ci sarebbe sempre Renzi, appunto. Il leader democrat — viste le circostanze — ha spostato a settembre la ripresa del confronto sulla legge elettorale. Avesse insistito gli sarebbe saltato il partito. Le camarille tattiche non ingannino: la scelta del rinvio è frutto di un’intesa tra Renzi e Berlusconi con il beneplacito del Colle, preoccupato — dopo il tonfo alla Camera dell’intesa sul proporzionale — di garantire la stabilità. Perché resta l’auspicio di Mattarella di veder approvato un nuovo sistema di voto «omogeneo per i due rami del Parlamento», ma senza che in questa fase venga minata la tenuta del governo, impegnato a scrivere la legge di Stabilità e alle prese con l’emergenza migratoria, che non può risolversi con velleitarie azioni unilaterali italiane.
Tutti nel Palazzo si preparano alla sfida di settembre sulla legge elettorale, che disegnerà i futuri scenari di potere. Cinquestelle permettendo. L’idea di tenere sotto pressione il leader democratico — continuando a proporre una riforma di stampo maggioritario — accomuna Prodi a quanti dentro e fuori il Pd osteggiano il ritorno di Renzi a Palazzo Chigi con il sostegno di Berlusconi. Questo è il disegno: perché è chiaro che, in sistema multipolare, con due diverse Camere e due diversi elettorati, nessun modello di voto consentirebbe di evitare governi di larghe intese.
Nell’altra metà campo, invece, l’idea di Berlusconi è che ci siano ancora margini per arrivare a un’intesa con Renzi sul proporzionale. Il Cavaliere ritiene che il primo accordo non abbia retto perché comprendeva le elezioni anticipate. Ma a settembre, visto che a quel punto si andrà a scadenza naturale di legislatura, è convinto che si ricreeranno le condizioni dell’intesa, perché «il tedesco converrà a tutti»: a quella parte del Pd anti-renziano che constaterà come sia impossibile l’intesa con Mdp; a Mdp che per conquistare voti non potrà coalizzarsi con il Pd; e ovviamente a sé medesimo.
È una scommessa però, dato che l’idea di Renzi — per ora — è di restar fermo. Stretto nella morsa tra Berlusconi e Prodi, fa mostra di non voler toccare i meccanismi di voto esistenti per Camera e Senato. Anche perché, senza un sostegno di Grillo, «prepareremmo a M5S la campagna elettorale». In quel caso, con il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, il Cavaliere — che rifiuta di allearsi con Salvini — si troverebbe davanti a un bivio: soggiacere all’intesa con la Lega o decidere di andare da solo, mettendo in preventivo una rottura in Forza Italia. Perché è vero che Berlusconi e Prodi hanno ripreso a duellare e che il tempo sembra non essere passato. Ma il tempo passa.
Francesco Verderami

Corriere 1.7.17
UNO SCONTRO TRA LE SINISTRE CHE NON SARÀ INDOLORE
di Massimo Franco

La competizione a sinistra avrà il battesimo ufficiale e simbolico. La scelta del segretario del Pd, Matteo Renzi, di parlare oggi ai circoli del suo partito a Milano, sembra fatta apposta per oscurare la manifestazione romana del movimento di Giuliano Pisapia. L’ex premier doveva intervenire ieri. Poi il programma è stato cambiato. Così, mentre nella piazza Santi Apostoli della Capitale l’ex sindaco di Milano lancerà il suo «Campo progressista», attorniato da scissionisti dem e da esponenti critici del Pd, Renzi rivendicherà la propria leadership. E sembra intenzionato a opporla a quelle che definisce «formule della politica del passato».
È possibile che le distanze tra le «due sinistre» possano rivelarsi siderali; che qualunque ipotesi di un’alleanza tra Renzi e Pisapia si confermi più problematica di qualunque volontà di saldare i tronconi della sinistra. L’insistenza con la quale i fedeli del segretario affermano che è pienamente legittimato dal congresso, ribadisce la volontà di respingere qualsiasi critica, percepita come un tentativo di rimettere in discussione il suo ruolo. I renziani sentono l’accerchiamento, e intuiscono che il primo obiettivo degli avversari è impedire la ricandidatura del loro leader a Palazzo Chigi. Si tratta di una partita che non prevede pareggi.
Cedere significherebbe dare ragione agli oppositori interni e esterni; e ammettere che rispetto a appena due mesi fa, dopo le Comunali, è tutto cambiato. Un Renzi trionfatore al congresso adesso dovrebbe accettare le stimmate del perdente, cucitegli addosso anche da chi fino a poche settimane fa lo appoggiava. La resistenza è comprensibile, così come la volontà di dettare lui le condizioni di un eventuale accordo con Pisapia. Ma il vertice dem sa bene quanto sia forte l’antirenzismo di chi è appena uscito dal Pd, e anche di una parte di chi ci è rimasto.
Per questo, finora la mediazione paziente dell’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, non ha fatto breccia. Invece di accoglierla come l’unico modo per uscire da una contrapposizione sterile e potenzialmente suicida, è stata vista dai renziani come qualcosa che porterebbe a un passo indietro del leader; e dai suoi nemici, come una mano troppo tesa nei confronti di un Renzi che si vorrebbe umiliare. Eppure, il rischio che comunque la scissione del Pd non si fermi, è palpabile.
Come lo è la spinta a puntare sul premier Paolo Gentiloni anche dopo le elezioni. Ieri lo ha chiesto l’ex presidente della Camera, Luciano Violante. Ma simili uscite sono viste solo come tentativi surrettizi di staccare Gentiloni da Renzi per indebolirlo. E l’operazione difficilmente può riuscire, nonostante una situazione in evoluzione. Non a caso, Renzi risponde lodando i «mille giorni» del proprio governo. E si prepara a uno scontro che non sarà indolore nemmeno per lui.

Repubblica 1.7.17
Fausto Bertinotti
“Né con Matteo né con Giuliano la sinistra non c’è”
Non sono pentito di aver fatto cadere Prodi. Aveva scelto la strada dell’Europa che oggi ci soffoca
di MONICA RUBINO

