mercoledì 12 luglio 2017

SULLA STAMPA DI MERCOLEDI 12 LUGLIO

https://spogli.blogspot.com/2017/07/sulla-stampa-di-mercoledi-12-luglio.html

Presto l’Isis annuncerà
il nome del nuovo Califfo.
Il tempo di mettere d’accordo Putin e Trump
www.forum.spinoza.it

il manifesto 12.7.17
L’1% degli italiani detiene il 20% delle ricchezze finanziarie
Rapporto Boston Consulting. Il numero dei milionari è destinato ad aumentare da qui al 2021, come anche la disuguaglianza
di Mirco Viola

In Italia e nel mondo il numero dei ricchi è destinato ad aumentare, e con loro anche le disuguaglianze. Nel nostro Paese, oggi, 307 mila famiglie, pari all’1,2% del totale, detengono il 20,9% della ricchezza finanziaria sotto forma di azioni, obbligazioni, depositi e strumenti di liquidità. I dati vengono dal rapporto Global wealth 2017 elaborato dalla società di consulenza finanziaria Boston Consulting Group .
Nei prossimi anni, spiega ancora il rapporto, ci sarà un leggero allargamento della ricchezza: nel 2021, infatti, si prevede che il numero di famiglie italiane milionarie salirà a 433 mila (l’1,6% del totale) con una quota di ricchezza pari al 23,9%. A livello globale, il numero di famiglie milionarie è cresciuto del 7% in un anno arrivando a circa 18 milioni. E nel mondo la ricchezza è molto più concentrata rispetto alla sola Italia: l’1% di famiglie possiede infatti il 45% della ricchezza complessiva.
Sempre tenendo conto dei dati globali, tra le famiglie milionarie il 12% detiene patrimoni superiori al milione di dollari e nel 2021 la percentuale salirà al 16%. La maggiore crescita riguarderà le famiglie con una ricchezza tra 1 e 20 milioni di dollari (incremento del 6,1% medio l’anno) seguita dai super ricchi – patrimoni oltre i 100 milioni – con un tasso di aumento del 4,6% l’anno.
La ricchezza finanziaria privata continua a correre in tutto il mondo, e a tassi crescenti anno per anno: a livello globale la corsa di Wall Street e degli altri principali mercati ha portato nel 2016 il valore totale di azioni, obbligazioni e depositi bancari alla cifra astronomica di 166.500 miliardi di dollari. Rispetto al 2015 l’incremento è del 5,3%, superiore al +4,4% registrato l’anno precedente. Nel 2021 si dovrebbe toccare la quota di 223.100 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 6%, derivante in parti uguali dalla creazione di nuova ricchezza e dalla valorizzazione degli asset esistenti.
L’aumento della ricchezza privata è generalizzato in termini geografici «ma ancora una volta è stata l’area dell’Asia-Pacifico a segnare lo sviluppo più rapido – spiega il rapporto del Bcg – l’incremento è stato del 9,5%, inferiore a quello a due cifre degli anni passati (la media 2011-2015 era stata del 12%) ma tale da prospettare a breve uno storico sorpasso ai danni dell’Europa occidentale come secondo mercato più ricco». L’area con Stati Uniti, Canada e Messico ha segnato un incremento robusto, +4,5%, superiore a quello dell’Europa occidentale, pari al +3,2%. Mentre la ricchezza finanziaria globale è cresciuta del 5,3% e, in Europa, come detto, del 3,2%, l’Italia ha registrato al contrario una leggera battuta d’arresto.

Corriere 12.7.17
Il malinteso di Einstein
Lo scienziato non seppe replicare alle critiche di Karl Popper
Gli sfuggiva che lesperienza non è illusoria perché gli esseri sono eterni e si limitano a variare nel tempo
di Emanuele Severino

Esiste una specie di analogia tra le critiche che Karl Popper rivolse a Einstein e quelle rivolte da Gustavo Bontadini (1903- 1990) al contenuto dei miei scritti. Fermo restando, ovviamente, il divario tra le due discussioni quanto alla loro risonanza storica — là c’è Einstein di mezzo —; sebbene il pensiero filosofico di Bontadini non abbia nulla da invidiare a quello di Popper. D’altra parte, le argomentazioni che quest’ultimo presenta alla prospettiva einsteiniana hanno un carattere eminentemente filosofico; e Einstein accetta di muoversi su questo terreno.
Nella sua Autobiografia intellettuale (1976) Popper scrive, riferendosi a Einstein: «L’argomento principale delle nostre conversazioni fu l’indeterminismo. Io cercai di persuaderlo ad abbandonare il suo determinismo, che in pratica si riduceva all’idea che il mondo fosse un universo chiuso, di tipo parmenideo, a quattro dimensioni, nel quale il mutamento era un’illusione umana, o qualcosa di molto simile. (Egli era d’accordo che questa fosse la sua opinione, e discutendo di ciò lo chiamai “Parmenide”)». Einstein accetta cioè l’interpretazione che inscrive la teoria della relatività nella filosofia di Parmenide. In seguito si mostrerà meno fermo nella sua adesione al determinismo; ma non risulta che il suo parmenidismo abbia vacillato.
Si aggiunga che l’intento di Popper di convertire Einstein all’indeterminismo di Heisenberg era già esso un tentativo di conciliare ciò che sembra inconciliabile: teoria della relatività e meccanica quantistica. Un tentativo che in campo fisico ha avuto grandi sviluppi e che continua tuttora, ad esempio nelle ricerche di Carlo Rovelli, anche recentemente presentate dal «Corriere».
Certo, nella discussione Popper-Einstein non si tratta del Parmenide «storico», quello cioè discusso da Platone, Aristotele, Hegel. Ma questa circostanza è uno dei fattori che avvicinano le due critiche che ho indicato all’inizio. Il Parmenide «storico» sostiene l’eternità del puro Essere , non degli esseri , ossia delle cose che sono. Invece sin quasi dall’inizio i miei scritti mostrano la necessità che ogni cosa-che-è sia eterna — dove «cosa» è da intendere nel senso più ampio, che include ogni evento, relazione, sfumatura, dunque anche ogni evento spazio-temporale, cioè anche (ma non solo) gli eventi del cronotopo quadridimensionale dell’universo einsteiniano.
Va però tenuto presente che la «logica» in base alla quale la teoria della relatività afferma che ogni cosa è eterna è essenzialmente diversa dalla necessità a cui si rivolgono i miei scritti. Ormai la scienza — coinvolgendo quindi anche la teoria della relatività — riconosce il carattere ipotetico e provvisorio delle sue tesi, anche di quelle più «confermate». Ed è innanzitutto in questo senso che nella sua essenza la filosofia può andare più in là della scienza (alla quale, d’altra parte, ormai interessa la potenza e non la «verità»). Resta comunque il fatto che la tesi «parmenidea» della teoria della relatività suona identica alla tesi dei miei scritti che ogni essere è eterno — anche se la fondazione delle due tesi è abissalmente diversa, sì che le tesi stesse sono diverse.
Non solo. Popper e Einstein sono d’accordo sul fatto che per Einstein, come per il Parmenide storico (o quello che essi ritengono tale), l’«esperienza» del mutamento sia illusoria; nei miei scritti si mostra invece che se l’«esperienza» mostra il variare del proprio contenuto, non mostra quel senso del mutamento che per Einstein-Parmenide è illusorio. Provo a chiarire.
Per tutte le forme di sapienza dell’Occidente, che ormai stanno alla base di ogni altra sapienza, il passato è ciò che non è più (ossia ciò che ormai è nulla), il futuro è ciò che non è ancora (ossia ciò che ancora è nulla). Per Einstein l’esperienza di questo passaggio dal non essere ancora al non essere più è illusorio: nei miei scritti si fa invece vedere che l’«esperienza» non attesta e non può attestare il passaggio da ciò che non è ancora a ciò che non è più, e quindi si fa vedere che l’«esperienza» non è illusoria; e poiché ogni essere è eterno, il variare dell’esperienza è il comparire e lo scomparire degli eterni. Certo, il senso e la struttura dell’ apparire è estremamente complesso (qui contentiamoci di averlo evocato), ma avrebbe consentito a Einstein di rispondere alle critiche di Popper.
In esse Popper ripropone più volte la metafora dei fotogrammi e della loro proiezione. Ogni essere è come un fotogramma di un film; i fotogrammi sono tutti coesistenti e immutabili; è la loro proiezione a dare l’illusione del movimento. La proiezione corrisponde all’«esperienza» illusoria del movimento. Einstein accetta la metafora. Ma Popper obbietta: «Se noi esperissimo immagini successive di un mondo immutabile, allora una cosa, almeno, sarebbe genuinamente mutevole in questo mondo: la nostra esperienza cosciente. Una pellicola cinematografica, sebbene esistente adesso [tutta insieme], e predeterminata, deve passare , scorrere attraverso il proiettore (cioè, relativamente a noi stessi), per produrre l’esperienza, o l’illusione del cambiamento temporale. […] E dal momento che noi siamo parte del mondo, vi sarebbe così un cambiamento del mondo — il che contraddice l’opinione di Parmenide» ( Poscritto alla logica della scoperta scientifica , vol. II, par. 26) e, propriamente, del Parmenide non storico che afferma l’eternità di tutti i molteplici esseri del mondo — laddove il Parmenide storico, di Platone, Aristotele, Hegel, nega l’esistenza di una molteplicità degli esseri e qualifica come illusoria anche tale molteplicità. Comunque, relativamente a questa sua critica (e ad altre), riferisce Popper, Einstein «disse che ne era rimasto colpito e che non sapeva come rispondervi». Notevole, questo atteggiamento di Einstein, anche perché esso mostrava che la teoria della relatività intende coinvolgere non solo il mondo fisico, ma anche «la nostra esperienza cosciente». (E d’altra parte il suo realismo smentisce il suo eternalismo, perché se la realtà esiste anche se non esiste «la nostra esperienza che è cosciente» di essa, allora questa esperienza è qualcosa che può esser nulla, ossia non è eterna).
Soprattutto a questa obbiezione della pellicola cinematografica mi riferivo all’inizio parlando dell’ analogia delle critiche di Popper a Einstein e di quelle di Bontadini al contenuto dei miei scritti. In quest’ultimi, sì, si afferma l’eternità di ogni essere, di ogni configurazione che la realtà va assumendo via via in ogni istante. Einstein non sa come rispondere alla critica di Popper, anche perché a sua volta — come Popper, come Bontadini, come ogni sapienza dell’Occidente e ormai del Pianeta — ritiene che il mutamento sia comunque da intendere come un uscire delle cose dal loro non essere e un ritornarvi. (Comunque: si concepisca il mutamento come reale o come illusorio). Quindi anche Einstein è costretto a intendere in questo modo il passare , lo scorrere della pellicola attraverso il proiettore. Anche per lui, nella «nostra esperienza cosciente» le cose passano dal non essere all’essere e viceversa.
Ma, al di fuori della Notte della non-verità in cui consiste questo modo di pensare, il mutamento è — stiamo dicendo — il comparire e lo scomparire degli eterni. E a Bontadini dicevo che, poiché anche il loro apparire è un essere eterno, anche il loro apparire compare e scompare. Ma per andare a fondo nel significato di queste espressioni deve farsi avanti una dimensione del pensare e del dire essenzialmente diversa da quella della Notte .
Nei miei scritti l’obbiezione che poi Bontadini mi avrebbe rivolto era già stata considerata. Egli l’aveva ripresa dagli anni Sessanta in poi, e appunto mi obbiettava: se e poiché il mutamento è quel comparire-scomparire di cui tu parli, non si dovrà dire che almeno il loro apparire esce dal nulla e vi ritorna? L’ apparire corrisponde alla proiezione del film di Popper. Ma questa volta si può rispondere: dicendo appunto che come l’eterno in cui consiste questa voce , o quest’ombra, o questo ricordo incomincia ad apparire e ora non appare più, così l’eterno in cui consiste l’ apparire di questa voce, di quest’ombra, di questo ricordo incomincia ad apparire e ora non appare più. (Eppure Bontadini era giunto a riconoscere l’eternità di ogni essere! Certo, «non dando ascolto a me, ma al logos », come diceva Eraclito).

ll manifesto 12.7.17
Un amorevole risarcimento per Walter Benjamin
Saggi. I saggi e le lettere di Hannah Arendt per difendere l’eredità teorica di Walter Benjamin. Nel volume anche il manoscritto originale delle Tesi sulla filosofia della storia
di Marco Pacioni

