domenica 2 luglio 2017

SULLA STAMPA DI DOMENICA 2 LUGLIO




Il Fatto 2.7.16
Protesta in piazza
I lavoratori dell’Unità chiusa: “Il partito ci ha abbandonato”

Ci sono anche i giornalisti de L’Unità in piazza Santi apostoli a Roma, tra i partecipanti alla manifestazione della sinistra di Giuliano Pisapia. “L’Unità è stata completamente abbandonata. Siamo senza lavoro e senza stipendio da maggio e non abbiamo la cassa integrazione”, dice uno di loro.
I cronisti lamentano anche il fatto di non essere stati coinvolti nel lancio di “Democratica”, la nuova testata online del Pd.
“Di “Democratica” lo abbiamo saputo da un post, non siamo stati assolutamente coinvolti, insomma oltre al danno la beffa, evidentemente Renzi voleva liberarsi di noi”, accusano i giornalisti esibendo una pagina dell’Unità che titola “Rottamati dal Pd: Renzi lancia un nuovo giornale e dimentica i lavoratori de l’Unità”.
In prima pagina la foto del fondatore, Antonio Gramsci e la didascalia recita: “E’l’iniziò e Matteo Renzi la fine”. Il segretario del Pd dice che la proprietà è privata. “Il Pd ha il 20% delle quote, anche Renzi ha delle responsabilità, non può dire che è in mano ai privati: ha abbandonato 35 famiglie”, rispondono i lavoratori.

Corriere 2.7.17
Lo storico dell’arte
Montanari: era tutto deciso, inutile andare
intervista di Giuseppe Alberto Falci

«La casa comune della sinistra si costruisce dalle fondamenta e non dal tetto». Da pochi minuti si è conclusa la manifestazione di Giuliano Pisapia nell’evocativa piazza Santi Apostoli, ma Tomaso Montanari, storico dell’arte e animatore della campagna del No al referendum costituzionale, non solo non ha partecipato ma ne critica l’approccio «leaderistico».
Professore Montanari, in particolare a cosa si riferisce?
«È stato già deciso tutto: leader, programmi. Non servono happening , ma luoghi dove si discute e poi si decide insieme».
È una critica feroce a Pisapia e a Bersani.
«Lo dico con nessuna simpatia per la rottamazione. Vedo la stessa classe dirigente che era già alla guida del Paese quando io frequentavo il liceo. Il fatto che l’Italia sia un Paese diseguale non dipende soltanto da Matteo Renzi. Penso, ad esempio, alla precarizzazione del lavoro. L’ha fatta Renzi o il ministro Treu dei governi di centrosinistra?».
Cosa non ha condiviso dell’intervento dell’ex sindaco di Milano?
«Chiede di fare autocritica a Renzi. Ma molti di noi si chiedono quando Pisapia farà autocritica sul suo Sì al referendum».

il manifesto 2.7.17
«Insieme», una casa tanto carina. «Discontinui», ma solo col passato prossimo
Sinistra. Aria di centrosinistra che fu, nella piazza (ristretta) di Pisapia. Dominano le bandiere Mdp. Bersani: basta arroganza
di Micaela Bongi

ROMA  Le tante bandiere di Articolo 1 e quelle dei Verdi sventolano, i palloncini arancioni volano in aria. Giuliano Pisapia ha appena terminato il suo intervento dal palco romano di piazza Santi Apostoli sotto la sede che fu dell’Ulivo, e Iseiottavi, la Rino Gaetano Tribute band alla quale viene affidata la colonna sonora del pomeriggio, attacca Il cielo è sempre più blu. È solo l’ultimo rewind, quello che chiude poco prima delle otto di sera «Insieme», il lancio di una «casa comune inclusiva e innovativa», promette l’ex sindaco di Milano.
«NASCERÀ UNA CASA più grande e più bella… Dipende da voi, da tutti noi, la costruzione di una casa in cui non saremo più da soli». Lo aveva detto Piero Fassino, su quelle stesse note di Rino Gaetano, dieci anni fa, chiudendo a Firenze il congresso che congedava i Ds per dare l’avvio al Pd. «Da oggi parte la casa comune per una nuova sinistra, un nuovo centrosinistra. Una casa comune che guarda al futuro e guarda al passato. Non una fusione a freddo, ma una fusione a caldo», insiste ora Pisapia congedando la piazza del 1 luglio per dare un nuovo appuntamento a «Insieme» a settembre, quando «sceglieremo il nuovo nome, insieme» anche per i nuovi gruppi parlamentari.
Il futuro e il passato da non buttare tutti alle ortiche, come chiede Pier Luigi Bersani che, intervenendo prima di Pisapia, rivendica gli anni ’90 perché allora «abbiamo vinto ovunque, dall’Europa agli Stati uniti, proponendo una globalizzazione dal volto umano. Economia di mercato sì, società di mercato no, come diceva Jospin». Ma «discontinuità radicale» con le politiche degli ultimissimi anni, chiede l’ex segretario del Pd e ripete l’ex sindaco, il primo con un duro attacco a Matteo Renzi e al renzismo (applauditissimo, del resto la piazza è appunto dominata dalle bandiere di Mdp che Gad Lerner invita a sventolare con moderazione), il secondo senza citare mai Renzi (forse anche per questo applaudito con meno fragore) ma elencando i temi sui quali marcare la discontinuità.
E chiarendo anche che «in tempi non sospetti avevo detto di considerare un errore l’abolizione dell’articolo 18», scandisce Pisapia «l’anti-leader» (lo definisce il «presentatore» Lerner), a segnare in questo modo una distanza netta dall’attuale segretario del Partito democratico che da Milano aveva attaccato a testa bassa una piazza messa insieme dalla «nostalgia di un passato che non è mai esistito».
Non a caso è attento, Pisapia, a cercare di allontanare quella sensazione di «nostalgia» parlando ripetutamente di futuro, della necessità di unire «indipendentemente dalle bandiere e dalle storie». Del resto all’inizio della manifestazione il colpo d’occhio della piazza parla molto del centrosinistra che fu, passeggiano – più o meno coinvolti nella «nuova casa» – diversi ex ministri dei governi di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, da Livia Turco a Barbara Pollastrini a Giovanni Maria Flick a Antonio Bassolino con seguito di fan… E applausi anche per Massimo D’Alema, al suo arrivo nella folla. Passeggia poi Gavino Angius, che fu capogruppo dei Ds. Ma ci sono anche Bobo Craxi che ascolta seduto sulla sua bicicletta e si rivedono pure ex dc non esattamente «ulivisti» o «unionisti» come Angelo Sanza, arrivato nel Centro democratico di Bruno Tabacci dopo essere passato per Forza Italia e per l’Udc.
IL RISCHIO REVIVAL è nell’aria. Anche se l’atteso messaggio-benedizione di Prodi non arriva. E pure quello fusione a freddo, come appunto evidenzia Pisapia seppure dicendo che «Insieme» non ripeterà l’errore che riporta a quel congresso di Firenze e al Rino Gaetano di dieci anni fa.
La scommessa è questa, la piazza è piena solo perché il palco è stato montato in posizione strategica per evitare vuoti, e dal palco e ai camion delle tv resta una fetta piuttosto limitata. Certo è il primo luglio, è un sabato e venerdì a Roma era anche festa e Pisapia dice «ci davano dei matti, ma ce l’abbiamo fatta», salutando «la bellissima piazza».
Non c’è il messaggio di Prodi ma ci sono i pontieri del Pd. Gianni Cuperlo, Cesare Damiano e il ministro della giustizia Andrea Orlando ascoltano attentamente da dietro il palco dove si è sistemato un gruppetto di bersaniani. Il ministro in realtà cerca di spostarsi altrove, «siamo la delegazione straniera», scherza, ma sotto il palco è difficile arrivare. C’è il presidente della regione lazio Nicola Zingaretti e ascolta in posizione un po’ arretrata il franceschiniano David Sassoli. Selva di telecamere per la presidente della camera Laura Boldrini
Sul palco si susseguono le «storie» vere – come le chiama Pisapia, raccontate da Stefania Cavallo del centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, Elvira Ricotta della rete italiani senza cittadinanza, Alessio Gallotta che parla della vertenza Amazon…
Poco prima della fine della manifestazione è l’attore Claudio Amendola (tocco di romanità da coniugare con la milanesità dell’anti-leader) a parlare esplicitamente del rapporto con i dem, di una «forza che dovrà essere la sentinella del Pd».
DAL PD RENZIANO la piazza è molto lontana. Ci sono anche i giornalisti dell’Unità «rottamata dal Pd». «Ci rivolgiamo al popolo del centrosinistra, disilluso, deluso, che sta a casa e ha ascolta il comizio di Renzi e sente che le parole gli scivolando addosso, come l’acqua sul marmo», dice ancora Bersani tra gli applausi. Perché «noi abbiamo un pensiero, se ne prenda atto. Ma voi del Pd che pensiero avete? Ora si sono liberati di D’Alema e il pensiero ce lo darà Bonifazi… Basta voucher, basta licenziamenti collettivi e disciplinari, basta stage che diventano lavori in nero, basta bonus, basta meno tasse per tutti come dice Berlusconi. E basta arroganza, il mondo non gira attorno alla Leopolda».
«Senza i più poveri, gli esclusi, questo Paese non cresce. Lo sciopero del voto ci spinge a ridare dignità al lavoro, solo così ripartirà lo sviluppo. Non si crea sviluppo pensionando i diritti», dice ancora Pisapia citando Rodotà e chiedendo la legge per lo ius soli.
«SIAMO PARTITI col piede giusto per costruire un nuovo progetto politico, ora si tratta di allargarlo. Stiamo andando verso le elezioni. Se questa forza avrà forza allora dopo il voto riapriremo il confronto» con il Pd.
In piazza c’è la delegazione di Sinistra Italiana (De Petris, Marcon, Fassina…), c’è Pippo Civati. I «civici» del Brancaccio non ci sono. Quanto la casa sarà grande e comune è tutto ancora da vedere .

il manifesto 2.7.17
«Insieme» ma non troppo, sintonia con i temi del Brancaccio, troppe ambiguità sulla lista unitaria
di Andrea Colombo

ROMA È probabile che dalla molto a lungo attesa manifestazione di piazza santi Apostoli la stragrande maggioranza degli elettori di sinistra si aspettasse una cosa sola: un raggio di luce, fosse pure pallida, a chiarire come la sinistra affronterà le elezioni.
Non ha avuto soddisfazione.
Il discorso ruggente di Bersani e quello di Giuliano Pisapia hanno glissato che fare e come affrontare le elezioni, se con la lista unitaria con la sinistra o meno.
Sui temi, invece, l’assonanza tra la manifestazione di ieri e quella del Brancaccio è, se non piena, notevole: la centralità del lavoro e dei diritti strappati ai lavoratori, l’appello a far pagare di più chi ha di più, l’insistenza sulla radicale discontinuità con le politiche del Pd di Renzi.
Gli estremi per una forza unitaria, nel merito, ci sono. Ma la parola d’ordine «Nessuno escluso» suona un po’ stridente se si nega la parola agli organizzatori del Brancaccio, si evita di invitare il Prc e si tratta con un certa sufficienza Sinistra italiana, che pure ha inviato una sua delegazione e mandato un messaggio unitario chiaro.
La stessa insistenza sul centrosinistra invece che sulla sinistra è a rischio d’ambiguità.
Per fare un centrosinistra ci vogliono un centro che guardi a sinistra, e al momento non c’è perché lo strabismo di Renzi è opposto, e una sinistra che a sua volta non c’è e che andrebbe costruita. Insistere sul «genio civile per la costruzione del centrosinistra» non dovrebbe risolversi in una formula obliqua per evitare di dover costruire la sinistra, che è invece quel che si aspetta la stessa base di «Insieme».
È possibile che il grosso del Campo di Pisapia sia se non ancora determinato almeno molto propenso ad andare alle elezioni da solo, convinto di poter strappare un risultato esaltante, quello profetizzato da Eugenio Scalfari qualche settimana fa: per poi condizionare grazie a quella forza il Pd, magari scalzando il suo attuale segretario. Scommessa rischiosa, primo perché di solito i vaticini del decano di Repubblica non si realizzano.
E secondo perché, impostando una politica tutta concentrata sul Pd e sulla sua «riconquista», si rischia di perdere di vista la necessità di riconquistare un popolo di sinistra sempre più disaffezionato.
Quel popolo non ha neppure elementi per indovinare se, ove «Insieme» non intendesse dar vita a una forza unitaria di sinistra, gli altri lo farebbero.
La sensazione è che almeno questa possibilità ci sia e che il seppuku collettivo di presentarsi alle elezioni con tre liste a sinistra del Pd possa essere evitato. Ma sempre con grande prudenza, senza fretta, rispettando il primato della tattica o dei tatticismi.
In parte la prudenza, soprattutto da parte di Si, è dovuta alla sacrosanta speranza di poter costruire una forza quanto più unitaria possibile, che includa a pieno titolo santi Apostoli.
È una pulsione giusta, ma con misura. Perché le elezioni non sono affatto lontane e cosa succede agli «accorpamenti» dell’ultimo secondo lo hanno già rivelato il finto Arcobaleno e il Disastro Ingroia.

il manifesto 2.7.17
«Giudizio sospeso, ma per fare una alleanza serve una svolta sul programma»
di Massimo Franchi

Intervista a Nicola Fratoianni. Nicola Fratoianni, lei prima della manifestazione di piazza Santi Apostoli ha mandato una lettera aperta a Giuliano Pisapia chiedendo un incontro sul programma. Avendo ascoltato da fuori l’intervento appena finito è più ottimista che si possano trovare punti in comune per un’alleanza? Dopo aver sentito Giuliano sono in uno stato di sospensione, mi ha lasciato un po’ perplesso. È mancato in uno significativo la chiarezza di una prospettiva. Non ho sentito su un singolo tema proposte radicalmente alternative alle politiche portate avanti dal Pd in questi anni. In realtà l’avverbio «radicalmente» Pisapia lo ha pronunciato molte volte. Non le è bastato? Sì, l’ha detto ma poi non ha mai spiegato in cosa essere radicali. Se l’intervento di Bersani è stato molto positivo nel merito, seppur non tutto condivisibile, soprattutto nel rivendicare "la globalizzazione dal volto buono" che per me non c’è mai stata, Pisapia non ha dato seguito, limitandosi a tracciare un elenco di temi senza mai lasciar neppure intravvedere la svolta necessaria. Bersani mi pare abbia interpretato con le sue parole il bisogno della piazza di chiudere una stagione politica terribile: ha parlato di lavoro, di welfare universalistico, di progressività. Pisapia lo ha fatto molto meno... Sta dicendo che Bersani è più leader di Pisapia? Eppure è stato proprio l’ex segretario Pd a incoronare Giuliano come «leader della nuova casa comune della sinistra e del centrosinistra»... I leader non si inventano. O si scelgono in modo democratico o ci sono perché sono in grado di convincere tutti per la giustezza della loro proposta. Detto questo, non voglio personalizzare il problema. Che è invece quello di lavorare per costruire un programma in grado di essere credibile come alternativa ai governi di questi anni. Non intendo rassegnarmi, ma se qualcuno pensa che la piazza di oggi sia lo spazio a cui aderire a prescindere dal programma terrebbe un comportamento poco intelligente. Se dovesse scommettere dunque ad oggi la prospettiva delle due liste a sinistra è la più probabile? Non voglio fare scommesse. Quel che mi interessa è lavorare perché una prospettiva di alternativa al Pd abbia il massimo di successo, ma per esserlo deve essere prima di tutto credibile. Non si può imporre l’unità mettendo in secondo piano la credibilità di politiche di sinistra che riportino a votare i milioni di persone che oggi si astengono. Il 18 giugno con Anna Falcone e Tomaso Montanari abbiamo iniziato un percorso che deve procedere, senza che questo renda impossibile il confronto con Giuliano. La discriminante è il rapporto col Pd? Il problema è sempre Renzi? Guardi, che il problema per noi non sia Renzi è dimostrato dal fatto che noi eravamo all’opposizione anche del governo Letta. Il problema sono le politiche portate avanti dal Partito democratico in questi anni: Jobs act, Buona Scuola, bonus ai ricchi. Con questo Partito democratico non c’è possibilità di intesa. In piazza però c’erano anche molti esponenti del Pd a partire da Andrea Orlando. Con lui un dialogo sarebbe possibile? Trovo incredibile che Orlando possa essere considerato un interlocutore. Lo dovrebbe essere solo perché ha sfidato Renzi alle ultime primarie? Non scherziamo: è stato ministro anche con Letta, è l’autore di provvedimenti che poco hanno a che fare con la sinistra. Io sono contrario ad una astratta vocazione coalizionale: un alleanza si costruisce sul programma e il programma deve essere totalmente diverso dalle politiche portate avanti anche da Orlando. Pisapia e Bersani le obietterebbero che se non vi allete fate il gioco della destra... Mi pare l’abbia detto bene anche Leoluca Orlando dal palco: "Se la sinistra fa la destra, le persone votano l’originale". Il problema è tornare a fare la sinistra, non inseguire la destra. Solo così potremo vincere.

Il Fatto 2.7.17
Pisapia predica: “Soli si perde”. Renzi sfida: “Non mi fermate”
Esordio a Roma per l’ex sindaco di Milano che invoca un centrosinistra unito ma ormai i ponti col Pd sono saltati anche se lo scontro non è mai frontale
di Luca De Carolis

Ormai il muro è troppo alto, e buonanotte ai sogni di un nuovo centrosinistra. Anche se dalla piazza romana il (possibile) federatore Giuliano Pisapia invoca ancora unità, “perché da soli non si va da nessuna parte”. Speranze e poco più, perché il combinato disposto tra Insieme, la manifestazione di ieri a Roma della sinistra fuori del Pd, e il Matteo Renzi che ha parlato a Milano certifica che riunire questo Pd con questa sinistra ad oggi è impraticabile.
Lo dice dritto il Renzi che all’ora di pranzo interviene nel Forum dem: “Fuori del Pd c’è la sconfitta della sinistra. A Pisapia e Bersani non dico nulla, sono pronto a ragionare con tutti, ma sui temi del futuro dell’Italia non ci fermiamo davanti a nessuno”. E lo dice chiarissimo Bersani, il più applaudito nel pomeriggio a piazza Santi Apostoli: “Noi nasciamo alternativi alle politiche sbagliate di Renzi. Il Pd non è nelle condizioni di promuovere un centrosinistra largo”. E a metterci il timbro provvede Massimo D’Alema: “Andremo alle elezioni ognuno con la sua piattaforma, se noi avremo un grande successo sarà possibile riaprire un discorso con il Pd”. Magari senza Renzi dall’altra parte del tavolo. Congetture e calcoli, a margine di quel metaforico ponte levatoio che sale nel pomeriggio di Roma. Nonostante Pisapia, che forse proverà ancora a riunire i poli opposti, e di quella minoranza dem che si materializza ripetendo le parole “unità” e “centrosinistra” come per riconoscersi (e per farsi coraggio?). Nell’attesa, Pisapia lancia “la casa comune del centrosinistra, che non sarà una fusione a freddo. Penso a un discorso graduale, per evolvere le singole esperienze in un nuovo soggetto”.
Tradotto, vuole che Mdp e tutti gli altri partiti che ci stanno, dai Verdi a (probabilmente) Sinistra italiana, si sciolgano in una sola forza con Campo Progressista. Ma le resistenze sono forti. Perché Mdp non ha affatto fretta di sciogliersi. Mentre Si rimane guardinga, con il segretario Nicola Fratoianni che non si fa vedere (ma c’è una delegazione del partito). Assenti anche Tomaso Montanari e Anna Falcone, motori dei comitati per il No. Ed è un bel guaio, perché quella dei comitati è una prateria di voti. Con cui Pisapia e i suoi dovranno comunque provare a parlare. Intanto però a Santi Apostoli si marcia verso l’unione degli anti-renziani. Sul palco presenta uno dei fondatori dell’Ulivo, Gad Lerner, mentre si vedono diversi dem. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando dice poco, ma è netto: “Questa piazza non è alternativa al Pd, perché il Pd è nato per unire, come ha ricordato Franceschini”. A Gianni Cuperlo invece chiedono del discorso di Renzi a Milano, e lui allarga le braccia: “In politica l’obbedienza non è una virtù e il Pd non può essere una caserma: le primarie hanno eletto un segretario, non un capo”. Poco più in là il lettiano Marco Meloni, sferzante: “Renzi ha convocato all’ultimo minuto una riunione di seguaci, e non vuole vedere una realtà fatta di sconfitte”. Dopo le 18 sul palco appare Bersani, e sono gli applausi per il protagonista. A cui l’ex segretario dem ricambia mordendo: “Abbiamo un pensiero, se ne prenda atto. Ma voi del Pd che pensiero avete? Ora si sono liberati di D’Alema e il pensiero ce lo darà Bonifazi?”. È tutto un discorso sulle differenze, il suo: “Serve radicale discontinuità, basta arroganza e gigli magici. Non è che tutto il mondo gira attorno alla Leopolda”.
Poco più tardi, quando appare Pisapia per la chiusura, la temperatura è già scesa. L’ex sindaco chiede di “riconoscere gli errori”, come l’abolizione dell’articolo 18 e dell’Imu sulla prima casa per tutti. E punge il rottamatore: “La politica non è avere tanti like, non è l’io, ma il noi”. Quindi dà la sua ricetta: “Quando realtà civiche e sinistra si sono unite sono state in grado di essere davvero innovative”. E comunque Pisapia lo ripete, “da soli si apre la porta alla destra”. Ma per mettere assieme Renzi e Bersani non basta neppure un federatore.

il manifesto 2.7.17
Renzi contro i “nostalgici”, dentro e fuori il Pd
Il segretario a Milano prova a rubare la scena alla piazza di Pisapia: "Guardiamo al futuro, non a un passato meraviglioso che non è mai esistito". E manda un messaggio a Franceschini: rispondo agli elettori delle primarie non ai capi corrente. Contro le "polemicucce" anticipa la direzione
di Andrea Fabozzi

Vincere non gli riesce, ma di agonismo è pieno. Matteo Renzi è già in campagna elettorale anche se il voto – lo ha appena certificato Mattarella – è distante almeno otto mesi. Dall’assemblea dei circoli di Milano al tour per la presentazione del libro (in uscita), dalla festa nazionale di Imola al viaggio in treno «con la carrozza social», il segretario del Pd reagisce alle critiche e alle difficoltà della sua leadership nell’unico modo che conosce: la sfida. Sfida agli avversari interni, ai quali dice che risponderà al «popolo delle primarie» e non «ai caminetti» e ai «capi corrente». Sfida a quelli che sono già fuori o ancora sulla soglia, ieri simbolicamente concentrati a Roma; per loro il messaggio è «nessuna nostalgia dei tavoloni con dodici sigle che si chiamavano Unione, con loro l’Italia si è fermata».
Alla sfida del «campo largo» che rilancia Pisapia nella piazza (ristretta) che fu la sede dell’Ulivo, Renzi risponde immaginando il Pd come il centrosinistra in una sola lista, anche in funzione del rientrante Consultellum come sistema elettorale. Per questo fa sfilare nella due giorni milanese un po’ di società civile potenzialmente ospitabile sotto le insegne del partito: i citatissimi Mauro Berruto, allenatore e motivatore, Roberto Burioni, difensore dei vaccini, e Lucia Annibali, avvocata contro la violenza di genere. Tutto già visto all’epoca della prima «vocazione maggioritaria» e delle liste «aperte» di Veltroni (i candidati si chiamavano allora Calearo, Colaninno, Binetti…), e infatti il primo segretario del Pd è l’unico citato indirettamente da Renzi: «Ho nostalgia del Lingotto». Tutti gli altri ex leader che in queste settimane ne hanno smontato la linea, invece, sono accusati di passatismo: Prodi, D’Alema, Bersani «si occupano di riscrivere il passato mentre noi ci dedichiamo al futuro».
«Chi parla di centrosinistra senza il Pd vince il premio Nobel della fantasia», dice. Ma al ripetuto invito di essere più inclusivo – il famoso «passare dall’io al noi» – Renzi risponde sostanzialmente picche. L’inclusione la farà girando il paese con il suo libro – o il suo treno – e poi «noi senza io non funziona, se non comanda nessuno è l’inizio dell’anarchia». Chi comanda è già deciso: «Non possiamo fare le primarie ogni settimana, io rispondo a quei due milioni che nessuno aspettava» (in realtà un milione e ottocentomila, un milione e duecentomila per lui). Il messaggio per i «capi corrente» inquieti, primo fra tutti Dario Franceschini, non potrebbe essere più chiaro. Non bastasse, eccone un altro: «Volete la garanzia di andare in parlamento? Mettetevi in gioco, lavorate». Caduto l’incostituzionale premio di maggioranza, la corsa sarà per tutti più dura.
Intanto il «popolo delle primarie» e poi i regolamenti del Pd hanno regalato al segretario una maggioranza autosufficiente nell’assemblea nazionale e anche nella direzione, che adesso anticipa al prossimo 6 luglio non certo per l’analisi del voto sulla sconfitta alle amministrative – «vogliamo ancora parlarne?» – ma per chiudere con le «polemicucce».
Il riflesso, anche per il «rottamatore», è quello del centralismo contro le quinte colonne. Se non le elezioni vere, «nei sondaggi stavamo andando bene, arrivavamo al 32%» quando «è scattato il virus dell’autodistruzione a sinistra, attaccano me per attaccare il Pd». Mano tesa a Gentiloni, per reagire alla manovra di chi lavora sulle loro differenze: «Sta andando benissimo». Eppure solo «adesso», annuncia, «si parte sul serio». Condannato all’eterna ripartenza, giura: «Non mi faccio fermare da nessuno». Non certo dai «nostalgici di un passato meraviglioso che non è mai esistito». Ed è nella logica della «competition» che Renzi ha scambiato il posto con il suo secondo Martina e ha deciso di parlare ieri invece che venerdì, in modo da sovrapporsi nelle cronache a Pisapia.
«Ragioniamo con tutti», dice nel rispetto delle forme, però il «ragionamento» è sempre quello dei non trionfali mille giorni. Le «magliette gialle» che «adesso sono diventate un brand», il «non mi interessano i posti in parlamento ma i posti di lavoro», l’impegno a «ascoltare la gente e non la politica politicante romana», e persino la promessa di «lasciare l’aria condizionata e l’atmosfera ovattata dei palazzi» nel prossimo viaggio (in terza classe?) sui binari della penisola. Tutto questo perché, dice Renzi, «il Pd è l’unica diga contro i populisti»