ROMA.«Non ricostruzione della sinistra ma rinascita». Per Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera e già segretario di Rifondazione comunista, i tentativi di trovare “collanti” per rimettere insieme i pezzi non portano a nulla. L’unica strada è risorgere su basi completamente nuove.
Bertinotti, come giudica la disponibilità di Prodi a fare da “vinavil” per ricomporre una coalizione di centrosinistra?
«Il dibattito su questo tema a me non dice niente. Nessuna delle forze coinvolte è realmente protagonista del cambiamento ».
Quindi non le interessa né la piazza di Renzi né quella di Pisapia?
«No, perché entrambi si muovono nella cornice della politica tradizionale. Personaggi come Corbyn in Gran Bretagna, Tsipras in Grecia, Sanders negli Usa, Iglesias in Spagna o Mélenchon in Francia, invece, sono arrivati sulla scena rompendo con il passato e presentando piattaforme in completa discontinuità con i paradigmi correnti. In Italia tutto questo non c’è. L’unica parola non apologetica, ossia non interna alla logica del sistema, è quella di Papa Francesco».
E che ne pensa della sinistra civica che si è riunita al Brancaccio?
«L’esperienza di Montanari e Falcone è già più promettente. Almeno lì c’è lo sforzo di una ricerca su un terreno incompatibile con le politiche dominanti».
A distanza di quasi vent’anni, pensa di aver fatto un errore a far cadere l’esperienza dell’Ulivo e il governo Prodi nel 1998?
«No, non sono affatto pentito. Allora il nemico era Berlusconi e per combatterlo costruimmo quella acrobatica alleanza. Ma poi abbiamo rotto perché Prodi aveva imboccato una strada che ha portato all’Europa di oggi, alle politiche economiche di austerità in cui i vincoli esterni pesano più di quelli interni».
Avevate ragione voi?
«Non ho la presunzione di dirlo. Ma la conseguenza di quelle scelte è stata la nascita di un nuovo populismo sociale, ossia lo scontro fra popolo ed élite su cui si giocherà il nostro futuro. Da noi lo ha intercettato Grillo, che dà risposte politiche trasversali ».
Qual è stato l’effetto collaterale di quella rottura?
«Prima avevamo due sinistre, oggi non ne abbiamo nessuna. Come dice giustamente Giuliano Amato, il populismo è la conseguenza del fallimento del centrosinistra ».

Il Fatto 1.7.17
“La vera sinistra c’è ma non riesce ad arrivare a Roma”
di Antonello Caporale

E se la sinistra, anche quella italiana, fosse nascosta tra le campagne, nella periferia perduta dei piccoli campanili? Se prove di governo di sinistra, nel senso tradizionale e classico del termine, fossero disseminate in comunità di poche migliaia di abitanti e li sepolte?
“Può darsi”, dice Mario Barcellona, docente di Diritto civile a Catania, che ha scritto un saggio sullo Stato morente e la sinistra perduta (Tra impero e popolo, Castelvecchi editore).
Professore, questi amministratori illuminati che hanno un sentimento con chi governano, sono come pietre preziose e perciò rari. Secondo lei partire dalla campagna, dalla montagna, dall’Italia interna dove più frequenti sono questi fenomeni di buongoverno avrebbe un senso?
Un senso ce l’avrebbe se queste azioni dimostrative di buona amministrazione giungessero fino alle periferie metropolitane, si facessero vedere ai nostri occhi.
Sembra che i migliori stiano lontani da Roma, abbiano paura persino di avvicinarsi.
I partiti non esistono più ed è smobilitato quel canale di comunicazione, l’ascensore politico non esiste e, se c’è, avvantaggia chi non sa fare, non ha parole per dire.
La sinistra italiana è rimasta senza parole e forse senza popolo.
Si è fatta scippare dalla destra, nell’ultimo quarto del secolo scorso, l’idea che nel mondo non fosse più possibile un sistema largo di welfare, che ogni sacrificio si dovesse compiere in nome della governabilità e l’unico orizzonte dovesse essere il Pil. Più produzione e a ogni costo. Che vuol dire più inoccupati, più precari, più cittadini senza cittadinanza. Ed ecco come siamo diventati.
Magma indistinto di sigle e personalità.
Scriviamo della sinistra come se fosse la sceneggiatura di un film. Ci mettiamo a tavolino e noi intellettuali disponiamo, indichiamo il giusto e l’ingiusto, la via maestra eccetera. So che è un’attitudine quasi fantastica. E so che per quanto bravi o bravissimi i D’Alema e i Bersani hanno concluso il loro ciclo vitale ma non c’è nessuno dietro di loro.
Anche nella sua Catania governa ancora Enzo Bianco, come vent’anni fa.
Le lancette dell’orologio ferme, una stasi esasperante. Come quei giorni d’afa dove il respiro si fa corto. Ecco, la politica subisce l’afa dall’inizio del nuovo secolo.
Infatti, come novità abbiamo Berlusconi e forse Prodi sul proscenio.
Non ci sono parole nuove, e non ci sono persone nuove.
Ma non s’inventano parole e persone senza popolo. Perciò le dicevo dei sindaci di campagna. Sono centinaia le testimonianze di qualità, integrità, correttezza. Dimensioni modeste, ma sul mercato della politica c’è altro di significativo e interessante?
Vero, non c’è nulla. E il Pd è divenuto compiutamente un partito di centro che rappresenta la parte superiore della clessidra sociale. La sinistra, quella che fantastico, dovrebbe impegnarsi a rappresentare gli smutandati, i senza diritti.
A chi pensa?
Naturalmente non soltanto ai poverissimi. Io credo che abbiano bisogno di vedere una rappresentanza politica coloro che sono rimasti in braghe di tela. Ceti sociali fino a ieri garantiti e oggi non più. Pensi ai giovani avvocati che fanno la fame e non vedono né vedranno mai un cliente che dica: quant’è? Nuove povertà tra i laureati, nuove povertà tra gli operai e gli impiegati. La sinistra avrebbe di chi parlare e soprattutto di cosa.
Siamo al punto: questa sinistra?
Servirebbe un partito o movimento che dia un nuovo senso al proprio orizzonte e accetti di allearsi per governare col centro, in questo caso con il Partito democratico. Senza fare tante storie. Il centro oggi è il Pd, antropologicamente, politicamente, strutturalmente un partito centrista.
E la sinistra dovrebbe portare in dote gli sfigati.
Secondo lei dove li hanno trovati i voti i cinquestelle? E ha visto quanti? E seppure dicono di non essere né di qua né di là, la radice del consenso è di questo proletariato metropolitano unito alle povertà disseminate dappertutto causate dalla crisi di sistema.
Ancora tanti perderanno il lavoro.
Ha sentito una sola riflessione su ciò che avverrà dopo di noi, tra dieci o vent’anni al massimo? La robotica produrrà altre espulsioni dalla produzione. E non saranno solo braccia ma anche menti. Io non credo alla favoletta del mercato che si autoregolamenta. Si è visto come è rigoroso il mercato del capitale: dà da mangiare a chi ha sbafato e lascia a stecchetto l’affamato.
Quindi?
L’unica strada che resta è la socializzazione del lavoro. Non reddito minimo garantito ma dividere per due le ore che oggi fa un solo lavoratore. Avere il coraggio di dirlo.
Chi dovrebbe dirlo?
La domanda è ben posta, e io purtroppo non so risponderle. Spero che qualcuno si prenda la briga però…
di Antonello Caporale