Dopo la bocciatura del Dramma barocco tedesco che avrebbe dovuto garantirgli l’accesso all’università, a Walter Benjamin rimane aperta l’incerta strada della dipendenza economica da istituzioni culturali come quella dell’Istituto di Ricerche Sociali di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno per i suoi studi. Una strada fatta di precarietà, corroborata da collaborazioni occasionali con giornali e radio che comunque non avrebbero potuto sostituirsi all’aiuto fornitogli dalle finanze familiari. La condizione precaria di Benjamin si aggrava quando il nazismo lo costringe all’esilio in Francia e da qui al tentato espatrio negli Stati Uniti naufragato con il suicidio a Port Bou il 26 settembre del 1940.
ANCHE NELLA DIFFICILE condizione di chi fugge con pochi mezzi, Benjamin non rinuncia a portare avanti i suoi studi e a scrivere. Gli scritti del periodo dell’esilio francese portano forti i segni delle difficili condizioni in cui era venuto a trovarsi. Altresì forti in questi testi sono le tracce del condizionamento degli interlocutori che anche a distanza cercano di influenzare e indirizzare la sua opera. La filologia di queste intricate e controverse vicende inscindibilmente testuali e biografiche, solo in parte ricostruibili attraverso gli scambi epistolari, ha determinato una vera e propria competizione sulla sull’opera interrotta dall’improvvisa morte.
Da un lato gli interlocutori a distanza come Adorno e Horkheimer (dalla loro parte si schiererà anche Scholem dopo l’interruzione dei rapporti con Arendt in seguito alla pubblicazione di Eichmann a Gerusalemme nel 1963) e dall’altro lato Hannah Arendt che con Benji (questo il modo familiare con il quale la filosofa si rivolgeva a Benjamin) era entrata in contatto diretto proprio nell’ultima fase della sua vita. È proprio sull’intenso rapporto con Arendt durante l’esilio francese e sulla ricezione postuma dei suoi ultimi scritti che verte il libro Hannah Arendt Walter Benjamin, L’angelo della storia. Testi, lettere, documenti (a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, traduzione italiana di C. Badocco, Giuntina, pp. 263, euro 15).
Il volume ha un valore documentale notevole. Vi compare tradotta dal tedesco la prima versione del saggio di Arendt su Benjamin pubblicato a più riprese nel 1968 sulla rivista «Merkur» – saggio che nello stesso anno diventerà il testo dell’introduzione a Illuminazioni, la raccolta di scritti allestita da Arendt che risulterà determinante per la diffusione dell’opera di Benjamin soprattutto nei paesi anglofoni.
NELL’ANGELO DELLA STORIA troviamo pure per la prima volta la traduzione italiana facsimilare delle Tesi sul concetto di storia nella versione che Benjamin aveva dato a Arendt. Questa versione fornirà una delle basi fondamentali per la primissima edizione di questo scritto nel ciclostilato commemorativo fuori commercio allestito dall’Istituto francofortese nel 1942 a ricordo della morte di Benjamin. Nel libro curato da Schöttker e Wizisla, a parte il loro importante saggio introduttivo, troviamo anche tradotti in italiano e in riproduzione fotografica cartoline, lettere e altri documenti di Arendt, Benjamin e altre personalità coinvolte nel conflitto sulla proposta e ricezione dell’opera di quest’ultimo.
Hannah-Arendt21
Su cosa si appunta la controversia su Benjamin fra Arendt e gli altri? Si è detto più volte che la contesa riguarda in che misura si possa considerare materialistico il pensiero storico politico di Benjamin e, di conseguenza, quanto nella sua opera invece continui o meno ad agire la teologia, riguardo la quale Benjamin interloquiva soprattutto con Scholem.
UNA LETTURA ATTENTA dei documenti di questo libro, al di là del materialismo, della teologia e di altri elementi concettuali, alimenta il sospetto che la controversia su Benjamin verta anche su ragioni in un certo senso personali e biografiche che i curatori del volume definiscono come la volontà di «risarcimento» di Arendt per i danni provocati al pensiero e all’opera di Benjamin dalla condizione di dipendenza e precarietà che i supposti amici francofortesi non avrebbero saputo e voluto lenire.
Secondo Arendt, Benjamin sarebbe stato letteralmente tradito proprio da chi intellettualmente e materialmente avrebbe potuto e dovuto aiutarlo. Dalle lettere raccolte nel libro, si nota che l’intenzione di Arendt di contrapporsi a Adorno e Horkheimer riguardo Benjamin si palesa ben prima che lei scriva il saggio sull’amico pubblicato da «Merkur» nel 1968 e altresì prima della pubblicazione delle Lettere curate da Scholem e Adorno che avevano fatto deflagrare a più ampio raggio la polemica su Benjamin. Già in una sua missiva a Blücher dell’agosto del 1941, Arendt si esprime senza mezzi termini nei confronti di Horkheimer e Adorno che arriva a definire «porci», sostenendo che il manoscritto delle Tesi sul concetto di storia inviato a loro da Benjamin in realtà era stato fatto sparire da loro stessi che non avrebbero voluto pubblicarlo, così come non avevano pubblicato quella che Arendt in una lettera inviata a Adorno chiama la «versione originale» del saggio su Baudelaire. Solo forse la circostanza della commemorazione della morte di Benjamin, secondo Arendt, avrebbe potuto convincere quelli dell’Istituto di Ricerche Sociali a pubblicare, come infatti avvenne, l’ultimo lavoro di Benjamin e cioè le famose Tesi sul concetto di storia che la stessa Arendt aveva provveduto nuovamente a inviare a Adorno.
OLTRE LA PRESA DI POSIZIONE che esprime soprattutto nello scritto pubblicato su «Merkur», Hannah Arendt vuole anche una sua personale selezione di scritti di Benjamin. All’inizio dell’appendice del libro curato da Schöttker e Wizisla, si trova una significativa foto della filosofa che brandisce sorridente l’edizione tedesca delle Illuminazioni mentre annuncia a che presto il libro sarà disponibile anche in inglese e che l’edizione in due volumi degli Scritti di Benjamin curati da Adorno e sua moglie Gretel «è esaurita già da anni ormai».

il manifesto 12.7.17
A proposito di centro-sinistra, prima il conflitto poi le alleanze
C'è vita a sinistra. Breve storia del «centro» e dei suoi compromessi più o meno storici (dal Pci al Pd). Ma oggi, nel tempo di papa Francesco, esiste ancora nel paese una questione cattolica?
di Piero Bevilacqua



Vale a dire la questione se la nuova creatura deve subito incorporare nel proprio orizzonte l’alleanza strategica con un centro moderato, o se debba invece puntare a definire, sulla base di un programma concordato, una nuova e unitaria identità. Vorrei limitarmi a guardare alla questione con un supplemento di considerazioni storiche.

La prima è che in Italia ha a lungo dominato la vita pubblica una “questione cattolica”.Il cosiddetto centro si identificava con la Dc, con le organizzazioni sindacali e associative collaterali della Chiesa. Con la natura di questo “centro” il Pci, ha avuto un rapporto duplice: di antagonismo aperto nel Paese, di sintesi e mediazione riformatrice nel Parlamento. E’ stato questo il reale e vincente “compromesso storico” che ha consentito l’accesso dei bisogni popolari nello stato italiano e la modernizzazione del Paese. E per quasi tre decenni: dalla fine degli anni ’40 alla seconda metà degli anni ’70.
E’ stato invece il compromesso storico di Berlinguer ad avviare la confusione delle fisionomie delle forze politiche, a disinnescare il motore del conflitto, a togliere al sistema politico italiano quel dinamismo eterodosso, diverso dagli altri paesi sviluppati, che lo aveva contrassegnato fin lì.
Mi spingo a dire che il dilagare della corruzione nella vita italiana, denunciata da Berlinguer nei primi anni ’80, e periodicamente ripresa dalla stampa, trova un nuovo alimento proprio negli effetti che la politica del compromesso storico ha a livello locale. Il controllo antagonistico del Pci nella vita amministrativa viene meno e dilagano gli accordi…
La questione del centro ritorna imperiosamente con Veltroni e il Pd. Il disegno è ambizioso. Si vuole non solo immettere le forze politiche cattoliche entro un organismo unitario, ma modellare l’intero sistema politico sullo schema bipartitico delle vecchie democrazie anglo-americane. Quest’ultimo pare un progetto modernizzatore, ed è invece un tentativo velleitario e tardivo.
Il sistema bipartitico è ormai in una crisi conclamata tanto nel Regno Unito che negli Usa. I due partiti, progressisti e conservatori, conducono entrambi, nella sostanza, la stessa politica e generano una diserzione sempre più larga degli elettori dal voto. L’intrusione dell’economia e della finanza nella vita dei partiti tende a unificarne le strategie e la condotta, anche perché le campagne elettorali sono sempre più costose.
Nel paese di Gianbattista Vico l’idea di fondare una nuova storia delle culture politiche italiane, eliminandone alcune, e puntando su una loro semplificazione per via giuridico- istituzionale non ha avuto successo. Le culture politiche sono pezzi di storia della società a cui non si possono imporre schemi organizzativi pensati a tavolino. Ma il Pd non ha successo perché ripete ed anzi fa radicalmente suo lo schema del compromesso storico: immette nel suo seno l’avversario-potenziale-alleato. E questo ha due conseguenze su cui devono riflettere coloro che oggi pensano al centro sinistra avant tout.
La prima è che diventa sempre più difficile e macchinosa la mediazione politica interna. Qualcuno si ricorda che cosa accadeva nel Pd quando si trattava di decidere sui diritti civili, sui temi di bioetica? Scontri e conflitti interni si tacevano solo grazie alla paralisi generale.
La seconda ragione è strategicamente più rilevante. La fusione tra forze diverse ha annacquato le reciproche alterità e ha tolto alla sinistra la forza motrice del conflitto. Se fai sbiadire la tua storia, mortifichi i principi su cui si sono formati generazioni di militanti ed elettori, non hai poi la forza di imporre all’avversario-alleato il compromesso più avanzato. Il riformismo che ne deriva è inefficace, mortifica gli interessi popolari, crea delusione, allontana militanti e cittadini dalla vita politica.
Ma oggi, come si configura il centro? Esiste ancora una questione cattolica? Anche con il pontificato di papa Francesco? Inutile chiederlo ai partiti che passano da una competizione elettorale all’altra e vivono alla giornata.
In realtà sappiamo pochissimo, oggi, sia sul piano sociale che culturale, di questo fantomatico centro.
Forse sappiamo qualcosa di più su che cosa dovrebbe essere la sinistra. E non ci sono dubbi che ad essa il suo popolo disperso e deluso, ma anche un paio di generazioni di giovani disperati, chiedono una politica radicale, di redistribuzione della ricchezza del Paese, di investimenti pubblici, di difesa del territorio, di potenziamento degli istituti della formazione e della ricerca.
Ce lo confermano i relativi successi di Sanders e Corbyn, della sinistra in Portogallo, quello di Podemos e perfino quello di Syriza nella sinistra greca, schiacciato poi dall’arroganza delle potenze finanziarie europee.
Una politica radicale (spunti concreti in questo senso si sono sentiti anche in bocca a Bersani a Santi Apostoli) è quella che può ambire a un successo elettorale a due cifre. Privilegiare le alleanze rispetto al programma probabilmente non scongiurerà la sconfitta elettorale – assillo troppo esclusivo di tanti attori in campo – e farà fallire il progetto di più lunga lena dell’unità della sinistra.

Repubblica 12.7.17
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati

IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico — le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio. Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine — definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate — senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale — essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere. Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica — la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato. Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individua-listica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.

Repubblica 12.7.17
Monza, l’ultradestra in giunta è il primo assessore neonazi
Il sindaco Allevi nomina allo sport Arbizzoni, esponente di Lealtà Azione il movimento protagonista della parata al cimitero Maggiore di Milano
di Paolo Berizzi

MONZA. È il primo assessore in Italia che appartiene a una «comunità umana e politica» di ispirazione neonazista: Lealtà Azione. Il movimento nato a Milano nel 2011 e diventato, col tempo, il più numeroso e organizzato nella galassia dell’estrema destra lombarda (ricordate la parata dei saluti romani al cimitero Maggiore il 29 aprile coi militanti di CasaPound?) Lui è Andrea Arbizzoni, 46 anni, monzese, detto “il senatore” dagli ultrà neri del Monza, di cui è stato capo.
Da 48 ore Arbizzoni è il nuovo assessore allo Sport di Monza: lo ha nominato il sindaco Dario Allevi che, dopo la vittoria al ballottaggio del 25 giugno - spodestato il centrosinistra - ha sciolto gli ormeggi alla nuova giunta. Sport, e non solo. Arbizzoni avrà anche le deleghe a eventi, tempo libero, partecipazione e consulte di quartiere. Ma insieme al percorso del neoasessore (candidato con Fratelli d’Italia e eletto con 455 voti), vediamo meglio che cos’è Lealtà Azione.Da tempo sotto la lente del Viminale, dietro LA opera il movimento degli Hammerskins, network internazionale neonazista e antisemita nato negli anni ’80 dopo la scissione con il Ku Klux Klan americano. Nazionalismo, xenofobia, solidarietà per gli “italiani poveri”: sono i capisaldi di LA, fortemente radicata in Lombardia e con una filiale a Firenze. I personaggi di riferimento dei “lealisti”? Leon Degrelle, ufficiale nazista del contingente vallone delle SS, e Cornelius Zelea Codreanu – collaboratore del Terzo Reich e fondatore della Guardia di Ferro Rumena i cui “legionari” compirono nel 1941 una strage di civili ebrei a Bucarest.
Dal passato al presente. I leader di LA sono Stefano del Miglio (presidente), Giacomo Pedrazzoli e Norberto Scordo - già incriminati per tentato omicidio, aggressione a mano armata e lesioni gravissime -, e Fausto Marchetti. Anche lui ultrà monzese, amico di Arbizzoni. Strutturata come CasaPound in diverse sottoassociazioni ognuna con un tema portante (valorizzazione monumenti e simboli dei “Caduti per l’Onore”; escursioni, sport da combattimento), l’ultima prova di forza dei “lupi” – come si chiamano tra loro i lealisti – è stata la commemorazione al Campo X del cimitero Maggiore: mille saluti romani per la Rsi (e oltre 100 indagati dalla Procura per apologia di fascismo). Poi è arrivata Monza, lo sbarco nelle istituzioni.
«Possiamo l’impossibile», ha esultato Stefano Del Miglio il 12 giugno. Altro commento su Fb questo di Marchetti: «Quando LA scende in campo lascia il segno: lo abbiamo fatto l’anno scorso a Milano con Stefano Pavesi (eletto nelle liste della Lega Nord, ndr), e adesso a Monza con Andrea Arbizzoni». Lui, il “senatore”, ha dedicato l’affer-mazione ai suoi: «Un ringraziamento speciale alla mia Comunità umana e politica di Lealtà Azione, che mi ha supportato fino alla fine». Ora è assessore allo Sport (ruolo già ricoperto dal 2009 al 2012 nella giunta del sindaco leghista Marco Mariani). Quale debito politico dovrà pagare ai camerati neonazi e agli ultrà che lo hanno votato?