La Stampa 2.7.16
Sindaci, jeans e zero bandiere
“No a operazioni nostalgia”
L’ex premier: “Piazza Santi Apostoli non per l’Italia ma contro di noi”
di Alberto Mattioli

La più decisa e recisa è un’anziana militante che sbotta: «Io sono iscritta da cinquant’anni e gli scissionisti proprio non li sopporto», e che nostalgia per il centralismo democratico. Ci voleva una reduce del vecchio Pci per esprimere quel che tutti pensano ma nessuno dice. Al secondo giorno del Forum nazionale dei circoli del Pd, a Milano, titolo «Italia 2020» (pronunciare «venti venti», fa più dem), il convitato di pietra si chiama Giuliano Pisapia, ironia della sorte ex sindaco proprio di Milano.
È mattina, si deve parlare di buone idee per il centrosinistra e per l’Italia, però si pensa a quel che diranno nel pomeriggio a Roma i transfughi del Pd insieme a quelli della sinistra senza centro. Però guai a nominarli. Il gran cerimoniere è il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina. Ma quando il cronista si avvicina per chiedergli cosa pensi dell’iniziativa di Pisap... puf!, scompare alla velocità della luce lasciandosi dietro al nuvoletta come Speedy Gonzales. Il commento di Matteo Renzi sulla manifestazione romana arriva in serata. Un uno-due molto secco, quasi pugilistico: «Primo, è stata una manifestazione contro il Pd, non per l’Italia. Secondo, c’era più società civile in sala a Milano che in piazza a Roma».
Al Forum, dei nuovi avversari di Insieme il segretario non parla. Almeno non esplicitamente. Però è chiaro che quando chiede una politica «che non sia nostalgia» si riferisce, appunto, alle rimembranze dell’Ulivo o della sinistra sì bella e perduta (e perdente). Idem quando ricorda che alle primarie hanno votato in due milioni e le ha vinte lui, quindi il segretario «risponde agli elettori, non ai capicorrente». E ancora: «senza il Pd a sinistra non vince nessuno», «il leader lo scelgono i voti e non i veti» e «il problema non è se io cambio carattere, ma se noi cambiamo l’Italia», insomma tutti i soliti argomenti made in Renzi contro la faida perenne nel partito. Il tutto passeggiando sul palco in jeans e camicia bianca sbottonata e rimboccata, tonico e all’apparenza per nulla traumatizzato dalla scoppola delle amministrative, del resto subito derubricata a una serie di casi locali.
E per fortuna che Matteo c’è. Perché il resto della mattina scorre moscio assai. La sala del Linear Ciak, teatro tenda già sede degli spettacoli di Grillo, è troppo grande per i presenti. Benché siano state coperte con teli scuri le ultime file di poltrone, ne restano vuote troppe. Qui si conferma che la vera vocazione del Pd non è quella maggioritaria, ma quella deamicisiana. È tutto un mostrare esempi «buoni» di impegno civile o lavorativo coronati dal successo. E allora vanti con Lucia Annibali, simbolo delle donne vittime della violenza maschile che non si arrendono, forza con il ceramista di Scandiano che ha ripreso insieme con i colleghi l’azienda fallita e ne ha fatto una cooperativa di successo, applausi alla figlia dell’immigrato tunisino che fa Scienze politiche a Bologna e la politica oltre che studiarla vorrebbe pure farla, ma non può perché non ha la cittadinanza italiana dopo 19 anni che è in Italia, «e facciamolo lo ius soli». Prima, standing ovation per l’omelia di don Luigi Ciotti.
Tutta un’abnegazione, tanti buoni sentimenti. Renzi allora diventa lo scrivano fiorentino, mentre il segretario metropolitano dem, Pietro Bussolati, è la piccola vedetta lombarda che avvisa che «il Pd non è nato per unire i malpancisti» (poi però fa una bella gaffe, «il partito - dice - deve avere meno case chiuse e più circoli aperti», e in effetti quanto a casini il Pd non se li è mai fatti mancare). Maria Elena Boschi, compunta il prima fila, è la maestra dalla penna rossa. E Franti? Sarà Bersani, che nessuno nomina mai, nemmeno per sbaglio.
Viene ostenso Sergio Giordani, neosindaco di Padova, miracolo, una città dove si è vinto, anzi miracolo doppio perché Giordano ci è riuscito dopo un ictus, che ancora si vede nell’eloquenza impastata di cui, elegantemente, si scusa. Meno male che c’è Roberto Burioni, il virologo che castiga gli antivaccinisti, uno che non le manda a dire su Facebook e nemmeno qui. Quelli che non vaccinano i figli sono «asini», dice, poi puntualizza: «E chiedo scusa agli asini».
Però la platea, almeno finché non arriva Renzi, è molto educata, composta, borghese, più raziocinante che pugnace. Prevalgono i vecchi militanti e le professoresse democratiche, intervallati dalla magliette gialle (colore itterico che i politica porta sempre male) dei giovani volontari. Niente bandiere, pochi applausi, l’immagine che si vuol dare è quella di una comunità che preferisce il ragionamento agli slogan, e che preferisce i progetti alle polemiche. Basterà?

La Stampa 2.7.17
Duello a distanza
Va in scena il dualismo tra Renzi e Pisapia
Il leader Pd: non ci frma nessuno
L’ex vice sidaco di Milano “Qui la nostra casa comune”
di Alessandro Di Matteo

Uno chiede «discontinuità», l’altro rivendica i risultati raggiunti dal proprio governo. Giuliano Pisapia parla di una «casa comune del centrosinistra», Matteo Renzi dice di non avere alcuna «nostalgia» per i «tavoloni dell’Unione». Sarà pure solo l’inizio di un confronto, come dicono dalle parti dell’ex sindaco di Milano, ma a giudicare dal botta e risposta a distanza di ieri sarà difficile far convivere il Pd di Renzi e il nuovo soggetto politico di Pisapia e Pier Luigi Bersani. Renzi parla a Milano, alla convention dei circoli democratici, Pisapia a Roma insieme agli ex Pd, in quella piazza Ss. Apostoli per anni sede dell’Ulivo.
La sovrapposizione non è casuale, il segretario Pd vuole rispondere in tempo reale all’offensiva che arriva da sinistra. Renzi va subito all’attacco contro quella che considera la retorica dell’Ulivo: «Ci raccontiamo un passato meraviglioso che non è mai esistito. C’è chi prova a riscrivere il passato, noi scriviamo il futuro». Altro che età dell’oro come vogliono far credere ora, è il suo pensiero, «non ho nostalgia dei tavoloni con 12 sigle dell’Unione». Tantomeno, dice con una frecciata a Romano Prodi, «non ho nostalgia di quando il presidente del consiglio parlava e poi i ministri scendevano in piazza contro il presidente del consiglio». L’unica «nostalgia» è semmai per «l’intuizione che ha avuto Veltroni al Lingotto», cioè il Pd a vocazione maggioritaria, il contrario dell’Unione.
Il leader Pd cita per ben due volte Pisapia: «Cosa dico a Pisapia, Bersani? Nulla. Sono pronto a ragionare con tutti, ma sui temi del futuro dell’Italia non ci fermiamo davanti a nessuno». Peraltro, aggiunge, «senza il Pd non avrebbe vinto Sala e non avrebbe vinto Pisapia». Le critiche di Dario Franceschini, poi, vengono liquidate così: «Io rispondo a chi ci ha votato, non ai capi corrente o ai caminetti». Ai tanti, dentro e fuori il Pd, che gli chiedono un passo indietro, risponde: «Come faremo a scegliere il leader? Il leader lo scelgono i voti, non i veti. Si chiama democrazia».
Pisapia replica qualche ora dopo, da Roma. «Uniti si vince», è il ritornello e per questo nasce «Insieme, la casa comune del nuovo centrosinistra». Una casa comune che però rivendica una «discontinuità netta» con le politiche di Renzi, «non per ripicca e personalismi, non per antipatia per uno o più leader ma perchè vediamo le difficoltà del Paese». L’ex sindaco di Milano attacca quelli che considera gli «errori» del governo Renzi: dall’abolizione dell’art. 18 alla cancellazion dell’Imu «per tutti». I toni non sono quelli di Bersani, ma le frecciate a Renzi non mancano: «La politica non è avere tanti “like”, non è l’io ma il “noi”». Quelle delle amministrative, poi, è stata una «sconfitta sonora» dalla quale «non si può non imparare». Sarà pure l’inizio di un dialogo, ma per ora sembra avvenga tra sordi.

La Stampa 2.7.17
Palloncini rossi, vecchi vessilli
“Finita l’era del giglio magico”
Ovazione per Bersani. E D’Alema: “Soli alle elezioni, poi dialogo col Pd”
di Francesca Schianchi

«Basta camarille e gigli magici, basta con l’arroganza: non se ne può più. Volare bassi per favore». Parte un boato dalla piazza, sventolano le bandiere targate “Articolo 1 – Mdp”, sul palco un combattivo Pier Luigi Bersani picchia duro contro il segretario dem e strappa applausi a questo popolo di sinistra; dietro al palco, appoggiati a un’impalcatura, Andrea Orlando e Gianni Cuperlo, capifila della minoranza Pd, ascoltano con sguardo fisso: «Che ne dici, Andrea, uno di noi dovrebbe andare sul palco a portare il saluto di Renzi?», scherza Cuperlo. La scenografia con la grande scritta di palloncini rossi e arancioni «Insieme» è prudentemente spostata oltre la metà di piazza Santi Apostoli, quasi sotto le finestre dell’ufficio che fu di Prodi, lì dove mise radici l’Ulivo: in prima fila, Giuliano Pisapia «l’anti-leader», come lo presenta il conduttore Gad Lerner, Bersani, D’Alema, Speranza, la presidente della Camera Boldrini, lo stato maggiore di questa «nuova casa comune del centrosinistra».
Sono venuti elettori di quel campo, a questo appuntamento tanto atteso, graziato da una temperatura piacevole, gente che si spella le mani quando Bersani evoca «un popolo di centrosinistra che se ne sta testardamente a casa sfiduciato». Ci sono pezzi di dirigenza di altri partiti, c’è Bonelli dei Verdi, Ingroia che tentò la strada di Rivoluzione civile, c’è Possibile di Civati, ci sono esperienze civiche (parla dal palco la presidente dell’Arci). C’è Bruno Tabacci e, tramite il suo Centro democratico, ex Dc come Angelo Sanza. Ma c’è soprattutto Mdp, gli scissionisti del Pd che, con il comizio accalorato di Bersani, rubano la scena al mite Pisapia. Quello che «l’anti-leader» dichiara accompagnandolo a citazioni colte e eloquio gentile, lo dice in modo più tranchant l’ex ministro dal palco, e lo ripetono gli altri in platea: mai col Pd di Renzi.
In un angolo della piazza, l’ex dem Davide Zoggia si fa un selfie con «l’altro Vasco» - l’ex presidente dell’Emilia Errani - e lo posta sui social. Il senatore Miguel Gotor riserva una battuta pungente agli assenti Falcone e Montanari: «E’ la sindrome di Moretti: mi si nota di più se vado o se non vado…». Parte uno scroscio di applausi, è Bersani sul palco che sbotta con finto imbarazzo, «Eh, va beh, dai…».
Anti-renziano come sempre, ma oggi più affilato quando dice che serve «una discontinuità radicale con quel che s’è visto in questi anni», ma «non perché non abbiamo fatto il vaccino obbligatorio contro l’antirenzismo, non è che tutto il mondo gira intorno alla Leopolda» (brucia ancora l’accusa prodiana di risentimenti personali): piuttosto perché «il renzismo ha rimasticato estremizzandole parole d’ordine fuori fase, politiche distoniche rispetto alla realtà» e mentre «noi abbiamo un pensiero, vorrei chiedere ai dirigenti del Pd, voi che pensiero avete?», bacchetta quelli che fino a pochi mesi fa erano anche suoi dirigenti. Pochi giorni fa, in una cena di autofinanziamento di Mdp a Milano, ha incontrato alcuni iscritti al Pd: «Muovetevi a lasciare quel partito prima che sia troppo tardi», li ha sferzati.
E’ una piazza di ex compagni del Pci, o addirittura della Fgci, che il tempo (e Renzi) ha talvolta diviso. C’è il governatore dem del Lazio Nicola Zingaretti, in maniche di camicia, che mette in guardia da rotture irreparabili: «Nelle regioni e nei comuni in cui governiamo lo facciamo quasi sempre con una coalizione di centrosinistra, e queste fibrillazioni nazionali non fanno bene». C’è il lettiano Marco Meloni, il prodiano Franco Monaco, una pattuglia di minoranza orlandiana. «Questa piazza non è alternativa al Pd, perché il Pd è nato per unire», sembra più un auspicio che una certezza quella del ministro della giustizia. «Prima pensavo alla minoranza del Pd come a un pompiere, ora più al Genio civile, ha presente quello che ricostruisce i ponti?», sospira Cuperlo.
In fondo alla piazza, stringe le mani a qualche concittadino l’ex governatore campano Antonio Bassolino. Tessera dem, predica che «senza il Pd non si va da nessuna parte, ma il Pd da solo finisce contro un muro». All’iniziativa dei circoli non è andato: «Sa com’è, io ero segretario di sezione a 16 anni, un po’ di tempo fa…».
Bersani incendia la piazza, Pisapia viene ascoltato con tiepida curiosità. Elenca le politiche che vorrebbe, inciampa in un quasi ultimatum («se non riusciremo a costruire qualcosa di innovativo… ne prenderò atto»). Musica di Rino Gaetano. Fine, applausi, palloncini. Un soddisfatto D’Alema lascia la piazza: «Andremo alle elezioni ognuno con la propria piattaforma». Poi, «se avremo grande successo, col Pd discuteremo dopo le elezioni».

La Stampa 2.7.16
Il sabato infuocato della sinistra tra Renzi e Pisapia
di Federico Geremicca

Se l’obiettivo era rappresentare plasticamente la distanza che li separa e il grumo di risentimenti che rende per ora impossibile immaginare qualsiasi forma di riavvicinamento e perfino di dialogo, bene.
L’operazione è perfettamente riuscita. E così, il «sabato di fuoco» del centrosinistra - Renzi contro il tandem Bersani-Pisapia - mette in piazza i panni sporchi e lascia sul terreno la prima vittima: il centrosinistra, appunto.
Renzi da Milano e i leader di Campo progressista dalla prodianissima Piazza Santi Apostoli di Roma, hanno infatti esposto - e non può esser considerata una sorpresa - programmi, obiettivi e soprattutto sensibilità che più lontane non si potrebbe. Da palchi diversi e distanti, dunque, si sono dettati condizioni reciprocamente inaccettabili.
A oggi - e sfrondando il campo - il senso del contendere potrebbe esser sintetizzato così: Renzi ha chiesto a Campo progressista - e a chi ancora lo contesta dall’interno - «ordine e disciplina», meno polemiche e più lavoro, con l’avvertenza che senza il Pd il centrosinistra non esiste e la sinistra - di conseguenza - si condannerebbe ad una nuova sconfitta; dall’altro palco, Pisapia (ma più ancora Bersani) hanno semplicemente chiesto al Pd di liberarsi di Renzi, del renzismo e di quelle innovazioni - dal Jobs Act alla politica dei bonus - che hanno così pericolosamente avvicinato il Partito democratico alla destra.
Ognuno ha esposto la propria ricetta con lo stile ormai noto: il leader Pd con la cattiveria - e a tratti l’arroganza - dei momenti migliori: basta con le polemiche, e chi non è d’accordo può scendere subito dal treno; Pisapia (ma più ancora Bersani) col tono ieratico e dolente di chi evoca un passato da «età dell’oro» e lamenta il tradimento di ispirazioni e valori senza i quali la sinistra non sarebbe più sinistra.
Distanze assai profonde, perché politiche, culturali e generazionali assieme. E distanze, soprattutto, di fronte alle quali la querelle in scena nel centrodestra circa il profilo dell’alleanza e la leadership della coalizione, appare poco più di una bega di non difficile soluzione. Intendiamoci: nulla che non si sapesse. Ma l’idea di concentrare tutto questo in un solo giorno - quasi secondo un piano studiato a tavolino - conferma la già nota predisposizione al masochismo della sinistra (centrosinistra) italiana.
La strada, dunque, si fa ancora più difficile e in salita in vista delle elezioni politiche prossime venture: più difficile per Renzi, certo, ma anche per i suoi nuovi competitor (definirli potenziali alleati ci sembrerebbe un azzardo). Il più in difficoltà, in verità, ieri è parso proprio Giuliano Pisapia. Chiamato a tentare di federare l’area a sinistra del Pd, ci ha messo poco a capire l’asprezza dello scontro nel quale si è ritrovato.
Infatti, rimettere assieme Renzi, Bersani e D’Alema, ricreare un filo che li unisca, appare oggi la più impossibile delle «mission impossible». Un lavoro da «politico di professione», cosa che Pisapia non è e non intende diventare. Il rischio - considerato il clima - è che insomma possa finirgli male: come è capitato a quel Professore che voleva fare da collante e che ieri pomeriggio, certamente, avrà invece spostato la sua tenda ancora un po’ più in là.

Corriere 2.17.17
La piazza di Bersani e Pisapia «Nuovo nome e casa comune»
L’ex sindaco: Imu e articolo 18 un errore. Bersani: il Pd è divisivo. E D’Alema: al voto da soli
di Monica Guerzoni

ROMA G iuliano Pisapia lascia Santi Apostoli, il luogo simbolo dell’Ulivo di Prodi, con quel suo sorriso gentile e un po’ spiazzato, scortato dallo staff e dalla moglie Cinzia che balla e canta «Ma il cielo è sempre più blu». È la colonna sonora dell’ultimo congresso dei Ds e, certo non è un caso — tra i palloncini arancioni di Campo progressista, le bandiere rosse di Mdp e i vessilli dei Verdi — se la piazza è piena di volti di quella stagione.
Nel lungo ponte di San Pietro e Paolo 5 mila persone sono un buon numero per il debutto della «casa comune per un nuovo centrosinistra». Tanto che Pisapia si concede un tocco di civetteria: «Ci davano dei matti e invece ce l’abbiamo fatta. È con il coraggio che si vincono le sfide». Chiudendo il suo primo discorso da leader nazionale, il nuovo federatore sprona i suoi parlamentari e quelli di Mdp a fondersi a settembre in gruppi unici, perché «uniti si vince». Purché sia «una fusione a caldo». L’avvocato che Gad Lerner presenta come «il leader riluttante» parla dopo Bersani, che ha fatto il pieno di ovazioni: «Basta camarille e gigli magici e basta arroganza, volare bassi per favore...». Pisapia invece non calca gli accenti e non pronuncia mai il nome di Renzi, mai scandisce la sigla Pd. Dice che «la politica non è l’io, non è avere tanti like», ma non graffia, non morde, non strappa ovazioni. La sua ossessione è la parola «Insieme», nome provvisorio del nuovo soggetto politico: «Il nuovo nome lo sceglieremo insieme... Sono terrorizzato, perché divisi si perde». Ed è qui che l’ex sindaco scandisce quella che per Bersani, D’Alema, Speranza, Rossi e Scotto è la parola magica: «Discontinuità». Dalle politiche di Renzi, si intende. Dall’abolizione dell’articolo 18 e dall’Imu eliminata per tutti, ricchi e poveri. «Discontinuità netta, non per ripicca e personalismi, ma perché vediamo le difficoltà del Paese». Cita Neruda, Rodotà, don Milani, Mandela. Ricorda al volo una proposta di Prodi, il convitato di pietra.
Laura Boldrini abbraccia Pisapia. I giornalisti de l’Unità alzano le prime pagine con il titolo «Rottamati dal Pd». Sabrina Ferilli manda un messaggio: «Spero possiate riunire tutte le anime della sinistra che ora si sentono confuse». D’Alema riceve un grande cesto di ciliegie in dono: «Il confronto con il Pd? Se questo nuovo soggetto avrà forza, lo riapriremo dopo il voto». Se ne vanno anche i tanti dem venuti ad ascoltare: Zingaretti, Orlando, Cuperlo, Sassoli, Monaco, Damiano, Meloni, Pollastrini, Merlo, Manconi, Giorgis. E poiché qualcuno ancora si interroga, Speranza prova a fugare i dubbi: «Pisapia ambiguo? No, no... Ognuno ha i suoi toni, ma più netto di così Giuliano non poteva essere». Con Pisapia potete vincere? «Alle politiche prenderemo più del Pd».
M. Gu.

Corriere 2.7.17
Il blitz di Orlando (lontano dal palco): se si parla di contenuti distanze colmabili
di Monica Guerzoni

ROMA «Non è una piazza alternativa al Pd. Come ha detto Franceschini, il Pd è nato per unire...». Andrea Orlando approda a Santi Apostoli quando tutto è iniziato e raggiunge Nicola Zingaretti e Gianni Cuperlo, che da lunghi minuti lo aspettano nella storica piazza di Prodi e dell’Ulivo: «Renzi a Milano? Non mi sembra sia stato sordo alle critiche — media Orlando —. Ha detto che bisogna incontrarsi sui contenuti e che non si può ragionare solo di sigle».
L’abbraccio con il presidente del Lazio e poi un curioso serpentone per sfuggire ai cronisti, che vogliono sapere quanto la minoranza del Pd sia «in sintonia» con Pisapia e Bersani. «In sintonia magari è eccessivo...», sorride il Guardasigilli e si fa strada verso il retropalco.
Lui e Gianni Cuperlo rimangono in piedi, appoggiati a un traliccio, per schivare la photo opportunity con i leader del nuovo soggetto politico: «Non siamo tra i promotori della manifestazione, siamo qui per ascoltare e dare un segnale di attenzione». Ministro, non siete in imbarazzo, in questa piazza antirenziana? «Non è una piazza contro Renzi, anzi è una piazza che non chiude la prospettiva unitaria».
Secondo la lettura del leader della minoranza, Pisapia «ha sì tenuto un filo critico, ma quando parla di “centrosinistra largo” o delle sconfitte alle Amministrative, non chiude al Pd». Persino nelle parole ultimative di Bersani, il pontiere Orlando ha voluto rilevare qualche spiraglio: «Non ho colto una distanza abissale».
Insomma, il bagno di folla a sinistra, pur nella calura romana, sembra averlo riconfortato: «Se partiamo dai contenuti le distanze non sono incolmabili. Pisapia ha scandito parole di ispirazione unitaria, un’ambizione che merita attenzione».
Lasciando la piazza Orlando si dice «colpito» per «l’accoglienza e l’affetto» ricevuti a Santi Apostoli, dove ha riconosciuto molti volti di compagni ex Ds e Sel: «Tanti mi hanno chiesto di farsi un selfie con me e, tra i partecipanti, ho visto una doppia reazione, chi mi ha supplicato di “portare il Pd più a sinistra” e chi mi ha detto “ma tu che ci stai a fare nel Pd di Renzi?”».
Ecco, il tema per gli orlandiani è questo. In Liguria 22 esponenti della corrente sono usciti dal Pd e Orlando non sottovaluta la tentazione di seguire le orme di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. «Sul territorio c’è una difficoltà, non nuova, di tanti militanti storici. Sono preoccupato — ammette — per il riflesso che può avere il dato delle Amministrative. Se si muove l’elettorato, la conseguenza nel partito è che poi si muovono i militanti».
Pochi metri più in là Alfredo D’Attorre di Mdp vede gli orlandiani «a un bivio». O dentro, in condizioni di «totale minorità», o fuori, per ricostruire il centrosinistra. E Nico Stumpo, grande esperto di movimenti di truppe, racconta una battuta di Bersani, sere fa, a Milano, durante una cena di sottoscrizione: «Ai compagni che sono rimasti nel Pd dico che il tempo scade, non è che potete arrivare quando tutto è crollato...».
Lo sa bene Gianni Cuperlo, che proprio a Milano fatica a tenere a freno i suoi, sedotti dalle sirene di Pisapia. La metafora dell’ex presidente dem rivela «la fatica» di restare nel partito di Renzi: «La sinistra del Pd è come il genio civile, quelli che arrivano nelle zone distrutte, dove è crollato il ponte, e devono ricostruire tutto».