La Stampa 1.7.17
2037, basta sesso sfiorarci è un tabù
di Ester Armanino

Tra vent’anni non ci toccheremo più, nemmeno per fare i bambini. La pratica del sesso verrà considerata antiquata e rischiosa perché i figli saranno «componibili» in provetta, sani e belli come da catalogo (magari potessimo scegliere di averli predisposti all’antirazzismo, pacifisti e rispettosi del pianeta: per questa gamma genetica serve ancora un po’ di ricerca).
È il futuro che prospetta Henry Greely, direttore del Centro per la Legge e le Bioscienze alla Stanford Law School e autore del saggio «The End of Sex and the Future of Human Reproduction». Un futuro reso possibile dall’Easy Pdg, ovvero una diagnosi preimpianto di routine, facile ed economica. Se non per tutti, per molti.
Il sesso che tramonta, almeno quello a scopo riproduttivo, ha qualcosa di struggente. Forse lo saluteremo come abbiamo fatto con il rosso delle barriere coralline, o con la pratica estetica di perderci nei luoghi prima dell’arrivo di Google Maps e del suo utilizzo persino per raggiungere il negozio dietro l’angolo. Arrivederci alla poesia dei corpi sudati, all’incidente non programmato, alla bellezza scoperta per caso, all’attesa di sapere che occhi avrà (e speriamo ne abbia due). Il bambino del futuro secondo Greely sarà frutto di una preselezione di quello che piace ai genitori, un predestinato come ne «Il Mondo Nuovo» di Aldous Huxley, obiezione a cui Greely risponde preparato e scettico: non bambini di design, ma semplici embrioni selezionati. Considerate le malattie genetiche, non è soltanto questione di occhi azzurri.
Infatti la questione è che tra vent’anni – a essere ottimisti, trenta o quaranta – tra di noi non ci toccheremo più. L’interazione con le persone vere non sarà più necessaria e forse i robot ci sostituiranno come Super Vicky – Small Wonder, la piccola domestica dal fiocco rosso e grembiulone che nel popolare telefilm Anni 80 a fine giornata si chiudeva nello sgabuzzino, una botta in testa e in modalità «off» si addormentava per fare riposare i circuiti.
Ma tra vent’anni, in una vita priva di contatti fisici antiquati e rischiosi, non finirà che qualcosa si addormenti anche dentro di noi? Una specie di coscienza intorpidita?
Scrive Margaret Atwood nel profetico Racconto dell’ancella: «Prima dormivo. Ecco come abbiamo permesso che accadesse tutto questo. Non ci siamo svegliati nemmeno quando hanno incolpato i terroristi e hanno sospeso la costituzione. Ora sono sveglia.» La società distopica che ha creato Atwood nel suo romanzo si colloca in un futuro altrettanto prossimo a quello del dottor Greely, in una teocrazia totalitaria di ispirazione biblica che ha rovesciato il governo degli Stati Uniti e in cui le donne hanno perso ogni diritto; le poche ancora in grado di riprodursi vengono ridotte in schiavitù e trasformate in ancelle. Ogni minima infrazione alle regole viene punita e l’ancella Offred, protagonista nonché voce narrante, pur di restare in cucina con un’altra donna desidera l’indicibile: «aiuterei Rita a fare il pane, affondando le mani in quel morbido tepore resistente che è così simile alla carne. Desidero ardentemente toccare qualcosa di diverso dalla stoffa o dal legno. Desidero commettere l’atto del toccare.»
L’atto del toccare rappresenta quindi la veglia. Lo stato di veglia è il momento in cui possiamo toccarci tra esseri umani, in cui siamo vigili e consapevoli ed è possibile l’azione volontaria, in cui i bambini possiamo crearli da soli, all’antica maniera, rischiando pure che ci vengano con il naso a campana come il nonno o con le gambe corte come la zia, magari con qualche difficoltà che li renderà all’inizio più diversi degli altri e poi più speciali degli altri. Fatti da noi invece che cucinati e impiattati dal dottor-chef mentre stavamo dormendo. Altrimenti vi immaginate i discorsi in laboratorio?
I signori del tavolo sei sono allergici all’alopecia e non desiderano le sopracciglia unite. Voilà, lo sformato di beltà su letto di quoziente intellettivo sopra la media è pronto. E Super Vicky che col suo fare robotico serve ai signori un bebè perfetto.

Corriere 1.7.17
Dopo il voto calano M5S e dem Balzo della Lega, ora è al 15% E FI guadagna quasi un punto
di Nando Pagnoncelli

Rebus governabilità: solo Grillo, Salvini e Meloni potrebbero farcela
L e elezioni comunali di giugno hanno rappresentato, come di consueto, una sorta di ordalia e anche il dibattito post-elettorale ha seguito il copione usuale: tra i diversi esponenti politici, infatti, il significato del risultato uscito dalle urne nonché le presunte motivazioni di voto degli elettori sono risultati tutt’altro che univoci. E ciò è accaduto anche all’interno degli stessi partiti o tra partiti appartenenti alla stessa area. Si è assistito a una sorta di gioco delle parti: c’è chi ha utilizzato toni trionfali, chi ha minimizzato un esito negativo, chi ha drammatizzato. Quasi sempre in modo apodittico, senza lasciare spazio a dubbi.
Ma chi ha vinto secondo gli italiani? La maggioranza relativa degli intervistati (37%) assegna la vittoria a tutto il centrodestra nel suo insieme e a costoro si aggiunge il 14% che indica Berlusconi e il 9% Salvini; a seguire il 24% ritiene che abbia vinto l’astensione, indice di disaffezione dei cittadini nonostante si trattasse delle elezioni comunali, cioè quelle più prossime agli interessi dei cittadini. Chiudono la graduatoria il Movimento 5 Stelle e Renzi, citati rispettivamente dall’11 e dal 5%.
Anche tra le file del Pd la maggioranza attribuisce la vittoria al centrodestra o ai suoi leader, in particolare a Salvini (16%, peraltro alla pari di Renzi) e una quota non trascurabile (37%) accentua l’importanza attribuita al «partito del non voto». Tra i pentastellati la maggioranza attribuisce la vittoria al proprio movimento (37%) e, a seguire, all’astensione (30%) mentre gli elettori del centrodestra appaiono decisamente galvanizzati e considerano il risultato soprattutto una vittoria dell’intera area politica e in secondo luogo del proprio leader: Salvini, indicato dal 42% dei leghisti, e Berlusconi, dal 32% dei suoi elettori.
Le opinioni si dividono riguardo alla strategia futura del Pd: il 54% degli italiani ritiene che il partito di Renzi debba rafforzare l’unità a sinistra mentre il 46% è di parere opposto e pensa che l’alleanza con la sinistra possa determinare una sconfitta per il Pd. Si tratta di una divisione presente anche tra gli elettori del Pd (55% a 45%).
Il voto di giugno ha rovesciato le opinioni riguardo alla data delle prossime elezioni politiche: oggi infatti il 56% vorrebbe che si votasse alla fine della legislatura mentre il 44% auspica di votare il più presto possibile. Solo i pentastellati preferiscono il voto subito (60%), mentre nel centrodestra gli elettori sono decisamente più divisi, probabilmente perché nonostante il positivo risultato ottenuto alle comunali ritengono che ci sia bisogno di più tempo per definire i programmi e, soprattutto, la leadership. Analogamente tre elettori su quattro del Pd vorrebbero votare a fine legislatura, in parte perché molti si oppongono a far cadere il governo Gentiloni che continua a mantenere un buon livello di consenso, in parte perché si sono acuite le tensioni interne, testimoniate dalle dichiarazioni di alcuni importanti esponenti del partito, e la ricomposizione richiede tempo.
Anche gli orientamenti di voto hanno fatto registrare alcuni cambiamenti degni di rilievo. In particolare rispetto alla settimana antecedente il primo turno delle comunali i due principali partiti fanno segnare una flessione, più marcata per il M5S (-2,3%) rispetto al Pd (-1,5%). Il vantaggio del primo sul secondo si è assottigliato e si attesta allo 0,5% (28,3% a 27,8%). Al contrario il centrodestra appare in crescita, soprattutto per merito dei due principali soggetti: la Lega passa dal 12,4% al 15% e sorpassa Forza Italia che dal 13,5% sale al 14,3%. Fratelli d’Italia fa registrare una lieve flessione (da 4,8% a 4,2%). Nell’insieme, quindi, si attesta al 33,5% (+2,8%).
Alla luce di questi dati, simulando la ripartizione dei seggi secondo quanto previsto dall’Italicum, l’unica maggioranza possibile sarebbe quella tra M5S (193 deputati) e sovranisti (104 per la Lega e 28 per FdI). Viceversa un’alleanza tra Pd (197), Forza Italia (99) e liste autonome/voto estero (9) si fermerebbe sotto la soglia dei 316, non potendo contare né sull’area centrista né sulla sinistra che al momento risulterebbero sotto il 3%.
Ipotizzando una lista unica di sinistra la situazione cambierebbe perché ci sarebbero i presupposti per una ipotetica (anche se poco realistica) maggioranza extralarge che comprenda, nell’ordine, Pd (186), Forza Italia (93), sinistra (37) e liste autonome/voto estero (9).
Insomma, nonostante qualche cambiamento, la governabilità continua ad essere una chimera .
@NPagnoncelli