La Stampa 12.7.17
I miti del fascismo vulnus nazionale
di Amedeo Osti Guerrazzi

È necessaria una legge contro l’apologia del fascismo? Si tratta di una legge contro la libertà di pensiero e di parola? E soprattutto, il fascismo è veramente morto nell’opinione e nella memoria degli italiani?
E’ opinione diffusa tra gli storici che la memoria italiana sia una memoria «divisa», oppure «frammentata». Non esiste praticamente argomento della storia di questo paese che non sia oggetto di continui dibattiti e polemiche, spesso utilizzati anche dai politici per bassi motivi elettorali. La storia recente, ovviamente, ed il fascismo in particolare, sono gli argomenti che ancora oggi più appassionano gli italiani. Basti vedere l’enorme numero di volumi, storici, pseudo storici o alle volte puramente scandalistici, che intasano gli scaffali delle librerie. Il reparto «Storia contemporanea» è costantemente inondato di libri su Mussolini ed il fascismo.
Il regime, insomma, fa ancora cassetta, vende, permette visibilità, anche se questa ingente produzione letteraria va spesso a scapito delle scienze storiche e della memoria pubblica, influenzata facilmente da chi le spara più grosse.
I miti, le leggende, le grossolane falsificazioni, vengono riprese periodicamente da storici improvvisati che promettono di rivelare «la vera verità», o le «verità nascoste» dalla storiografia «ufficiale».
Gli esempi sono numerosissimi. Chi non ha mai sentito parlare, ad esempio, delle leggende che si sono accumulate sulla strage delle Fosse Ardeatine? Le supposte «contro verità» su questo doloroso argomento parlano di una congiura dei partigiani comunisti che avrebbero attaccato i tedeschi per poi scappare senza successivamente costituirsi, in modo da evitare la rappresaglia. Anzi, la rappresaglia stessa sarebbe stata volutamente cercata dai comunisti per far uccidere gli ostaggi già in mano ai nazisti. Si tratta di una grossolana falsificazione, smentita dagli stessi protagonisti della rappresaglia (Kesselring e Kappler) durante i loro processi, ma nonostante ciò la leggenda del complotto comunista è tutt’ora viva.
Un altro esempio particolarmente evidente è il mito dei trecentomila fascisti uccisi dopo la fine della guerra. Quanti libri sono usciti che parlano di ciò che è «veramente avvenuto» dopo il 25 aprile? Eppure anche qui si tratta di una evidente, e grossolana, invenzione. Prima di tutto bisogna ricordare che la guerra in Italia non è finita il 25 aprile (data dell’inizio dell’insurrezione), ma il 2 maggio, quando i tedeschi hanno firmato la resa per il fronte italiano. In quella tragica settimana le armi non solo non hanno taciuto, ma i nazifascisti in ritirata hanno continuato a combattere compiendo le ultime stragi di civili. E’ ovvio che numerosissimi fascisti, ancora in armi, siano stati uccisi in quei giorni sanguinosi. Nonostante i numerosi lavori scientifici sull’argomento, che hanno ricostruito date e soprattutto numeri (i fascisti uccisi durante l’epurazione selvaggia della primavera del ’45 furono circa 10.000, un numero altissimo di vite umane spezzate, ma certo diverso da 300.000), il mito del bagno di sangue ordito e perpetrato dai comunisti continua ad essere diffuso e popolare.
Un altro esempio: la leggenda della Repubblica Sociale Italiana voluta da Mussolini per fare da «scudo» agli italiani contro la vendetta tedesca dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943. Mentre l’ex duce si stava «sacrificando sull’altare della storia», spingendo per la pacificazione tra italiani, i cattivissimi partigiani avrebbero volutamente scatenato la guerra civile spingendo il Paese nella tragedia. Di nuovo si tratta di una bellissima storia, priva tuttavia di qualunque prova scientifica, mentre chiunque abbia un minimo a che fare con le fonti d’archivio e i libri più seri può serenamente smentire ogni intento «pacificatore» del fascismo repubblicano.
Ma allora perché queste leggende tornano periodicamente sulla scena mediatica? I motivi sono veramente tanti: la volontà di scandalizzare la memoria «ufficiale», e quindi finire sui giornali, vendere libri, ottenere visibilità. Ma la colpa è anche di numerosi storici, che hanno utilizzato in maniera totalmente acritica le memorie pubblicate dai fascisti stessi dopo la guerra. Subito dopo il 1945, moltissimi ex collaboratori di Mussolini hanno scritto e pubblicato i loro libri di memorie, che ovviamente tendevano a difendere, oltre che la loro vicenda personale, l’esperienza storica del fascismo. Queste memorie sono state troppo spesso utilizzate in maniera acritica anche dagli storici professionisti, con il risultato che la guerra della memoria, iniziata subito dopo il 1945, ha visto spesso vincere proprio i fascisti. Il risultato è stato che miti e leggende sul fascismo sono state a volte traghettate nella storiografia scientifica, dando una patente di plausibilità anche alle teorie più strampalate. Con questo non si vuole assolutamente affermare che esiste una storia «vera» e una storia «falsa», e ogni memoria ha la sua dignità. Ma una cosa è la memoria, che come le opinioni può essere più o meno condivisa, un’altra è la conoscenza scientifica, che pur sempre in evoluzione, dovrebbe basarsi almeno su delle fonti e dei criteri condivisi.
E tutto questo non è innocuo, ma è la base «storica» e «scientifica» per attaccare e delegittimare la Resistenza e la Repubblica, che da quella guerra civile è nata. E’ un pericolo vero, più concreto di quanto normalmente si pensi. Il risultato di questa confusione lo si vede quotidianamente anche sui social media, colmi di siti web e di blog che inneggiano al fascismo, alla violenza, alla negazione di tutti quei valori che l’antifascismo, con tutte le sue contraddizioni, ha saputo incarnare e difendere, garantendo la libertà e la democrazia nel nostro Paese. Una legge che non attacchi le opinioni, ma che difenda almeno la conoscenza appare quindi, in questo contesto, opportuna e necessaria.

Il Fatto 12.7.17
Cortocircuito fascisti-antifascisti. Colpa del caldo?
di Silvia Truzzi

Noi siamo tendenzialmente contrari agli articoli sulle ondate di gelo (d’inverno fa freddo) e su quelle di caldo (d’estate, parimenti, la temperatura si alza). Tuttavia il caldo eccezionale di questo mese potrebbe essere la causa – oltre che di spiacevoli fenomeni come la siccità – anche di altrettanto spiacevoli dichiarazioni. Le quali confermano che per le sciocchezze c’è sempre più di un paladino pronto a farsi avanti. Così la polemica sullo stabilimento balneare littorio di Chioggia in un attimo ha oltrepassato i confini nei quali avrebbe dovuto rimanere (quelli della commiserazione e dell’indifferenza) per diventare una proposta di legge contro le apologie di fascismo, che peraltro già esiste, come i lettori del Fatto hanno potuto leggere nei giorni scorsi. “Qui da un momento all’altro risaltano fuori le squadre d’azione che bruciano le cooperative e le case del popolo cominciano a stangare gente e a purgarla”, tuonava il compagno Giuseppe Bottazzi. Ma era il 1948.
Dicevamo del caldo. Sarà stata forse l’afa a sopraffare la presidente della Camera, a margine del convegno “Europa, quale futuro” (tema impegnativo, anche senza i 38 gradi di questi giorni)? Forse, o forse no. Dato che non è nuova a uscite come quella che state per leggere. “Per quanto riguarda queste manifestazioni di ispirazione fascista, non possiamo sottovalutarle. Lo abbiamo visto dalle manifestazioni al cimitero di Milano, alla spiaggia con lo stabilimento balneare, alle liste con il littorio fascista, alle irruzioni nei consigli comunali. Ci sono persone che si sentono colpite da questo, a volte anche offese”.
Ad esempio i partigiani che lei stessa ha accolto alla Camera in occasione delle cerimonie per la Liberazione nel 2015. “Non accade altrettanto in Germania dove i simboli del nazismo non ci sono più”, ha detto ancora Laura Boldrini. “È evidente che in Italia questo passaggio non c’è stato. Però non possiamo nemmeno sottovalutare il fatto che ci siano alcune persone che hanno dedicato la loro giovinezza a liberare il nostro paese che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti”. Proprio nel 2015 la presidente, sollecitata da un uomo intervenuto alla cerimonia per la resistenza, aveva proposto di cancellare dalla colonna al Foro Italico la scritta “Mussolini dux”. Massì: passiamo il cancellino su vent’anni di Storia, che sarà mai. Ma potremmo anche radere al suolo l’intero agro redento – pardon: pontino – risanato dal Duce, o boicottare la rete stradale e ferroviaria che nel Ventennio si svilupparono considerevolmente. A dire il vero, il Duce non è il solo cattivone della nostra Storia. Per dire: come possiamo tollerare nel cuore della nostra civile Patria (chissà se patria si può ancora dire, con quella sua eco fascistoide), un monumento alla tortura come il Colosseo, dove si mandavano a morte i cristiani? Quando si comincia a bonificare la Storia si sa dove s’inizia, mai dove si finisce. Guardate l’Isis, che progressi!
La damnatio memoriae in Italia ha già fatto abbastanza danni. Abbiamo perso la guerra e fatto finta di averla vinta, addossando tutte le responsabilità al Duce e al Re e facendo finta di essere un intero popolo di partigiani combattenti per la libertà. Detto tutto ciò, dietro il preoccupante avanzare del politicamente corretto e la contemporanea scomparsa dello spirito critico (nonché del senso del ridicolo), rimaniamo atterriti di fronte al triste spettacolo di questa classe politica. Così inconsistente da non rendersi conto che è la censura a essere la vera manifestazione di fascismo. E che se c’è un fascismo in agguato, non è più quello dell’orbace, ma quello delle opinioni perbene.

Il Fatto 12.7.17
Occorre raccontare la storia: il Ventennio non è un’opinione
di Furio Colombo

Caro Colombo, il caso del bagnino di Chioggia, che fa propaganda fascista rabbiosa e pubblica, senza che nessuno lo denunci o si offenda, non è il solo. L’Italia ormai è piena di zombie che fanno il saluto romano del partito della morte, al minimo pretesto di esibirsi. Ma, tranne un solo deputato, intorno a questo insulto che offende milioni di morti, c’è un tranquillo e indifferente silenzio. Non eravamo il Paese nato dalla Resistenza? Non siamo il Paese di tanti figli della Shoah?
Michele

La lettera è impostata nel modo giusto. Fa schifo ma non meraviglia vedere giovani che fanno il saluto romano come se sapessero che cosa stanno facendo.
Fa ribrezzo, ma non è una sorpresa, la copertura delle cabine di uno stabilimento balneare, di manifesti fascisti, organizzato anche con ferocia (“se non vi va bene, manganello sui denti”) dal mortuario bagnino di Chioggia. Ciò che stravolge e confonde è il silenzio distorto e confuso del Paese, dove ci sono gruppi di sinistra intenti a cacciare dalla manifestazione del 25 aprile, le bandiere della Brigata Ebraica (volontari dell’ancora non nato Israele, che hanno liberato, insieme ai partigiani, una parte del Nord italiano dai nazifascisti). Ma non ci sono né adulti né giovani, né rappresentanti eletti o responsabili delle istituzioni (prefetti) della magistratura o della burocrazia, che siano finora intervenuti, anche per dovere di legge, a fronteggiare l’enormità dell’offesa alla parte di Italia che ha combattuto, ha pagato con moltissimi morti, e che ha vinto.
Occorre ricordare che il solo parlamentare italiano intervenuto finora è Emanuele Fiano, figlio di un non dimenticato sopravvissuto e testimone di Auschwitz. Ma occorre ricordare anche l’intervento filo fascista di Renato Brunetta, capo gruppo di Forza Italia, che non si è controllato nel dire che, se te la prendi con il bagnino di Chioggia, allora te la devi prendere anche con i comunisti, come se i comunisti (che non hanno bagnini con la faccia di Stalin sulle cabine) avessero governato, firmato le leggi razziali, mandato i soldati italiani a milioni a morire, organizzato l’arresto, il trasporto e la consegna ai nazisti degli ebrei italiani, morenti e neonati inclusi. I delitti del mondo sono molti e tremendi, ma poiché il bagnino di Chioggia si occupa di Mussolini, e il saluto romano dilaga fra le ex curve sud italiane, Brunetta e affini non possono mettere in scena finta costernazione per la cattiveria sovietica. Noi (e dunque, in base al dna e al passaporto, anche Brunetta), abbiamo a carico fascismo, nazismo e Mussolini, celebre per l’assassinio dei suoi oppositori (da Gramsci e Gobetti ai Rosselli) e per le leggi razziali in Italia. Non c’è niente di rispettabile nel fascismo, come non esiste il rispetto per la mafia. Il fascismo è reato. E dunque ci tocca occuparci del tetro bagnino di Chioggia che già fin d’ora si propone di rompere i denti a chi non è d’accordo col suo mondo omicida. L’impressione triste e allarmante è che si tratti di un’ultima chiamata.
Non reagire oggi (e questo riguarda tutti i partiti democratici e tutti i cittadini che non stanno con il bagnino di Chioggia) può voler dire che ha vinto il bagnino.

Corriere 12.7.17
Non si giudica il passato da prigionieri del presente
di Ernesto Galli della Loggia

Come è già accaduto per altri esponenti della Chiesa cattolica, anche dal passato del neodesignato capo della Congregazione della Dottrina della Fede, Luis Francisco Ladaria Ferrer, pare che possano emergere fatti gravi. Molti anni fa, quando era vescovo, egli avrebbe (il condizionale è assolutamente d’obbligo) «coperto» alcuni sacerdoti accusati di pedofilia. Un caso non nuovo, dicevo, che qui mi interessa solo come un esempio del modo in cui nella nostra società, che pure sta così velocemente cancellando il passato, questo stesso passato sembra prendersi una rivincita affermando la propria esistenza e facendo irruzione nel presente .
Ma è una rivincita solo apparente. Infatti anche in questo caso il presente si dimostra di gran lunga più forte e capace di affermare il suo pieno dominio sul tempo. Lo fa innanzi tutto in un modo quanto mai penetrante: cioè con l’applicare disinvoltamente anche alle epoche e alle circostanze più lontane, quando viene per qualunque ragione a contatto con esse, i propri criteri di giudizio, la propria morale — criteri e morale naturalmente attuali, tutti improntati alla sensibilità di oggi. Perlopiù, insomma, il predominio asso-luto del presente, il «presenti-smo», prende la forma speci-fica di un’indiscriminata at-tualizzazione etica. La quale però, a ben vedere, non è che uno dei tanti aspetti di un fenomeno più generale: e cioè l’ostracismo ormai decretato dalla nostra cultura nei confronti della storia (a proposito del quale si può leggere un interessante libro di Francesco Germinario, appena uscito: Un mondo senza storia? , Asterios). Ostracismo verso la storia che nasce da due fratture avvenute negli ultimi decenni: da un lato le novità del progresso scientifico-tecnico responsabili di averci cambiato la vita, e dall’altro la fine delle grandi narrazioni ideologiche otto-novecentesche la quale sta cambiando il nostro modo di pensare.
Tutto ormai è presente: e così giudichiamo il passato con il nostro metro attuale. Negando quindi implicitamente che come mille altre cose anche il giudizio morale — specie quello collettivo, quello riferibile alla società nel suo complesso — risenta inevitabilmente dei tempi. Che anch’esso sia frutto della storia e possa mutare con essa. Viceversa, messi di fronte a grandi fenomeni storici i più vari come la schiavitù, la guerra, l’entusiasmo religioso, lo spirito di conquista, il colonialismo, la differenza sociale e giuridica tra i sessi, siamo indotti a emettere su due piedi facili giudizi di condanna. Nel generale addio alla storia che si sta consumando in tutto l’Occidente, il passato diviene così il più ovvio e facile (tanto non si urta la sensibilità, e dunque la reazione, di nessuno) ambito di applicazione del «politicamente corretto». Con l’accluso obbligo di fare ammenda e di chiedere perdono per chi di quei fenomeni può essere più o meno sensatamente e più o memo direttamente ritenuto oggi responsabile.
Ho parlato di «politicamente corretto» perché del passato, di quanto ogni volta è allora davvero accaduto — cioè del contesto effettivo in cui le cose si svolsero, e pertanto delle logiche, dei valori e delle mentalità allora operanti, dei vincoli e dei condizionamenti allora presenti — sembra che non si possa, e soprattutto non sia lecito, darsi alcun pensiero. Ciò che importa, invece, sembra essere solo affermare un principio generale circa ciò che è bene e ciò che è male. Naturalmente, secondo il punto di vista delle maggioranze politico-culturali che dominano il discorso pubblico in Occidente: punto di vista che, intendiamoci, può essere giusto e accettabilissimo — chi mai per esempio approverebbe oggi la schiavitù o la subordinazione della moglie al marito? — ma che, trasposto nel passato, acquista un carattere di assolutezza che fa capire poco o nulla, comporta una rigidità prescrittiva che rischia di non rendere giustizia alle persone.
So bene che se si applica quanto vengo dicendo a certi argomenti il discorso si fa pericoloso, rischiando di apparire in qualche modo giustificatorio: ma può essere questo un buon motivo, mi domando, per rinunciare a porre a tutti noi un problema di verità e di equità? Chi come chi scrive ha una certa età ricorda bene un tempo e una società in cui comportamenti che oggi non esitiamo a qualificare come pedofilia (perché senz’altro lo sono), e che quindi suscitano la nostra sacrosanta indignazione con relativa richiesta di sanzioni adeguate, non producevano invece la stessa riprovazione e lo stesso allarme che producono oggi. Ad esempio, è molto probabile che oggi le notti romane di Pier Paolo Pasolini non sarebbero circondate dalla sostanziale noncuranza di quarant’anni fa. Sicché se egli fosse vivo è possibile che retrospettivamente più d’uno troverebbe in proposito qualcosa o molto da ridire. Così come oggi troveremmo certamente molto da ridire sul passato del responsabile dell’ex Sant’Uffizio se le voci che lo riguardano venissero confermate; e in ogni caso giustamente esigiamo che in questo come in tutti gli altri casi analoghi sia fatta fino in fondo la necessaria chiarezza e quindi la necessaria giustizia.
Il che non può impedirci però di continuare ad agitare nel nostro animo il pensiero della fragilità di ogni facile giudizio davanti alla dura macina del tempo, e di condividere sempre anche noi laici l’antico ammaestramento alla pietà.