Corriere 2.7.17
Amendola: io con Giuliano ma non correrò
di Stefania Ulivi

«Perché ho deciso di schierarmi? È l’ultima possibilità per non regalare il Paese alle destre per le prossime tre legislature. Occorre darsi da fare per costruire una sentinella della sinistra, del Pd. Giuliano Pisapia può essere quello che è stato Romano Prodi vent’anni fa. In versione di sinistra».
Claudio Amendola, lei in piazza Santi Apostoli c’era con un video.
«Ero atteso a Taormina per i Nastri d’argento. Ma la mia è un’adesione piena. Bisogna tirare per la giacca quello che era il maggior partito della sinistra e riportarlo al suo posto, per dare la possibilità a milioni di italiani che non hanno votato Pd, M5S e mai voterebbero a destra di tornare a sentirsi rappresentati».
Perché Pisapia può riuscire dove molti hanno fallito?
«Ha governato bene a Milano e può essere il grande vecchio che apre ai giovani, è meno ego-riferito dei Bersani e D’Alema che hanno sempre sbagliato i tempi».
Renzi?
«La sua politica di margheritizzazione del Pd è riuscita. Si tenessero nome e simbolo. Ora tocca ai giovani superare tafazzismo e divisioni».
E lei, Amendola, si candiderà?
«Io? No, ho molto altro da fare».

Corriere 2.7.17
Tutte le anime della sinistra tra dissidenti pd e bandiere In scena l’eterna nostalgia
di Pierluigi Battista

L’ entusiasmo e l’ardore del nuovo inizio no, quelli non c’erano. Però c’erano molto languore e molta tenera malinconia per un ritorno. Perché a piazza Santi Apostoli non c’era un nuovo inizio trionfante e tambureggiante. C’era il ritorno degli affetti, il ritrovarsi, il riabbracciarsi, il rivedersi. C’era la sinistra che si commuove alla parola sinistra. C’era il ritorno di un popolo disperso. Un giovane con la chitarra sul palco vedeva finalmente tornare le bandiere rosse. È tornato Leoluca Orlando, che anzi non se n’era mai andato. È tornata Sabrina Ferilli che dopo un fugace incantamento per i Cinque Stelle lascia a un ritornato Gad Lerner un messaggio che la piazza accoglie con un caloroso applauso. È tornato Antonio Bassolino, che sembra più giovane di vent’anni fa quando un D’Alema, anche lui tornato dall’Europa spietata e rottamatrice, lo aveva incluso nel partito dei sindaci «cacicchi». Ora stanno nella stessa piazza di Pierluigi Bersani, tornato con le sue metafore, con Giuliano Pisapia, tornato dal vano tentativo di mettere insieme questa piazza e Matteo Renzi.
È come se fosse tornata in una piazza Santi Apostoli che aveva conosciuto le notti trionfali dell’Ulivo l’immagine di una sinistra che fu. Non una piazza contro Renzi, che anzi è stato poco nominato, se non per allusioni e punzecchiature oblique. Ma una piazza che provava ad assaporare l’illusione di un mondo senza Renzi. Non contro, ma senza. Ed era una sensazione strana. C’erano i dissidenti del Pd che quasi si sentivano frastornati, in libera uscita.
Andrea Orlando, appena arrivato, ha chiesto ripetutamente di Gianni Cuperlo, come se non avesse voluto restare da solo, e quando qualcuno gli diceva che questa piazza era «contro il Pd», lui replicava «non è così», e quando qualcuno gli diceva che era «contro Renzi», lui replicava ancora «non è così». C’era Cuperlo che spiegava come il centrosinistra a suo parere dovrebbe prendere spunto dall’Olanda anni Settanta, quella del calcio totale e di Johan Cruijff, ma se qualcuno gli faceva notare che poi quell’Olanda le prendeva dalla Germania, lui non è che si dimostrasse pentito per l’azzardato paragone. C’erano frammenti di una sinistra trattata in questi anni come un imbranato, parole di Renzi in una Leopolda, che cerca di infilare un vecchio gettone nel telefonino. Una sinistra che si è offesa e che rivendica, come ha detto Bersani, di avere almeno «un pensiero», a differenza, pare di capire, del cerchio dei pasdaran renziani. E però il rapporto tra la tradizione e la modernità deve essere molto complicato se un momento di forte tensione si è avuto quando dal palco hanno chiesto di non sventolare troppo le bandiere altrimenti si sarebbero oscurate le telecamere che riprendevano per lo streaming . Ma come, fischiavano allibiti dalla piazza, siamo venuti fin qui proprio per sventolare le nostre rosse bandiere di «Articolo 1», e voi ci dite di tenerle arrotolate? Ma no, rispondevano dal palco, è che così impedite a tanta gente sparsa per l’Italia di seguire questa manifestazione. Ecco, le due anime della sinistra che convivono con difficoltà si sono scontrate ancora una volta. Pisapia ha detto che in questa manifestazione prendeva forma la nuova «casa comune» della sinistra, ma si capisce che le tante sinistre presenti non riescono a mettersi d’accordo sull’arredamento e sulle icone da appendere alle pareti.
Si ritrovano con affetto e anche dolcezza come se un usurpatore avesse strappato via la sinistra dal cuore della politica. E danno la colpa all’usurpatore Renzi se le cose vanno male. Ma vanno male per la sinistra in tutta Europa, il Partito socialista in Francia ha il 6 per cento, in Germania un disastro, lo stesso Jeremy Corbyn, che in questa piazza viene idolatrato, ha vinto rispetto alle aspettative ma in Gran Bretagna comunque c’è un governo dei Tories, e anche i democratici in America non se la passano bene e non hanno nemmeno un Renzi contro cui prendersela. Ma qui vogliono riappropriarsi di una simbologia, di una mitologia, di una storia, di una tradizione, di un linguaggio, di una piazza. Per questo il sentimento del «ritorno» è così più forte di un «nuovo inizio» di cui non si sente la spinta combattiva, per la verità. E non si sente neanche una parola concreta su quello che dovrebbe essere fatto da qui alle elezioni, e come presentarsi e con chi.
«Insieme», dice l’insegna della manifestazione. Ma insieme a chi? Intanto insieme in una piazza con le bandiere, le canzoni e gli slogan che più stanno a cuore. Anche alla presidente Laura Boldrini che qui dismette l’abito istituzionale per reimmergersi nella sinistra di cui è figlia. Ai fuoriusciti del Pd divisi in tanti gruppi, alla vecchia sinistra, ai Verdi riesumati per l’occasione, a coloro che stanno ancora nel Pd con disagio come Orlando, Cuperlo, Cesare Damiano e non vorrebbero sentire nominare Renzi e scuotono la testa se invece devono commentare le parole di chiusura alla coalizione del segretario a Milano. E cercano una bandiera, rossa, da sventolare «insieme». L’eterno ritorno.

Corriere 2.7.16
Tutti gli addii nella base pd
Da Lombardia a Puglia e Calabria i casi di amministratori e iscritti che hanno lasciato dopo il voto
di Riccardo Bruno

I ballottaggi sono stati l’ultimo argine. Il mezzo flop del Pd alle urne ha solo rafforzato malumori e rancori che spesso covavano da mesi. Nell’ultima settimana, dalla Liguria alla Puglia, dalla Calabria alla Lombardia, è un susseguirsi di annunci di defezioni e tessere stracciate. Sono soprattutto piccoli rivoli, fughe di amministratori cittadini, dirigenti di circolo, semplici iscritti. Contano le vicende locali, i rapporti personali, ma ovunque per giustificare la rottura si usano praticamente le stesse parole: «Il Pd non è più la nostra casa» e si mettono in fila le riforme, quelle vantate dai renziani, considerate cantonate intollerabili dai transfughi. Insomma, ragioni politiche di fondo alla base degli strappi, non beghe di circoscrizione.
Chi lascia il Partito democratico spesso aderisce ad Articolo Uno-Mdp, il movimento di Speranza e Bersani. Ma non è sempre così. A Lerici, a due passi da La Spezia dove il centrosinistra ha perso dopo quasi mezzo secolo la poltrona di sindaco, in 42 hanno lasciato il circolo locale del partito, guidati dalla segreteria Monica Rossi. Considerati vicini ad Andrea Orlando, non hanno ascoltato neppure il loro leader che invece punta alla battaglia dall’interno. «Non possiamo stare dentro un partito che gioisce per chi se ne va e non si interroga sul perché si fa» hanno scritto polemicamente nella lettera d’addio.
Più numerosa la pattuglia dei fuoriusciti a Lecce. Ben 103, tra cui l’ex segretario provinciale Salvatore Piconese e una lunga lista di sindaci ed ex sindaci della zona. Un’anomalia, perché il capoluogo salentino dopo 22 anni era stato riconquistato. Una vittoria adesso brandita come arma contro Renzi. «È stato un successo frutto di un lavoro politico sul territorio capace di invertire un trend nazionale. Il Pd ormai non ha più legami con le culture che diedero forma al partito delle origini».
A Bagno a Ripoli, cintura fiorentina (alle ultime primarie un plebiscito per il segretario, superato l’82%), venerdì in 9, tra cui due consiglieri e il presidente dell’assemblea comunale, hanno restituito la tessera perché «il partito è ormai al servizio del leader, non il leader al servizio del partito». Una scelta che si capisce quanto sia stata sofferta dalla lunga nota in cui si riflette non di dilemmi locali ma di grandi temi, il referendum costituzionale o il «conflitto con la Cgil», la riforma della scuola e persino la perdita del Campidoglio. «È doloroso lasciare quella che per anni è stata la tua casa, anche se da tempo eri ospite non gradito. Ma è più facile lasciarla se non c’è più niente che ti appartiene».
Non solo amministratori di piccoli centri, si muovono anche dirigenti di peso. Martedì al Consiglio regionale della Lombardia è stata annunciata l’uscita dal gruppo Pd di Massimo D’Avolio e Onorio Rosati, che è diventato coordinatore per Milano di Mdp. E mentre in Campania sarebbe in atto un corteggiamento serrato dell’«altra sinistra» all’eterno Antonio Bassolino, in Abruzzo si aspettano le mosse future del potente assessore regionale Donato Di Matteo.
Insofferenza non solo di vecchi militanti, ma anche delle nuove generazioni. A Reggio Calabria l’ex segretario provinciale e 300 iscritti dei Giovani democratici hanno salutato il Pd e aderito a Mdp. «È stata trasformata una comunità politica in un popolo di tifosi — ha spiegato Alex Tripodi —. Abbiamo cercato fino all’ultimo di rimanere nel partito per il quale abbiamo speso una parte della nostra vita. Non accettiamo la mutazione genetica per la quale il Pd si è inesorabilmente e drammaticamente trasformato in un partito a vocazione personale, in cui a predominare è l’idea del capo».
Giovani, come l’ex segretario di Modena, Gregory Filippo Calcagno. Anche lui si è dimesso un paio di giorni fa. «Il dolore che provo nel lasciare è enorme. Mi sento tradito e umiliato da chi ho amato profondamente».

Repubblica 2.7.17
L’ex premier a Milano per la convention dei circoli “Parlo con tutti, non mi fermo davanti a nessuno” A Roma il debutto di Insieme: “La nuova casa comune”
Duello nel centrosinistra tra Renzi e Pisapia “Senza Pd solo sconfitte” “Da solo non puoi vincere”
di Giovanna Casadio

ROMA.«Pisapia e Bersani? Ragiono con tutti ma non mi fermo». Parola di Matteo Renzi, il leader. All’assemblea dei circoli – mix di dirigenti e società civile – il segretario dice che senza il Pd non c’è futuro: «Senza di noi si perde, centrosinistra senza Pd è da Nobel per la fantasia». E che la politica italiana «sembra improvvisamente in mano alla nostalgia, a un passato meraviglioso che non è mai esistito». L’Unione, l’Ulivo e vecchie storie, mentre i Dem vogliono guardare al futuro. Fine mattina, a Milano: Renzi non tende la mano alla piazza dell’Ulivo che, di lì a a poche ore si riempirà a Roma per ascoltare Giuliano Pisapia e Pierluigi Bersani, e accompagnare la nascita del nuovo partito della sinistra. Per ora si chiama “1nsieme”, a settembre tutti nello stesso gruppo parlamentare.
Pisapia, «l’anti leader, il leader riluttante» (così lo definisce Gad Lerner che presenta la kermesse ulivista) incassa e rilancia: «Da soli non si va da nessuna parte. Non c’è altra strada che quella che stiamo percorrendo, insieme». Non manca di colpire il Pd di Renzi ma in modo soft («British», commentano i militanti in piazza) ascoltandolo quando attacca: «Stiamo costruendo un programma che è quello che ci deve unire e che ci divide dalla destra... ma purtroppo non solo dalla destra». La frattura con il Pd di Renzi è profonda: va dal giudizio sull’articolo 18 («Un errore»), alla presa di distanza dalla riforma della scuola, al no alla cancellazione dell’Imu per tutti, al punto programmatico di «spostare oneri fiscali sui patrimoni». È il tempo della «nuova casa comune della sinistra» che significa essere «uniti e radicalmente innovativi e soprattutto bisogna fare cose di sinistra non dire semplicemente di essere di sinistra».Cita Prodi, l’ex sindaco di Milano dal palco che è proprio sotto le finestre di quella che è stata la sede dell’Ulivo.
Ma a Milano Renzi ha tracciato la sua road map senza tenere conto della piazza ulivista. Spiega che punta a vincere con la ricetta del Lingotto di Veltroni e con personalità civiche. Annuncia un tour in treno per l’Italia da settembre e convoca per giovedì la Direzione. «I leader li scelgono i voti, non i veti»: ricorda.
E a Roma lancia l’affondo Pierluigi Bersani, ex segretario del Pd ora in Mdp-Articolo 1, l’altro socio di “1nsieme”. «Parliamo di discontinuità per nostalgia? Perché non abbiamo fatto il vaccino obbligatorio contro l’antirenzismo? Lo facciamo perché abbiamo un pensiero, se ne prenda atto e vorrei dire ai dirigenti Pd: ma voi un pensiero ce l’avete? Ora che si sono liberati di D’Alema alla guida della Feps, il pensiero ce lo darà Bonifazi?Un po’ di misura il mondo non gira attorno alla Leopolda». E ancora più duro: «Basta camarille, basta gigli magici. E basta arroganza, non se ne può più...».
Massimo D’Alema è sotto il palco con la moglie Linda Giuva e si limita a derubricare la questione del centrosinistra unito con un laconico: «Del rapporto con il Pd si parlerà dopo le elezioni». Nella piazza dell’Ulivo ci sono i dem della sinistra Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Andrea Giorgis, Cesare Damiano. «Noi facciamo il genio civile, tentiamo di ricostruire ponti...», ripete Cuperlo. C’è Bruno Tabacci con il Centro democratico, anche loro soci di “1nsieme”. Da Boldrini ai Verdi a Possibile di Pippo Civati, la sinistra si è radunata da Pisapia.

Repubblica 2.7.16
Come vorrei che Matteo e Giuliano fossero presi da incantamento
di Eugenio Scalfari

OGGI parlerò ancora della sinistra. L’ho fatto anche la settimana scorsa auspicando che superasse le divisioni interne e si occupasse principalmente dell’Europa, ma le cose non sono affatto andate così. Si trattava di elezioni comunali e la sinistra non si è affatto unificata. Qua e là un nome l’ha unita quando il candidato era di simpatia e antica notorietà (vedi il caso di Palermo) ma il vero crollo è stato l’affluenza, specie nel centro- nord.
Si trattava comunque di elezioni comunali. Oggi il problema è del tutto diverso: il Campo progressista immaginato da Pisapia si è riunito in piazza Santi Apostoli a Roma insieme a tutte le altre sigle, da Bersani a D’Alema, da Fassina a Civati, da Gotor a Cuperlo con l’obiettivo di stare insieme. Hanno parlato in molti, provenienti in gran parte da specifici settori e attività: lavoratori, giornalisti della vecchia Unità, rappresentanti dei Verdi e gli amici del centro di Tabacci.
Tra i discorsi più importanti c’è stato quello del costituzionalista Onida che ha richiamato principalmente al rispetto della Carta. Naturalmente un discorso importante è stato quello di Bersani.
Renzi è stato pochissimo nominato. Il finale come previsto è stato di Pisapia il quale dopo aver ringraziato tutti quelli che lo avevano preceduto ha detto la sua. Ha segnalato molti dei guai che affliggono il nostro Paese.
UN LUNGO elenco al quale si impegnava a porre rimedio: la povertà, la disuguaglianza, la precarietà del lavoro, l’immigrazione, la necessità dell’acqua pubblica. Ha anche detto che l’Europa è un tema importantissimo e che la sinistra dovrà impegnarsi per diminuire i movimenti sovranisti e rafforzare le strutture europee.
Non è, la sua, una lotta contro Renzi; ci sarà, non c’è dubbio, ma non è quello l’obiettivo principale per la semplice ragione che il Pd non è più un partito di sinistra. Non lo si può definire neppure di destra; forse è di centro, ma che cos’è il centro? C’è Alfano nel centro, c’è Casini, c’è Parisi, c’è Toti. Renzi non è di centro. Renzi è Renzi, non ha un programma, non ha una linea, ha soltanto la brama del potere.
Questo pensano Pisapia e i suoi amici. Quindi la sinistra non c’è. Bisogna ricostruirla e se ci riusciranno rappresenterà il popolo lavoratore, i vecchi e i giovani, il Sud e il Nord, i poveri e gli intellettuali. Insomma l’Italia civile. Certo, la nuova sinistra sarà progressista ed europeista. E che cosa farà per l’Europa? Troppo presto per parlarne in concreto. Si vedrà.
Intanto costruiamo la nostra forza. Insieme. Questo non è un auspicio ma addirittura lo slogan d’un programma, così hanno detto Pisapia e tutti gli altri: INSIEME.
Questo è accaduto ieri. Vi piace? Vi convince? Oppure non vi riguarda? Pensate che la sinistra non conti più niente nel mondo? Conta semmai la destra, liberisti o professionisti o indifferenti o grillini o leghisti. Oppure pensate a voi stessi nei modi più vari e vi infastidisce la politica?
***
Domenica scorsa ho scritto sull’Espresso un articolo intitolato: “Inferno e Paradiso dentro il nostro Io”. Ne riporto qui una breve citazione che può essere molto appropriata al nostro tema di oggi.
«Noi in qualche modo apparteniamo al genere animalesco, ma ne siamo usciti e formiamo una specie a parte: la più speciale delle nostre facoltà è che ora siamo in grado di osservare noi stessi mentre viviamo e operiamo. Il nostro Io convive con un Altro se stesso che si auto osserva e spesso i due sono contrapposti: l’Io che osserva se stesso può non piacersi e può influire e modificare i comportamenti dell’Io operante. L’Io dunque è duplice, ma spesso quello giudicante viene messo a tacere dal se stesso operativo. Questo è il vero e affascinante tema: due Io distanti tra loro e spesso contrapposti. È affascinante anche studiare quelle contrapposizioni. Il sentimento più interessante è l’Amore, per gli altri e per se stessi. In quel caso l’Amore diventa Potere. Al centro c’è sempre l’Io dalle molte forme. L’Io contiene la vita che è Inferno e Paradiso mescolati insieme. La morte placa e spegne il fuoco».
Dunque è l’Io dei protagonisti da studiare attentamente per capire che cosa sta accadendo e ciò che accadrà entrando nella storia. *** L’amore a sinistra opera per occupare uno spazio vuoto. Ma lo spazio vuoto non è mai esistito. L’ha detto Galileo e infine in modo definitivo Einstein e la fisica dei “quanti”. Lo spazio vuoto non esiste neppure in politica. Si modificano le forze attrattive, questo sì.
La sinistra di Pisapia è una forza attrattiva? Come quella che ebbe a suo tempo Togliatti? E dopo di lui, con modalità assai diverse, Enrico Berlinguer? E dopo di loro Walter Veltroni?
No, la sinistra di Pisapia potrà difficilmente riempire un vuoto. Non ha miti, non ha ideologie. D’Alema la pensa come Civati? Gotor come Fassina? Pisapia come Camusso?
Si vedrà. Il loro Io giudicante non è affatto d’accordo con quello operativo. Il quale però lo fa tacere con un solo argomento: stiamo tutti insieme per mettere Renzi fuori gioco. Accetteremmo Franceschini, se venisse. E Zingaretti, perché no. E naturalmente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando.
Le prospettive del futuro, come sembra dai primi sondaggi, assegnano a questa sinistra fino a un possibile 10 per cento. Del resto l’affluenza declina per tutti, anche per Grillo, anche per Berlusconi. Ma soprattutto per Renzi. Questo è il progetto.
Ebbene, non c’è granché di nuovo in questo Insieme, ma molto di vecchio, quello sì. Pisapia è stato un ottimo sindaco di Milano di sinistra, votato anche da personaggi come Giulia Maria Crespi e dalla famiglia cattolica dei Bassetti. Non fece mai l’interesse dei padroni ma quello della città. Renzi l’avrebbe desiderato tra i suoi nuovi sostenitori ma lui non c’è andato. *** E Renzi? Finalmente si è convinto che la legislatura deve seguire il suo corso fino all’aprile del 2018. Allora sì, si voterà. Con quale legge elettorale? Ancora non lo sa. Alcuni suggeriscono il maggioritario, magari alla francese, col ballottaggio tra coalizioni.
Non sarebbe affatto male, ma quanto conta oggi il partito di Renzi? L’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti gli assegna il 26 per cento, soprattutto se Franceschini tornasse saldamente con lui ottenendo però un riconoscimento concreto nel nuovo governo. Idem, a mio avviso, Zingaretti. Insomma non più un giglio magico di lottiano e boschiano sapore, ma una classe dirigente che dovrebbe avere Minniti come spina dorsale.
Ma questa riforma dovrebbe anche avere il conforto concreto di personaggi del calibro di Prodi, Veltroni, Enrico Letta ed anche Monti e Alfano e Parisi. Insomma una classe dirigente di stampo europeo che appoggi in tutti i modi la politica europeista di Mario Draghi.
Questa è una classe dirigente, di vecchia e nuovissima sinistra. Questo marchio ricorda che cosa fu la politica del Partito comunista italiano ai tempi di Togliatti, con una classe dirigente formata da Longo, Amendola, Ingrao, Berlinguer, Tortorella, Scoccimarro, Terracini, Reichlin, Napolitano. Discutevano, spesso dissentivano e infine trovavano un accordo e il partito guadagnava prestigio e forza.
Il materiale umano c’è, specie se consideriamo anche Gentiloni e Padoan. Renzi se la sente? Oppure ragiona ancora come l’unico gallo d’un pollaio senza galline?
Anche qui tutto dipende dall’Io. Se quello che giudica se stesso avrà la meglio la situazione migliorerà, altrimenti dominerà la logica di Pontassieve e sarà peggio per tutti. Pensate un po’: vincerà Berlusconi e torneremo indietro di vent’anni.
Allora è meglio salvarsi l’anima e puntare sull’Ulivo di Romano Prodi. Di più non so dire. Mi viene in mente un sonetto dantesco che suona così: «Guido, i’ vorrei / che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio».