il manifesto 1.7.17
L’Estonia gela Gentiloni: «Niente decisioni sui migranti»
Migranti. Tallinn punta su esternalizzazione delle frontiere e aiuti alla Libia
Ma di far sbarcare i migranti nei porti europei non se ne parla
di Carlo Lania

Altro che blocco dei porti, come ha minacciato di fare Paolo Gentiloni se l’Europa non si decide ad aiutare il nostro Paese nell’affrontare l’emergenza sbarchi. Qui a restare fuori non dal porto, bensì dalla porta rischia di essere proprio l’Italia. A gelare le speranze del premier di ricevere la sospirata solidarietà europea, è stato ieri il ministro degli Interni estone Andreas Anvelt a cui spetta il compito di guidare il vertice informale dei colleghi degli Interni e della Giustizia Ue di mercoledì prossimo a Tallinn. Vertice dal quale, nelle aspettative italiane, dovrebbe uscire la disponibilità almeno da parte di alcuni Stati – Francia e Spagna per primi – a far sbarcare nei propri porti una parte dei migranti salvati nel Mediterraneo. E invece no. «All’Italia non daremo nessuna risposta», ha fatto sapere ieri Anvelt, spiegando che mercoledì nella capitale estone «ascolteremo quali sono stati i cambiamenti» che hanno portato Roma a minacciare la chiusura dei suoi porti alle navi delle Ong straniere, per poi studiare «come affrontare la questione della protezione delle frontiere, dei porti e delle relazioni con la Libia». Insomma un modo per prendere tempo, come se a Tallinn non sapessero bene qual è il problema.
L’Estonia avvia oggi il suo semestre di presidenza europeo e se il buongiorno si vede dal mattino l’Italia ha poco da aspettarsi. Del resto un anticipo di quella che sarà la linea di Tallinn lo si è avuto nei giorni scorsi quando una nota del governo estone ha spiegato che, anziché litigare su questioni come il ricollocamento dei migranti, sarebbe meglio affrontare dossier sui quali i 28 sono già d’accordo, come i rimpatri, il controllo delle frontiere e la cooperazione con i Paesi terzi. Tutti argomenti sui quali – ha concluso il direttore per gli affari Ue, Klen Jaarts – si può contare anche sulla collaborazione di Paesi solitamente «refrattari» come Polonia e Ungheria. Come già successo con l’uscente presidenza maltese, anche per i prossimi sei mesi si rischia dunque di non affrontare una questione cruciale come la riforma di Dublino. «Trovo vergognose che l’unica cosa su cui i governi europei riescono a trovare un accordo – ha detto ieri la relatrice della riforma, l’europarlamentare Elly Schlein – sia l’esternalizzazione delle frontiere, parlando solo di accordi con la Libia e con Paesi terzi per evitare l’arrivo dei migranti, mentre non fanno un passo avanti su Dublino».
Per l’Italia quello che arriva dall’Estonia è il secondo brutto segnale nel giro di neanche 48 ore. Il primo a far capire al nostro governo che le minacce non avrebbero prodotto effetti è stato il presidente francese Emmauel Macron che ha sì espresso solidarietà a Gentiloni, ma ha anche spiegato che il sostegno della Francia riguarderà solo «i veri profughi», mentre «l’80% dei migranti che arrivano in Italia sono economici». Nel caso ci fossero dubbi, ieri una nota dell’Eliseo ha aggiunto che serve una «soluzione europea» alle questioni sollevate da Roma. C’è poi da segnalare la presa di posizione del ministro dei Trasporti Graziano Delrio che ha fatto sapere di non voler ordinare la chiusura dei porti.
A questo punto Palazzo Chigi rischia di ritrovarsi in un vicolo cieco. Se l’Europa continua a «girare la faccia dall’altra parte», come ha denunciato nei giorni scorsi Gentiloni, il governo dovrà decidere se mettere o no in pratica la sua minaccia. Se non lo fa scatena la reazione di Lega e centrodestra che non aspettano altro. Se invece lo fa rischia di trovarsi in una posizione anche peggiore e di attirarsi le critiche di mezzo mondo. Basti immaginare una sola nave carica di migranti, donne e bambini compresi, ferma sotto il sole al limite delle acque territoriali. Anche se riforniti di acqua e cibo – come garantito – è comunque una pessima situazione. «Se non fosse una provocazione sarebbe inaccettabile», ha detto il direttore della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego, commentando l’eventuale blocco di porti.
Proprio per questo, per evitare di ritrovarsi ostaggio delle proprie scelte, in queste ore sta aumentando il pressing del governo sulle cancellerie europee. L’Italia può contare sull’appoggio della Germania e del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker che però non bastano visto che poi le decisioni vere sono quelle che vengono prese nel Consiglio europeo. Per ora di sicuro ci sarebbero solo altri 40 milioni di euro promessi da Juncker per la Libia. Che però rischiano di non bastare.