La Stampa 12.7.17
Diseguaglianze d’Italia
di Mario Deaglio

Oltre trecentomila famiglie italiane (l’1,2 per cento del totale) sono «milionarie»: al di là dell’apparente sensazionalismo, questa stima della ricchezza finanziaria del nostro Paese, dovuta al Boston Consulting Group, una stimata organizzazione americana di ricerche sui patrimoni, rientra nella più assoluta «normalità». È infatti del tutto coerente con lo studio più recente, e di ben altra profondità, della Banca d’Italia, che non ha scandalizzato nessuno, secondo il quale, nel 2014, il 20 per cento degli italiani più ricchi deteneva il 64,6 per cento della ricchezza finanziaria (e il 20 per cento più povero solo l’1 per cento).
Oltre a non essere certo una novità, la disparità tra ricchi e poveri sta aumentando in tutto il mondo – e in particolare nei Paesi dai redditi più elevati - e in questo aumento l’Italia si colloca all’incirca a metà classifica. A spingere l’aumento intervengono in primo luogo motivi demografici: la ricchezza si concentra nell’età anziana e il numero degli anziani, e quindi anche degli anziani ricchi, cresce mentre la popolazione nel suo complesso è stazionaria. In secondo luogo, i patrimoni finanziari hanno beneficiato della «bolla» di quotazioni azionarie che va pericolosamente avanti ormai da diversi anni.
Ciò che complica il discorso in Italia non è tanto la concentrazione della ricchezza finanziaria quanto il suo impiego. Gli anziani comprensibilmente scelgono impieghi almeno apparentemente sicuri, come i titoli del debito pubblico; o addirittura lasciano i risparmi in forma semiliquida, il che riduce la possibilità delle banche di prestarli a chi vuol fare investimenti, creando posti di lavoro. Il denaro rischia di ammuffire nei conti correnti mentre chi avrebbe progetti su come impiegarli fatica trovare finanziamenti. A denaro «ammuffito» corrispondono così una creazione insufficiente di posti di lavoro e liste assurdamente lunghe di candidati ai concorsi pubblici. Lo si è visto ieri a Genova, dove l’afflusso di migliaia di aspiranti a una manciata di posti di infermiere alle prove concorsuali ha addirittura bloccato il traffico; come a Roma, una quindicina di giorni fa, a un concorso per lavorare alla Banca d’Italia.
Non ci sono soluzioni facili a questo incancrenirsi del problema e soprattutto nessuna forza politica lo affronta in maniera coerente e ragionata. L’inasprimento fiscale di per sé rischierebbe di produrre il risultato opposto, spingendo i capitali finanziari a tornare a «nascondersi». Potrebbe forse essere incentivato il trasferimento di una parte delle risorse famigliari alle generazioni più giovani, senza attendere che gli anziani passino a miglior vita: sicuramente i giovani ne farebbero un uso più dinamico e il ritmo della crescita aumenterebbe, creando più numerose occasioni di lavoro. L’argomento è però accuratamente ignorato o passato in secondo piano negli abbozzi di programma per le prossime elezioni, oscurato dal discorso sulla tassazione delle case. E così le diseguaglianze continuano a crescere e le code ai concorsi pubblici continuano ad allungarsi.

Il Fatto 12.7.17
Il decreto vaccini si blocca: mancano ancora i soldi
In aula - Iniziata la discussione per la conversione in legge. La commissione Bilancio avverte: mancano le coperture per gli operatori. Si valuta se porre la fiducia
di Virginia Della Sala

Non ci sono i soldi per assicurare la copertura vaccinale per il personale sanitario e degli insegnanti e le associazioni si oppongono alla possibilità di vaccinare nelle farmacie: la storia del decreto vaccini, che deve essere convertito in legge, continua ad avere le criticità di una scelta frettolosa e senza un esito certo. E ora il governo potrebbe anche decidere di non porvi la fiducia.
Tanto più che una delle argomentazioni con cui la relatrice in Commissione Igiene e Sanità del Senato, Patrizia Manassero (Pd), ieri ha aperto la discussione generale sul decreto vaccini ha il sapore di una concessione. Cerca di mitigare la portata impositiva del provvedimento che rende obbligatoria la somministrazione – ai bambini tra 0 e 16 anni – di dieci vaccini per l’iscrizione a scuola: “Restano obbligatori i vaccini contenuti nell’esavalente – spiega la Manassero – ma per gli altri quattro sarà un obbligo condizionato su base triennale e dipendente dagli obiettivi e le coperture raggiunte”.
Tradotto: fra tre anni il ministero della Salute potrà verificare le coperture raggiunte e, sentiti il consiglio superiore della Sanità e la Conferenza Stato – Regioni, decidere di sospendere l’obbligatorietà. Intanto, l’obbligo resta, nonostante le pregiudiziali di costituzionalità sollevate ieri dalle opposizioni e sulle quali il Senato ha votato contro. A opporsi, anche i tre gruppi berlusconiani di Forza Italia, della Federazione per la Libertà di Gaetano Quagliariello e del gruppo Gal.
La discussioneproseguirà oggi 8il voto dovrebbe esserci giovedì), insieme alle proteste dei genitori e delle famiglie riunite attorno palazzo Madama. Bisognerà capire se sarà confermata l’intenzione di porre la fiducia sul testo licenziato dalla Commissione. Lunedì, infatti, il consiglio dei Ministri aveva autorizzato a porre la questione di fiducia sul decreto. Ieri, però, nel corso della discussione, è stato subito chiaro che ottenerla potrebbe non essere così scontato. “Sarebbe un insulto al Paese – ha detto il capogruppo di Forza italia al Senato, Paolo Romani, nel suo intervento – un calcio in faccia a chi vuole discutere di questi temi. Votiamo contro le pregiudiziali ma siamo favorevoli a una discussione parlamentare sul testo. È un tema che riguarda tutte le famiglie italiane”. In serata, Romani ha parlato di rassicurazioni da parte della maggioranza: “Non metteranno la fiducia”.
Stamattina, comunque, la Lega dovrebbe decidere se depositare la richiesta per il voto segreto su alcuni punti del testo (nel tentativo di influenzare la decisione sulla fiducia): ieri sono state raccolte le firme tra i vari gruppi di opposizione, da Sinistra italiana al M5S.
Il testo, che poi dovrà andare a Montecitorio, è comunque cambiato rispetto alla prima elaborazione del governo: i vaccini obbligatori sono stati ridotti e sono passati da 12 a 10. Esclusi l’anti meningococco B e C, che non saranno più obbligatori ma raccomandati (insieme al vaccino per il rotavirus e il pneumococco). Sono state poi ridotte le sanzioni per i genitori che non vaccinano i figli: nel decreto licenziato dal governo erano previste sanzioni comprese tra i 500 e 7.500 euro, ora passano a un massimo di 3500 euro. Via anche le segnalazioni alla Procura per valutare la perdita della patria potestà. Il testo contiene, inoltre, un emendamento che prevede l’istituzione dell’Anagrafe Vaccinale Nazionale, che registrerà la progressiva copertura degli italiani.
Le criticità. Due, al momento, i grandi problemi del decreto. Il primo riguarda l’emendamento di Forza Italia che apre alla somministrazione in farmacia, da parte dei medici, dei vaccini pediatrici. “In questo modo – hanno protestato ieri alcune associazioni di medici e pediatri – si rischia di perdere la tracciabilità della responsabilità”.
L’altro riguarda l’obbligo di vaccinazioni anche per gli operatori sanitari, sociosanitari e scolastici.
L’emendamento, secondo il presidente della Commissione Bilancio del Senato Giorgio Tonini, non ha coperture finanziarie. “Bisogna trovare una soluzione finanziaria – ha detto ieri Tonini – , altrimenti resta improcedibile. Non discuto il merito, facciamo un vaglio della copertura e la copertura al momento non c’è. È necessario che ci presentino un testo che quantifichi l’onere e proponga una copertura finanziaria. Altrimenti non si può fare”.
di Virginia Della Sala

Il Fatto 12.7.17
Sapessi com’è strano vaccinarsi a Milano
di Chiara Daina

Impossibile fare prevenzione: a Milano non c’è un posto libero per fare il vaccino contro il meningococco di tipo B. Chiamando ti rispondono che è tutto esaurito e non si sa quando verranno riaperte le liste di attesa. Ci sono mamme infuriate che provano da mesi a prenotare senza successo. Matilde ha un bimbo nato a dicembre che però non ha diritto alla vaccinazione gratuita come chi è nato nel 2017 (cioè un mese dopo). Matilde, che a settembre manderà il figlio al nido e vuole proteggerlo, è costretta a rivolgersi al privato e pagare di tasca sua la dose di vaccino da 120 euro (inclusa la prestazione del pediatra), che verrebbe a costare meno della metà se potesse accedere al Sistema sanitario nazionale attraverso la formula del co-pagamento della Regione Lombardia. Ma oggi è un’impresa anche trovare un pediatra disponibile. Sono pochissimi (199 in tutta Lombardia su 1.344 pediatri di libera professione) quelli che hanno aderito all’iniziativa che dà la possibilità di somministrare il vaccino nei propri studi: dicono che non vogliono farsi carico del frigorifero per conservare le dosi e che il costo della prestazione pattuito (di 9,95 euro) non vale la pena.

La Stampa 12.7.17
La Pinotti agli Usa: l’Italia è pronta ad andare a Raqqa
Intervista alla ministra della Difesa: ci saranno più carabinieri per Mosul
Dopo l’incontro al Pentagono con il collega americano Mattis, la ministra della Difesa Roberta Pinotti annuncia che «l’Italia aiuterà la stabilizzazione di Mosul, addestrando le milizie che hanno liberato la città per inquadrarle in forze regolari, ed è pronta a fare lo stesso a Raqqa, in Siria, quando la capitale del Califfato sarà caduta».

Il Fatto 1.7.17
Banche, il governo si rimangia le norme contro papà Boschi
Palazzo Chigi mette la fiducia sul decreto per Veneto Banca e PopVicenza. Così salta l’emendamento sull’interdizione dei vertici di istituti finiti in liquidazione
di Carlo Di Foggia