Repubblica 2.7.17
Nel luogo simbolo delle vittorie dell’Ulivo e dell’Unione si ritrovano ventenni pieni di speranza che arrivano dalla provincia ed esponenti della vecchia guardia del centrosinistra
In piazza il popolo del nuovo partito “E ora più cattivi contro i renziani”
di Annalisa Cuzzocrea

ROMA. I ventenni che arrivano col 62 non sanno dove sia piazza Santi Apostoli. Fanno l’università, sono arrivati da Lecce, hanno in mano — arrotolate — le bandiere nuove di zecca di Mdp. I ricordi dell’Ulivo, dell’Unione, non sono roba loro. A tirarli fuori c’è già molta gente sotto palco. Quelli che scattano foto ricordo con Antonio Bassolino. L’uomo impettito con la spilla dei socialisti e il garofano all’occhiello. L’ex segretario di Rifondazione Franco Giordano. Poi Bruno Tabacci, il verde Bonelli. A sentire parlare Valerio Onida è arrivato anche Giovanni Maria Flick, che nel primo governo Prodi fu ministro della Giustizia. Spunta Bobo Craxi, resta ad ascoltare tutto il tempo Luigi Manconi. Il senatore Pd ricorda quando — nel 1988 — fondò l’associazione “Battaglie perse” proprio con Giuliano Pisapia e Gustavo Zagrebelsky: «Le istanze le abbiamo tutte vinte però sono qui perché è la sola ipotesi cui attribuisco un senso, benché mi renda conto della sua fragilità».
Che sia un equilibrio fragile, quello che tiene insieme i 5mila accorsi a Santi Apostoli — e l’idea che qualcosa ancora li unisca al Pd di Matteo Renzi — è la sensazione che hanno tutti. «Sono venuto perché mi convince l’idea che prima o poi la sinistra debba volersi bene tutta», dice Fabio, 33 anni, dell’Aquila. «Dammi la mano e stammi vicino/può nascere un fiore nel nostro giardino», canta la piazza all’inizio e alla fine su richiesta della presidente della Camera Laura Boldrini. «Quello che vedo qui è il popolo dell’Ulivo — dice Gianni Cuperlo, anche lui da Pd in visita — gente che è in attesa di una ripartenza, che vuole l’unità del centrosinistra ». Obiettivo possibile? «È difficile e necessario», dice il deputato. «Siamo qui per questo», sussurra a mezza bocca il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Cesare Damiano confida quasi sollevato che la piazza non gli chiede “che ci fai qui?”. «Non è ostile al Pd, ci considera dentro». Una sposa esce dalla Chiesa vicina: «Sarà un segno? Un possibile matrimonio con Renzi?». «Mi basterebbe un’unione civile», ribatte Damiano con un sorriso. Ma la piazza chiede altro. L’applausometro si impenna quando Pier Luigi Bersani dice «basta lavorare gratis in stage, basta voucher ». E ancora: «Basta arroganza e basta gigli magici, non se ne può più». Accusa Renzi di lanciare messaggi fuori fase. Un discorso radicale, che piace a Pippo Civati di Possibile e che — per contenuti — dovrebbe piacere a chi non è venuto, come Tomaso Montanari e Anna Falcone. «Con loro stiamo parlando, li riporteremo dentro», confidano gli organizza- tori.
«Il Paese ha bisogno di più sinistra », manda a dire con un messaggio scritto Sabrina Ferilli. «Spero che quel che nasce oggi sia la sentinella che riporta a sinistra il Pd», si augura in un video Claudio Amendola. Tutt’intorno, i giornalisti de l’Unità rimasti senza stipendio e senza cassa integrazione distribuiscono volantini e cercano qualcuno che finalmente si ricordi che esistano. Quando Giuliano Pisapia prende la parola è un attacco a Renzi, quello che vorrebbe chi gli sta davanti. Una risposta alle parole sferzanti lanciate dal segretario Pd a Milano. «Dillo, dillo», gli urlano da sotto palco. Lui niente, il Pd non lo nomina, Renzi nemmeno, e qualcuno comincia ad andar via. «Ma ha detto discontinuità otto volte, cosa volete di più? È venuto sulla nostra linea», spiega Roberto Speranza tenendo in braccio il figlio assonnato. Qualcuno libera i palloncini arancioni che non hanno preso i bambini. Dal palco parte Io ci sto di Rino Gaetano: «Mi alzo al mattino con una nuova Illusione/ prendo il centonove per la rivoluzione».

Repubblica 2.7.17
La paura di una vittoria delle destre può aiutare un’intesa tra segretario e ex sindaco in vista delle regionali in Sicilia e della legge elettorale
Ira dem: troppe provocazioni Ma i mediatori ora lavorano su un incontro a settembre
di Carmelo Lopapa

MILANO. Teatro e piazza, Milano e Roma, non potevano essere più distanti. Breve storia triste di un dialogo mai nato. Eppure, ora che è sceso il sipario sulle prove muscolari delle due anime del centrosinistra - sull’assemblea Pd in cui Renzi ha parlato dei «nostalgici delle 12 sigle chiamate Unione» e sul palco di Santi Apostoli dal quale Bersani ha ironizzato sul «mondo che non gira intorno alla Leopolda» - non tutti, da una parte e dall’altra, scommettono sulla fine della storia.
Certo, ieri sera, quando Giuliano Pisapia ha lasciato la piazza romana («Non ho parlato di Renzi? Ho parlato di cose più importanti »), l’aria era da resa dei conti. «C’era più civismo e più società civile a Milano con Berruto, Burioni, Annibali, Don Ciotti che non a Roma, dove quel Bersani che insulta spiegando che non pensiamo si definisce da sé», confessano amareggiati al quartier generale del Nazareno.
«Ma sì, siamo molto delusi, abbiamo sentito attacchi al Pd e al suo segretario - racconta in serata a Milano il coordinatore Lorenzo Guerini - Che distanza nei toni e nei contenuti tra le due manifestazioni: la speranza è l’ultima a morire, siamo aperti al confronto, ma se queste sono le basi, è molto complicato». Complicato, ma non impossibile dunque, se il Pd renziano si dice «aperto al confronto », nonostante le bordate delle ultime ore.
Il fatto è che i ponti in apparenza sono saltati, ma i canali super riservati tra Matteo Renzi e Giuliano Pisapia resistono. Forti del rapporto personale tra i due. I pontieri lavorano già perché l’ex premier e l’ex sindaco di Milano possano tornare a tessere una trama a settembre nel tentativo di costruire una strada comune. Non è un caso, e non è passato inosservato al Nazareno, se Pisapia non abbia mai citato il leader dem nel suo intervento e, a differenza di Bersani, non abbia mai affondato il coltello sul partito maggiore. È quello il sottile filo del dialogo tra i due mondi. Pochi, qualificati ambasciatori continuano a lavorare di diplomazia perché il filo non si spezzi. Lo stesso Romano Prodi, Walter Veltroni e ancora Dario Franceschini, Piero Fassino. Due gli snodi che potrebbero agevolare (o stroncare del tutto) il percorso, alla ripresa.
Il primo: la campagna per il voto in Sicilia del 5 novembre, al quale potrebbe agganciarsi il Pirellone, se Roberto Maroni riuscirà a portare al rinnovo anche la Lombardia. Se così fosse, tanto più in elezioni amministrative di quella portata a ridosso delle politiche, il centrosinistra sarebbe costretto a presentarsi unito. Con quali uomini e su che basi oggi è tutto da vedere. A Palermo, Renzi tornerà alla carica con la carica unificante Pietro Grasso, nonostante la rinuncia del presidente del Senato.
Secondo snodo: la legge elettorale. Il leader pd dal 24 settembre, chiusa la festa di Imola, salterà sul treno, saluterà tutti ed entrerà di fatto in campagna elettorale. Il messaggio è: occupatevi voi nel Palazzo di legge voto, io vado per cinque mesi nelle cento province, «a incontrare la realtà del Paese». Detto questo, anche dopo l’ennesimo sprone del Quirinale, in autunno si tornerà a parlare di riforma. E se anche dovessero fallire gli ultimi tentativi di introdurre il premio per le coalizioni che favorirebbe le alleanze, l’attuale sistema prevede comunque al Senato una corsa agovolata per le aggregazioni (non fosse altro che per superare lo sbarramento dell’8 per cento). Berlusconi e Salvini, tra un insulto e l’altro, rischiano di rimettersi insieme per davvero. E allora saranno costretti a provarle tutte, anche a sinistra.
Nel Pd il clima resta teso. Assemblea dei circoli col Teatro Ciak (quello di “X Factor”) da quasi tremila posti, gremito solo per metà per la chiusura del leader, teloni neri a coprire le decine di file vuote in coda. Gentiloni ai funerali di Kohl, la sola Maria Elena Boschi e il ministro (e vice) Maurizio Martina a rappresentare il governo. Andrea Orlando ieri era da Pisapia. Franceschini c’era solo venerdì ed è andato via non di ottimo umore. Mentre l’ex ct di volley Berruto parlava di «sabotatori», sul maxi schermo il regista ha inquadrato proprio il ministro dei Beni culturali. Giovedì si preannuncia l’ennesima direzione Pd ad alta tensione.

Repubblica 2.7.17
Massimo Cacciari.
“Renzi ha capito che una coalizione con Bersani e Pisapia rischia di far perdere voti al Partito democratico”
“Sinistra impotente attenti al pericolo della nuova destra”
di Alessandra Longo

ROMA. Non sarà presente fisicamente in queste ore agli incontri della sinistra, o meglio delle sinistre in travaglio, però Massimo Cacciari è sempre informatissimo dei fatti. Ha visto l’intervento di Renzi, durissimo, a tratti irridente per esempio quando l’ex premier avverte che «fuori dal Pd non c’è la rivoluzione marxista-leninista ma il Movimento 5Stelle». Ha visto, sentito, e non ha dubbi: «Renzi ha fatto benissimo a mettere le mani avanti – dice il professore – Ma ti pare che fa la coalizione con Bersani per poi essere massacrato alle elezioni? Ma stiamo scherzando?». Cacciari è in treno, per un tratto accanto a lui si sono seduti due “militanti” diretti a Roma, alla manifestazione di Giuliano Pisapia: «Mi hanno detto: “Andiamo, vediamo, chissà…“». Senza troppe illusioni, persino un filo di stanchezza nella voce. Lui lo definisce un clima complessivamente «malinconico» quello di questa sinistra divisa e intimamente preparata alla sconfitta contro una Nuova Destra che già si profila. Cacciari, che non risparmia critiche a Renzi, è tuttavia tranchant con l’attivismo di Prodi: «È stato mandato a casa due volte. Il suo tentativo di fare da collante è patetico».
Professore, partiamo dal sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato ieri da “Repubblica”. Il Pd tocca il livello più basso degli ultimi tre anni e il centrodestra di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia è stimato al 32,9 per cento… «C’è qualcuno che si sorprende? Il trend è quello, mi pare scontatissimo. Sono dati che derivano dallo spettacolo delle continue divisioni, dalla manifesta incapacità di dar vita ad un radicamento sui territori, dalla pochezza della classe dirigente, tolto, sia pur con i suoi limiti, Matteo Renzi. Ho girato molto in questo periodo e ho registrato molta malinconia tra gli elettori della sinistra».
Malinconia, dice. Forse per questo è partita una sorta di “operazione nostalgia” e Prodi riempie le piazze.
«Ma le pare possibile? Questa idea di Prodi collante della sinistra è patetica. Ma che collante vuole fare tra Renzi e Bersani? Una risata omerica seppellirebbe tutti. Renzi se ne rende conto. Mai e poi mai può accettare una cosa del genere. A fare una coalizione così perderebbe un sacco di voti. Il vaso è frantumato e non si possono mettere insieme i cocci. Ci vuole un vaso nuovo».
Resta il fatto che il tentativo di Prodi ha creato anche delle aspettative.
«Vuoi opporre ad una sinistra che non è sinistra l’Ulivo? E allora fallo fino in fondo, fai fino in fondo l’operazione nostalgica Ulivo cento per cento. Lo dico come paradosso, però lo dico in un Paese dove i fratelli si ammazzano e la gente ama i nonni. Una lista Ulivo con Prodi potrebbe far perdere al Pd il 15, 20 per cento. Ma solo un progetto così è in grado di attirare, perché da soli, i Pisapia, i Bersani, le tante correnti, i tanti straccetti, al massimo fanno il 5 per cento. Renzi intuisce la loro debolezza. E per questo attacca: o vinco io o si va alla Grande Coalizione, un progetto che del resto coltiva dal Nazareno. E direi che lo ha fatto a carte scoperte».
Cosa consiglia?
«Bisognerebbe mantenere i nervi saldi, lavorare per una legge sostanzialmente proporzionale, non farsi troppo male durante le elezioni e soprattutto riconoscere il pericolo dell’affermarsi di una nuova destra».
Nell’Italia alla moviola ecco riapparire Silvio Berlusconi.
«No, non è la sua destra liberista che si sta profilando. Berlusconi non ha né la testa né la forza per essere di nuovo protagonista. E la Lega non è il partito di Bossi ma una formazione di destra europea cui si aggiunge, con una discreta percentuale, Fratelli d’Italia . È da questo humus che nascerà la Nuova Destra, un po’ Macron , un po’ Le Pen. E non sarà certo Berlusconi, legato al vetusto schema Thatcher/ Reagan a guidarla. E nemmeno Matteo Salvini, populista e demagogo. La destra di cui stiamo parlando sarà capace di coniugare gli interessi capitalistici con gli elementi sovranisti, nazionalisti, sarà in grado di gestire l’immigrazione con modalità securitarie che soddisfino certo elettorato. Una destra in salsa cinese. Berlusconi può fare solo il padre nobile, il battistrada per ciò che verrà. Il nuovo leader si materializzerà e, ripeto, non sarà né Salvini, né Grillo il quale, fiutata l’aria, sta virando a destra ».
E dall’altra parte?
«Dall’altra parte c’è una sinistra italiana impotente inserita in un contesto europeo drammatico. Ma qualcuno ha voglia di riflettere e cercare di capire? Qualcuno si chiede perché sono spariti i socialisti francesi e quelli spagnoli, mentre i socialdemocratici tedeschi sopravvivono grazie al meccanismo della Grande coalizione?».
Non abbiamo ancora parlato di Pisapia, della manifestazione a Roma.
«Giuliano è una bravissima persona. Gli auguro di star bene e di vivere mille di questi anni».

Repubblica 2.7.17
 Luigi Zanda.
“L’Italia dal dopoguerra a oggi è sempre stata governata da alleanze e di certo sarà così anche nella prossima legislatura”
“C’è ancora tempo per un accordo tra Matteo e Giuliano”
LIANA MILELLA
ROMA.
Codice antimafia e Ius soli? «Il primo martedì, il secondo entro fine luglio». Il capogruppo del Pd al Senato Lugi Zanda annuncia «un’iniziativa parlamentare sui falsi di Consip». E sul “non” dialogo a distanza tra Renzi e Pisapia dice: «Come dice Mattarella ci sono ancora 8 o 9 mesi per il voto...».
Dopo il Renzi di Milano il Pd quasi andrà al voto da solo...
«Vedo la questione dal punto di vista di un parlamentare che ha sempre dovuto fare i conti con le coalizioni, perché l’Italia, dal dopoguerra a oggi, è sempre stata governata da coalizioni. Come in Europa, e ora perfino in Gran Bretagna. E così sarà anche nella prossima legislatura».
Ne è proprio sicuro?
«Più che stabilire se le coalizioni si debbano fare prima o dopo il voto è importate che tutti abbiano chiaro che nel prossimo futuro, senza una legge elettorale a doppio turno, nessun partito avrà da solo il 51%. Pertanto le alleanze future, se non vogliamo avere sorprese, dobbiamo cominciare a pensarle e a prepararle fin da ora. La legge elettorale è molto importante, ma lo sono molto di più i rapporti tra le forze politiche».
Però, come dimostra l’analisi del voto di Diamanti su Repubblica, il Pd riduce i suoi consensi. E così rischia la sconfitta.
«Il passaggio dal bipolarismo al tripolarismo ha penalizzato tutti i partiti, le divisioni del centrodestra sono molto profonde e serie, così com’è pressoché totale l’isolamento di M5S. Il Pd è penalizzato da questa situazione e dal fortissimo aumento dell’astensione. Ecco perché diventa fondamentale il rapporto tra le forze politiche, non solo per noi ma anche per gli altri».
Eppure, proprio nel giorno di Pisapia, Renzi ironizza con il suo rifiuto dei caminetti. Non è una scelta isolazionista?
«L’idiosincrasia di Renzi per i caminetti risale al momento in cui ha cominciato a far politica…non li sopporta perché sono il simbolo di una vecchia politica. Ma lui conosce bene il valore dei rapporti politici. Ha governato per tre anni con una coalizione ed è segretario di un partito che sorregge un governo di coalizione. La politica senza rapporti non si può fare. Per quanto mi riguarda mi definirei moroteo, quindi per me i rapporti politici sono essenziali».
Non le pare che la giornata di ieri veda da un lato la nascita di Insieme e dall’altra un Pd che impone prima la sua leadership?
«I segnali arriveranno. Come prevede il presidente Mattarella, le elezioni ci saranno tra otto o nove mesi, c’è tempo. Il tema politico ruota anche intorno alle ragioni che hanno indotto Prodi a muoversi. Lui ha capito quanto sia serio per l’Italia il rischio di un’affermazione delle forze anti-sistema o della destra anti-europea. Per questo ha deciso di dare una mano al centrosinistra. E dobbiamo essergliene molto grati. Ma è chiaro che la scissione del Pd ha complicato molto le cose e ha aumentato la necessità quotidiana di confrontare le posizioni».
Ma dopo piazza Santi Apostoli?
«Dobbiamo capire se si tratta di forze che troveranno una linea politica comune che non sia un semplice anti-renzismo. Poi quale sarà la classe dirigente e chi sarà il leader. Bisogna sapere chi sono, dove vanno, che politica hanno, con chi si vogliono alleare, solo dopo si porrà il tema del rapporto col Pd ».
Franceschini e Veltroni evocano la sinistra unita e vincente mentre con Renzi si perde...
«Il centrosinistra ha avuto un passato molto importante e ricco di contenuti politici, ma la situazione del Paese e del sistema politico era molto diversa, non c’erano il populismo e le forze antisistema, c’era Berlusconi. Il centrosinistra aveva una classe politica di grande spessore. Il Pd ora deve fare i conti con un Italia nuova, più difficile da interpretare, con un elettorato molto mobile e un’astensione al 50% a fronte dell’80% di allora. I paragoni col passato vanno fatti con molta prudenza».
Però la sfida di Renzi – «Solo col Pd si vince e Pisapia ha vinto con noi» – è chiara...
«Pisapia ha vinto perché sostenuto dal Pd e il Pd ha vinto a Milano perché c’era Pisapia. Lo stesso schema vale per Sala».
Pisapia rilancia lo ius soli. Lei garantisce Ius e codice antimafia?
«Le norme antimafia saranno approvate martedì. E il Senato voterà lo ius soli al più presto, comunque entro il mese di luglio. Ma visto che parliamo di lavori parlamentari debbo dirle che nei prossimi giorni prenderò un’iniziativa sui verbali dell’inchiesta Consip falsificati con la chiara intenzione di incastrare il presidente del Consiglio. Gli autori del reato sarebbero gli stessi ufficiali di polizia giudiziaria che avrebbero consegnato atti riservati dell’inchiesta a personale dei servizi segreti e progettato tra di loro di mettere delle microspie nell’ufficio del comandante generale dell’Arma. C’è da essere allibiti e spaventati. Sul piano personale tutto questo mi fa orrore. È assolutamente necessario che il Parlamento conosca l’esatta verità di fatti che hanno a che fare con la tenuta della democrazia».

Il Fatto 2.7.17
“Meno male che c’è Bersani”, l’unico che attacca Matteo
L’ex segretario punta allo scalpo dell’ex premier e fa esplodere la folla. D’Alema spettatore, ancora una volta
“Meno male che c’è Bersani”, l’unico che attacca Matteo
di Fabrizio d’Esposito

La sintesi perfetta arriva da un dirigente pugliese di Articolo 1. Sono le sette di sera e sul palco Giuliano Pisapia, “il leader riluttante” (Lerner dixit), sta concludendo il suo intervento. Dice il demoprogressista arrivato in pullman dalla sua regione: “Meno male che ha parlato Bersani”. L’ex leader del Pd è infatti l’unico in due ore e passa a citare quello che per tutti gli altri oratori (Pisapia compreso) è stato l’Innominato. Alias Matteo Renzi. Bersani va giù alla sua maniera. Per metafore. Al popolo “disilluso, sfiduciato, spaesato” del Pd, i comizi di Renzi scivolano “sulla testa come l’acqua sul marmo”. La piazza esplode. Le bandiere sventolano disturbando le telecamere puntate per la diretta streaming. Notevole anche un altro passaggio: “Non abbiamo fatto il vaccino obbligatorio contro l’antirenzismo. Il mondo non gira attorno alla Leopolda”.
Quando nasce un partito, perché di questo si tratta, poi chiamatela pure “casa comune” o listone civico o altro ancora, il popolo reclama sangue. Ci sono le liste da fare, le firme da raccogliere, militanti e simpatizzanti da motivare. Tutte queste cose, Bersani le sa da una vita, a differenza dell’anti-leader Pisapia, e agita lo scalpo renziano. Potesse parlare, lo farebbe anche Massimo D’Alema, ma all’ex premier tocca ancora una volta la parte dello spettatore silente in prima fila.
La scena è curiosa, insolita. Per lasciare il palco vuoto, senza la classica nomenclatura, i vari big si accomodano sotto. Le sedie sono disposte davanti alle transenne e l’ospite più illustre, se non altro per motivi istituzionali, è Laura Boldrini, presidente della Camera. Dietro, aggrappato alle transenne, c’è un signore anziano con berretto militare e tessera del Pci al collo. Espone un cartello: “A quale sinistra devo dare il voto? Solo uniti voto”. Ma uniti con chi? Lo strappo dal renzismo e dal Pd è definitivo e l’onere della prova adesso spetta ai democratici arrivati in piazza Santi Apostoli. Dal ministro Andrea Orlando al governatore del Lazio Nicola Zingaretti, da Gianni Cuperlo a Cesare Damiano. Il listone di Pisapia e Bersani sarà alternativo al Pd. Loro dove saranno? Faranno campagna elettorale per il partito di Renzi che sbandiererà come la cosa più bella del mondo i mille giorni dell’ex Rottamatore a Palazzo Chigi?
Il palco è montato a metà della piazza diventata famosa per aver ospitato la sede dell’Ulivo. Santi Apostoli. Antonio Bassolino si mette in posa per i selfie d’ordinanza (sì anche lui) e spiega: “Questi sono qui perché Renzi è Renzi. Io sono qui perché Renzi non è più Renzi”. Il dialetto napoletano è molto diffuso. Ci sono i militanti portati dal tabacciano Michele Pisacane e quelli, più numerosi, mobilitati dal dalemiano Massimo Paolucci.
La pattuglia del Centro democratico di Bruno Tabacci è folta. Spicca il lucano Angelo Sanza, già demitiano e cossighian-berlusconiano. Spiega: “Questa non è una piazza di sinistra ma di centrosinistra. Il mio passato berlusconiano? Cossiga diede mandato ad alcuni amici, compreso me, di aiutare Berlusconi a fare di Forza Italia la nuova Dc. Non ci siamo riusciti. No, che non mi candido. Il mio l’ho fatto. Sono qui per fare volontariato”. Passa anche Pasquale Cascella, ex consigliere per l’informazione di Napolitano al Quirinale, poi sindaco di Barletta: “Io sto con Orlando, mi sembra normale stare qui, questa è una piazza di gente che votava il Pd”. Orlando, meglio specificare, nel senso di Andrea, attuale Guardasigilli. Perché ce n’è anche un altro di Orlando e si chiama Leoluca. Uguale a se stesso come un quarto di secolo fa, pure di capelli (nerissimi) e di fisico. Immutabile. Il sindaco di Palermo ha l’onore del palco e lancia una nuova parola d’ordine: il civismo politico, senza simboli di partito, contrapposto al movimentismo “inconcludente” dei grillini. A sentirlo c’è Antonio Ingroia, in piedi. Dal lato opposto, a braccia conserte, si erge l’alta figura di Bobo Craxi.
Dal palco citano Calamandrei e il presentatore Gad Lerner ne approfitta: “Hai citato Calamandrei, fammi dire che oggi avrebbe dovuto e potuto essere qui con noi Stefano Rodotà”. Ma la chiusa perfetta è bersaniana e non poteva essere altrimenti: “Non stiamo lì a pettinar le bambole, diamoci da fare”. Sembra lui, il vero leader.