Corriere 1.7.17
Bombardare i Lager? Polemica inutile
di Simone Veil

Gli Alleati avrebbero dovuto bombardare i campi? Alla fine delle ostilità, si è discusso molto su questo problema. A volte ho avuto l’impressione che alcuni intellettuali si impegnassero più ad additare l’astensione «colpevole» di Roosevelt e Churchill che a denunciare gli orrori dei campi di concentramento nazisti.
Nel criticare le scelte strategiche degli Alleati è preferibile impiegare una certa ponderatezza, piuttosto che giudizi perentori. Malgrado i numerosi argomenti avanzati in favore dei bombardamenti che avrebbero dovuto distruggere le camere a gas, non posso fare a meno di nutrire delle riserve. Quando gli Alleati tentarono un’operazione del genere, ad Auschwitz, non ottennero granché. Mia sorella Denise, otto giorni prima della fine dei combattimenti, a Mauthausen si trovò coinvolta in un attacco aereo a sorpresa. Quel giorno, insieme ad altre sette compagne, stava sgomberando le rotaie del treno, devastate da un bombardamento precedente. Non avendo avuto il tempo di mettersi al riparo, cinque di loro morirono. Quei bombardamenti, dunque, hanno avuto il doppio svantaggio di essere inefficaci e crudeli. Inefficaci perché non hanno mai spaventato i responsabili dei campi, crudeli perché alla fine hanno ucciso più deportati che nazisti. In conclusione, mi sembra che le polemiche su questo argomento servano solo a nutrire i falsi dibattiti di cui tante persone si mostrano avide quando gli eventi sono passati, la discussione non costa niente ed è priva di rischi.
Per quanto mi riguarda, penso che gli Alleati abbiano fatto bene ad avere come priorità assoluta la conclusione delle ostilità. Se si fossero diffuse le notizie riguardo ai campi, l’opinione pubblica avrebbe esercitato una tale pressione per farli liberare che l’avanzata degli eserciti sugli altri fronti, già difficile, avrebbe rischiato di esserne ritardata. I servizi segreti erano informati delle ricerche tedesche in materia di nuove armi. Nessuno stato maggiore poteva rischiare di far differire il crollo del Reich. Le autorità alleate optarono dunque per il silenzio e l’efficacia. Comunque ciò non toglie che negli Stati Uniti i più informati sapevano cosa stava accadendo nei campi, e che la comunità ebraica americana non disse una parola, senza dubbio nel timore di un afflusso smisurato di rifugiati.
Come non condivido i giudizi negativi sul silenzio colpevole degli Alleati, non condivido il masochismo di alcuni intellettuali, come Hannah Arendt, sulla responsabilità collettiva e la banalità del male. Un tale pessimismo non mi piace. Anzi, sarei portata a vederci un comodo gioco di prestigio: dire che tutti sono colpevoli equivale a dire che non lo è nessuno.
(traduzione di Francesca Minutiello )

Repubblica 1.7.17
DAI VACCINI A CHARLIE
Ma sui minori nessuno abbia potere assoluto
CHIARA SARACENO

IL CASO del piccolo Charlie, il bimbo inglese di 10 mesi nato con una malattia genetica incurabile che non gli consentiva neppure di respirare autonomamente e progressivamente gli atrofizzava il cervello, che ha visto i genitori combattere contro i medici ed essere sconfitti dai tribunali, porta ancora una volta alla ribalta la questione di chi abbia, in ultima istanza, il diritto di decidere in nome del bene di un bambino: i genitori, i giudici, i medici o altri ancora?
Nella sua tragicità estrema, perché si tratta di un neonato condannato fin dalla nascita a sofferenze e del dolore di genitori che hanno continuato a sperare sino all’ultimo che ci potesse essere una possibilità di cura, richiama altri casi.
SEGUE A PAGINA 23
ALTRI casi in cui il conflitto tra genitori e, a seconda delle situazioni, medici, giudici o assistenti sociali è insanabile e ciascun soggetto tenta di prevalere in nome delle proprie buone ragioni, o anche solo della superiorità — morale, scientifica o giuridica — del proprio diritto a decidere su quale sia il bene del bambino.
Lo vediamo ogni volta che un bambino è sottratto alla potestà di genitori giudicati incapaci di provvedere al suo bene, ma anche quando questa sottrazione non avviene, e assistenti sociali e giudici vengono accusati di non aver agito per tempo. Lo stiamo vedendo in questi mesi nei conflitti sulle vaccinazioni, con genitori che proclamano il proprio intoccabile diritto a proteggere la salute dei propri figli non facendoli vaccinare, ma, di conseguenza, anche a far loro correre altri, statisticamente più certi, rischi.
C’è un confine al potere di decisione dei genitori sui propri figli? E quali sono i rischi di uno Stato o di una magistratura che espropriano i genitori della capacità di decidere sui rischi da far correre ai figli, sulla loro vita e sulla loro morte? Viceversa, quali sono i rischi, per i bambini innanzitutto, dell’essere lasciati esclusivamente al potere di decisione, e al discernimento, dei genitori?
In realtà nelle società democratiche i diritti, e le responsabilità, nei confronti dei bambini sono condivisi tra diversi soggetti e nessuno ha un potere assoluto. Accanto al diritto e dovere dei genitori di allevare e crescere i figli ci sono le norme sull’obbligo scolastico e il dovere della collettività a garantire l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie. I tribunali minorili e l’assistenza sociale rivolta ai minori sono nati storicamente non, o non solo, per sorvegliare e punire i minori devianti, ma per proteggerli da adulti irresponsabili o abusanti. I bambini e in generale i minorenni sono divenuti progressivamente titolari di diritti propri, che i genitori, ma anche le istituzioni pubbliche, sono tenuti a salvaguardare. Tra questi c’è, come per gli adulti, il diritto alla salute, quindi alla prevenzione e alle cure quando necessarie e appropriate, alla dignità, al non essere sottoposti a sofferenze inutili.
Di solito i diversi soggetti che hanno la responsabilità del benessere di un bambino si affidano l’uno all’altro in una sorta di divisione delle competenze. È agli insegnanti che tocca insegnare le varie materie, anche se possono esserci conflitti ai margini sugli stili educativi e relazionali. È ai medici che tocca decidere come affrontare una malattia o indicare le misure di prevenzione necessarie, anche se si può discutere ed eventualmente cambiare il medico che non convince.
Il problema sorge quando i diversi soggetti che hanno responsabilità per il bene del bambino entrano in radicale conflitto proprio sull’identificazione di questo “bene”, come nel caso del piccolo Charlie. È in questi casi che interviene la magistratura. Perché un adulto può decidere per sé e ha il diritto sia di chiedere il proseguimento a oltranza delle cure, anche contro ogni ragionevole speranza, sia quello di rifiutarle. Il dibattito sul testamento biologico riguarda precisamente l’esercizio di questo diritto anche quando non si è più in grado di farlo autonomamente. Si discute anche dell’età in cui un minore ha diritto di esprimere la propria volontà in questo campo, come già avviene per altre questioni. Ma un bambino piccolissimo, un neonato, non può parlare per se stesso. Qualcun altro deve parlare per lui.
Nel caso del piccolo Charlie, genitori e medici hanno valutato diversamente che cosa fosse meglio per lui: essere tenuto in vita artificialmente soffrendo, con una situazione già fortemente e irreversibilmente compromessa, per provare una cura sperimentale, o invece essere lasciato morire cessando la respirazione artificiale. Tre livelli di giudizio in Inghilterra hanno valutato che la posizione dei medici era più aderente al bene del bambino, più rispettosa del suo diritto a non soffrire inutilmente e a morire dignitosamente di quella dei genitori, pur motivata da un enorme e straziante amore. La Corte Europea dei diritti umani, interpellata, ha dichiarato la propria incompetenza, di fatto avallando il giudizio delle Corti inglesi.
Una decisione emotivamente difficile da accettare, imperfetta come tutte le decisioni che hanno a che fare con la vita, la morte, gli affetti. Che tuttavia va letta nell’ottica di un conflitto sull’obiettivo condiviso di fare la cosa migliore per un piccolo, non di una lotta di potere tra giudici, medici, genitori e neppure di una negazione del diritto alla vita di chi ha una disabilità grave.
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“ Nel caso di Charlie genitori e medici hanno valutato diversamente il suo bene”