L’influenza del sottosegretario Maria Elena Boschi sul governo, dettata dalle vicende di banca Etruria, è ormai un problema serio. E a pagarne il prezzo sono di nuovo i risparmiatori colpiti dai crac bancari, le famiglie che hanno sottoscritto le obbligazioni subordinate emesse dagli istituti. Il governo ha deciso di blindare il decreto che manda le due banche venete in liquidazione, rimangiandosi le modifiche proposte dal relatore del testo in Commissione finanze alla Camera, Giovanni Sanga (Pd). La decisione, risulta al Fatto, è arrivata anche per le pressioni della sottosegretario alla presidenza del Consiglio (anche se fonti a lei vicine negano). A guardare l’emendamento si capisce l’interesse: conteneva una norma bomba che rischiava di inguaiare il padre Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria.
Il decreto è arrivato alla Camera il 3 luglio scorso e viene incardinato in commissione Finanze. La parte che regala gli asset di valore di Pop Vicenza e Veneto Banca a Intesa Sanpaolo – più 5 miliardi dello stato e 12 di garanzie – è blindata, ma il resto no. Arrivano 560 emendamenti da tutti i gruppi. Sanga – che in quanto relatore concorda le modifiche col governo, in questo caso col Tesoro che segue la partita – ne riprende alcuni e li inserisce in un maxi-emendamento da votare. Tra le modifiche ce n’è una (comma 7) esplosiva, ricopiata da un emendamento depositato in Commissione da Pier Luigi Bersani: “Ove i commissari liquidatori esercitino l’azione di responsabilità ai sensi dell’articolo 2394-bis del codice civile, il giudice, se accoglie la domanda nei confronti degli amministratori delle banche, condanna sempre questi ultimi all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdizione perpetua dall’esercizio delle professioni, dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”.
La norma riguarda tutte le banche. La popolare dell’Etruria è finita in liquidazione coatta amministrativa nel novembre 2015, quando il governo ha applicato il bail-in, azzerando azionisti e obbligazionisti subordinati. Pier Luigi Boschi è entrato nel cda nel 2011 ed è stato vicepresidente da maggio 2014 a febbraio 2015, quando Bankitalia ha commissariato l’istituto aretino e multato i vertici. Il 17 marzo 2016 il commissario liquidatore di Etruria, Giuseppe Santoni ha intimato a 37 ex amministratori, tra cui Boschi, di risarcire entro un mese i danni per un ammontare di 300 milioni, pena l’avvio di un’azione di responsabilità. Nessuno ha pagato e così Santoni ha deciso di avanzare la richiesta, sottoponendola alla Banca d’Italia. Boschi senior rischia l’interdizione perpetua. Tanto più che i rapporti tra Bankitalia e la figlia sono pessimi. Nei giorni seguenti al crac di Etruria, mentre da via Nazionale venivano diramate veline sulle responsabilità bancarie del papà, l’allora ministro delle Riforme dettò al Corriere parole furenti contro il governatore Ignazio Visco spiegando che lei non prendeva lezione “dalle stesse persone che un anno fa suggerivano a Etruria un’operazione di aggregazione con la Popolare di Vicenza”.
Da ieri non c’è più nessun rischio. Sotto la spinta di Palazzo Chigi il governo ha blindato il testo mettendo la fiducia. Sarà votata oggi. Il voto finale al decreto è previsto domani. Niente ritorno in commissione Finanze, come invece prevedeva l’accordo politico nella maggioranza avallato dal Tesoro, per votare il l’emendamento Sanga. “È incomprensibile e politicamente ingiustificabile non aver colto il lavoro eccellente fatto da Sanga e dal capogruppo Pd Pellilo”, ha attaccato il presidente della Commissione Bilancio, Francesco Boccia, esponente di Fronte democratico, la corrente di Michele Emiliano dentro il Pd. Che si prepara a non votare il testo (garantendo la fiducia). “È invotabile. Non si capisce perché debbano essere abbandonati i risparmiatori che hanno creduto nello Stato”, attacca il governatore pugliese. Mettere la fiducia è un gesto “fascista”, ha scritto Beppe Grillo sul blog. Mdp deciderà oggi.
Venendo incontro alle critiche di Emiliano, oltre alle norme sui banchieri, l’emendamento Sanga conteneva norme a favore degli ex azionisti e ampliava i criteri per il rimborso agli obbligazionisti subordinati delle venete azzerati dal decreto. Concedeva infatti l’accesso agli indennizzi a tutti quelli che hanno comprato i bond fino al primo febbraio 2016, e non più giugno 2014 come per Etruria. Una disparità che avrebbe indispettito Boschi, ma che non avrebbe fatto differenza nel caso della banca aretina: non ha emesso bond nel 2015, mentre Pop Vicenza e Veneto banca sì, e per 490 milioni. Già nella vicenda Etruria il governo aveva negato il rimborso ai bondisti, salvo ricredersi dopo il suicidio di Luigino D’angelo, obbligazionista della popolare aretina. Alla fine dello scorso anno le pressioni della Boschi avevano fatto saltare le modifiche alla riforma delle banche popolari, stroncata dal Consiglio di Stato.

Corriere 12.7.17
L’accusa di Renzi a Berlusconi e D’Alema: il Nazareno finì per la loro intesa sul Colle
L’ipotesi di Amato. Ma l’ex leader ds: fantasie, ha reazioni psicotiche. E Brunetta: mente
di Maria Teresa Meli

ROMA La versione di Matteo Renzi: fu un accordo parallelo sul Quirinale tra D’Alema e Berlusconi a far saltare il patto del Nazareno e, di conseguenza, a bloccare l’iter delle riforme. La versione di Massimo D’Alema: «Ricostruzioni fantasiose. Evidentemente Berlusconi ha compiuto un grave errore a parlare di me in presenza di Renzi sottovalutando la reazione psicotica che ci sarebbe stata».
La versione di Renato Brunetta: «Il segretario del Pd mente per l’ennesima volta». La versione dei giornali dell’epoca: D’Alema punta su Amato al Quirinale per mettere in difficoltà Renzi.
Sono passati due anni e mezzo dall’elezione di Sergio Mattarella, che portò alla rottura tra il segretario del Pd e Berlusconi, ma quella vicenda crea ancora polemiche. Il leader del Pd, nel suo libro Avanti , che esce oggi in libreria, fornisce un particolare finora inedito: «Quando, a fine gennaio del 2015, si tratta di votare per il Quirinale, Berlusconi mi chiede un incontro, che resterà, ma io non posso immaginarlo, l’ultimo per anni. Perché quando si siede — accompagnato da Gianni Letta e Denis Verdini — mi comunica di aver già concordato il nome del nuovo presidente con la minoranza del Pd. Mi spiega infatti di aver ricevuto una telefonata da Massimo D’Alema, di aver parlato a lungo con lui e che io adesso non dovevo preoccuparmi di niente, perché “la minoranza del Pd sta con noi, te lo garantisco”. Te lo garantisco? Lo stupore colora — o meglio sbianca — il volto di tutti i presenti». Ed è stato in quel preciso istante che Renzi comprese che le riforme sarebbero saltate: «In quel momento — sono più o meno le due del pomeriggio del 20 gennaio — nel salotto del terzo piano di Palazzo Chigi capisco che il patto del Nazareno non esiste più». Renzi nel suo libro non fa il nome del candidato di Berlusconi e D’Alema, ma basta sfogliare i giornali dell’epoca per capire che si tratta di Giuliano Amato.
L’allora presidente del Consiglio era perplesso su quella candidatura, non per il valore della personalità di Amato. Il problema era un altro, come ebbe a dire sempre in quel gennaio del 2015 lo stesso Renzi: «Ho fatto bene i conti con Lotti e con il vento dell’antipolitica Amato verrebbe fatto fuori a scrutinio segreto».
Sui quotidiani del gennaio del 2015 appariva a più riprese quel nome, come venivano riportati i tam-tam di trattative segrete tra la minoranza del Pd e il leader di Forza Italia. E anche il colloquio del 20 gennaio tra Renzi e Berlusconi era apparso sui giornali. Ma nulla era trapelato circa il racconto del numero uno di Forza Italia sulla telefonata con D’Alema.
«C’è un fatto di metodo, prima ancora che di merito — scrive Renzi — io ho scelto un percorso trasparente e partecipato, con tanto di streaming, dentro il Pd e davanti al Paese, per evitare lo stallo del 2013. Sono impegnato in un iter parlamentare difficilissimo per condurre una maggioranza su un nome condiviso. E in una sala ovattata al terzo piano di Palazzo Chigi devo scoprire che si è già chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare? E, come se non bastasse, da questo prendere o lasciare dipende la scelta e continuare o meno con il percorso di riforme, che pure erano state scritte insieme».
Ciò nonostante, Renzi nel libro confessa che Berlusconi «non mi starà mai antipatico»: «Sul Quirinale però non potevo consentire né a lui né a D’Alema di sostituirsi al Parlamento e decidere per tutti. La simpatia è una cosa, la politica è un’altra». E la politica lo porta, in serata, a rispondere con un classico «Di chi?» alla richiesta di un commento a dichiarazioni di D’Alema.

Repubblica 12.7.17
Renzi: sul Colle c’era un’intesa Berlusconi-D’Alema
di Concetto Vecchio

ROMA. Giunto al terzo giorno di anticipazioni del suo libro Avanti (estratti su dodici testate nazionali, persino su Chi e La Gazzetta dello Sport) Matteo Renzi rivela come finì il patto del Nazareno, nel gennaio del 2015.
Silvio Berlusconi si presentò al cospetto di Renzi con Gianni Letta e Denis Verdini e gli disse che aveva un accordo con D’Alema per il nuovo inquilino del Quirinale. «Quando si siede Berlusconi mi comunica di avere già concordato il nome del nuovo presidente con la minoranza del Pd. Mi spiega infatti di aver ricevuto una telefonata da Massimo D’Alema, di avere parlato a lungo con lui e che io adesso non devo preoccuparmi di niente, perché la minoranza del Pd sta con noi, te lo garantisco».
Renzi non fa il nome del candidato che gli venne proposto, l’ex premier Giuliano Amato. Come già sappiamo disse di no. Scrive Renzi: «Devo scoprire che si è già chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare? Quando mi trovo a dover scegliere tra l’asse Berlusconi- D’Alema (non ricordo un solo accordo Berlusconi-D’Alema che alla fine sia stato utile per il Paese) e la soluzione più logica per il Parlamento e per l’Italia non ho dubbi». Qualche giorno dopo venne eletto Sergio Mattarella.
Renzi ha dosato le anticipazioni, cercando di calibrare sui diversi target dei lettori: dalla moglie che lo sgrida per avere preso l’aereo di Stato per andare a sciare ad Aosta (su Chi) all’autocritica per avere «rifiutato di menzionare le radici cristiane dell’Europa: un tragico errore» (su Avvenire). Una copertura in stile Bruno Vespa.
Da oggi il libro sarà nelle librerie. Alle ore 11 Renzi sarà all’auditorium del Maxxi, solo su podio, a rispondere alle domande dei giornalisti. Resta da capire che effetti potrà avere questa copertura da Guinness dei primati sull’indice di gradimento dell’uomo politico, che non si è mai veramente ripreso dalla sconfitta del 4 dicembre. A quanto pare però qualche effetto l’ha già dispiegato tra i lettori: il libro ieri sera era già decimo nella classifica generale Amazon con le sole prenotazioni. Feltrinelli non vuole rivelare la tiratura, specificando però che è molto alta, considerando gli standard per i libri di saggistica. Questo peraltro è l’ottavo libro di Renzi, tanti per un leader di soli 42 anni: il primo lo scrisse con Lapo Pistelli: Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello. Correva l’anno 1999.
Ma torniamo alla fine del patto del Nazareno. «Non ho mai capito perché Berlusconi nutrisse dubbi su Mattarella. Fatto sta che Berlusconi mi dichiara guerra». L’idillio quindi si rompe, per un anno e mezzo i due non si sentono. Poi nel giugno 2016 Silvio ha un malore e Renzi chiama Arcore. Sono i giorni delle elezioni amministrative di Roma e Torino e il leader di Forza Italia chiede di votare contro Renzi, evocando la democrazia sospesa, parlando di regime, dipingendo l’allora premier come un uomo afflitto «da una bulimia smisurata di potere ».
Ma alla fine di quella telefonata, ecco che la voce di Berlusconi si fa carezzevole: «Caro Matteo, sappi che mi dispiace molto per quanto ti stanno attaccando, ce l’hanno tutti con te». Renzi allora scoppia in una risata di fronte a quell’ipocrisia esibita. E ora scrive: «È inutile, anche se mi sforzassi, Berlusconi non mi starà mai antipatico, ma all’epoca non potevo consentire né a lui né a D’Alema di sostituirsi al Parlamento».

Corriere 12.7.17
Battute, veleni e sospetti di congiure I due leader ossessionati l’uno dall’altro
Il capo dei dem e l’ex ministro degli Esteri si detestano ma sono simili
di Pierluigi Battista

Sartre scriveva che «l’inferno sono gli altri». Ecco, per Massimo D’Alema l’inferno si chiama Matteo Renzi, per Renzi l’altro dell’inferno è D’Alema. Dicono che non è un fatto personale l’abisso che li divide. Non è personale? Sicuri? Quando D’Alema proclama solenne che «finché mi sarà dato di esistere, Renzi non può stare tranquillo», mica fa politologia, si stende sul lettino per rivelare il ruolo dell’inconscio ingovernabile nella lotta politica. E quando Renzi nel suo nuovo libro sostiene che il patto con Berlusconi si sarebbe rotto perché il leader del centrodestra si sarebbe fatto sedurre da D’Alema, non fa storia, ma scrive un capitolo di demonologia. Non sono fatti personali? Ma mica fatti personali sono soltanto meschine faccende di interesse, come si scrive spesso sui due, la storia dell’Europa, o della rottamazione. I duellanti del film di Ridley Scott tratto da un racconto di Joseph Conrad hanno passato una vita a inseguirsi per colpire l’altro con la spada, ma non era per una piccineria personale: si menavano perché avevano un gran gusto a rovinarsi reciprocamente l’esistenza, più personale di così. Vedevano nell’altro il fantasma della loro vita, lo spettro da scacciare. Una faccenda strettamente personale.
E così Renzi vede in D’Alema la personificazione di tutto ciò che aspirerebbe ad asfaltare perché gli fa ombra, D’Alema vede in Renzi la personificazione del giovane oltraggioso che non vuole ascoltare la sua lezione. In comune hanno il sarcasmo, anche se le due forme del sarcasmo sono diverse tra loro, perché quello di D’Alema è più gelido, cerebrale, studiato, mentre quello di Renzi è più rocambolesco, istintivo, spettacolare. Una volta Renzi ha detto che era una buona cosa se D’Alema aveva perso il congresso perché tutte le volte che aveva vinto un congresso poi il suo partito perdeva le elezioni. Non fu una battuta felice perché dal momento in cui l’ha pronunciata Renzi ha perso un’elezione dopo un’altra. Una volta D’Alema disse con la sua consueta placidità se leggere un libro non fosse in contrasto con la linea del partito imposta da Renzi. Ora Renzi si vendica: con un libro. La legge dei duellanti assomiglia molto a quella del contrappasso. Il rottamatore si trova rottamato, quello che viene accusato di aver fatto gli inciuci con Berlusconi ora fa lo scandalizzato se con Berlusconi si fa il patto del Nazareno. Dicono che c’è sempre bisogno di dare un volto a ciò che si considera nemico. Per Renzi, D’Alema con i baffi è il volto della sconfitta, della conservazione, dell’apparato, della lingua «di legno» del passato comunista, ma dimentica di dire che contro D’Alema si calamitò tutta l’avversione della sinistra d’antan che oggi Renzi vede concentrarsi su di sé, e non è un caso che molti della guardia pretoriana dalemiana siano rinati come soldati della guardia pretoriana renziana. «Di’ una cosa di sinistra», con cui Nanni Moretti in Aprile supplicava il dirigente che se la vedeva in tv con Berlusconi, era rivolto a D’Alema, mentre oggi è lo stesso D’Alema che chiede a Renzi di dire qualcosa di sinistra. Potenza del contrappasso, appunto.
E se si detestassero perché sono troppo simili? Oggi Renzi ha mobbizzato ciò che era del vecchio Pd, dimostrando, se non disprezzo, disamore ed estraneità rispetto al vecchio mondo della sinistra. Ma i cronisti più anziani non dimenticano la smorfia di disgusto quando un militante del suo partito apostrofò D’Alema con un banalissimo «compagno», neanche lo avessero insultato. E perciò si detestano, si perseguitano, fanno gli eterni duellanti, si rinfacciano comportamenti molto simili: in fondo tutti e due sono entrati a Palazzo Chigi con una congiura di palazzo. O forse è proprio questo che ciascun duellante vede riflesso nel volto dell’altro. Ma che vorrebbe fosse dimenticato. Odiando chi lo ricorda.