Il Fatto 2.7.16
La politica che ignora l’astensione
Cosa ci insegnano i ballottaggi - Con i seggi deserti, crescono la protesta, il cinismo e il degrado sociale
La politica che ignora l’astensione
di Salvatore Settis

Per tutti è difficile capire dove la nave va, ma per gli apparati di partito, estirpata con apposita lobotomia ogni capacità di autocritica, pare addirittura impossibile. In casa Pd, il risultato delle Comunali viene letto dai più come se fosse possibile retrodatarlo di dieci o vent’anni, misurando sul bilancino quanto cresce “la destra” o cala “la sinistra”.
Ma due fattori-chiave condannano tali analisi: primo, queste Comunali sono una tappa intermedia fra il rovinoso referendum del 4 dicembre e le Politiche di chissaquando; e per quanto Renzi abbia cercato di defilarsi sono state determinate, come già il referendum e le Politiche, dall’ingombrante personalismo del segretario del Pd. Secondo, il macrofenomeno che segna questa sequenza di tre appuntamenti elettorali è la crisi irreversibile di quella che fu la Sinistra: il fallimento del progetto-Pd, formazione ibrida che per governare ha adottato in gran parte le politiche della destra innescando la reazione a catena delle scissioni, frantumazioni, correnti, dissensi e altri sgretolamenti e voragini. Anche se svuotato delle ragioni storiche della Sinistra, il Pd ne ha ereditato qualche residua pattuglia di irriducibili fedeli al partito-che-non-c’è-più. Fedeli, è vero, al verbo del Nazareno quale che esso sia, ma vecchi dentro e comunque in via d’estinzione. La decomposizione del Pd è la causa principale del crescente astensionismo, che inquina e falsifica qualsiasi risultato elettorale, quando si rifletta che si può esser sindaco di una città importante con il 18% dell’elettorato reale. Su questo sfondo, il conclamato successo di Berlusconi (ma anche la relativa tenuta dei Cinque Stelle) sono epifenomeni, che si scioglierebbero come neve al sole se in luogo del Pd vi fosse un partito di sinistra capace di lanciare un serio progetto per l’Italia e riportare gli elettori alle urne.
Insistendo su una voglia di rivalsa sempre più sfocata e patetica, Renzi si autodenuncia come responsabile dei rovesci passati e futuri di un partito che a quel che pare non sa disfarsene. Ma sarebbe ingiusto considerarlo l’unico colpevole. L’elenco dei complici è lungo, anche se molti trovano solo ora il coraggio di parlare, magari a fior di labbra. Dov’erano i nemici dell’astensionismo, quando alle Europee 2014 Renzi sbandierò il prodigioso 40,81% del Pd? Perché non hanno detto subito con altrettanta forza che, poiché i voti espressi coprivano solo il 50,58% dell’elettorato, quel 40,81% valeva in realtà solo 20,64% ? E perché l’astensionismo era un tema di cui tacere (come di sesso in un salotto vittoriano) finché si credeva potesse avvantaggiare il Pd con un (finto) 40%, e ora che gioca a favore delle destre e dei Cinque Stelle è giusto parlarne? Da che parte stanno i parlamentari che prima hanno votato in aula per una riforma costituzionale davvero infelice, e poi al referendum hanno fatto campagna per il No? Che idea d’Italia hanno in testa ministri e deputati che si sdegnavano davanti a norme di devastazione dell’ambiente “modello Maurizio Lupi” finché a proporle era la destra, e le hanno disciplinatamente votate quando l’identico testo veniva sottoscritto dal Pd?
Perché una nuova legge elettorale era suprema urgenza purché subito dopo si sciogliessero le Camere, ed è stata messa in soffitta una volta allontanatasi questa prospettiva? Come mai si parla tanto di possibili alleanze a valle delle Politiche, e tanto poco di idee e di programmi? Riconquistare alle urne i cittadini che le evitano (oltre metà dell’elettorato) dovrebbe essere il primo punto all’ordine del giorno, se la parola “democrazia” è qualcosa di più che un flatus vocis
. Tanto più che con la crescita dell’astensionismo avanzano la protesta, il cinismo, il disagio sociale, la disoccupazione giovanile, le nuove povertà, il degrado delle coscienze. Riportare alle urne chi se ne sta allontanando non è impossibile: lo si è visto il 4 dicembre, quando al referendum costituzionale hanno votato oltre 33 milioni di italiani (il 66%). Ripartire dalla Costituzione per rilanciare la democrazia rappresentativa, far leva sui diritti (e non sugli schieramenti) per progettare il futuro, ripensare la forma-partito come luogo di riflessione e di ricerca, e non cassa di risonanza di un qualsiasi capo (che si chiami Renzi, Berlusconi o Grillo). Imparare ora senza aspettare dalle Politiche una lezione ancor più dura. Ma i nostri Soloni sapranno capire che l’autocritica è il prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale? Come diceva Croce, c’è sempre qualcuno che, posto al bivio fra capire e morire, senza esitazione sceglie il martirio.

il manifesto 2.7.17
Una Londra-Labour, in centomila contro l’austerity di May
Gran Bretagna. Il leader laburista in mezzo a insegnanti, pompieri, impiegati chiede che l’inchiesta Grenfell si allarghi a tutta l’edilizia popolare. Nel mirino della manifestazione «Non un giorno di più» privatizzazioni e tagli ai servizi. E La logica social-darwinista imposta dalla premier conservatrice la fa crollare nei sondaggi
di Leonardo Clausi

LONDRA «Grenfell ci ha insegnato qualcosa sulla politica degli alloggi. L’austerità è in ritirata come anche gli argomenti economici che la giustificano. E anche i conservatori».
Così Jeremy Corbyn nell’ennesimo discorso a folle adoranti che tiene ormai da mesi, pronunciato al termine del Not one more day (non un giorno di più), la poderosa manifestazione tenutasi ieri nella capitale contro l’austerità e le privatizzazioni del governo May.
Il segretario del Labour, che ormai cavalca i sondaggi dopo esserne stato per due anni deriso, ha chiesto di ampliare la commissione d’inchiesta nominata da Theresa May su Grenfell a tutta l’edilizia abitativa popolare.
Questo mentre si apprende che ad alcuni inquilini, sopravvissuti dopo aver perso tutto, il council ha esatto un’altra rata d’affitto: grottesca mancanza di rispetto oppure, nella migliore ipotesi, patetica disorganizzazione.
Nove giorni fa il Day of rage per le vittime del rogo di North Kensington aveva richiamato in piazza un migliaio scarso di persone: ieri secondo gli organizzatori, il gruppo The People Assembly, erano circa in centomila.
Sono arrivati da tutto il paese, in treno, nei pullman dei sindacati: una fiumana di insegnanti, pompieri, medici e funzionari pubblici stanchi dei sette anni di implacabile dissanguamento del settore pubblico ideologicamente imposto dai Tories con la scusa della crisi che ha sfilato da Oxford Circus fino a Westminster.
Attorno alle dodici, dopo un minuto di silenzio per i morti di Grenfell seguito da un applauso ai servizi di soccorso, è partito il corteo.
Una schiera composito, pacifica e festaiola, in parte visivamente affine ai nostri centri sociali e che mai si sarebbe sognata di avere dalla propria tutto lo stato maggiore del partito laburista, fino a qualche tempo fa nient’altro che uno zelante volano nell’apparato del potere statale.
Da Portland Square, la piazza sede della Bbc – dove hanno parlato la ministra-ombra della sanità e deputata di Hackney Diane Abbott e l’opinionista soft-left del Guardian Owen Jones – il serpente umano si è snodato per Regents Street e poi lungo Whitehall fino a Westminster, accompagnato da slogan, canti e sound system.
Il cancelliere-ombra dello scacchiere John McDonnell, tra i promotori della manifestazione, era tra le prime file lungo tutto il percorso e ha parlato prima del leader. Corbyn è arrivato verso le cinque dopo la visita a Hastings, uno dei collegi elettorali più marginali (dove cioè il seggio è in bilico fra i due partiti contendenti per pochi voti) e mantenuto dall’attuale ministra dell’interno Amber Rudd per un soffio, appena 346 voti.
Il leader ha ripetuto il messaggio di questi giorni: l’austerity è una scelta politica nel nome della quale si punta al risparmio sulla sicurezza dei più svantaggiati.
Una logica social-darwinista che dispensa tagli a vite altrui giudicate spendibili. Ai microfoni di Sky Matt Wrack, segretario generale del sindacato dei vigili del fuoco, ha denunciato con forza la politica di austerity del governo: «Durante la mia segreteria il corpo dei vigili è stato letteralmente decimato, fatto a pezzi. Undicimila licenziamenti, numeri record di caserme chiuse e di autocisterne decommissionate».
A un anno esatto dal golpe fallito ai suoi danni, Corbyn è ufficialmente ormai la sensazione politica del paese. Lo acclamano migliaia di insegnanti, medici, studenti e attivisti.
Ne cantano il nome sulle note del vecchio singolo degli White Stripes, abbandonandosi a un culto pop della personalità che è l’esatto opposto di quello infelicemente promosso da Theresa May alle ultime elezioni (e che le è costato l’umiliante mercimonio con i fossili del Dup).
Ha saputo connettersi con la nazione, ormai è largamente rispettato al centro e adorato a sinistra, dice cose che nessuno ha mai sentito dire in quelle sedi e da podi prominenti come il suo. I campi del possibile appaiono improvvisamente sterminati.

il manifesto 2.7.17
«Corbyn deve prepararsi a governare»
Gran Bretagna. Intervista a Paul Mason, economista e attivista pro-Labour: «La middle class globalista ha visto che solo i laburisti discutevano di giustizia sociale e migranti con la classe lavoratrice pro-leave»
di Leonardo Clausi

LONDRA Paul Mason è un economista, giornalista televisivo, attivista e visiting professor all’università di Wolverhampton. Il suo ultimo libro, Postcapitalismo, è uscito per il Saggiatore.
Qual è la geografia sociale di questa straordinaria rinascita elettorale del Labour?
Dobbiamo considerare il cambiamento demografico nella natura del voto al Labour e del Labour stesso come partito. Ora è molto forte nelle grandi e medie città, dove la popolazione è multietnica, e la forza lavoro è un misto di settore pubblico e privato orientato globalmente, in cui i lavoratori comprendono la necessità di una connessione globale. Ha perso terreno nelle piccole città e in comunità omogenee. Io credo che queste possano e debbano essere recuperate, ma attraverso un’offerta economica basata su una robusta redistribuzione come quella annunciata nel manifesto elettorale del partito del giugno 2017.
Ci sono voci nel partito che volevano riconnettersi alla cosiddetta working class bianca con politiche permeabili all’ostilità verso le migrazioni e il globalismo. Ebbene, non credo che si possa procedere su quella base quando alla nostra sinistra ci sono i verdi e i partiti progressisti-nazionalisti in Scozia, Galles e Irlanda del Nord (almeno il Sinn Féin): ciascuno di questi è pronto ad assorbire la nostra base se non comprendiamo che quello che vogliono è un’alternativa progressista al neoliberalismo e il mantenimento di un’economia globalmente connessa.
Corbyn è stato aggredito per non aver sostenuto con convinzione il Remain durante il referendum. O è stata invece una tattica vincente?
Sia io che Corbyn abbiamo fatto campagna per restare nell’Ue, ma quello che vogliamo fare è rimanere per riformarla, per stracciare il trattato di Lisbona. L’essenza della posizione di Corbyn è simile a quella di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia: una forte critica del trattato di Lisbona. Siamo convinti che senza una riforma drastica di quel regime l’Europa crollerà internamente. È questo quello che Corbyn cercava di dire durante la campagna referendaria: il mio unico rimpianto è che non l’abbiamo criticata più duramente ancora. A fallire è stato il tentativo di frodare l’elettorato dicendo che l’Europa fosse perfetta così com’è. C’è poi l’ambiguità della posizione strategica laburista alle elezioni del 2017. Quella ha funzionato in posti come il nord dell’Inghilterra, o sulla costa meridionale come Plymouth dove ho fatto campagna: nei giri di propaganda elettorale porta a porta le persone working class ti ascoltavano solo previa conferma che “la Brexit ci sarà.” Per quello hanno votato, quello vogliono: per questioni di sovranità nazionale, per l’opposizione all’immigrazione e perché si tratta della volontà popolare che va realizzata.
Detto questo, si può aprire la discussione su come realizzarla. Il modo è l’avanzamento di un programma keynesiano di sinistra capace di promuovere la crescita e di mitigare i risvolti negativi della Brexit, e piace a una vasta sezione della classe lavoratrice. Allo stesso tempo temo che i Libdem cresceranno, grazie a una piattaforma apertamente pro-Remain e la promessa di un secondo referendum capace di invertire il processo di uscita, cosa che il Labour non vuole fare. Se non sono affatto decollati alle elezioni è perché molti della middle class che vorrebbero interrompere la Brexit sono scoraggiati di poter convincere i connazionali che sia una buona idea. La cosiddetta middle class globalista ha compreso che solo il Labour stava affrontando la questione porta a porta con la classe lavoratrice pro-leave, e nelle sei settimane di campagna ha imparato a rispettarci vedendo la quantità di insulti, diffidenza e repulsione con cui venivamo accolti. Ma siamo stati capaci di assorbire la punizione e di ricominciare una discussione sulla giustizia sociale e sull’immigrazione proprio con persone vulnerabili alla narrativa xenofoba. Questa è la mia spiegazione di come mai due gruppi sociali così diversi abbiano finito per votare Labour.
Nel 1940, a guerra iniziata, un opuscolo intitolato Guilty Men (I colpevoli), accusò l’élite aristo-Tory di aver lasciato il Paese impreparato e di aver blandito Hitler con l’appeasement. Lo scritto aprì la strada a Churchill, ma soprattutto funse da base per l’epocale vittoria di Attlee a guerra finita. Con il loro mettere le proprie beghe interne davanti all’«interesse nazionale» del Paese i Tories non sembrano i Guilty Men di oggi, dove la Brexit soppianta la guerra?
Sono accadute due cose scioccanti. La prima è che dopo la batosta del referendum e le dimissioni di Cameron, l’aspettativa generale era che la borghesia liberal nazionale avrebbe eletto un’altra leadership del partito conservatore capace di mitigare i rovesci economici impliciti nell’uscita. Invece ne hanno eletta una che sta accelerando e indurendo i termini della rottura. Questo è un avvertimento per tutta l’Europa: quello che abbiamo di fronte sotto forma di Ue è una borghesia che sembra molto liberale e globalista ma appena si trova di fronte a una forza politica nazionalista cambia facilmente casacca e l’accetta. Non sanno di volerla fin quando non emerge. Lo si vede nalla Fdp tedesca e in quella parte della destra francese conservatrice che ha cercato di fare concessioni a Marine Le Pen durante le elezioni francesi.
Quello che ci insegna la metamorfosi dei Tories è che l’élite dominante europea è solo superficialmente globalista e vuole al di sopra di ogni altra cosa restare al potere. Dopo la prima scommessa persa catastroficamente ne hanno fatta un’altra dove hanno ugualmente perso e ora si trovano alleati non solo con la parte xenofoba dell’Ukip – di fatto la loro elezione è stata un’alleanza Tory-Ukip dove quest’ultimo ha perduto una trentina di seggi – ma ora è diventata un’alleanza Tory-Dup: un’alleanza con xenofobi, razzisti settari bigotti dell’Irlanda del Nord. Molti in Uk pensano sia uno scherzo, un mero gesto tattico. Ma come sarà visto fuori del Paese, in nazioni prevalentemente cattoliche? Anziché con i Guilty Men degli anni Quaranta per me l’analogia con la storia recente britannica è con i primi anni Sessanta coi governi di Macmillan e Douglas-Home quando il conservatorismo perse la capacità non solo di esprimere quello che voleva la classe media e lavoratrice britanniche ma anche quello che voleva la borghesia. Basta vedere quello che rappresentano oggi i Tories: l’elite cleptocratica globale: sono molto più lesti ad assecondare l’Arabia Saudita che a varare politiche che salvaguardino l’industria dell’auto nazionale.
Un Corbyn primo ministro entro sei mesi?
Non credo. Anche se c’è il rischio evidente che il governo cada, quello che è più probabile è che si liberino di Theresa May e della crisi di governo in autunno e poi cerchino barcollando di andare avanti un altro paio d’anni con il terzo primo ministro conservatore non eletto, che è quello che accadde nei primi anni Sessanta con i succitati Macmillan e Douglas-Home, due premier dimenticati da tutti tranne che dai disegnatori satirici. Corbyn deve essere tuttavia pronto a formare un governo da un momento all’altro per come funziona il sistema britannico.
Se cade questo governo il Labour potrebbe – e io credo dovrebbe – formare un governo temporaneo pur sulla base della propria esiguità di seggi. Nel frattempo quello che dovremmo fare è offrire un’alternativa a quella parte del nostro elettorato operaio che si è spostata a destra. Ora siamo diventati molto un partito dei salariati e della cultura urbana multietnica ma dobbiamo spiegare molto bene all’ex operaio bianco della provincia del nord che guida un furgone e ha una piccola impresa cosa avrebbe da guadagnare votando per il Labour. È quello su cui non siamo riusciti a convincere e che il partito deve fare ora.
Corbyn ha accettato la fine della libertà di movimento e del mercato unico, la permanenza nel quale ostacolerebbe le nazionalizzazioni da lui promesse. Non è una mossa politicamente ragionevole?
La mia posizione su questo è diversa. Per me il Paese dovrebbe optare per un accordo su modello di quello della Norvegia o della Svizzera, cioè restare nel mercato comune attraverso l’European Free Trade Association (Efta). Allo stesso tempo dovrebbero chiedere una sospensione d’emergenza della libertà di movimento come dall’articolo 112 del trattato di Lisbona. Questo perché il referendum ha espresso il rifiuto per la libertà di movimento. Lo hanno fatto perché funziona in modo da comprimere e ridurre i salari e la possibilità di contrattaccare sul posto di lavoro, perché i lavoratori migranti sono disegnati dal capitale in modo da favorire il datore di lavoro. Noi siamo l’unico paese sviluppato ad aver avuto una continua e pesante stagnazione salariale anche durante il recupero dalla crisi del 2008. La sinistra deve ravvivare il consenso per l’immigrazione. Per farlo dobbiamo controllarla e il libero movimento ce lo impedisce, per questo dobbiamo poterlo sospendere per un periodo consistente. Se l’Ue dice di no a entrambe le richieste, allora il Labour dovrà adattarsi alla cosiddetta Hard Brexit, (fuori del mercato unico e dell’unione doganale, ndr). Il partito laburista non ha la possibilità di fermare la Brexit. Ma una Soft Brexit, dove restiamo parte del mercato unico e possiamo esercitare un controllo sulla libertà di movimento, è ottenibile. Un rifiuto di Bruxelles significherebbe spingere Tories e Labour fuori del mercato unico.
Altri paesi hanno industrie nazionalizzate nel mercato unico e forme assai più ristrette del mercato del lavoro nel mercato unico. La tragedia della Gran Bretagna è che ha un governo che non ha mai agito nell’interesse nazionale e dunque non ha mai verificato la tenuta del mercato unico. Che ha potuto sopportare benissimo che la Germania eliminasse la propria disoccupazione accrescendo esponenzialmente quella di Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. Spero che nel vedere l’indebolimento dei Tories e il rafforzamento della socialdemocrazia i partner europei concedano una possibilità di reintegro simile a quella norvegese o svizzera. Altrimenti, assisteremmo alle élite britannica ed europea sabotare i rispettivi interessi nazionali. Non c’è alcuna logica dietro l’emergere di un’autarchia in Gran Bretagna. Credo che un deal da parte dei Tories potrà esserci proprio perché il popolo britannico ha distrutto in un solo giorno la minaccia di una Hard Brexit.
Le analisi liberal del voto si affannano a dipingerlo come la solita faida corporativa vecchi-giovani. Vogliamo demistificare?
Una lettura di classe del voto potrebbe essere questa: nonostante i media abbiano dipinto il partito laburista di Corbyn come una minaccia per la sicurezza nazionale e filoterrorista, abbiamo preso tredici milioni di voti, il più alto numero di sempre. Il cuore di questo consenso è stata la classe lavoratrice socialdemocratica: per quanto si dicesse che avrebbe abbandonato il partito, non è successo. A lasciarlo erano stati un terzo di quelli che avevano votato Ukip, ma sono tornati a bordo con entusiasmo proprio per il radicalismo economico del programma elettorale.
Poi c’è il cosiddetto «salariato» urbano: la vera working class contemporanea, quelli che lavorano nelle aziende globali, nel settore pubblico, nella manodopera qualificata: ad esempio i milioni di lavoratori nella sanità. Poi c’è la piccola borghesia liberal, che ha di solito votato o Tory o Libdem o i partiti nazionalisti. Anche loro hanno votato Labour in quanto unico partito secondo loro capace di impedire un’Hard Brexit. Ora il compito del partito è mantenere quest’alleanza e di aggiungerle quelle sezioni della classe lavoratrice manuale che tuttora si rivolge al toryismo e al nazionalismo xenofobico. Dobbiamo dar loro una ragione per votare Labour e se non abbiamo vinto le elezioni è anche per questo.

il manifesto 2.7.17
Decostruito il mito di Israele
Guerra dei sei giorni. Sulla base di inedite fonti d’archivio ancora sotto segreto, Ahron Bregman mostra le tappe successive dell’occupazione, nei suoi effetti sui popoli dei Territori: «La vittoria maledetta», da Einaudi
di Massimiliano De Villa

Il mattino del 14 maggio 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol sta osservando, dalla terrazza del suo ufficio, la sfilata del Giorno dell’Indipendenza quando il generale Yitzhak Rabin gli riporta movimenti sospetti di reparti egiziani che, attraversato il Canale di Suez, sono sbarcati nel Sinai. È solo l’inizio: nel giro di tre settimane, l’Egitto ordina ai caschi blu delle Nazioni Unite di ritirarsi dalla penisola sinaitica, schiera sette divisioni militari lungo il confine con Israele, chiude gli stretti di Tiran, importantissimo passaggio per le navi israeliane, e sigla un accordo di difesa con la Giordania.
Lo schieramento di forze egiziane turba un equilibrio già assai fragile: dalla crisi di Suez del 1956, del resto, il presidente egiziano Nasser, leader popolare di un panarabismo montante, non ha mai smesso di parlare della distruzione di Israele e, nei mesi precedenti il giugno 1967, la sua propaganda anti-israeliana si è fatta più virulenta. I nemici sionisti – va ripetendo Nasser con retorica pettoruta, mentre gli altri capi di stato arabi gli fanno variamente eco – devono essere cancellati e ributtati in mare. Per gli israeliani, spaventati dal riproporsi di recenti spettri, la chiusura degli stretti è il casus belli: di qui l’attacco, improvviso e rapidissimo.
Nel giro di sei giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, le Forze di difesa israeliane sbaragliano tre fronti, l’egiziano, il giordano e il siriano, irrompendo nei territori arabi e occupando il deserto del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa la parte orientale della città di Gerusalemme. Per Israele, questa guerra che, con la velocità del fulmine, ne triplica il territorio è una vittoria straordinaria. Un’ondata di fervore messianico dilaga nel paese, gli osservanti parlano di miracolo, i laici non nascondono l’emozione. La terra di Israele è stata restituita ai suoi antichi abitanti, questa è la voce che corre dal deserto del Negev al Mare di Galilea, mentre il mondo sbalordisce alla rapidità e alla potenza dell’apparato militare israeliano.
Le operazioni belliche si chiudono in pochi giorni e si apre, in parallelo, la questione, insieme spinosa e delicatissima, dei Territori occupati e degli insediamenti israeliani. Un’occupazione – dicono gli osservatori esterni – che durerà poco e che invece, tolto il Sinai e, solo da qualche anno, la Striscia di Gaza, entra oggi nel suo cinquantesimo anno.
Sono molti i libri che, negli anni e nei mesi scorsi, hanno ripercorso, interpretato, indagato la Guerra dei Sei Giorni nel suo cinquantesimo anniversario. Tra le analisi più acute, quella di Ahron Bregman, inS La vittoria maledetta Storia di Israele e dei Territori occupati (Einaudi, traduzione di Maria Lorenza Chiesara, pp. 340, euro 33,00).
Già il titolo rivela il taglio del saggio: quella che da Israele era stata vissuta come una benedizione, il compiersi dell’antica promessa fatta da Dio ai padri e il suggello trionfale dell’impresa sionista, mostrerà, nel giro di poco, il suo vero volto, mutando in modo definitivo la fisionomia medio-orientale e trasformando Israele, agli occhi dell’Occidente, da vittima della storia a paese occupante.
Il saggio di Bregman, israeliano emigrato a Londra durante la prima intifada per esplicito dissenso politico e ora professore di storia militare al King’s College, ha inizio inquadrando il problema da un punto di vista giuridico: quella di Israele nei confronti dei territori conquistati nel 1967 è de iure un’occupazione, condotta in aperta violazione della Convenzione dell’Aja, stipulata a inizio Novecento, e della più tarda e più famosa Convenzione di Ginevra del 1949.
Sulla base di inedite fonti d’archivio israeliane, in parte ancora coperte dal segreto, Bregman dimostra, con coerenza aristotelica e senza mai rinunciare a una narrazione brillante, le tappe successive dell’occupazione nei suoi effetti sulla popolazione dei Territori: la creazione di governi militari israeliani, l’uso dell’esercito per soggiogare gli occupati, la raffica di decreti d’urgenza e di ordinanze militari, l’avvio di una vertiginosa macchina burocratica che disciplinerà, di lì in avanti, ogni centimetro di vita pubblica, dall’accesso agli impieghi all’accesso alla rete idrica e all’elettricità, con estenuanti trafile per ottenere, nel migliore dei casi, un permesso o una licenza. Poi le restrizioni sugli spostamenti, i lunghissimi controlli alle frontiere, gli espropri coatti, la pulizia etnica dei territori conquistati, la distruzione di antichissimi villaggi arabi con i trasferimenti forzati dei loro abitanti in Giordania o in Siria, la costruzione, sul medesimo terreno, di basi militari e insediamenti ebraici, e l’invio di coloni israeliani, spesso ebrei ortodossi, a ripopolarli.
Nella ricostruzione storica, il resoconto cede spesso il passo alle memorie e alle testimonianze di prima mano degli occupati, facendo vibrare la corda del vissuto personale senza inficiare la sobrietà dell’analisi e rivelando anzi alcuni angoli ciechi sui quali non era stata fatta sufficiente luce.
Saldamente ancorato a un criterio cronologico, Bregman passa in rassegna le pratiche e i metodi dell’occupazione israeliana, suddividendo l’esposizione in tre parti: il primo decennio di occupazione – con una sezione per ogni territorio occupato a stagliare, di ognuno, la particolare fisionomia – il secondo decennio che culmina con la prima intifada e, infine, gli ultimi vent’anni con il procedere a singhiozzo degli accordi di pace, l’assassinio di Yitzhak Rabin, la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee e l’innesco della seconda intifada fino alla roadmap della pace e al disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza.
Il fuoco principale della ricostruzione storica, l’occupazione israeliana dei Territori, non impedisce all’autore di seguire altri fili, dalla resistenza palestinese alla guerriglia armata, agli attacchi terroristici contro Israele, dalla leadership di Arafat ai successi elettorali di Hamas.
Di decennio in decennio, con i passi accorti e precisi dell’indagine storiografica, Bregman decostruisce, nelle sue pagine, il mito, diffuso dagli israeliani all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, dell’occupazione illuminata. Mai – sostennero infatti fin da subito gli israeliani – un popolo che, come il loro, aveva vissuto sulla pelle la spaventosa esperienza della persecuzione avrebbe replicato il trattamento su altri. Eppure – Bregman lo sottolinea fin dalle prime pagine traendo conclusioni amare – «un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini, come quella di un triangolo quadrilatero. Nessuna occupazione può essere illuminata.
I rapporti tra occupante e occupato sono sempre basati su paura e violenza, umiliazione e dolore, sofferenza e oppressione; in quanto sistema di padroni e schiavi, l’occupazione non può che essere un’esperienza negativa per l’occupato. Che Israele – una nazione piena di vita e istruita, terribilmente consapevole dei mali della storia – abbia imboccato la strada dell’occupazione militare è di per sé abbastanza stupefacente».