Repubblica 1.7.17
DALL’ARTE E DALLA CULTURA NASCE IL NOSTRO IUS SOLI
TOMASO MONTANARI

APPAIONO non solo incomprensibili, ma destituite di ogni fondamento storico e culturale, le obiezioni relative al nucleo stesso della legge sullo Ius soli. Per una ragione molto semplice: in Italia l’idea stessa di nazione è indissolubile dal territorio come costruzione culturale.
Non siamo mai stati una nazione etnica, “per via di sangue”: non c’è nazione più felicemente “impura” di quella italiana, frutto dei più vari e numerosi meticciati. È un’altra, la nostra storia.
Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato il volgare italiano, vengono esaltati Cimabue e Giotto, padri dell’altra lingua degli italiani: quella dell’arte figurativa, e dei monumenti. E quando Raffaello, nel 1519, prova a convincere papa Leone X a difendere le rovine di Roma antica, definisce questa ultima «madre della gloria e della fama italiane»: in un momento in cui l’idea stessa di nazione era ancora solo un vago progetto, era già evidente il ruolo decisivo che in esso avrebbe avuto il suolo, e ciò che su quel suolo avevamo saputo costruire. Come tre secoli prima aveva capito Cimabue rappresentando (sulla volta della Basilica Superiore di Assisi) l’«Ytalia» attraverso i monumenti di Roma, è proprio la lingua monumentale dell’arte quella che, lungo i secoli, ha reso noi tutti “italiani” per purissimo Ius soli.
È un filo, questo, che si può seguire fino al Novecento. Per esempio, fino al momento in cui un gruppo di intellettuali antifascisti (Piero Calamandrei, Nello Rosselli, Luigi Russo, Attilio Momigliano, Benedetto Croce, Alfonso Omodeo, Leone Ginzburg e altri ancora) intraprese una straordinaria serie di “gite” domenicali per cercare nel paesaggio e nei monumenti «il vero volto della patria». Scrive Calamandrei: «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana… Era questo amore, che nelle nostre passeggiate ci guidava e ci commoveva; e lo sdegno contro la bestiale insolenza di chi era venuto a contaminare colla sua presenza l’oggetto di questo amore, e a preparar la catastrofe (che tutti sentivamo vicina) di questa patria, così degna di essere amata». Mentre il fascismo pervertiva il concetto stesso di nazione, si sentiva che era dal territorio — cioè dal suolo, dalla sua natura e dalla sua storia — che potevano rinascere un’idea di nazione e di patria.
È ciò che, dopo la Liberazione, riconosce la Costituzione, dove la Repubblica prende solennemente atto che siamo nazione per via di cultura. Accade nell’unico dei principi fondamentali dove appaia la parola “nazione”, il 9. Dicendo che la «Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» si iscrive nella Carta fondamentale la vicenda nazionale preunitaria. E lo si fa attraverso che cosa? Non attraverso la lingua, non attraverso il sangue, non attraverso la fede religiosa, ma attraverso la storia, l’arte e la loro inestricabile fusione con l’ambiente naturale italiano. In altre parole, la Repubblica prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale e il suo sistematico nesso col territorio hanno avuto nella definizione stessa della nazione italiana, agli occhi dei propri membri e agli occhi degli stranieri.
Non è un’idea astratta. Chiunque abbia un figlio che frequenti una scuola pubblica vede con i propri occhi come bambini di ogni provenienza divengano giorno per giorno italiani: facendo propria la lingua delle parole, ma anche prendendo parte a quell’antico rapporto biunivoco per cui noi apparteniamo al suolo patrio, che a sua volta ci appartiene. Siamo tutti, da sempre, italiani per via di suolo e cultura.
La legge sullo Ius soli si può certo discutere laddove (per esempio riferendosi al reddito del genitore non comunitario) rischia di introdurre una cittadinanza per censo. Ma la necessità di migliorarla ed ampliarla (ciò che si dovrà fare in seguito) non può certo indurre a dubitare della necessità di approvarla quanto prima: se non altro perché non fa che riconoscere un antico dato di fatto.

il manifesto 1.7.17
Cina, giovani senza passato
Mostra di Pesaro. Parlano gli autori di "The First Shot" vincitore del premio Lino Micciché come miglior film
di Sarah-Hèléna Van Put