Corriere 12.7.17
La sinistra avverte: Gentiloni cambi rotta o cerchi i voti
a destra
Mdp a Pisapia: ora una forza politica, no a cartelli
di M. Gu.

ROMA Il governo rischia di perdere il soccorso rosso di Pier Luigi Bersani e compagni, prezioso soprattutto al Senato. Il «netto cambio di passo» invocato da Articolo 1 — Mdp non è arrivato e Roberto Speranza avverte il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: «O cambia rotta su politiche sociali e investimenti, o i voti li prenda dalla destra».
A cinque mesi dalla scissione del Pd, i fuoriusciti cercano una bussola per continuare il viaggio. L’approdo è un nuovo centrosinistra che abbia come leader Giuliano Pisapia. Tocca a Pier Luigi Bersani assicurare davanti alle telecamere che a sinistra si va d’amore e d’accordo, sia tra lui e D’Alema che nei rapporti con l’ex sindaco di Milano. Ma a porte chiuse, nell’assemblea degli eletti con il presidente Enrico Rossi e i capigruppo Francesco Laforgia e Cecilia Guerra, qualche straccio bagnato è metaforicamente volato.
I bersaniani spronano il fondatore di Campo progressista a «esercitare la leadership» e i parlamentari vicini a Pisapia rispondono senza troppo curarsi degli accenti diplomatici. L’onorevole Ciccio Ferrara parla prima di D’Alema: «Basta con questa storia che Pisapia tentenna perché vuole accordarsi con Renzi. Lui non lo ha mai dichiarato, mentre voi vi siete detti pronti ad allearvi con il Pd dopo le elezioni».
Pisapia, che alla riunione non c’era, non vuole che il nuovo soggetto politico nasca come una «sommatoria di sigle» degli sconfitti e chiede ai compagni di viaggio una «cessione di sovranità in un processo democratico». Insomma, se Pisapia si aspetta che Mdp sciolga il movimento, Speranza frena: «Non si cede sovranità, si assume sovranità insieme».
L’accelerazione non piace a D’Alema, convinto della necessità di rafforzare Articolo 1 sul territorio prima di unire le forze sotto le insegne di Insieme. «Pisapia vuole fare un nuovo partito, non vuole fare Mdp più Pisapia — è l’altolà di Ferrara —. Se invece si va avanti con un esercizio muscolare per definire i rapporti di forza, gli elettori che si sono rifugiati nell’astensione non ci voteranno». Il confronto, anche acceso, ha portato qualche passo avanti verso la lista unica. Si chiederà a Pisapia di partecipare a una cabina di regia per la costruzione di quella che Speranza immagina come «una forza politica forte e ampia, non un cartello elettorale che si scioglie il giorno dopo il voto».
Su proposta di Bersani, Alfredo D’Attorre sta lavorando a un manifesto che raccolga le proposte emerse sul palco di piazza Santi Apostoli, dove dieci giorni fa hanno parlato Pisapia e lo stesso ex segretario del Partito democratico. Pippo Civati ci sta e rilancia: «Il manifesto è la nostra proposta, la presenteremo da venerdì a domenica al PolitiCamp di Reggio Emilia».
Nel programma troverà spazio il tema della flessibilità, che D’Alema vorrebbe nella prossima legge di bilancio. «Quella di Renzi sul rapporto deficit pil al 2,9% è una proposta seria o una boutade elettorale? Se è una cosa seria — chiede Speranza — perché aspettare la prossima legislatura?». Insomma, alle parole devono seguire i fatti. Altrimenti Bersani e D’Alema, il quale voterebbe contro già sul decreto banche, diranno bye bye al governo Gentiloni.

Il Sole 12.7.17
La legge di cittadinanza terreno minato per il Governo Gentiloni
di
Lina Palmerini

Chi conosce il Senato da tempo e sa quali sono le tecniche di sopravvivenza di un Governo con una maggioranza fragile, non ha dubbi: Renzi sta tirando la corda. E spiega che se il leader del Pd insiste così tanto sullo ius soli in quella terra di nessuno che è diventato Palazzo Madama è perché vuole sfidare la sorte e rischiare la fine di Gentiloni. Quel testo, infatti, è un dito nell’occhio ad Alfano che tra l’altro non ha più il controllo dei suoi senatori già in piena manovra di avvicinamento a Forza Italia. E le trattative - per alcuni - sono anche andate a buon fine. Insomma, se Renzi si ostina nel chiedere al premier di mettere subito in calendario la fiducia sulla legge di cittadinanza, ben sapendo le difficoltà, non è per fare un favore all’Esecutivo. Piuttosto gli lancia un guanto di sfida poco amichevole, consapevole dei pericoli di mandare sotto Gentiloni.
Un pericolo che aumenta se si tiene il piede sull’acceleratore come ha fatto il segretario Pd in questi giorni. Per navigare quel mare serve invece tempo per lavorare e convincere le opposizioni visto che la maggioranza ha numeri troppo ballerini per praticare l’autosufficienza. L’ultimo provvedimento votato ha avuto 129 sì, ben sotto la soglia di sicurezza. Dunque, anche sullo ius soli, o arriva un “aiutino” dalle opposizioni – con assenze strategiche – oppure davvero si apre uno scenario da crisi. Bene, questo lavoro di diplomazia è già in corso sia con Forza Italia che con i gruppi misti e pure con pezzi dei 5 Stelle che sono favorevoli alla legge al di là di quello che ha detto Grillo. I vertici del gruppo Pd al Senato sono insomma impegnati a sminare il campo e hanno bisogno di giorni e di toni bassi e, ogni volta, i rilanci di Renzi non aiutano.
Ad aiutare è piuttosto la resistenza dei senatori alle elezioni e alla fine anticipata della legislatura che continua a tenere in piedi il Governo. Ed è pure il freno di Berlusconi che sembra abbia interrotto la campagna acquisti tra le fila di Alfano proprio per evitare uno scenario di crisi subito. Se - quindi - a sostenere Gentiloni ci sono le opposizioni più che le tattiche un po’ spericolate del leader, una domanda si pone. E ha a che fare con Renzi che sembra dentro un gioco di tenere distinto il Pd dall'Esecutivo e non sembra uscito dalla tentazione di votare il prima possibile. E prova ne sono questi rilanci continui che non sembrano affatto concordati con il Governo: qualche giorno fa c’è stato il guanto di sfida sull’Europa e i vincoli sul deficit (ieri Padoan ha nervosamente chiuso le domande sul tema); poi la spinta sullo ius soli che tra le leggi è quella più insidiosa.
Sembra che il leader Pd abbia detto che se il premier non se la sente di mettere la fiducia al Senato deve assumersene lui la responsabilità e tenerne fuori il Pd: se fosse vero, risponderebbe proprio al disegno di segnare una distanza tra lui e il Governo. Tra il “suo” Pd che pone gli obiettivi senza curarsi del lavoro che tocca fare a Gentiloni per centrarli senza soccombere. Sulla cittadinanza è il premier, per primo, a volerla ma tenendo conto dei tempi e della prudenza che occorre per passare indenne all’esame del Senato. Tocca a Renzi decidere se vuole essere lui ad aiutare il premier o se lascia la scelta al Cavaliere.


il manifesto 12.7.17
Speranza: «Svolta, o il governo cerchi i voti forzisti». «Insieme» verso una cabina di regia
Alla direzione di Mdp. Bersani nega dissapori con D'Alema, poi rassicura Pisapia: «Non faremo un cartello elettorale». Ma Art.1 non si scioglie
di Daniela Preziosi

La svolta non arriva, l’agenda economica e sociale del governo Gentiloni resta quella di Renzi, «nonostante la differenza di toni». Ma «senza svolta si andranno a prendere i voti di altri». All’apertura dell’affollatissima direzione di Mdp, ieri a Roma al Centro Congressi Cavour, Roberto Speranza lancia un avviso al governo. È un classico «svolta o rottura»: Mdp non sarà la stampella del governo ’a prescindere’. Il redde rationem è rimandato alla sessione di bilancio. Ma ormai ci siamo: il partito nato perché il Pd di Renzi non garantiva «l’appoggio convinto a Gentiloni» ora minaccia di ritirare il proprio appoggio. Com’era prevedibile, dal Pd renziano partono sghignazzi.
Speranza tira dritto: «Gentiloni i voti li può prendere dalla destra, che sembra più vicina alle politiche di Renzi». Poco dopo Massimo D’Alema spiegherà che fosse per lui «il tema del governo si potrebbe aprire subito, sul dl banche». Mdp ci pensa. Quando sarà, comunque, il Pd sarà costretto a cercare l’appoggio di Forza Italia: e per Renzi non sarà un buon avvio di campagna elettorale. Mdp dunque «inizia l’operazione di sganciamento», ammette Arturo Scotto. E il presidente toscano Rossi: «Se si pensa che dobbiamo continuare a votare per senso di responsabilità, o peggio se dovesse continuare il soccorso azzurro come sui voucher, è bene che il soccorso rosso cessi».
La svolta annunciata è impegnativa. Ma la direzione è riunita a pieni ranghi – presenti da D’Alema, ai capigruppo Laforgia e Guerra, a Bersani, a tutta la componente di Campo Progressista, da Ciccio Ferrara al vicepresidente del Lazio Smeriglio, assente Pisapia che della direzione non fa parte – perché all’ordine del giorno c’è il tema del dopo Santi Apostoli. Materia incandescente per la fase di start up della nuova «cosa». Insieme chiede a Pisapia di mettersi davvero a coordinare una cabina di regia. L’ex sindaco intanto lavora al un manifesto che dovrebbe essere pubblico a ore.
C’è la delicata questione dello scioglimento di Mdp, chiesta da Campo progressista. Mdp la respinge. «Mettiamo una moratoria sulla parola scioglimento», spiega anzi Speranza, «Non si tratta di sciogliere, ma di costruire. Una lista? Non solo. L’obiettivo è costruire una nuova grande forza progressista e di centrosinistra». Il tema, va detto, è un pezzo di un ragionamento sul futuro di «Insieme», o come si chiamerà. Più precisamente sulla forma del soggetto politico. E chi viene dalla sinistra sinistra ha un certo know-how di liste unitarie con il meccanismo di autodistruzione incorporato. «Il tema non è lo scioglimento», spiega Ciccio Ferrara, capofila dell’area Pisapia alla camera, «ma evitare di finire costretti a un cartello elettorale, o una federazione: tutte esperienze già fatte a sinistra, e finite in successive rotture. Noi invece, come dice anche Bersani, stiamo percorrendo una strada che ci porta a un nuovo soggetto politico». La cabina di regia «verso la quale fare una cessione di sovranità per cominciare a camminare insieme può essere una prima soluzione», conclude Ferrara. Intanto però Mdp organizza dove riesce le sue «Feste del lavoro», e continua il suo tesseramento.
Dalla cabina di regia si potrà affrontare finalmente anche la questione delle alleanze. Speranza spalanca le braccia verso i militanti delusi del Pd e verso «chi sta a sinistra del Pd, in modo particolare a Civati e Possibile, a Sinistra italiana e a chi si è riunito al Teatro Brancaccio. Partiamo dall’agenda e vediamo chi ci sta. Ma il nostro obiettivo non è un cartello elettorale per arrivare alle politiche e poi si sfascia tutto: sarebbe poco credibile». Ora si attende una risposta da Pisapia che, a quanto si sa, esclude la riedizione di una «cosa rossa».
Infine i dissapori fra D’Alema e Bersani. Naturalmente smentiti. D’Alema chiede di formalizzare il coordinamento di Insieme: tutti d’accordo. Bersani non interviene, ma poi ai cronisti assicura: «Non c’è nessuna discussione fra noi, né fra noi e Pisapia». E rassicura anche l’ex sindaco: «Non facciamo un cartello elettorale, al voto ci sarà una lista unica che dirà che non siamo solo una lista, ma stiamo avviandoci verso la costruzione di una forza politica progressista di centrosinistra». Quando? «Non ho l’orologio. Ma so che la stiamo costruendo aprendoci, senza gelosie e solitudini».

Il Fatto 12.7.17
Pisapia, la politica è solo domande
Centrosinistra - Il programma di Campo Progressista è una lista di punti interrogativi
Pisapia, la politica è solo domande
di Luisella Costamagna

Che centrosinistra ha in mente Giuliano Pisapia con il suo Campo progressista? “Senza dimenticare il passato, ma radicalmente innovativo”. Ok, come? Per capirlo sono andata sul sito web. Primo progetto: “Le Officine delle Idee”, “luoghi territoriali” per “raccogliere idee e proposte per il fondamento di un nuovo, inedito, centrosinistra”.
Ottimo – penso incuriosita – vediamole queste idee, “nuove e inedite”, con cui l’ex sindaco di Milano vuole rivoluzionare l’Ulivo. Chissà quante proposte, chiare e stringenti, visto che il destrorso Pd renziano ha lasciato una prateria alla sinistra e lui proviene proprio da lì – Dp, Rc, Sel – con in più l’esperienza amministrativa. Scorro quindi famelica i “10 Macrotemi delle Officine delle Idee”, sicura di trovare lumi. Ma, anziché la luce delle certezze, trovo la nebbia del dubbio: tutti gli argomenti sono organizzati in domande, tra tutto e il contrario di tutto. L’opposto di ciò che cercano gli elettori di sinistra: frastornati e delusi, vorrebbero risposte non interrogativi. E che interrogativi!
Prendiamo il primo tema: Ambiente. Dopo energie rinnovabili e decarbonizzazione, si chiede: “Come si può creare un modello di mobilità sostenibile, dove bici e trasporti pubblici abbiano la priorità sulla cementificazione del modello automobilistico?”. Ok ridurre le auto, ma che c’entra il cemento? S’immagina un futuro in bici e bus su sterrate? Pure la battaglia “di sinistra” sull’acqua pubblica viene messa in discussione: “Ha senso preservare l’acqua pubblica come un diritto per i cittadini, garantendo acqua di qualità?”. Sì, ha senso, visto che così votarono 26 milioni di italiani nel 2011. Li sconfessiamo?
Non va meglio su altri temi: il capitolo Diritti è “di sinistra” con la difesa della legge sull’aborto, la tortura, fine vita e diritto d’asilo per i migranti; sull’Europa s’ipotizza il superamento dell’austerità e si chiede: “Come affermare un’Europa della democrazia e non dei più forti?”. Già, come? Non dovreste dircelo voi? E che dire del Lavoro? Nessun cenno a Jobs Act e art. 18, ci s’interroga invece sull’efficacia o meno di un welfare non pubblico (“fondi sanitari integrativi, previdenza complementare, welfare aziendale”). Sognando California? Su “Democrazia, rappresentanza e partecipazione” getto la spugna: rimossi referendum (Pisapia votò Sì) e legge elettorale, si fanno domande da capogiro tipo “Come rafforzare e ripensare forme di democrazia partecipativa (progettazione partecipata, bilancio partecipativo, etc.)?”. Le ha scritte Barca? E non è solo un problema di comprensione (la mia, è chiaro, è limitata), ma anche di scrittura talvolta zoppicante.
Il titolo della Scuola? “Un cuore pulsante che fa fatica a battere”. Ma pulsa o batte? Poi ci sono dati interessanti, e domanda finale dalle cento pistole: “Come portare scuola, università e ricerca al centro del nostro modello di sviluppo?”.
Ci piacerebbe saperlo, ma da voi. Infine il Sud, altro tema cruciale, che si conclude con: “Il Meridione per resistere al mercato globalizzato, vincere le sfide di sviluppo e legate a trasformazioni sociali e geopolitiche può cominciare a pensarsi come una macroregione seguendo l’esempio del Nord Italia?”. Macroregioni? Pure Pisapia, dopo Renzi, si crede Salvini? Non c’è dubbio: come centrosinistra, inedito è inedito.
di Luisella Costamagna