Il Fatto 2.7.17
“Con 2,2 miliardi all’anno si può fare vera accoglienza”
Milena Gabanelli - La giornalista: “Fa bene il Viminale a spendersi sul fronte libico”
di Stefano Feltri

“Più metti in opera possibilità di salvataggio e più i trafficanti portano in mare un’umanità disperata e inconsapevole”. Milena Gabanelli oggi è vicedirettore dell’area digital della tv di Stato per il progetto web Rai24. Ma prima di lasciare il suo Report su Rai3 si è occupata molto di migranti. E la sua voce sul tema è molto ascoltata.
Milena Gabanelli, chiudere i porti è fattibile o è solo una minaccia per fare pressione sull’Ue?
Una soluzione andrà trovata, se le intenzioni di “non lasciare l’Italia sola” continuano a rimanere “intenzioni”, qualcosa di concreto andrà fatto. Ma forse sarebbe sufficiente se, da subito, qualche Ong straniera facesse un’azione dimostrativa. Medici senza frontiere potrebbe sbarcare migranti a Nizza o il Muos a Malta. Vediamo se il democratico Macron ha il coraggio di dire “qui non li portate”.
Ma è realistico pensare di sbarcare i migranti salvati in mare sulle coste di altri Paesi: Malta, Spagna e Francia?
La Convenzione di Amburgo obbliga a sbarcare nel primo porto sicuro: dovrebbe essere la Tunisia, che ha firmato quella convenzione, e anche Malta. Ma poiché il flusso è costante, e alcune navi sono dotate di infermeria, potrebbero arrivare anche in Spagna o a Nizza. Il ministro Minniti ha ragione quando dice “non si può disgiungere il momento del salvataggio da quello dell’accoglienza, e quest’ultimo non può essere un problema di un solo Paese”.
Sulle Ong che idea si è fatta? Complici involontari dei trafficanti o riempiono un vuoto?
Fino a quando le inchieste non saranno arrivate a conclusione non si può alimentare alcun sospetto. L’unico dato certo è che non ci sono mai state tante navi che si adoperano per il salvataggio e mentre nel 2015 i morti in mare sono stati 2800, nel 2016 siamo arrivati a 4300. Una considerazione andrà pur fatta. Più metti in opera possibilità di salvataggio e più i trafficanti portano in mare i migranti.
I ricollocamenti non funzionano, l’Italia ha spostato solo settemila persone. Dobbiamo rassegnarci?
No, la tenuta del sistema Italia si giocherà su questo. Siamo l’hub d’Europa, serve un progetto che non ci veda soccombere.
Se identifichiamo persone che non hanno diritto di asilo, è impossibile spostarle in altri Paesi. Sono i “migranti economici”. Che fare?
Al momento dello sbarco non c’è una identificazione, ma una autodichiarazione con fotosegnalamento e impronte digitali. Poi le persone vengono sparpagliate per i Comuni, molte spariscono. L’identificazione è più complessa e va organizzata a monte. Alla fine di questo processo chi non ha diritto a restare, deve essere accompagnato al Paese d’origine, che spesso però non lo riconosce come cittadino. Per questo occorre aver fatto prima accordi bilaterali. È complicato, ma non impossibile, se decidiamo di trasferire una delegazione a Bruxelles determinata a non venir via da lì senza aver raggiunto un impegno comune.
Come si fa a trasformare questa emergenza in una opportunità?
L’opportunità è quella di decidere che il sistema accoglienza è un affare di Stato, e quindi si rimettono a posto i luoghi pubblici (dalle caserme ai resort sequestrati alla mafia, agli ex ospedali), e assumere personale qualificato, circa 28.000 persone: formatori, medici, psicologi. Un sistema di accoglienza dove le cooperative e le associazioni hanno un ruolo di supporto e non più di gestione. Il tempo di permanenza dei migranti in questi luoghi non deve superare i 6 mesi, trascorsi i quali chi ha diritto a restare, munito di curriculum, viene trasferito in piccoli gruppi nei Comuni e, per quote, nel resto dei Paesi membri.
E quanto costerebbe?
Il costo che in cinque mesi di lavoro io e la mia squadra, insieme a esperti del settore, abbiamo stimato, sarebbe di circa 2 miliardi per la messa in abitabilità, e 2,2 miliardi l’anno per gestione e personale. La ricaduta sarebbe una maggiore percezione di sicurezza, oltre a una maggior disponibilità dei Comuni a farsi carico dell’integrazione, poiché le persone che arrivano sui loro territori sono solo quelle con diritto all’asilo, hanno imparato la lingua, un mestiere e conoscono le regole.
Perché le strutture italiane sono sempre al collasso anche se l’impennata di sbarchi era prevista?
Perché manca una visione a monte e si spera sempre che un giorno o l’altro gli sbarchi diminuiscano.
È realistico rimandare la soluzione a un controllo dei flussi, soprattutto in Libia, come ha detto il ministro Minniti?
Minniti fa ciò che può. Si sta spendendo molto sul fronte libico e dobbiamo augurarci che ci riesca, perché non si può prescindere da un intervento là dove il problema ha origine. Ma saranno tempi lunghi. Intanto c’è un problema qui e Minniti non può fare tutto da solo.

Il Sole Domenica 2.7.17
Marina Cvetaeva (1892-1941)
Contro i pifferai della rivoluzione
La musica, l’arte più amata dalla poetessa russa fieramente avversa al regime sovietico, si fa strumento di potere
di Serena Vitale

Vedono la luce in Italia quasi contemporaneamente, a cura della slavista Caterina Graziadei, due opere di Marina Cvetaeva, definita da Iosif Brodskij «il più grande poeta del XX secolo»: Il campo dei cigni, un ciclo di poesie (gennaio 1918 - dicembre 1920; apparse su pubblicazioni periodiche, furono raccolte per la prima volta in volume nel ’57, a Monaco) e L’accalappiatopi, 1925 (rispetto alla prima edizione italiana del 1983, sempre curata con amorevoli premure da Graziadei, quest’ultima appare notevolmente perfezionata, arricchita anche del testo russo a fronte).
Le poesie del Campo dei cigni nacquero in anni oscuri, luttuosi: il caos postrivoluzionario, la guerra civile, la personale tragedia dell’autrice, che nel febbraio 1920 perse la seconda figlia, Irina, morta di denutrizione a neanche tre anni. Era rimasta sola, Marina, priva di tutto, con due bambine da sfamare, incapace di organizzarsi nella vita quotidiana di un Paese sconvolto, nella casa - ormai un “tugurio”- dove era vissuta con il giovane marito. Agli inizi del ’18 l’ufficiale Sergej Efron aveva raggiunto l’armata dei Volontari che si andava formando nei territori meridionali della Russia e da allora Marina non aveva più notizie di lui (soltanto nel ’21 avrebbe saputo che era vivo e lo avrebbe raggiunto nell’emigrazione).
Cieca alla “politica”, nemica di ideologie, partiti, consorterie di ogni genere, Marina vide la sua Mosca attraversata dalle «grigie truppe della rivoluzione», una marmaglia di aggressivi «partigiani del dio Marte» che la piccola Alja, la figlia maggiore, guardava con una leggera smorfia. Maledisse Pietro il Grande, «progenitore dei Soviet… di ogni rovina», carnefice della santa Rus’ (a conferma della sua natura di diario lirico ogni poesia del Campo dei cigni è datata e, sfida all’ateismo di Stato, alla data spesso si accompagna l’indicazione della festa liturgica). Cantò - una volta lo fece anche di fronte a un uditorio moscovita politicamente ipercorretto - gli ideali cavallereschi di onore, giustizia e fedeltà, incarnati nei “controrivoluzionari” di cui presagiva la disfatta. Don (nelle terre bagnate dal fiume al Sud si svolgeva la mattanza fratricida che sarebbe terminata con la presa della Crimea da parte dell’Armata Rossa, l’evacuazione forzata dei vinti) coincideva per lei con Dolg, con il «dovere, lusso regale nei tempi delle piazze». Ma trovava parole di pietà per tutte le vittime - per i Bianchi «arrossati dal sangue» come per i Rossi «sbiancati dalla morte»…
In una lirica del ’18 aveva dichiarato di avere due soli nemici sulla terra: «la fame degli affamati e la sazietà dei sazi», anticipando quello che diventerà il leitmotiv dell’Accalappiatopi, il poema - una delle più alte creazioni cvetaeviane - iniziato in Cecoslovacchia; lì, nel ’22, la famiglia Efron si era finalmente riunita. A Moravská T?ebová, dove Alja studiò per qualche tempo nel ginnasio-pensionato russo, Marina fu colpita dalla somiglianza della cittadina morava con certi borghi medievali tedeschi. Mente e cuore riandarono alla Germania, seconda patria del sogno: «Da mia madre ho ereditato la Musica, il Romanticismo. Cioè la musica. Tutta me stessa». Ma è una Germania quasi ripugnante quella che fa da sfondo alla rielaborazione del Pifferaio di Hamelin, l’antica leggenda che ispirò molti scrittori e poeti - da Goethe a Robert Browning. Nel lindo, pacifico, ricco paese dove gli abiti hanno tutti la stessa foggia e i sogni sono opachi doppioni della noiosa vita diurna, l’Anima latita; resta solo la fame - di denaro, di cibo. Soprattutto di cibo: straripano di viveri magazzini e depositi, e tutto quel ben di Dio - riso, lardo, farina, granaglie - attira inevitabilmente torme di topi. A Hammeln (persino il vero nome della città, Hamelin, è ingrassato di una seconda “m”) arriva un musicista che attira i topi nel lago dove annegano - lo stesso, dove, ingannato dai notabili che gli rifiutano la ricompensa promessa, farà affogare tutti i bambini del borgo, da lui persuasi a seguirlo nel luogo paradisiaco «dove le perle sono grandi come noci»... Con i topi il Musico aveva usato argomenti diversi: seguendolo, diceva, sarebbero arrivati nell’Indostan: il lontano, azzurrissimo paese dove avrebbero potuto liberare tre miliardi di confratelli roditori ridotti in schiavitù dall’uomo dando inizio alla rivoluzione mondiale.
I satolli topi «arrivati da certi paesi russi» si annoiano a Hammeln, soffrono di ulcera, gastrite, gotta: gli abitanti li hanno contagiati con la loro opulenta routine filistea. Pigri, flosci, appesantiti dal grasso, hanno dimenticato come si ruba e si rosicchia, si sono messi a giocare a vint come certi impiegatucci dei racconti di ?echov, e c’è addirittura chi ha cominciato ad amare i gatti. È evidente - e non sfuggì ai russi della diaspora - l’ironica rappresentazione della Russia postrivoluzionaria: terminato il periodo “romantico” ( «per cosa abbiamo combattuto?», «senza lotta non c’è vita», si lamentano i topi ora bramosi di Sturm und Drang), ha avuto inizio la dittatura burocratica; con la Nep, la Nuova Politica Economica, sono spuntati fuori gli avidi ceffi di nuove Anime Morte.
Nell’Accalappiatopi suona alta la condanna di qualsiasi utopia rivoluzionaria: Marina Cvetaeva non crede alla possibilità di un vero trionfo del potere popolare, nei fatti che hanno drasticamente cambiato la storia del suo Paese scorge anche la segreta spinta della sete di potere, dell’invidia di classe. La Rivoluzione bolscevica, è convinta, nulla ha a che fare con l’eterna rivolta (slancio sovversivo contro la vita quotidiana, le sue minuzie e miserie) del poeta. «Cos’è la musica?», ragionano i consiglieri di Hammeln, «affronto al buon senso… demonio». E c’è davvero qualcosa di demoniaco nella doppia natura dell’arte, qui incarnata dalla voce del Flauto. Può salvare ma anche, come la stichija - l’ “elemento naturale” con cui per Marina Cvetaeva si identifica la poesia stessa -, portare alla rovina, alla morte.
Marina Cvetaeva, L’accalappiatopi , traduzione di Caterina Graziadei, e/o, Roma, pagg. 336, € 18;
Marina Cvetaeva, Il campo dei cigni ,
a cura di Caterina Graziadei, Nottetempo, Roma, pagg. 70, € 12

Il Sole Domenica 2.7.17
L’evoluzione del populismo
La rivolta degli inclusi
Marco Revelli analizza il decorso della malattia della democrazia: ieri lotta di classe, oggi frustrazione dei vecchi privilegiati
di Remo Bodei

Il termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?
Il libro di Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania e Italia).
Tra i tanti «populismi» individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato, dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una «malattia infantile» del ciclo democratico).
Quello attuale è, invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto “ascensore sociale”».
La lotta di classe “orizzontale” si è, così, trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato, buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti «homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario, «purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood, famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».
Specie nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson. Nell’iniziare l’age of common man, 1830-1840 (quella che Tocqueville aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i potenti più potenti».
Nel 1892 viene poi fondato il National People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale, e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano irobber barons».
Con il senno di poi, non era difficile capire le ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi».
Coloro che si avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor, direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai radar dei media».
Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in relazione alla Brexit, alla Germania felix – che ha «le sue zone d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.
Nel nostro paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti governi.
Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un «cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione, specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di governo». Un populismo «dall’alto».
Si può, in conclusione, curare questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?Marco Revelli,Populismo 2.0 , Einaudi, Torino, pagg. 156, € 12

Il Sole Domenica 2.7.17
Comportamento antisociale
Non è tutta colpa del gene
L’assenza di sintesi dell’enzima MAO-A induce all’aggressività.
Ma se l’ambiente è sano non c’è aumento di rischio
di Pietro Pietrini

Il rinnovato interesse per le basi biologiche del comportamento umano ha dato vita ad una vera e propria disciplina che prende il nome di «genetica del comportamento», più nota con la denominazione anglosassone di Behavioral Genetics. Che il comportamento - come del resto pressoché ogni altro aspetto della vita dell’individuo, compresa persino la capacità di percepire le sostanze amare - possa essere influenzato da fattori intrinseci, certo non sorprende.
Fin dagli anni ’70, gli studi su gemelli monozigoti e dizigoti e su figli naturali e adottivi hanno svelato come il rischio di sviluppo di comportamento violento abbia una componente biologica, essendo maggiore nei figli di genitori violenti anche quando allevati in famiglie adottive non violente. Parimenti, il fatto che in questo caso il rischio sia comunque minore di quello che hanno i figli di genitori violenti, allevati dai propri genitori biologici, è chiara indicazione che l’ambiente gioca un ruolo importante.
Nell’ultimo quarto di secolo, il grande sviluppo delle metodologie di biologia e genetica molecolare ha consentito di arrivare a sequenziare l’intero genoma umano ed esaminare i singoli geni. Le sorprese non sono mancate. Abbiamo “solo” circa 22 mila geni, non solo assai meno di quei 100 mila geni magicamente profetizzati, ma poco più di una frazione dei ben 106mila geni del grano tenero (Triticum aestivum). E si metta l’animo in pace chi ancora fosse convinto che ci sono esseri umani più tali di altri: abbiamo tutti lo stesso genoma.
La spiegazione del perché nessun individuo è identico ad un altro a meno che non abbia un gemello omozigote (e anche in questo caso ci sarebbe da dire qualcosa) sta nel fatto che su questo genoma uguale per tutti insistono oltre trenta milioni di variazioni. Quella catena di basi azotate (Adenina, Citosina, Guanina, Timina) che vanno a comporre la famosa doppia elica del DNA può differire tra un individuo ed un altro anche per una sola lettera. Queste varianti alleliche, o semplicemente alleli, rendono conto delle differenze nei tratti somatici, come il colore dei capelli, degli occhi, della pelle e così via. Non solo. Alleli diversi influenzano anche il modo in cui rispondiamo a eventi ambientali, la suscettibilità ad ammalarci, il decorso stesso di una malattia e la differenza nella risposta ai trattamenti farmacologici.
In questa diversità genetica, in questa estrema fantasia della natura di declinare lo stesso genoma in maniera così articolata e casuale, si racchiude il segreto dell’evoluzione. Non saremmo qui se tutto questo non fosse avvenuto. La diversità, così spesso nella storia anche recente pretesto di discriminazione, è la vera risorsa della specie. Essere tutti diversi significa avere - come specie - maggiori probabilità di sopravvivenza di fronte ad una qualsiasi noxa patogena o in qualsivoglia condizione naturale, al Polo Nord come all’equatore.
Ma dunque che relazione esiste tra geni e comportamento? La ricerca in questo campo ha ricevuto nuovo vigore da quando nel 1993 Brunner pubblicò uno studio di una famiglia olandese che aveva una caratteristica: ben otto maschi in cinque generazioni presentavano lieve ritardo mentale e spiccato comportamento violento ed aggressivo, con vere e proprie esplosioni di rabbia in risposta a provocazioni anche di poco conto. Niente di simile si riscontrava nelle femmine della stessa famiglia né negli altri maschi, a riprova che suddetto comportamento non poteva essere frutto esclusivo di fattori ambientali di rilievo.
Brunner si rese presto conto che i maschi affetti avevano una mutazione sul cromosoma X, nel gene che codifica l’enzima Monoamino-Ossidasi A (MAO-A), deputato al metabolismo delle catecolamine cerebrali, noradrenalina, dopamina e serotonina. Il difetto genetico si traduceva nella mancata produzione dell’enzima. Poiché i maschi, come noto, hanno un solo cromosoma X, il difetto, ereditato dalla madre portatrice, si manifestava senza possibilità di compenso.
Le analisi genetiche e biochimiche dimostrarono l’inequivocabile associazione tra la mutazione genetica e il comportamento antisociale. La prova del nove arrivò due anni più tardi da uno studio pubblicato in Science. Usando sofisticate tecniche di biologia molecolare che permettono di eliminare un gene dal corredo genetico di un topolino, Cases e i suoi collaboratori crearono un modello murino knock-out, vale a dire topolini privi del gene che codifica l’enzima MAO-A. Ebbene questi topolini, fin dalle prime settimane di vita, mostravano chiare anomalie comportamentali fino ad arrivare ad essere insolitamente aggressivi verso i compagni di gabbia. La mancanza di un gene MAO-A funzionante induceva la comparsa di comportamento aggressivo anche nei topolini.
Ad ulteriore riprova del nesso di causa, gli sperimentatori somministrarono un farmaco che inibisce la sintesi di serotonina, allo scopo di eliminare dal cervello di questi topolini il neurotrasmettitore in eccesso, visto che non veniva degradato adeguatamente a causa della mancanza di MAO-A. Ebbene, questa cura mitigava il comportamento aggressivo dei topolini.
Va detto che una mutazione così grave come quella descritta nella famiglia olandese - assenza di sintesi dell’enzima MAO-A - non è mai più stata trovata in alcun altro individuo. Per contro, i numerosi studi condotti da gruppi indipendenti hanno portato all’identificazione di alcune mutazioni che portano ad una sintesi meno efficace dell’enzima MAO-A, indicate come MAO-A_Low in contrapposizione alla variante normale, MAO-A_High.
Gli studi in letteratura, iniziati da Caspi e colleghi, indicano che possedere la variante MAO-A-Low comporta un rischio tre-cinque volte maggiore di comportamento aggressivo e antisociale. Nessun determinismo dunque: possedere questa variante allelica non è condizione sufficiente né necessaria per sviluppare comportamento aggressivo, ma ne aumenta la probabilità.
Risultati analoghi sono stati riscontrati per altri geni che hanno a che fare con il metabolismo dei neurotrasmettitori e con i recettori cerebrali: per ciascun gene esistono diverse varianti alleliche, alcune delle quali sono significativamente associate con un rischio statisticamente maggiore di diventare aggressivi.
Ma questa è solo una parte della storia. Se si mettono insieme i dati genetici con lo studio dei fattori ambientali, emerge una relazione tra il possesso di queste varianti alleliche di rischio e le condizioni dell’ambiente in cui l’individuo è stato allevato. L’aumento del rischio di comportamento antisociale da adulto si ha solo nel caso in cui individui con uno o più di questi alleli siano stati maltrattati, abusati, insomma, siano cresciuti in un ambiente malsano. Se l’ambiente familiare al contrario è stato un ambiente sano, non vi è alcun aumento di rischio di comportamento antisociale.
Al contrario, studi recenti indicano che questi individui possano essere addirittura più prosociali di coloro che non hanno queste varianti alleliche. Queste osservazioni hanno portato a coniare il termine di “alleli di plasticità”, proprio ad indicare che queste varianti alleliche aumentano la permeabilità dell’individuo all’ambiente. Dunque se l’ambiente è positivo, avere queste varianti rappresenta un vantaggio. Ma se è negativo, la resilienza è certamente diminuita. Alla luce di queste nuove acquisizioni delle neuroscienze del comportamento, si comprende bene come parlare di genetica e ambiente come di due entità separate e in contrapposizione sia privo di senso e antiscientifico.
Quell’eterno dibattito che la giocosità della lingua inglese chiama nature vs nurture sbiadisce di fronte alle nuove acquisizioni della scienza, peraltro anticipate dalle geniali intuizioni dei filosofi antichi, basti pensare alla «prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione» che Platone ritiene origine dell’essere malvagio (Timeo, 86e). E non si è neppure accennato a quel complesso effetto dell’ambiente sull’espressione dei geni, che prende il nome di epigenetica. Queste recenti conoscenze sull’intricato rapporto tra biologia e ambiente pongono inevitabili riflessioni anche per l’etica e la giurisprudenza.
– Direttore Scuola IMT Alti Studi di Lucca

La Lettura del Corriere 2.7.17
Il califfo Adamo nel paradiso dei jihadisti con i crociati
di Amedeo Feniello