«The First Shot» di Federico Francioni e Yan Cheng che l’anno scorso erano a Pesaro con il corto «La tomba del tuffatore» e quest’anno hanno vinto il premio principale della Mostra, è un film-viaggio di tre esistenze differenti e lontane, cinque insieme ai registi, che sullo sfondo di una Cina in continua trasformazione, metafora della sostituzione di qualcosa d’indefinito non connesso al passato, cercano di affrontare l’angoscia esistenziale della generazione post ‘89, interrogandosi sulla mancanza di un passato da connettere al presente e trovare così un senso alla loro esistenza, al loro futuro.
Come nasce il vostro progetto?
F: Quando Yan Cheng è tornato dalla Cina dovevamo scegliere il tema per il saggio di diploma del corso voluto da Giovanni Oppedisano, ex direttore della sede CSC de L’Aquila a cui abbiamo dedicato l’opera. Yan mi diceva che stava male ripensando alle parole dei suoi amici e voleva fare qualcosa su di loro. Da lì abbiamo iniziato a ragionare sulla possibilità di fare un film intimo, che affrontasse questo senso umano di spaesamento.
Y: Sono tornato in Cina per il capodanno e ho sentito l’esigenza di raccontare la sensazione della mia generazione degli anni 90. Quando ero piccolo, non sapevo che questa epoca fosse così importante per la Cina. Dopo Tienanmen tutto è cambiato: la globalizzazione, il mondo digitale, il capitalismo. Gli anni ‘90 in Cina sono stati una fase particolare perché è un’epoca in cui abbiamo perso l’ideologia, siamo andati avanti senza pensare a niente. Questa mancanza è qualcosa di grave. Abbiamo fatto tantissimi sforzi durante la rivoluzione culturale; durante la rivoluzione di Tienanmen un sacco di gente si è sacrificata, ma durante gli anni ‘90 tutto questo si è perso.
In Cina si parla della rivoluzione dell’89?
Y: Non è scritto nella storia, come non si affronta in profondità la rivoluzione culturale. I ragazzi non capendo bene cosa è successo non vogliono riflettere. Questo film quindi diventa anche un momento di considerazione su questa rivoluzione, su cosa è successo prima di noi, sul passato e sul sacrificio di tante persone per il nostro futuro ormai indeterminato. È lì la forza, portare le persone a interrogarsi, ad avere una coscienza.
Nel vostro film questo tema risulta velato, accennato.
F: Abbiamo messo la storia alle spalle dei personaggi. Il primo sparo che dà il titolo al film è della rivoluzione del ’89, in cinese il titolo è Sh-sh che vuol dire 10.10, come la X sulla locandina, il 10 ottobre 1911. Per noi era importante contestualizzare questi ragazzi nati dopo tutto quello che è successo, per dare una luce sulla loro vita di oggi. Non volevamo affrontare la storia, ma questo senso umano di spaesamento; è più una ricerca, un racconto su un vuoto interiore sull’angoscia, che sulla storia affrontata di petto.
C’è un momento nel film in cui attraverso la domanda di un bambino si raccontano le giornate di Tienanmen. Da dove viene questo ricordo?
Y: Questa è una frase che appartiene alla mostra curata da Peng Haitao dove, con un’immagine, una frase raccoglie quello che è successo durante gli anni ‘80. Voleva utilizzare internet come strumento attraverso il quale un’unica persona riesce a combattere il sistema dell’industria dell’arte e curare una mostra anche da solo. Il tema di Tienanmen nasce da un racconto di una sua amica su questa esperienza. Da lì ha avuto l’idea di raccogliere tutti questi frammenti di memoria per trasmettere questa esperienza non come una rievocazione celebrativa, ma attraverso i ricordi personali e intimi; scendendo in profondità e individuando ciò che appartiene ad ognuno di loro. È stato un momento importante e fortemente sentito, ma subito censurato.
Nel film Haitao parla di metafore, parole che rimandano all’idea di quello che è successo.
F: Le nuove generazioni che si occupano d’arte hanno trovato dei modi, imparato ad aggirare la censura attraverso dei meccanismi associativi, giocando molto con le metafore. Ti faccio un esempio. In un quartiere lavoravano per l’alta velocità e hanno chiuso i cittadini dentro il perimetro del quartiere. Iniziarono a protestare e la polizia assoldò degli uomini che a ogni passaggio a livello picchiavano con dei bastoni le persone che manifestavano. Gli artisti del quartiere iniziarono a pubblicare nei loro blog dei fumetti americani con dei riferimenti a questa situazione; però mai in modo esplicito, ma con delle allusioni ironiche. Questo modo di affrontare situazioni così grandi attraverso degli specchi, dei rimandi è qualcosa che appartiene a tutta la nuova generazione che cerca di dare un significato al loro passato. In occidente ci accontentiamo di dire lì c’è la censura, senza capire che in realtà delle maglie da cui uscire ci sono.
Il vostro è un film che porta a delle riflessioni, a dei cambiamenti. Prima di questo viaggio come avete percepito la vostra esistenza, la vostra vita?
Y: Prima che andassi a trovare Peng Haitao, era pieno di energia per il suo nuovo progetto. Quando siamo arrivati, invece, era pieno di dubbi, depresso. Questa energia è stata bloccata ogni volta che i suoi articoli erano censurati. Il secondo ragazzo Liu Yixing ha deciso di abbandonare quasi tutto e di vivere in uno spazio limitato, cercando di arrivare a un senso. Però fuori dalla sua casa il senso che vogliono loro, non è l’obiettivo della sua vita. Lui è fortemente bloccato dal contrasto di un mondo sempre in cambiamento. C’è un forte distacco che lui non capisce e non riesce quindi a trovare un senso per se stesso. La terza protagonista, You Yiyi, sta cercando di capire e di trovare un rapporto con la sua famiglia e la loro storia. I tre personaggi hanno modi diversi nell’approcciarsi a questa ricerca di senso e questo viaggio è stato l’unico modo per mettere in contatto questi modi differenti; attraversarli, connetterli. Questo viaggio fatto insieme porta delle domande, dei dubbi, ma non a un punto fermo; è sempre un rilancio verso nuove domande. È un viaggio di senso sempre in atto.
F: Il film è un percorso complesso. Sicuramente non è un film che vuole accusare, non è un film a tesi. È chiaro che c’è un problema. E ci siamo accorti che questo è un problema universale. In Italia i miei amici quando vedono il film mi dicono che percepiscono anche loro quest’ansia. Ansia che sta vivendo tutta la generazione degli anni ‘90. C’è un senso di spaesamento, di un futuro vertiginoso che va verso un cambiamento. Certo qui non abbiamo un regime, non c’è questa situazione apocalittica di costruzione perenne. Abbiamo provato a raccontare attraverso l’anima di tre persone qualcosa di estremamente grande. Il passato che cos’è, qual è la mia identità? Per la ragazza del film il futuro è andare a Londra, la moda, vivere in un mondo internazionale; dove non c’è più la cultura, l’anima, il passato ma esiste un progresso tecnologico, un benessere, una tecnocrazia infinita che crea questo senso di angoscia. Quando Liu Yixing parla dei dettagli scomparsi, si chiede «che cosa vedo? Vedo che tutto il passato, le facciate degli edifici ogni tre anni sono rinnovati, viene tutto costantemente cambiato, non c’è il tempo di conservare qualcosa, di dare un senso al percorso esistenziale che uno sta vivendo». Lui arriva al paradosso quando racconta di essere andato in Canada e si rende conto che lì non riesce a vivere perché è tutto fermo, fisso, uguale. Dopo il film li ho rincontrati e sono un po’ cambiati, ma hanno sempre questo senso di spaesamento, è qualcosa ormai di costitutivo del loro essere.
C’è la possibilità che il vostro film esca in Cina?
Y: I modi ci sono sempre, i festival di cinema indipendenti o visioni private. Il problema è di non far passare il film come un problema politico, ma di sollevare le sensazioni personali, portare le riflessioni su uno stato dell’essere. Il film è politico, ma non lo è più se lavora su uno sguardo personale. Il mio lavoro è stato un atto di sincerità, non vuole essere qualcosa di manifestatamente grande. È anche un modo sincero di come noi vediamo il cinema, il mondo di oggi. Utilizziamo tutti i modi più semplici per arrivare alla gente, non usiamo modi iper-concettuali, risolviamo questi concetti attraverso i fatti.
F: Potrebbero esserci problemi. In realtà sono stati fatti tanti film che affrontano direttamente la storia, ma non è il caso del nostro film… però alla fine c’è anche Mao.. penso che ci sparerebbero a vista per vilipendio alla figura di Mao. Forse si, sarebbe un po’ problematico, ma sarebbe bellissimo e importante.
Da un punto di vista estetico i tre personaggi sono scanditi dalla luce e dai colori: il giorno, la notte e infine il viaggio attraverso l’acqua, come avete lavorato sulla fotografia?
Si, si passa dai colori un po’ spenti del primo, il secondo un bianco glauco e il terzo, immerso nella natura sulle tonalità del verde e del giallo. E dell’acqua quando lei fa questo viaggio attraverso il traghetto, come se andasse nel mondo dell’aldilà, dall’altra parte della vita per cercare.
E in questo viaggio, in questo villaggio sono ancora presenti, si possono vedere dei solchi di storia.
Si. È anche il relitto della nave che lei incontra sul suo cammino, è come la storia di Tienammen non presa direttamente. Quello è il relitto di una nave che due anni fa, nella Cina ipermoderna, che non fallisce mai, affonda nel Fiume Giallo pieno di anziani che si divertono. È una notizia che ha fatto scalpore, l’immagine della Cina crolla in un attimo. Ed era lì abbandonata, buttata in mezzo al fiume in un angolo, come un qualsiasi detrito.
A un certo punto arriva la polizia, avete avuto problemi per girare?
F: si e in quel momento mi sono allontanato e nascosto. Se la polizia trova un occidentale che riprende un relitto così, non so cosa potrebbe succedere. Infatti in molte situazioni ero un po’ come un clandestino. Le riprese nell’ultimo villaggio, in campagna mi sono divertito tantissimo a girare e Yan Chang faceva il suono. Ma appena passava la polizia mi lanciava il microfono e mi diceva di nascondermi e lui faceva finta di girare matrimoni, cose così.
Con quali supporti avete girato?
Con una Black Magic una camera digitale molto bella, perfetta per questo film. Poi molte cose con l’iphone dove in Cina ormai è diffusissismo; volevamo sperimentare questo formato che rende benissimo. Diciamo che è stato girato in modo abbastanza artigianale. Avevamo tre microfoni e noi due. Non avevamo nessuno ad aiutarci per il suono, la fotografia. Siamo due, con una camera e spesso ci alterniamo, una cosa la gira lui una io. Ogni volta che vediamo il materiale per montarlo ci diciamo che è un miracolo che ci sia qualcosa in una situazione così estrema. Abbiamo fatto le riprese sulla muraglia cinese con i telefoni perché non avevamo altro e Peng Haitao nudo che dice basta voglio spogliarmi nudo, farla finita, e va via nudo. Non è importante con che cosa giri ma riuscire a catturare i momenti e l’iphone è meraviglioso ti permette di catturare con una rapidità che prima non avevi, qualcosa che compare e scompare con una buona qualità.