Il Fatto 12.7.17
Landini va in Cgil: si apre la partita del dopo Camusso
Il leader dei metalmeccanici entra nella segreteria nazionale (non accadeva dal 1991) dopo il parziale disgelo con la leader del sindacato. Lui guarda al 2018, ma (per ora) con poche chance
di Carlo Di Foggia

La mossa è destinata ad aprire nuove prospettive nel più importante sindacato italiano: Maurizio Landini entra nella Segreteria confederale della Cgil. Il segretario generale dei metalmeccanici della Fiom verrà eletto oggi, dopo che ieri è arrivata l’indicazione della leader Cgil Susanna Camusso davanti a oltre 330 delegati nazionali. L’esito è scontato, ma non sarà un plebiscito.
È da piùdi 20 anni che un leader Fiom non entra direttamente nella segreteria nazionale del sindacato di Corso d’Italia. L’ultima volta accadde nel 1991 ad Angelo Airoldi, con la Cgil guidata da uno storico ex leader delle tute blu come Bruno Trentin. Landini, eletto segretario generale nel 2010, accarezza l’idea di seguire l’iter dello storico sindacalista, ma la strada è in salita. A novembre 2018 scade il mandato della Camusso, che per statuto non può più ricandidarsi. A fine anno si aprirà la stagione che porterà al congresso e all’assemblea generale che eleggerà il successore. L’ingresso nella segreteria nazionale – che si allarga da 9 a 10 membri – corona una fase distensiva con la Camusso iniziata un anno e mezzo fa e culminata nella campagna referendaria su voucher, articolo 18 e appalti. I dissidi hanno tenuto banco per anni. Uno scontro inaspritosi durante i primi tempi del Governo Renzi – a cui Landini guardava con un iniziale interesse – e la firma dell’accordo sulla rappresentanza sindacale, dove le visioni erano agli antipodi. Era il 2014, ma anche prima – anche per la vicenda Fiat – i rapporti erano tesi. Il dialogo sembra essersi riaperto anche dopo il fallimento della “coalizione sociale”, il progetto a cui lavorava il leader Fiom.
Da allora Landini si è sottratto alla scena mediatica e ha compiuto anche l’ultimo miglio per avvicinarsi alla Cgil: ha firmato a novembre il contratto dei metalmeccanici, dopo due rinnovi separati. La firma insieme a Fim Cisl e Uilm è arrivata dopo una lunga trattativa, ma il risultato è stato contestato dall’ala più a sinistra della federazione che lo ha giudicato un cedimento (su aumenti, orari e welfare integrativo) alle idee difese in passato.
Se non ci saranno grandi stravolgimenti nella finestra che si aprirà nei prossimi mesi, Landini ha poche chance di succedere a Camusso. Entra in segreteria con l’appoggio di alcune minoranze e il lasciapassare del gruppo dirigente, che in buona parte lo osteggia. Per questo dovrà ricucire i rapporti con l’apparato e creare le condizioni per una candidatura, magari al prossimo giro. A oggi è probabile l’appoggio a uno dei due nomi che ricorrono di più per il dopo Camusso: Vincenzo Colla, segretario confederale e già leader della Cgil dell’Emilia Romagna che ha guidato l’ala più a sinistra del sindacato che ha fatto da ponte con la Fiom. L’altro candidato è Serena Sorrentino, fedelissima di Camusso e a capo degli statali della Cgil.
Landini lascia la Fiom con qualche mese di anticipo sulla scadenza del mandato. Venerdì si eleggerà il successore. Il risultato è scontato: sarà Francesca Re David, segretario generale della Fiom-Cgil Roma e Lazio, la prima donna alla guida dei metalmeccanici.

Il Sole 12.7.17
Cedu. Non è contrario ai diritti dell’uomo
Lo Stato può vietare il velo islamico nei luoghi pubblici
di Marina Castellaneta

Il divieto di indossare il velo islamico in luoghi pubblici può servire a garantire la convivenza in una società e ad assicurare il rispetto di alcuni valori come quello di uguaglianza uomo – donna. Di conseguenza, il “no” imposto per legge all’utilizzo del niqab non è contrario alla Convenzione dei diritti dell’uomo. È la Corte europea di Strasburgo a tornare sui divieti di indossare simboli religiosi che coprano il volto in luoghi pubblici e Strasburgo, nella sentenza Belcacemi e Oussar depositata ieri (analoga a quella Dakir, sempre di ieri) ha dato ragione allo Stato in causa, in questo caso il Belgio.
A rivolgersi ai giudici internazionali due donne, una belga e una del Marocco, che contestavano il divieto imposto dall’ordinamento del Belgio che vieta di indossare, in luoghi pubblici, indumenti che coprano il volto totalmente o parzialmente. A causa di questa proibizione, le donne non potevano utilizzare il niqab. La Corte costituzionale belga aveva respinto il ricorso e le donne hanno così scelto la strada di Strasburgo sostenendo che era stato violato il diritto al rispetto della vita privata (articolo 8), della libertà di religione (articolo 9) e il diritto a non essere discriminati (articolo 14).
Di diverso avviso la Corte europea. La legge belga – osserva Strasburgo – si propone dei fini legittimi come la sicurezza pubblica, l’uguaglianza di genere e la tutela della convivenza all’interno di una società. In materia di libertà di religione, inoltre, gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento. La Corte è consapevole che norme come quelle belghe possono contribuire a consolidare stereotipi colpendo determinate categorie di individui e creare una certa intolleranza. Così riconosce che il divieto può limitare il pluralismo creando ostacoli alle donne nell’espressione della propria personalità.
Tuttavia, i divieti possono essere necessari in una società democratica anche per garantire le relazioni tra individui e la convivenza. Di conseguenza, poiché l’obiettivo delle autorità belghe è di favorire le relazioni tra i componenti di una società e agevolare certe condizioni di convivenza che lo Stato vuole per la propria società, il divieto non è incompatibile perché è anche frutto di una scelta sulla società da formare all’interno di uno Stato.
La legge belga è stata adottata a seguito di un approfondito dibattito, lungo 7 anni. E non solo. Gli Stati parti alla Convenzione europea non hanno una posizione univoca sul punto e, quindi, le autorità nazionali hanno autonomia nella regolamentazione in materia. Sul fronte delle sanzioni, inoltre, la legge belga prevede una multa e il carcere solo in casi estremi, per ripetute violazioni e dopo un’attenta valutazione dei giudici nazionali. Di qui la conclusione sulla proporzionalità della sanzione e la piena compatibilità del divieto con la Convenzione.

Il Fatto 12.7.17
Barbara Spinelli
“Pensiero di gruppo” e censure: assalto all’ informazione
L’intervento tenuto ieri (martedì 11 luglio) da Barbara Spinelli nel corso di un’audizione su “Libertà e pluralismo dei media nell’UE” organizzata a Bruxelles dalla Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo (LIBE) e presieduta dal presidente LIBE Claude Moraes. Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola in qualità di Relatore del nuovo Rapporto del Parlamento europeo “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”.

Il mio sguardo sulla libertà dei media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella relazione presentata da questa Commissione nel 2013.
Mi limiterò a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire:
Primo punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia stessa. Alcuni parlano di “post-verità”, e nel mirino ci sono soprattutto internet e i social network. C’è una buona dose di malafede in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e interattivo di informazione, che tende a condannare all’irrilevanza i giornali mainstream. Di qui un’offensiva contro questo strumento, e una serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo, imbrigliarlo. L’offensiva ricorda per molti versi la reazione all’invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le proprie degenerazioni. Per molti versi è un’offensiva che ricorda la polemica ottocentesca contro il suffragio universale: “troppa democrazia uccide la democrazia”. Quand’anche alcuni di questi timori fossero giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti sospetti o screditati.
Secondo punto: l’estendersi di alcuni fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze della politica e di grandi concentrazioni di interesse nell’informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di autocensura. Lo studio pubblicato nell’aprile scorso dal Consiglio d’Europa – “Giornalisti sotto pressione”– mette in risalto l’estendersi di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera l’autocensura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche, editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La vera radice delle fake news come dell’autocensura viene occultata ed è a mio parere il groupthink, che possiamo descrivere come espressione di un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò questo termine negli anni ’50, si tratta di una “filosofia dichiarata e articolata che considera i valori del gruppo” – quale esso sia– “non solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti”. La parola è meno moderna di fake news ma più precisa.
Terzo punto, importante nelle democrazie dell’Unione: il cosiddetto dilemma di Copenaghen. I Paesi candidati all’adesione devono rispettare le norme sulla libertà di espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione dei diritti dell’uomo (rispettivamente gli articoli 11 e 10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei media.
Quarto punto: i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente, ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet. Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.
Quinto punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se aumentano l’autocensura e l’interferenza arbitraria nel lavoro di giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori. Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un lavoro dignitoso.
Infine, sesto punto: i rimedi. Abbiamo gli articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi riferisco alla relazione In’t Veld, che il Parlamento ha approvato nell’ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici previste dai Trattati come l’articolo 7, chiamato “opzione nucleare” perché applicabile solo all’unanimità e quindi praticamente inutilizzabile.

Corriere 12.7.17
Asmara
L’Unesco inserisce la capitale eritrea tra i patrimoni dell’umanità. Grazie agli architetti italiani di cent’anni fa
di Guido Santevecchi

L’Eritrea non è stata mai dalla parte «serena» della cronaca negli ultimi decenni. Prima immersa in una guerra trentennale per l’indipendenza dall’Etiopia; poi dal 1991 governata da un gruppo dirigente che ha tradito le promesse (e le premesse) e l’ha chiusa al mondo, usando la repressione. Ultimamente terra di partenza di disperati che tentano la sorte per arrivare sulle nostre coste. Ma ora la sua capitale Asmara ha conquistato una vittoria culturale per i suoi abitanti e per tutta l’Africa. La città sull’altopiano è stata dichiarata «Eredità mondiale» dall’Unesco, l’agenzia Onu per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. La motivazione: «Un esempio eccezionale di urbanizzazione modernista».
Si tratta dell’eredità della visione di architetti italiani che più di cent’anni fa erano stati incaricati di edificare la vetrina dell’Impero, di quella che allora chiamavamo Africa orientale italiana. Ma se Asmara ha mantenuto il fascino di una cittadina di provincia del nostro Meridione, con viali alberati, slarghi, fontane, bar, cinema, palazzi pubblici razionalisti e villette immerse nel verde, il merito principale è della sua gente, tanto tollerante e saggia da preservarla.
Hanna Simon, ambasciatrice eritrea a Parigi, delegata presso l’Unesco, ha commentato il riconoscimento internazionale: «È il frutto di anni di ricerca, pianificazione e impegno concreto, una vittoria non solo per l’Eritrea ma per l’Africa, perché nonostante l’impronta coloniale Asmara appartiene all’identità eritrea e alla sua battaglia per l’autodeterminazione». Come detto, oggi il governo di Isaias Afewerki si è trasformato in regime, ma questo è un altro discorso, triste.
Resta il fatto che Asmara non ha disprezzato e cancellato il lavoro degli architetti coloniali arrivati al seguito del generale Baldissera che nel 1889 risalendo dalla calura asfissiante di Massaua si insediò sul fresco altopiano. L’amministrazione locale non ha abbattuto l’Albergo Italia, in stile umbertino, inaugurato nel 1899, ma lo ha restaurato; ha mantenuto il suo simbolo di modernità estrema, la Stazione di servizio Fiat Tagliero, progettata nel 1938 da Giuseppe Pettazzi con tettoie a forma di ali, come un aeroplano pronto a decollare. Sono rimasti con le loro insegne in caratteri cubitali i cinema Odeon, il Roma, l’Augustus, l’Impero sul corso principale. Resistono i Bar Centro, il Moderno, il Venezia, dove si trovano sempre le paste fresche la domenica e si beve espresso da vecchie macchine del caffè. Molti palazzi si affacciano sul corso principale che negli anni fu dedicato a Umberto e Vittorio Emanuele. Gli eritrei allora lo chiamavano Combustato, storpiando Campo cintato, espressione che condensava l’odiosa esclusione degli africani dalla zona riservata ai colonizzatori. Nel 1938 Asmara era la capitale della «colonia primigenia», una città modernissima per l’epoca, con 98 mila abitanti, 53 mila italiani.
Sarebbe potuto scomparire tutto una prima volta, con la caduta dell’Africa orientale italiana. Ma gli inglesi della Gazelle Force, che presero Asmara il 1° aprile 1941, furono tutto sommato «sportivi»: comunicarono che le autorità civili italiane sarebbero rimaste al loro posto, cercarono di imporre alle auto di tenere la sinistra, chiamarono Bristol un albergo costruito in puro stile imperial-fascista, smontarono e portarono via come preda bellica i macchinari di diverse fabbriche italiane e la teleferica che risaliva da Massaua all’altopiano (finita nelle Indie). Restò intatta la ferrovia costruita dal genio militare alpino, ripristinata negli anni 90 con l’aiuto dei vecchi ferrovieri eritrei addestrati dagli italiani.
La città è sopravvissuta miracolosamente intatta anche alla sanguinosa guerra di indipendenza dall’Etiopia, tra il 1961 e il 1991. Si è allargata (800 mila abitanti oggi) con case tirate su da palazzinari coreani («purtroppo non ci sono più i geometri e i capimastri italiani», disse anni fa il sindaco al Corriere) , ma ha preservato il nucleo centrale, diverse centinaia di edifici. E ora è Patrimonio dell’umanità.
Sul bancone della Farmacia Centrale, con i suoi scaffali in legno originale, il dottore eritreo tiene sempre con orgoglio i vasetti in vetro con le etichette delle «Caramelle contro la tosse e il mal di gola del Dottor Bruno». Oggi all’Eritrea servirebbe solo una medicina per la democrazia.