Jihad e califfato. Temi da trattare con prudenza. Cercando di evitare pregiudizi e isterismi. Seguendo l’unica strada che impedisca che l’indagine deragli: ricorrere al metodo storico. Alla serietà e al rigore scientifico. Cominciamo dal jihad: la confusione, nei commenti, spesso regna sovrana. Bisogna chiarirsi, suggerisce Malcolm Lambert nel suo Crociata e Jihad , che sta per uscire da Bollati Boringhieri. Sicuramente il termine è assai fluido e si evolve nel tempo: ad esempio, delle 39 occorrenze del termine nel Corano, solo dieci si riferiscono alla guerra. Nella maggior parte dei casi, «esercitare lo sforzo», ossia il jihad «sul cammino di Dio», va compiuto in maniera pacifica; e il Corano invita i musulmani a condurre il «grande jihad» con la preghiera e un percorso interiore. D’altra parte, il Corano presenta forme di ambivalenza verso la guerra. Alcuni passaggi esortano i musulmani a diffondere la fede attraverso mezzi pacifici. Mentre altri autorizzano la guerra difensiva quando gli islamici si trovano sotto attacco e altri ancora la incoraggiano per sottomettere i nemici infedeli al potere musulmano. Inoltre non bisogna dimenticare che il profeta Maometto andò alla guerra: lo fece sia nel conflitto contro i Qurays della Mecca (630), sia con scorrerie e incursioni ai confini meridionali dell’impero bizantino.
L’idea di jihad muta dopo la morte del profeta, con la generazione protagonista delle conquiste islamiche, come anche di grandi dissidi teologici con ebrei e cristiani. E tanto la sua teoria quanto la pratica cambiarono, riflettendo le preoccupazioni e le necessità della comunità musulmana, così da assumere una dimensione totalmente differente durante la grande conquista, diventando un appello a sottomettere l’intera terra sotto il dominio della religione di Dio. Ma il jihad veniva richiamato anche in maniera difensiva, quando si trattava di proteggere la comunità dei credenti contro le incursioni dei nemici, fossero essi cristiani bizantini, cristiani latini, turchi non islamizzati o esponenti di correnti eterodosse all’interno dello stesso islam.
Così vengono percepite da un certo momento in poi dall’ambiente musulmano le Crociate, in un gioco di specchi col contesto cristiano che ha del sorprendente. Con quell’appello alle armi, chiaro e ineludibile, che parte da Papa Urbano II a Clermont-Ferrand nel 1095 e attraverso il quale si afferma come sia possibile conciliare la propria salvezza con l’esercizio della guerra, se essa viene rivolta contro gli infedeli. Per essere più chiari: viene sancita in ambito cristiano la liceità del massacro per la difesa della fede. La sua legittimazione. La violenza come mezzo per conseguire il Paradiso. Un nodo che diventa l’elemento di conciliazione tra due opposte visioni del mondo: della conquista e dello spirito. E, come ha scritto lo storico Salvatore Tramontana, con la «concessione di indulgenze e remissioni di colpe a quanti andavano a combattere contro i musulmani in Terra Santa, si legittimavano — anzi si suggerivano — le azioni guerriere». Fino all’idea, pericolosissima e anticipatrice di tante sciagure, dello «stato d’eccezione», emanato per la prima volta dalla cancelleria di Papa Onorio III nel corso della V Crociata (1217-1221), col quale si giustificava la deroga a ogni norma comune con provvedimenti di carattere straordinario, se il fine ultimo della riconquista di Gerusalemme fosse stato raggiunto.
Una lucida follia, avrebbe detto Voltaire, animava le azioni di entrambi i contendenti, musulmani e cristiani. Con episodi chiave, come la battaglia dei Corni di Hattin del 1187, di cui il 4 luglio ricorre l’anniversario. Con da una parte l’enorme esercito musulmano guidato dal carisma di Saladino e dalla forte e violenta idea del jihad. Dall’altra un fronte composito, disaggregato, condotto da una serie di capi latini temerari, ma arroganti e poco accorti, molti dei quali concepivano il rapporto con l’altro solo nei termini di una sua totale liquidazione. Episodio che si chiude col massacro dell’esercito cristiano e il ritorno di Gerusalemme nelle mani dei musulmani.
Lo studioso italiano Marco Di Branco, con il suo Il califfo di Dio (Viella), offre invece uno sguardo inedito sul tema di scottante attualità del califfato. Di cui Franco Cardini, nell’introduzione, sottolinea la viscosità, nel confronto con le categorie semplificatorie che vengono spesso usate: «Del califfato e dei califfi si sono dette molte cose, spesso con imprecisioni molto forti quando non addirittura con equivoci ed errori. Anche per questo è utile, anzi necessario e benemerito, questo libro che però — e ciò va sottolineato con forza — non è soltanto, anzi non è semplicemente, una storia dell’istituzione califfale». Il libro ci proietta in un lungo percorso che parte dall’oggi e corre indietro nel tempo, alle radici del califfato. Su traiettorie smisurate, dall’Arabia alla Siria, dall’Iraq alla Penisola iberica. Con una argomentazione che non si limita al mondo arabo, ma risulta intimamente connessa a un cosmo di tradizioni senza confini. Con un modello, quello del califfo, che rinvia all’idea della monarchia sacra, che ha tanti precedenti antichi e diffusi su uno spazio di apporti smisurato: egizio, assiro-babilonese-indo-iranico, latino-ellenistico, ebraico, bizantino. Senza dimenticare gli influssi etiopi, che tanto hanno influenzato la prima fase della civiltà musulmana.
Non poteva essere diversamente. Perché la sintesi califfale muove i suoi primi passi e si afferma partendo da un baricentro culturale solido, posto all’intersezione tra il mondo iranico e il mondo ellenistico. Un mondo tardo-antico capace di cristallizzare tutto un «repertorio di norme politico-culturali» che furono ampiamente riprodotte in ambito islamico, condivise, riadattate e, alla fine, «considerate come l’ordine ecumenico naturale delle cose». Così il paradigma teocratico islamico da dove scaturisce? Dall’influenza di Costantinopoli, dove costituisce uno degli elementi della costruzione statale bizantina. E il modello musulmano di regalità? Dalla tradizione veterotestamentaria, con Adamo che incarna, in alcune tradizioni, il primo imam , guida politica e religiosa a un tempo. Dopo Adamo, per averne un altro bisognò aspettare un po’ di tempo, fino a Maometto, il fondatore della comunità islamica basata sulla legge di Dio.
Di Branco, insomma, dice con chiarezza: attenzione alle facili schematizzazioni, evitate comode, ma scorrette scorciatoie. E il califfato non va considerato come qualcosa di immutabile e omogeneo, ma ebbe una sua evidente natura magmatica, originariamente non «il prodotto di uno sviluppo dottrinario o di un dibattito teorico, bensì il risultato di uno scontro politico concreto che aveva come posta in palio la successione al Profeta. (…) Proprio per questo, esso non ebbe affatto una natura univoca, e anzi fu in continua evoluzione, mutando con il mutare della società islamica». Una istituzione che ebbe diversi volti (dall’Oriente alla Spagna di al-Andalus), la cui sfera di influenza diminuì sensibilmente abbastanza presto, sin dall’età Abbaside (i nostri secoli IX-X). Con il restringersi della propria effettiva autorità, ponendola di fatto sotto la tutela militare delle varie dinastie di emiri e di sultani. Ma il fascino del califfato permane, fino al presente. Con una riflessione finale che colpisce circa l’immaginario dell’Isis: esso non fa breccia nelle masse musulmane, ma la sua propaganda ha «un enorme effetto in Occidente, dove trova una rispondenza tanto singolare quanto inquietante con gli stereotipi qui coltivati sull’islam dall’epoca medievale fino ad oggi».
Jihad e califfato: non ci facciamo prendere all’amo da facili propagandismi. Invece è urgente «dotarsi di un solido bagaglio di conoscenze di base sulla storia e sulla religione islamica». La migliore bussola per orientarsi nell’intrico di falsità, errori e fraintendimenti che caratterizza la rappresentazione della realtà musulmana in relazione al nostro mondo.

La Lettura del Corriere 2.7.17
«È ora di ritradurre mio padre Ezra Pound»
di Giancarlo Riccio

La frase risuona all’ultimo piano del Brunnenburg, il castello sopra Merano dove dal 1955 vive Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound: «Io dico che il traduttore dei Cantos non è ancora nato». La padrona di casa, 92 anni il 9 luglio, riceve «la Lettura» nella stanza dove si trovano i libri del marito Boris de Rachewiltz, egittologo, morto qui nel 1997, e dei due figli. Nella stanza accanto, quelli di Pound, del quale non dice mai, salvo una volta, «mio padre» ma soltanto «Pound». È a proposito del capolavoro del poeta nato in Idaho nel 1885 e morto a Venezia nel 1972, che Frau Mary confida: «So che Massimo Bacigalupo probabilmente ritradurrà tutti i Cantos . Lo ha già fatto con i primi 30. Ed è di una generazione più giovane rispetto a me che li ho già tradotti. Dunque se qualcuno volesse affrontare di nuovo il poema, per me andrebbe bene. Pound diceva che ogni generazione ha bisogno di una nuova traduzione di opere importanti».
E lei, signora?
«Ho iniziato a tradurre i Cantos a 17 anni. Curatela e traduzione in italiano dell’opera risalgono però al 1985 per Mondadori. E ora? Sono un po’ stanca, è giusto che vada in pensione…».
Che cosa ricorda della sua prima traduzione dei «Cantos»?
«Mio padre mi disse che poteva insegnarmi il solo mestiere che conosceva. Io avevo studiato allora solo l’ Odissea . Sono stata la prima a pubblicare i primi dieci Cantos , nel 1952. Tradotti insieme con lui dal 1941 al 1943. E nel 1961 ho pubblicato l’edizione Scheiwiller-Lerici».
Come reagisce agli attacchi al suo padre?
«Il mio scopo di vita è far cambiare alcune opinioni su Pound. Lui non è stato né fascista né antisemita. Forse avrà giustizia quando a nessuno interesserà più. Io aspetto ancora un buon processo a Pound. Con avvocati illuminati».
Lei ha intrapreso una battaglia contro il movimento CasaPound affinché non usi più il nome di suo padre. Il tribunale di Roma ha rigettato la richiesta.
«Non so se sia stata una battaglia. Ho solo detto che Pound non ha mai avuto una casa. Tutto qui».

La Lettura del Corriere 2.7.17
Ragione e sentimento Il pensiero di Rovelli
di Antonio D’Orrico

Forse, senza confessarselo, il professor Carlo Rovelli insegue il sogno di un pensiero intero, fatto di intuizione e di riflessione, sentimento e ragione. Forse, non ammettendolo nemmeno sotto tortura, vagheggia un’intelligenza delle cose (senza la schizofrenia delle specializzazioni) come quella dei presocratici. Se questa è l’ambi-zione, L’ordine del tempo (brutto titolo), che viene dopo il fortunatissimo manuale di fisica, ne è un elegante e dovizioso (ma di lodevole stringatezza stilistica) esempio, dove il professore chiama a raccolta ogni tipo di testimone utile. Da Rudolf Clausius, lo scopritore dell’entropia, alla tragica figura di Ludwig Boltzmann, impiccatosi mentre la moglie e la figlia si bagnavano nel mare di Trieste. E ci sono Aristotele, Newton e Einstein (tesi, antitesi e sintesi), impegnati, attraverso i secoli, in un gigantesco mastermind . Durante questo Grand Tour nella coscienza del pianeta, il professore ci rifocilla con umorismo: «Gli eventi del mondo non si mettono in fila come gli inglesi. Si accalcano caotici come gli italiani». Sosta commosso davanti ai teoremi bellissimi, sebbene tutti sbagliati, di Platone e di Keplero giovane, che lastricano la via verso le verità. Infine, con Sant’Agostino e Proust, il professore ci dice che siamo ciò che ricordiamo, che ogni attimo della nostra esistenza è legato, dalla memoria, al nostro passato (prossimo e remoto) «con un peculiare filo triplo». Che Alla ricerca del tempo perduto non è il racconto di eventi del mondo, ma «di quello che c’è dentro una sola memoria», attraverso «una disordinata, dettagliata passeggiata fra le sinapsi del cervello di Marcel». Il libro è un viaggio nel tempo e, quindi, nel vivere e nel morire, dove si citano, ma quasi con pudore, i principi della termodinamica e, non senza ardore, i versi antichi di Orazio: «Tu non chiedere/ l’esito dei miei, dei tuoi giorni,/ Leuconoe/ — è un segreto sopra di noi —/ e non tentare calcoli astrusi». Magnificamente.

La Lettura del Corriere 2.7.17
I testimoni della foresta
La preghiera degli ultimi Yanomami
I cercatori d’oro ci distruggono, aiutateci
In sette anni sono morti ventimila Yanomami
di Angelo Ferracuti