il manifesto 1.7.17
La paura di dirsi osservatori
Libri. Ernesto Galli Della Loggia, Credere Tradire Vivere, il Mulino
di Alessandro Barile

Galli Della Loggia è intellettuale che suscita emozioni, e per tale motivo ogni confronto col suo pensiero non può che essere caldo, appassionato, forse anche viscerale. Lungi dal giocare di fino, la grande qualità dell’editorialista del Corriere della Sera sta nel mettere sul piatto sempre un realismo spogliato da mistificazioni deformanti. E’ il pregio d’altronde di ogni posizione forte (e che un tempo si sarebbe detta reazionaria): si può non condividere, ma non si può ignorare né, tantomeno, banalizzare. Quest’ultima fatica editoriale, Credere tradire vivere, segue in perfetta continuità la posizione che da decenni l’intellettuale romano si è ritagliato nel discorso pubblico: la voce della coscienza di una borghesia in crisi d’identità. Della grande borghesia, attenzione. Quella capace, nell’ottica dell’autore, di costruire un’etica pubblica, dei valori universali; in altre parole: una Cultura nazionale. Non è la nostalgia vittimista, né l’ironia post-moderna, a guidarne i ragionamenti, quanto un’arcigna interpretazione del corso della storia.
Si chiede Stefano Feltri dalle colonne del Fatto quotidiano perché il libro di Galli Della Loggia sia stato accolto con tanta plateale indifferenza, concedendosi una risposta forse troppo accomodante: perché chi avrebbe dovuto parlarne è anche l’oggetto delle invettive del libro. Una sorta di coscienza sporca, potremmo definirla, di gran parte del mondo intellettuale accusato di aver “tradito” certi furori giovanili. Permettiamo di avanzare un’altra ipotesi. Il prolifico autore ci sembra scrivere da un ventennio abbondante sempre lo stesso libro. Sempre uguali i protagonisti, identiche le invettive e i “conti da regolare” con la presunta (sotto)cultura dominante. Eppure Galli Della Loggia fa ampiamente parte, anzi ne è uno dei membri onorari, di questa cultura dominante che ha contribuito a plasmare. Da dove deriva questa coscienza infelice allora? Dove la discrasia tra le idee professate in ogni dove e la direzione di questa presunta cultura dominante? Troppo distante questo lamento dalla realtà quotidiana per non somigliare ad una posa studiata, che Della Loggia assume per veicolare meglio il suo discorso.
Il libro intreccia la propria biografia con quella della nazione, dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Seguendo un genere ormai abusato, relaziona le vicende personali a quelle di una Repubblica nata dal vizio originario dell’antifascismo, usato come fonte di legittimazione politica. D’altronde, per buona metà del testo l’autore mira alla demolizione scientifica di ogni retorica antifascista, di ogni mitologia costituente. L’antifascismo è, per l’autore, il grimaldello ideologico che ha reso accettabile l’anomalia politica del Pci. Ma questo sotterfugio retorico smaschera le ben più prosaiche intenzioni di Galli Della Loggia. Non si può essere hegeliani a corrente alternata. Drastico nel ridurre la storia a totalità quando si tratta di sottoporla a critica impietosa (lo “spirito dei tempi” ci ricorda costantemente l’autore, autoassolvendosi dall’onta di essere stato “di sinistra”), questa cessa di colpo di essere sintetizzata quando si tratta di demolire il senso della legittimazione antifascista. Cosa rimane una volta fatta la tara degli errori dell’antifascismo? Quale l’alternativa all’antifascismo in un paese “di confine” come quello della Prima Repubblica? Pur nei suoi innumerevoli errori, nelle sue mitologie distorte, nelle sue retoriche consociative, quale “terza via” era concretamente ipotizzabile per un paese uscito dalla lotta contro il fascismo, impregnato di fascismo nella sua burocrazia post-bellica, cedevole a pulsioni autoritarie, queste sì legittimate dallo spauracchio comunista?
Alla fine, quando a crollare insieme al Muro è questa Repubblica deformata, portandosi dietro la vituperata “vigilanza antifascista”, cosa rimane allora di questa Italia che finalmente si è liberata dei suoi lacci ideologici? Ben poco di edificante. Talmente poco che neanche l’autore riesce a gridare: “finalmente!”, perché, proprio in quanto autore intelligente, si rende conto per primo che quella tanto deprecata legittimazione politica fondata sull’antifascismo teneva unito un discorso pubblico che oggi si è rotto in mille pezzi, non più ricomponibili perché non comunicanti tra loro. Il problema è che Galli Della Loggia ha vinto; è il paese che ha perso, scoprendosi improvvisamente a-fascista.