Repubblica 12.7.17
 Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”
Vittorio Gregotti “L’architettura non interessa più a nessuno”
di Francesco Erbani

Vittorio Gregotti ha chiuso il suo studio d’architetto. Il 10 agosto compie novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico. «L’architettura non interessa più», dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. «Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina
e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi».
E niente più?
«Niente più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine».
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
«Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso».
Dove l’ha appreso?
«Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ».
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall’iperspecialismo alla tuttologia.
«Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica».
Studiava architettura, ma non le bastava.
«La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione».
E i rapporti con gli scrittori?
«Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto».
Comunque sempre pochi architetti.
«Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico».
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
«Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi».
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
«Il postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale».
E che cosa è successo?
«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
( Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».
Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?
«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».

La Stampa 12.7.17
Mata Hari, non si fucila così anche la Belle Epoque?
Danzatrice, avventuriera, icona di seduzione, venne giustiziata a Parigi il 15 ottobre di cento anni fa come spia dei tedeschi Ma in realtà non aveva mai passato informazioni a nessuno: era finita in un gioco dove era la vittima designata
di Mario Baudino

Venne fucilata il 15 ottobre 1917 nella caserma di Vincennes da un plotone di zuavi. «La spia Mata Hari ha pagato per i crimini che ha commesso», scrisse il giorno dopo l’esecuzione il giornale Excelsior. L’accusa era gravissima, in quei giorni di guerra: spionaggio a favore dei tedeschi; ma si reggeva su poco, anche se la donna che aveva sedotto Parigi e l’Europa con le sue goffe e tuttavia sensualissime danze indiane aveva davvero pasticciato con i servizi segreti, per bisogno di denaro e per sventatezza, pur senza combinare un bel nulla. Molti anni dopo il procuratore che ne aveva ottenuto la condanna - si chiamava André Mornet - avrebbe ammesso in un’intervista radiofonica che le prove raccolte «non sarebbero bastate neppure per frustare un gatto».
Capro espiatorio
L’estate del 1917, però, era plumbea e fanatica, e anche i gatti probabilmente se la passavano male. La Francia sentiva il fiato dei tedeschi su Parigi, quasi si stesse riaffacciando il fantasma del 1870. E la danzatrice che l’aveva stregata, ormai al tramonto, fu il capro espiatorio ideale per un solenne autodafé. Divenne, morendo, la spia per eccellenza, il sinonimo stesso di spia. Pochi s’accorsero che uccidendo lei, in realtà, si stava mimando la fucilazione, una volta per sempre, della Belle Époque.
Mata Hari, nata Margaretha Geertruida Zelle nel 1876, in Olanda, quando fu condotta alla fucilazione aveva superato i quarant’anni e la sua bellezza - complici anche i mesi di dura detenzione - era irrimediabilmente sfiorita. Le ultime immagini ce la mostrano invecchiata e persino severa, niente di paragonabile alla ventiseienne che conquistò Parigi ballando nuda o quasi, semmai coperta di bracciali e pochi indumenti borchiati all’orientale, incastonati di pietre forse preziose, soprattutto nelle case private dell’aristocrazia e della grande borghesia. Seduceva banchieri, nobili, ufficiali, diplomatici, governanti, illustri dame lesbiche o scrittrici; occasionalmente si prostituiva, alla maniera delle grandi cortigiane, e intanto si esibiva più o meno goffamente nel tipo di danza che asseriva d’aver scoperto a Giava.
Raccontò un monte di bugie, spacciandosi per principessa o a volte sacerdotessa indiana. All’inizio, quando tentò il successo come modella, i pittori non la apprezzarono granché, per via del seno giudicato piccolo e delle caviglie considerate grosse. Ciò non impedì alla giovane olandese di diventare un mito. La sua immagine, che i ricchi potevano godersi al vivo (e data la situazione, andando anche più in là), impazzava sulle scatole di biscotti o cioccolatini, su infinite cartoline e stampe popolari, sui pacchetti di sigarette, sulle insegne dei negozi; oggi si direbbe come quella di una diva di Instragram. Ballava maluccio, non sapeva recitare, non sapeva far nulla di nulla se non sedurre con una sventatezza magnetica. Era un’icona, l’incarnazione della Salomé di Oscar Wilde, per un breve periodo come Lady MacLeod e poi irresistibilmente come Mata Hari, ovvero «Occhio dell’alba».
Tutti pazzi per lei
I giornali impazzivano per lei, mettendola avanti persino a Isadora Duncan, come ci racconta Giuseppe Scaraffia in Gli ultimi giorni di Mata Hari (Mursia), che intorno al rito sacrificale della fucilazione inscena un teatro dei libri, e ci dice che cosa stessero facendo in quei giorni Proust o Virginia Woolf, Marinetti o Debussy. Non senza momenti comici. Hemingway per esempio si vantò pubblicamente di avere amoreggiato con lei: anche se era arrivato in Francia due anni dopo la sua morte. Ma i libri sulla spia danzante sono innumerevoli.
L’infaticabile Paulo Coelho, per esempio, non si è lasciato sfuggire l’occasione di accoglierla nel suo universo luogocomunista, l’anno scorso, con La spia (La nave di Teseo). Ne fa ovviamente un’eroina femminista ante litteram, il che pare discutibile. Mata Hari era una grande avventuriera, in perfetta sintonia col suo tempo. Una tessitrice di favole che offriva al pubblico sensualità e esoterismo ad altissima concentrazione, ed erano questi gli ingredienti che l’immaginario europeo, in quel momento, agognava. Non si presentava tanto come «donna» ribelle quanto piuttosto come danzatrice sacra, dunque sottomessa al cosmo, il che fa una bella differenza. Non contestava nessuna idea del suo tempo, anzi lo nutriva col suo corpo, i suoi gioielli, le sue storie: al fondo, niente di più e niente di meno che un romanzo d’avventura, come quelli che in versione magari un po’ provinciale scriveva a Torino il suo quasi contemporaneo Emilio Salgari. Lui però non ne era il protagonista, lei sì.
Sedicente principessa
L’India, anzi Giava, l’aveva vista davvero, per breve tempo, negli anni di matrimonio col capitano Rudolph MacLeod, di stanza nell’isola, conosciuto e sposato per corrispondenza mentre era in Inghilterra in licenza. Durò poco, anche se nacquero due figli, uno dei quali presto morì; rimase una bambina, che fu lasciata al ben più anziano marito quando Mata Hari fuggì a Parigi. Di questa vicenda non fece mai parola, com’è ovvio, tendendo invece ad accreditarsi come principessa indiana, se pure figlia - forse - di una madre inglese. Nessuno fece ovviamente caso alle molte contraddizioni della biografia, che ritoccava secondo le esigenze del momento, salvo forse i servizi segreti: che furono la sua ultima speranza, e la trappola mortale.
Negli anni del trionfo aveva accumulato e sperperato ricchezze considerevoli. Ma con la Grande guerra e con l’avanzare dell’età il successo cominciò fatalmente a scivolare via. E per bisogno di soldi, ma forse anche per continuare a sentirsi al centro di un mondo su cui aveva avuto un potere enorme, nel 1915 accettò la proposta di collaborare coi tedeschi. Doveva raccogliere informazioni a Parigi, ma venne rapidamente individuata. A questo punto i francesi le chiesero di fare il doppio gioco - altri soldi - e di sedurre l’addetto militare tedesco a Madrid. Compito non difficile: il problema fu che costui, tale maggiore Kalle, la tradì descrivendola a sua volta come doppiogiochista, ma di parte tedesca, in messaggi con la Germania che utilizzavano un codice cifrato ampiamente noto ai francesi.
Mostra nella città natale
La povera danzatrice sacra, questa volta, era davvero perduta. Non aveva mai passato un’informazione a chicchessia, ma era finita in un gioco dove non poteva che essere la vittima designata. I francesi finsero di credere a quel che fingevano di dirsi in segreto i tedeschi, e per Mata Hari fu la fine. Arrestata in luglio, al processo si difese come poté, ammettendo qualche responsabilità; davanti agli zuavi del plotone d’esecuzione disse che almeno avrebbe fatto una bella morte. Di lì in poi, la leggenda non ha mai avuto fine, basti pensare al cinema dove è stata interpretata da Greta Garbo, Jeanne Moreau o Sylvia Kristel.
Nessuno sa che fine abbia fatto il suo corpo. In compenso, molti raccolsero avidamente i memorabilia. Se ne vedranno moltissimi proprio a partire dal 15 ottobre, nel Fries Museum di Leeuwarden. La sua città natale annuncia una grandissima mostra, con oggetti, documenti, immagini, tutta la storia e tutta la leggenda, qualcosa di «mai visto prima», con il titolo «Mata Hary, the Mith and the Maiden», che potremmo tradurre liberamente con «il mito e la fanciulla». Pare azzeccato. «Si offre al dio per intenerirlo», scrivevano i giornali francesi, esaltati, all’epoca del successo. Ma era davvero troppo fanciulla per gli dei della guerra.

Repubblica 12.7.17
La grande estinzione
È la sesta per la Terra la prima provocata dall’attività dell’uomo
Biologi di Stanford: è annientamento
L’ultima volta 65 milioni di anni fa quando scomparvero i dinosauri
di Elena Dusi

ROMA. La rana arboricola Ecnomiohyla – grandi occhi neri, corpo marrone, un’abilità senza pari nell’arrampicarsi sugli alberi e poi planare giù – se n’è andata alla fine dell’anno scorso. L’ultimo esemplare è morto allo zoo di Atlanta e nessuno si è preoccupato nemmeno di dare la notizia. Accade un paio di volte all’anno, che una specie scompaia: a un ritmo cento volte superiore rispetto a un secolo fa, e quasi sempre in silenzio. Se fossimo capaci di contare uno a uno gli animali non domestici attorno a noi, non arriveremmo nemmeno alla metà degli esemplari dell’inizio del ‘900, stima uno studio su
Pnas.
Nell’indifferenza generale, avvertono gli autori, tre biologi delle università di Stanford e del Messico, siamo entrati nella sesta estinzione di massa: un «annientamento biologico», scrivono gli scienziati, che non riguarda solo gli animali, ma mette in pericolo anche «le fondamenta della civiltà umana».
L’espressione “sesta estinzione di massa” non è nuova e il dibattito sulla sua appropriatezza va avanti da alcuni anni, un po’ come quello per il termine antropocene. Questa volta però Gerardo Ceballos dell’Universidad Nacional Autónoma de México, coordinatore dello studio di Pnas, invita a guardare i numeri e la realtà in tutta la loro crudezza. «La portata di questa estinzione è sottostimata» e l’umanità «pagherà a caro prezzo la decimazione dell’unico puzzle di vita dell’universo».
Tra i vertebrati, uno su tre è in declino sia in termini di esemplari che di estensione e qualità dell’habitat. Tutte le 177 specie di mammiferi studiate direttamente hanno perso almeno il 30% della loro area geografica. Due su cinque hanno perso l’80%. Lo spettro dell’estinzione minaccia il 41% delle specie di anfibi e il 26% di quelle di mammiferi. In 25 anni il numero di leoni si è ridotto del 43%. Oggi ne restano 35mila, concentrati in piccole oasi laddove il loro habitat comprendeva quasi tutta l’Africa, l’Europa del sud, il medio oriente e parte dell’India. Nell’Asia del sud e del sud-est tutti i grandi mammiferi analizzati direttamente hanno perso almeno l’80% dell’habitat. In generale il depauperamento della biodiversità è più alto fra i tropici. I rinoceronti, la maggior parte dei felini e i grandi primati si sono ugualmente ridotti a vivere nel 20% (quando non addirittura meno) dell’habitat di un secolo fa. Le giraffe sono passate da 115mila a 97mila in meno di 30 anni. I pangolini sono stati decimati dal contrabbando.
Per perdere 200 specie abbiamo impiegato un secolo. Normalmente (in tempi non legati alle estinzioni di massa) sarebbero serviti 10mila anni. «Considerando la durata della vita umana - scrivono i ricercatori - si fa fatica ad apprezzare la gravità di quanto accade». Spesso poi, lamentano i biologi, nel lanciare gli allarmi ci si concentra sulle specie già a rischio estinzione (solo 5mila gli orango del Borneo e di Sumatra rimasti), senza rendersi conto che animali oggi molto diffusi come le rondini perdono ogni anno milioni di esemplari, avvicinandosi al baratro un passo dopo l’altro. Presto, avvertono gli autori, le nuove specie a rischio saranno loro: «I margini di tempo entro i quali agire per fermare la sesta estinzione di massa sono molto stretti. Due o tre decenni al massimo».
Nelle estinzioni di massa del passato la vita ha impiegato alcune decine di milioni di anni a crollare per poi riprendersi. Ma mai prima d’ora le specie animali erano state decimate da un unico grande predatore, capace da solo di consumare la stragrande maggioranza delle risorse del pianeta. Distruzione dell’habitat, sfruttamento eccessivo della natura, inquinamento, invasione di specie aliene, malattie e ultimamente anche cambiamento climatico sono le cause principali della «perdita massiccia di vita» descritta nello studio. Una perdita che non riguarda ormai solo le specie notoriamente più bistrattate, ma che «ha raggiunto il livello di epidemia, attraversando tutte le regioni del mondo e tutte le linee filogenetiche, partendo dalle specie più rare, senza risparmiare quelle comuni».

Repubblica 12.7.17
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola

Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta
di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile
(fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale. Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge. La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90). Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.

Cetona: ‘Confronto Italiano’ 2017 dedicato a Gramsci e il pensiero della crisi

Cetona. Due giorni dedicati al confronto e alla riflessione sulla figura di Antonio Gramsci, dal suo pensiero politico alla attività di giornalista, in compagnia di sociologi, politologi, storici, scrittori, saggisti e giornalisti. È quello in programma a Cetona venerdì 14 e sabato 15 luglio con Confronto Italiano, manifestazione culturale promossa dal Comune, dalla Fondazione Lionello Balestrieri e dalla Cattedra di Scienza Politica della Sapienza Università di Roma. L’undicesima edizione della due giorni di confronto e riflessione potrà essere seguita anche in streaming, attraverso il sito www.confrontoitaliano.it.