La Asatur gran turismo parte puntuale alle 20.30, supera la periferia di Manaus e imbocca a velocità ridotta la Br 174, inghiottita dal buio. Sdraiato sul mio sedile letto nel piano basso sul lato finestrino, guardo il paesaggio notturno, l’oscurità avvolge tutto, si vede solo una lunga linea grigia che taglia la foresta. La strada, quasi mille chilometri, fu costruita nel 1974 dal governo militare per andare da Manaus fino a Boa Vista e poi fino al confine con il Venezuela. Causò molti morti tra le popolazioni indigene, i villaggi furono decimati dalle malattie portate dagli operai. Nello stesso periodo iniziarono i lavori di un’altra via di comunicazione, la Perimetral North, costruita scavando dentro la foresta abitata dagli indigeni Yanomami. All’inizio degli anni Ottanta molti allevatori e contadini poveri del Nord-Est del Paese, in particolare della regione di Maranhão, emigrarono qui spinti dal miraggio dell’attività mineraria; proprio da questa, che fu definita «la strada maledetta», cominciò la corsa all’oro in una parte del Brasile piena di risorse, per cercare fortuna nell’Eldorado di Boa Vista. La popolazione della regione in pochi anni raddoppiò, passando a più di 80 mila abitanti, i minatori invasero i territori, portando malattie, alcol, violenze di ogni tipo, l’attività estrattiva inquinò l’acqua e l’aria, e in soli sette anni morirono 20 mila Yanomami, una strage.
Quando mi sveglio nel cuore della notte, l’Asatur è già in sosta davanti a un chiosco dove vendono panini e bibite. Un ragazzo zoppicante e scalzo, che stringe in mano una borsa, è seduto ai bordi della strada, gli immancabili cani randagi pigri e magri, ricoperti di piaghe rognose, girano lentamente avvicinandosi ai viaggiatori assonnati nella speranza di ricevere cibo di scarto.
All’alba, lungo la strada, oltre i pali con i fili elettrici dell’alta tensione, immerse nella natura lussureggiante, le luci delle poche case sparse, fazendas seminascoste tra la vegetazione, e piccoli paesi con edifici molto colorati: c’è già qualcuno che cammina o si sposta in bicicletta, le prime automobili con i fari accesi avanzano a bassa velocità nella direzione opposta. Da un ponte scorgo la lingua di un fiume dalle acque scure che attraversa una zona di foresta fitta di vegetazione.
La stazione delle corriere di Boa Vista è affollata di gente quando arriviamo. Nella strada sterrata, sono in sosta alcuni taxi, ma nessuno li prende. Mi tocca in sorte quello di un ometto anziano dalla faccia rossa e rugosa che parla a scatti; quando gli stendo il biglietto con l’indirizzo, Rua Josimo de Alencar Macedo, 413 nel Barrio do Calungà, fa una smorfia di scetticismo, poi mi fa capire che invece ha capito. Boa Vista al primo colpo d’occhio mi appare nel suo povero squallore di strade e edifici deteriorati e spenti, tutti bassi e a un piano, le vie fangose poco trafficate. Invece, comprenderò più tardi, le strade sono pulite e ordinate, c’è un discreto benessere dovuto essenzialmente all’attività illegale dei cercatori d’oro e alle risorse economiche che arrivano dal governo alle lobbies politiche locali.
Imbocchiamo uno stradone, poco più avanti giriamo a sinistra, e già siamo arrivati alla Missione Consolata. Superato il cancello, si attraversa una strada rossa sterrata con ai lati alberi rigogliosi e siepi con fiori colorati. Più avanti, quando il tassista arresta l’auto in fondo, e dà un colpo di clacson, risponde la voce di una donna dalle cucine che non riesco a vedere e che dice buongiorno.
A pranzo, padre André, che è portoghese, ma parla un buon italiano, dice che per raggiungere i villaggi degli Yanomami a Catrimani, o si va con l’aereo privato oppure con la barca, almeno tre o quattro giorni di navigazione se la guida è esperta, però il viaggio lungo il fiume è davvero un’avventura, ma «non come immaginiamo un’avventura noi europei», tende a precisare, ridacchiando, «un’avventura» ripete molto sorridente, «bisogna cercare una persona esperta capace di guadare tra le correnti e non è facile trovarla». Dice che in foresta il pericolo maggiore è la pantera (nera, rossa e maculata), soprattutto gli animali vecchi che non riescono più a cacciare e si accontentano di quello che trovano nei loro immediati dintorni. Nel fiume, invece, la raja, il piranha e l’elettroforo, e in foresta tutti i tipi di serpenti. Mi dice che proprio nel giardino qui davanti la settimana scorsa è comparso un anaconda. «Era piccolo, solo un paio di metri, ha mangiato due pulcini». Alla missione sono rimasti in pochi, oltre a lui. Carlo Zacquini, padre Luigi Palombo, un sacerdote leccese molto anziano, Corrado che adesso si trova a Catrimani; poi fratello Francesco di Pinerolo, il naso lungo e i capelli bianchi corti e lisci, due preti africani che sono in missione nella regione di Surumu dove vivono gli indios Macuxi. Quando più tardi Carlo Zacquini si materializza in cucina, è un tipo di uomo diverso da come l’avevo immaginato, nel senso che ha un’aria giovanile, nonostante che di anni ne abbia già compiuti 80, di cui 53 passati qui, molti dei quali dentro la foresta. La sua sordità, che combatte con un apparecchio attaccato ai padiglioni auricolari, è forse dovuta alle tante volte che ha contratto la malaria. Capelli grigi folti, un pizzetto risorgimentale, l’aria benevola dell’esploratore, quando rimarco il suo stato invidiabile, dice semiserio che «mangiare scimmie mantiene in forma».
Mi fa accomodare nella sala riunioni, con i divani e la tv, a tre quarti un lungo tavolo e una scaffalatura con molte riviste, il salotto buono della missione. Quando arrivò nel 1965, dice che al villaggio c’era una baracca non ancora finita, costruita dal missionario che stava già là: «Dentro c’erano ancora i ceppi degli alberi e, intorno, molti insetti, a dieci metri invece si trovavano delle capanne di foglie con varie famiglie Yanomami; tutti i giorni dovevo andare a caccia se volevo mangiare». Le foto dell’epoca lo ritraggono alto e magro come adesso, il viso pallido e scarnito, un pizzetto nerissimo scolpito sul mento. Lui dice che nel primo contatto con gli Yanomami lo avevano colpito la semplicità, l’allegria, la gioia che trasmettevano, del fatto che fossero nudi non te ne accorgevi neanche. «Si arrampicavano sugli alberi — racconta con un sorriso di nostalgia — per andare a prendere il miele sugli alveari. Con scioltezza, velocità. Avevo una carabina calibro 22 con una pallottolina piccola ma efficiente, con quella sono riuscito a uccidere anche qualche tapiro», sostiene adesso con fierezza, ricordando quei primi difficili mesi nella foresta. «All’inizio ho imparato una cinquantina di parole — mi spiega — cercavo di trascriverle come le sentivo, a modo mio, ma il significato ogni tanto cambiava, e allora capitava di mostrare una foglia e chiedere come si chiamava, e uno mi diceva un nome, uno me ne diceva un altro, un altro ancora un altro; uno diceva la parola foglia, l’altro che era sottile, un altro che era verde, oppure che era liscia». Per farmi capire meglio, racconta che una volta era andato a caccia con uno Yanomami e a un certo punto lungo il tragitto quello gli fece vedere delle orme sul terreno, ma lui non capiva di quale animale fossero, gli chiedeva como xama , come si chiama? «Allora lui mi rispondeva xama . Como xama? Chiedevo con insistenza. Xama , continuava a ripetere quello. Alla fine sono riuscito ad ammazzare quest’animale che era un tapiro. Quando tornai al villaggio, l’altro missionario, vedendo la bestia mi disse: ah, bravo, è un tapiro, gli indios lo chiamano xama ». Ridiamo.
«In mezzo agli alberi — racconta divertito — è più facile prendere una scimmia all’amo che un pesce. Ho fatto la fame non poche volte, i primi anni è stata molto dura». Più tardi le cose sono migliorate, mise in piedi una piantagione di banane, bonificò la pista d’atterraggio e dalla missione di Boa Vista cominciarono ad arrivare viveri. Aveva una piccola radio, dove la sera captava i messaggi dalla città, potendo capire quando sarebbe arrivato l’aereo. «Quando cominciavo a orientarmi, ed erano già passati alcuni anni — continua a dire — è arrivata la strada, la Perimetrale nord, che è stata costruita nel 1974. Ricordo un ingegnere italiano, il direttore dei lavori che controllava il tracciato, una ventina di operai tutti stracciati, in condizioni pietose». Subito dopo giunsero altre squadre, soprattutto dal Nord-Est, con l’inganno di salari da sogno. «Ogni lavoratore abbatteva cinquecento metri, un chilometro di foresta, e uno di loro portò il morbillo, si scatenò l’epidemia e gli indios più vicini alla missione riuscimmo a curarli, ma non avevamo i vaccini, era molto triste, avevo un’angoscia terribile», ricorda con la voce turbata. Quando fece una spedizione nei villaggi più lontani, scoprì che già nei primi erano morti in parecchi. «Una cosa che mi viene in mente ancora oggi in sogno, è una ragazza di 13 anni che si trascinava per terra e non riusciva a camminare». Quando giorni dopo arrivò stremato in un villaggio più lontano, trovò i sopravvissuti di quattro comunità, la metà della popolazione. «Il più giovane avrà avuto una bambina di cinque anni, che era uno scheletro», confida sottovoce.
Stormi di canarini si spostano dagli alberi e volano in cielo, li vedo che saltellano là fuori. Mi racconta che vive anche oggi con angoscia l’idea che gruppi di Yanomami isolati possano essere raggiunti da persone senza scrupoli, essi stessi vittime di condizioni di vita difficili, «i cercatori d’oro sono persone umili, non vanno là per ammazzare, ma non capiscono che la loro presenza è la morte degli indios».
La strada in terra battuta con pietrisco compattato comunque non fu terminata, costruirono 215 chilometri e poi i ponti di legno marcirono. «Portammo alla missione una macchina, e anche un carro svizzero degli anni Quaranta. Nel frattempo cominciarono ad arrivare i primi cercatori d’oro, ma l’esplosione vera e propria ci fu nel 1985. La Funai (Fondazione nazionale dell’indio, ente statale preposto a garantire i diritti dei popoli nativi) pensò bene di mandare via i missionari e i medici che svolgevano azioni di medicina preventiva, gli Yanomami restarono in balia di questi cercatori, molti si ammalarono e morirono, fu un genocidio». Come scrive Jan Rocha in Assassinio nella foresta : «Si calcola che tra il 1987 e il 1990 millecinquecento Yanomami — il 15% della popolazione Yanomami del Brasile — siano morti di malattie e malnutrizione quali dirette conseguenze della corsa all’oro».
Ho letto che a Boa Vista, ma anche nel resto del Brasile, la propaganda dei media e dei potentati economici parla di «internazionalizzazione» dell’Amazzonia, dicendo che a difendere i diritti degli indios sono soltanto stranieri, perché in verità sono interessati a impossessarsi delle loro terre. Carlo conferma, «sì, accusano indigenisti, antropologi, ma il grande nemico delle popolazioni indigene è il governo Temer, che vuole aprire le porte al capitale straniero, ridurre i confini delle loro terre, liberarle dai popoli nativi». La realtà, infatti, è un’altra, nella regione di Catrimani il 4% della popolazione più ricca possiede il 96% delle terre e c’è gente come Walter Vogel, uno svizzero, che è proprietario di 12 mila capi di bestiame, due agenzie immobiliari, diversi negozi, piantagioni di acacia mangium per migliaia di ettari, e il 40% delle terre coltivabili dello Stato. «Gente come Vogel — continua a dire Carlo Zacquini — qui è benvenuta dai politici, sono quelli che danno lavoro, se portano via più di quel che lasciano, questo nessuno lo sta a guardare», dice. «I danni sono molti, brucia il mercurio usato per il processo di raffinazione anche in centro città, dove ci sono negozi che comprano oro, avvelenando l’aria. Sono già nati bambini con danni allo sviluppo cognitivo». Lui pensa che un giorno i popoli indigeni potranno sviluppare una loro economia, che già in piccola parte esiste, raggiungere un grado di coscienza tale da poter estrarre ricchezze in modo ordinato, rispettoso dell’ambiente, già questo avviene in Roraima dove vivono i popoli che hanno avuto il riconoscimento dei propri territori, che magari non sono rispettati, ma dove si svolgono attività economiche che contribuiscono a rafforzare quelle dello Stato. «Però non se ne parla, perché la forma di sviluppo ideale oggi è quella dello sfruttamento totale, usando eco-tossici e non facendo i controlli. I Macuxi, per esempio, quando sono riusciti a mandare via i bianchi hanno continuato ad allevare il bestiame che crescevano per loro. Ma non si può pretendere che diventino i fazenderos che c’erano prima, perché non usano mangimi potenziati, farmaci da iniettare per gonfiare gli animali e aumentare la produzione, gli agro tossici nei campi che hanno provocato morie di migliaia di uccelli di varie specie... hanno una idea diversa di mondo».
Adesso la situazione degli indios è drammatica, «il governo attuale sta facendo di tutto per eliminare i diritti conquistati in lotte di anni, siamo tornati all’epoca del regime militare, è una cosa veramente schifosa», dice Carlo, facendo una smorfia di disturbo. «È una situazione terribile, alcuni gruppi indigeni sono ridotti da anni ormai a vivere sui margini della strada, perché non li lasciano tornare nei loro territori, il ministro della Giustizia ha tagliato i fondi e sta smontando la Funai, il personale è ai minimi termini». I cercatori d’oro negli ultimi anni sono aumentati, se ne stimano seimila, svolgono un’attività illegale, il metallo prezioso entra clandestinamente nel circuito commerciale ed è gestito da finanziarie che stanno a Brasilia e San Paolo. «Tutto fa pensare che il governo voglia farla finita con gli indios, desidera che loro diventino bianchi, che non siano quelli che sono, l’etnocidio sta avvenendo», dice ancora Carlo indignato prima di accompagnarmi in città.
Dalla Missione si raggiunge facilmente il centro, che adesso ha superato i 300 mila abitanti, dalla parte del Rio Branco dove c’è il monumento dedicato ai pionieri e di fronte un grande balcone con una magnifica vista sul corso d’acqua. Per arrivarci, attraversiamo in auto il quartiere Beiral, che significa «margine del fiume». Non potevano mettere nome migliore a un sobborgo malfamato, dove ci sono un forte spaccio di droga e prostituzione, molto degrado, baracche con rivendite di birra e un piccolo mercato del pesce, tossici con i capelli rasta che si trascinano con gli abiti strappati e gli sguardi stravolti. Due giorni fa uno spacciatore qui è morto accoltellato dopo una lite con una ragazza, ferito al collo e all’addome.
Arrivati nel centro storico, la scritta reboante e ridicola sotto il monumento recita proprio così: «Omaggio della città ai pionieri che con coraggio e speranza hanno iniziato a realizzare un sogno chiamato Roraima». Un sogno che per gli indios è diventato presto un incubo. Davi Kopenawa, parlando dei garimpeiros , i cercatori d’oro, ha detto una cosa semplice ma di grande efficacia: «Sono come termiti, continuano a tornare e non ci lasciano in pace». Molti hanno sposato donne indigene, ma questo non ha impedito loro di diventare razzisti. Gli allevatori all’inizio occupavano le terre introducendo il bestiame, e quando le mandrie crescevano di numero, la legge li autorizzava a occupare altri appezzamenti.
Il monumento ai garimpeiros si trova nel cuore di Boa Vista, di fronte ai palazzi dei poteri costituiti che gli fanno da contorno come l’Assemblea legislativa, il tribunale di Giustizia, e da qui parte la lunga via Capitao Ene Garcez, che arriva fino all’aeroporto. È uno dei pochi monumenti brasiliani dedicati a un lavoratore invece che a un militare, a un politico o a un esploratore. La statua mastodontica e geometrica di rara bruttezza, simile a quelle propagandistiche dei regimi dittatoriali, raffigura un cercatore d’oro stilizzato, chino ad agitare la batea, la scodella a forma di cappello cinese usata per setacciare l’oro. La casa di Davi Kopenawa è in centro, ma dall’altra parte della città, in una via assolata e semideserta, con l’entrata protetta da una grata bianca. Quando il giorno seguente arrivo lì con Carlo Zacquini, ci accoglie sua figlia, capelli neri e lunghi e un volto inconfondibile da india. Nell’ingresso disadorno alcune borse e un sacco a pelo, forse usati nel corso del suo ultimo viaggio, uno dei tanti che fa in giro per il mondo; più avanti un soggiorno spoglio, un solo mobile bianco con sopra dei libri, oltrepassato il quale c’è una cucina molto semplice, su un lato un tavolo lungo bianco in plastica, e alla sua destra il passaggio che porta in un giardinetto. Quando Davi arriva, abbraccia Carlo appoggiando la parte destra del torace alla sua, stringendolo e baciandolo. Anche lui ha i capelli nerissimi e corti, è basso, un volto largo e carnoso, gli occhi scuri infossati, indossa un paio di pantaloncini corti di raso e una maglia bianca con un disegno al centro.
Per fare l’intervista ci spostiamo in auto nella sede dell’associazione Hutukara, poco distante, nell’ufficio di Davi. Sta alla fine di una strada, in una palazzina con l’intonaco verde acqua. Gli uffici si trovano nel seminterrato, e dal lato opposto, dove si vede il fiume, c’è la postazione con la radiotrasmittente con la quale lui e i suoi collaboratori comunicano con i villaggi. È piccolo e buio, con una scrivania in formica e un quadro indigeno appeso alla parete. Fa molto caldo. Sistemo il registratore digitale sul piccolo treppiede e con l’aiuto di Carlo comincio a fargli delle domande. Lui estrae da un cassetto dei fogli bianchi e scrive con una biro mentre parla, appuntandosi gli argomenti.
Davi Kopenawa ha quasi sessant’anni, come molti Yanomami non conosce la sua età precisa, ed è sicuramente il più carismatico e conosciuto capo dei popoli indigeni, una sorta di Dalai Lama amazzonico. Nato in un villaggio che si trova alle sorgenti del Rio Tootobi, imparò il portoghese dai missionari protestanti evangelici e fu soprannominato così per coraggio e puntigliosità, perché kopenawa è il nome di una vespa della foresta piuttosto coriacea e combattente. Inizio dicendo che so da quelli di Survival Italia che i garimpeiros continuano illegalmente a occupare le loro terre trasmettendo malattie mortali, inquinando fiumi e foreste con il mercurio. Inoltre gli allevatori di bestiame stanno invadendo e deforestando. Davi scrive alcune parole su un foglio, poi comincia con pazienza a dire che la situazione delle terre Yanomami ormai è storica e si ripete ciclicamente. «È tanto tempo che combattiamo i cercatori d’oro, parliamo con le autorità, con la polizia federale, con la Funai, ma nessuno fa niente per fermarli» dice. Negli ultimi due anni è aumentato il numero degli zatteroni, vengono da Belem, da Manaus, da tutto il Brasile, continua a riferire inquieto. Mi spiega che hanno sorvolato con un aereo e ne hanno contati 80. «È pieno di zattere, anche nei ruscelli, negli affluenti c’è distruzione, e hanno l’appoggio di politici e ricchi impresari di Boa Vista». È preoccupato anche per i Moxihatetema, che definisce «esseri umani che non vogliono avere contatto con gli altri», e vivono in questo loro piccolo paradiso senza tempo, ignari che fuori ci sono altri paesi e città, altri uomini e donne; «i garimpeiros possono arrivare da loro in qualsiasi momento», racconta angosciato, «e allora i bambini muoiono, gli adulti muoiono, e non si viene neanche a sapere. I presidenti passati facevano qualcosa per i nostri popoli, invece a Temer non piacciono gli indios». Infatti il campo base degli attivisti della Funai, proprio nella zona dei Moxihatetema, è stato chiuso per assenza di fondi. Questo significa minori controlli, e possibilità che i cercatori illegali agiscano indisturbati. Un’altra minaccia è che il Congresso brasiliano sta per varare una legge per consentire l’attività mineraria anche nei loro territori, suggerisco. «Il popolo Yanomami non vuole che il Congresso nazionale approvi la legge o che il presidente la firmi. Non abbiamo intenzione di accettare questa legge. La nostra terra deve essere rispettata. La terra è il nostro patrimonio, ci protegge. L’attività mineraria invece distruggerà la natura. Rovinerà i ruscelli e i fiumi, farà morire i pesci e l’ambiente, porterà nella nostra terra malattie mai esistite e alla fine ucciderà anche noi», risponde. Secondo lui il governo sta facendo di tutto per modificare le leggi, vuole sfruttare al massimo le terre indigene, «non solo il governo del Brasile, ma anche il Giappone, la Germania, gli Stati Uniti, i ricchi del mondo», spiega. «Io sono un piccolo uomo — dice adesso — ma insieme agli altri Yanomami e ai nostri amici non indigeni stiamo lottando e continueremo a lottare per fermare la distruzione». Gli stessi concetti che espresse nel 1992 all’assemblea generale delle Nazioni Unite: «La nostra parola d’ordine è proteggere la natura, il vento, le montagne, la foresta, gli animali, ed è questo che vi vogliamo insegnare. I capi del mondo ricco e industrializzato pensano di essere i padroni del mondo. Ma la vera conoscenza è degli Shaori. Sono loro il primo vero mondo. E se la loro conoscenza va persa, allora anche il popolo bianco morirà. Sarà la fine del mondo. È questo che vogliamo evitare».
Dobbiamo lasciarci, Davi sta per andare al palazzo di giustizia insieme a suo figlio Dario, lo aspettano per un colloquio — tre anni fa ha ricevuto l’ennesima minaccia di morte. Quando accadde dichiarò: «Sono molto preoccupato. I latifondisti e i garimpeiros hanno molto denaro per far trucidare gli indios. Non voglio che si ripeta quello che è successo al mio amico Chico Mendes, ucciso perché difendeva la foresta».
Ma se vuoi davvero renderti conto della fragile condizione esistenziale di queste persone, devi cercare di entrare nella zona della discarica, un luogo dove gli indigeni Warao e Macuxi che bivaccano ai margini lottano contro enormi avvoltoi che popolano l’area volteggiando incombenti e occupando l’intera superficie, per procurarsi un po’ di cibo e qualche indumento di scarto, o andare alla Casa dell’Indio «Hekura Yano», alla periferia della città. È un villaggio ospedale con una struttura ambulatoriale al centro, e intorno case di legno aperte dove riposano gli ammalati sulle amache. Qui incontro l’infermiere Reginaldo, un omone con i capelli neri rasati e il pizzetto che indossa un camice verde, gli occhiali da vista tenuti intorno al collo da una cordicella, col naso schiacciato e l’aria da boxeur. Mi spiega che i pazienti vengono dai villaggi Yanomami di Amazonas e Roraima, ma anche dal distretto est Macuxi, «gli Yanomami sono maggiormente affetti da polmonite, diarrea, denutrizione». Lui è qui da quindici anni, e ha visto un cambiamento molto forte: «Il diabete e l’ipertensione prima non l’avevano, adesso possono procurarsi alimenti che una volta non mangiavano, come zucchero e sale, e ci sono anche i primi casi di cancro. Con la “Borsa famiglia” (un programma di assistenza alle famiglie povere ideato da Lula) hanno a disposizione più danaro, così acquistano delle barche e hanno accesso alle città, alcuni fanno degli accordi con i garimpeiros per rimanere nei loro territori, in cambio di alimenti, soldi, combustibile e alcol», spiega.
Seguo Reginaldo all’esterno, i reparti sono case di legno aperte con dentro un intreccio di amache su più piani, dove vanno e vengono uomini, donne e bambini. Nelle strutture circolari con il tetto impagliato vivono insieme diverse famiglie, bambini con il viso segnato giocano nel giardino. Deborah, una giovane madre Yanomami nera di capelli e con un viso espressivo, la gonnellina rosa a fiori e una collana di pietre rosse al collo, mi spiega che è venuta ad accompagnare suo figlio che soffre di polmonite. Altre non vogliono parlare, ritrose si nascondono negli spazi rabbuiati dell’abitazione comune. L’inserviente, un ragazzo alto con la mascherina in viso, sta consegnando i pasti girando per il parco col vassoio degli alimenti. Parlo con un’altra donna che ha in braccio un bambino piccolissimo, coperto da un asciugamani celeste — dice arresa che suo figlio sta male ma non sa perché. Spostandomi tra i passaggi affollati, nei ballatoi all’aperto dove stanno seduti giovani e vecchi, incontro la dottoressa Claristella Da Rosa, magra e bionda, un paio di occhi castani limpidi e intensi. «La malnutrizione è molto grave negli Yanomami — afferma inquieta — è il risultato delle esplorazioni minerarie e della deforestazione che distruggono l’ambiente. Questi popoli vivevano di caccia e pesca, ma la presenza di allevatori, cercatori d’oro e militari ha cambiando fortemente la loro alimentazione». Ha riscontrato una carenza vitaminica, soprattutto della tiamina, che provoca spossatezza e il beri-beri, una malattia del sistema nervoso; anche l’uso dell’alcol e l’alimentazione monotona hanno provocato denutrizione, soprattutto nei bambini.
Il lunedì della settimana successiva andiamo con Davi Kopenawa e Carlo Zacquini all’ufficio della Funai, in mano la mia domanda per entrare in territorio Yanomami, i documenti personali, le vaccinazioni, e l’autorizzazione dell’associazione Hutukara. Secondo loro non sarà facile ottenere il permesso. All’ingresso incontriamo una famiglia che arriva da Ajarani, sono tutti denutriti, soprattutto i bambini dalle pance rigonfie in braccio a giovani madri dallo sguardo spento e gli abiti sdruciti e puzzolenti, stremati da un viaggio di 300 chilometri che hanno dovuto fare a piedi e con mezzi di fortuna per arrivare fino a qui dalla foresta, alcuni giorni di cammino lungo i sentieri. I bambini sembrano le uniche cose vive sopra i corpi sfiniti delle madri. Sono arrivati per chiedere un sussidio, la Borsa famiglia, il più vecchio di loro gira per uffici con una cartella di cellophane in mano e dentro dei fogli, dice che sono accampati alla stazione delle corriere, al centro di Boa Vista, bivaccano in un prato, le amache legate a un albero.
Quando Riley, il responsabile del Funai, ci riceve in una stanza refrigerata e accogliente sul retro, Davi Kopenawa e Carlo Zacquini spiegano il motivo della mia richiesta. Dentro di me penso intimamente che dirà di no, e misuro con lo sguardo ogni sua impercettibile espressione facciale. Quando comincia a parlare dice che l’autorizzazione può darla solo il presidente ad interim , che da pochi giorni è addirittura un generale dell’esercito, e già mi si stringe il cuore. Ma inaspettatamente e contro qualsiasi previsione, sostiene che comunque le popolazioni hanno diritto di invitare nei propri territori le persone che desiderano, questo dice la Costituzione, quindi lui non ha nessuna contrarietà, affermazione che stupisce sia Carlo che Davi, i quali mi sorridono in segno di vittoria.
Il giorno dopo Carlo prende accordi con il proprietario del Piper e padre André avverte con la radiotrasmittente Corrado alla missione, richiamerà il giorno seguente per la conferma. Il pomeriggio andiamo in città ad acquistare ami da pesca e filo da regalare agli indigeni, del buon tabacco da masticare, e l’indomani siamo già pronti. Il pilota richiama per confermarci che passerà una persona a prelevarci tra un’ora, ma dieci minuti prima arriva una seconda telefonata, c’è stato un contrattempo, dobbiamo rimandare.
Quando il momento della partenza per Catrimani finalmente è arrivato, non si vedeva una giornata di sole così da giorni. Il nostro Piper è un piccolo aereo bianco a elica anteriore a sei posti, leggero e abbastanza veloce. Il pilota un ragazzo grassoccio dai capelli scuri, la barba incolta, indossa un paio di Ray-Ban da sole, una maglietta blu già madida di sudore e al polso un bracciale d’oro massiccio. Quando il piccolo velivolo in poco tempo decolla, all’inizio vola a bassa quota sopra terreni acquitrinosi, piccole distese come praterie, laghi naturali, sobbalzando. Sembra che sia trasportato dal vento come una piuma, avanza per piccole scosse, sembra soffiato. Superato il rio Ajarani, inizia la Foresta, che in questa regione vicino a Boa Vista non è fitta, ci sono macchie verde chiaro per via delle terre disboscate, case e allevamenti di bestiame. Siamo sospesi nell’aria, e il Piper sobbalza di continuo mentre vola — in lontananza scorgo le vette delle montagne di Serra di Apiau, oltre le quali vivono i popoli isolati, piccole comunità di Yanomami che non hanno mai avuto contatti con l’uomo bianco. Sotto solo foresta, anche le piccole strade sterrate si sono perse dentro la macchia, non si vedono più. Adesso la selva è fittissima di alberi e molto più scura, chiusa dentro se stessa, impenetrabile. Superata una catena montuosa con un picco arrotondato grigio di roccia, nel parco Serra da Mocidade, una vetta che Carlo ha scalato in solitaria, confessa divertito, si cominciano a vedere i villaggi e il fiume — sulle sponde le capanne hanno tetti di paglia.
Quando scendiamo dal Piper, Corrado e un gruppo di Yanomami vengono a darci il benvenuto. Il missionario è un ragazzo magro e biondo, gli occhiali dalla montatura rettangolare, e una barba incolta, l’aspetto gracile. Ci avviciniamo alle case, arrivano anche donne che indossano una gonnellina rossa e tengono in braccio i bambini; su una panchina è seduto il vecchio Pedro, i capelli radi, pochi peli di barba sul mento, abbraccia Carlo. È diventato cieco. Completamente nudo, come tutti gli anziani del villaggio, la cintura di cotone che lega il prepuzio del pene, sono tre giorni che sapendo del nostro arrivo chiede tabacco da masticare. Dietro alle casette di legno della missione ci sono i ragazzi dei servizio sanitario, l’ambulatorio medico e quello del microscopista che studia i casi di malaria, la postazione all’aperto della radiotrasmittente con la quale comunicano con la città.
Carlo mi presenta agli Yanomami e spiega il motivo della visita, dice che sono uno scrittore preoccupato per le loro condizioni, le posizioni del governo, la presenza dei garimpeiros nelle loro terre. Gli indios sono tutti silenziosi e in ascolto, nessuno di loro fiata o interviene. Subito dopo ci incamminiamo verso il villaggio di Rokoari in un sentiero che si perde dentro la foresta. Corrado, una maglia verde con la scritta San Paolo, ci precede insieme a Huti, l’insegnante, dietro a me e Carlo uno sciame di piccoli bambini. Guadiamo lentamente un corso d’acqua stagnante che arriva fino alle ginocchia, poi riprendiamo il cammino nel sottobosco, tra grandi piante di cocco, banani e felci. Il vecchio Barbadì ci è venuto incontro per salutarci, nudo, i capelli rossicci, alcuni bracciali e un amuleto stretto nella mano destra. Adesso costeggiamo il fiume Catrimani, districandoci tra i rami e il sentiero acquitrinoso, fino quando non arriviamo a una sponda con un varco aperto. Poco più avanti, dopo una salita sterrata, si arriva alla maloca , la struttura circolare dove abitano diverse famiglie della stessa comunità. Gli Yanomami vivono in gruppi comunitari e indipendenti dove non esistono gerarchie e credono fortemente nell’eguaglianza tra gli individui, le decisioni vengono prese collettivamente dopo lunghi dibattiti durante i quali chiunque può esprimere la sua opinione. In ogni zona della maloca abita un nucleo diverso, e vi appende le amache, conserva il cibo e accende il fuoco. Appena arriviamo, tutti gridano in segno di meraviglia. Le donne sono nude e indossano il gonnellino rosso, i bambini corrono liberamente negli spazi interni, mentre gli uomini più giovani sono vestiti con maglie di squadre sportive e pantaloncini colorati, alcuni stanno dondolando placidi dentro le amache, uno di loro accarezza un grande roditore nero che si sposta sul suo ventre — «è buono», dice, «non avere paura». Sui soffitti stanno appesi grappoli di banane ancora verdi, ciondoli e amuleti, e in terra utensili, pentole colme di liquidi, le donne stanno grattugiando la manioca sedute a gambe incrociate.
Mariazinha, la moglie di Barbadì, è una piccola donna pittata di rosso in viso, con una serie di bastoncini conficcati sulle labbra e le narici, molto sorridente. Il discorso dentro la Maloca, ritmico e musicale, lo fa con fierezza guardandomi negli occhi: «Tu che sei dell’Italia, e sei venuto fino a qui a visitare la nostra terra, do a te le mie parole perché tu possa portarle lontano e diffonderle — dice accorata —. Io abito qui, i miei figli, i miei nipoti e pronipoti sono molti, per loro difendo la nostra foresta affinché possano viverci. Ci sono persone, invasori, che invece vengono per distruggerla, ma io non voglio questo, sono contro, diffondete le mie parole, portate le mie parole lontane, risalendo il fiume ci sono cercatori di oro che inquinano l’acqua che beviamo; non voglio che i miei figli, i miei nipoti si ammalino per causa di questo. Come vedi noi piantiamo qui i nostri orti e i nostri giardini, coltiviamo frutti, questi sono gli alimenti per i nostri figli. Vorrei correre lontano con te, diffondi queste parole ai politici, alle persone, dillo con forza, non voglio che i bianchi distruggano la nostra foresta, perché noi abbiamo bisogno di questa terra».
Mariazinha parla con la sua lingua ritmica e musicale, senza interruzioni, mentre continua a guardarmi fissa negli occhi: «Noi vogliamo vivere da soli come facevano i nostri antenati, senza i garimpeiros noi abbiamo frutta, cacciagione, pesce in abbondanza, ma quando arrivano loro queste cose spariscono. Voi siete nostri amici, dovete darvi da fare per impedire questo».
Anche Roberto, un giovane del villaggio, si avvicina e vuole parlare. Dice che risalendo il fiume e i suoi affluenti ci sono molte zattere dei cercatori d’oro, e molte impronte, «l’acqua è inquinata, per questo ci ammaliamo». Secondo lui la colpa è del fumo che si è abbattuto sulle loro terre, il fumo dei motori a scoppio, quello degli incendi, i vapori di mercurio, il fumo del disboscamento e le esalazioni dei residui plastici, e secondo quella che è una loro visione, il fumo porta la malaria, le epidemie, li fa morire.
Più tardi, dopo aver visitato la piantagione di banane e manioca di Mariazinha, riprendiamo il cammino dentro la foresta. Sotto il folto degli alberi si avverte sempre una sensazione di pericolo, basta un fruscio, il verso di un animale, un’ombra a spaventarti. Perché qui vivono il giaguaro, la pantera, ma se penso alla tarantola Golia e all’anaconda verde rabbrividisco. Corrado mi spiega che la vita quotidiana di Mariazinha è quella della foresta, ma oggi i più giovani si relazionano frequentemente con la città, ci sono persone che sono funzionari del governo, insegnanti, agenti indigeni di salute, microscopisti che diagnosticano la malaria, piloti di canoa che ricevono un salario in un conto bancario al quale accedono con il bancomat. «Da una parte c’è la vita della comunità con i suoi ritmi, con un’economia di reciprocità, di abbondanza della festa, però oggi il loro mondo è diventato più complesso, se vai in città, fai acquisti, il coltellaccio, la canoa di alluminio, il motore per risalire il fiume, ma della città assorbi tutto, compri il cellulare, che magari costa il salario di un mese». Nella città s’imparano soprattutto le cose negative, i vizi dei non indigeni, comprano il dvd e vedono i film violenti, «L’Uomo Ragno per loro esiste veramente, i non indigeni sono forti, dicono, non muoiono mai, sparano col fucile ma poi si rialzano, questi indios tengono un piede in un mondo e un piede in un altro». Quello naturale e quello artificiale convivono ancora dentro di loro, penso mentre camminiamo e sento il fiato gravido d’umidità della foresta che assedia la pelle, il sole cocente che penetra tra le fronde degli alberi d’alto fusto, mentre i miei stivali affondano su un sentiero di fango e acquitrini.
Vicino alla missione c’è un altro minuscolo villaggio. Vivono in piccole capanne con i tetti alti ricoperti di foglie, un modo di abitare già più individualistico, familiare. Mi hanno detto che il vecchio Mareshao, leader della comunità Mauxiu, ha saputo che sono qui e vuole parlarmi. È un ometto dalla testa grande e il corpo magro nudo, viene verso di me, sbucando come un folletto da una siepe. Anche lui dice che non vuole i cercatori d’oro, «portano inquinamento, malattie, aumento delle zanzare e della malaria», ha saputo che in altre regioni hanno invaso terre e fiumi, questa cosa lo spaventa. Invece il giovane Huti, l’insegnante del villaggio, capelli neri e faccia pulita, un paio di pantaloncini neri da football e la maglietta verde, vuole parlarmi del futuro del suo popolo. Dice che i giovani hanno esigenze diverse, anche se mantengono un rapporto con la loro cultura e le tradizioni attraverso la caccia, le feste, la vita della comunità. «Adesso abbiamo la scuola, c’è interesse a imparare la lingua portoghese, perché è necessaria come strumento di lotta, di rivendicazione, di difesa. Il tempo passa, ci sono i nostri vecchi, c’è la nostra storia antica, ma noi stessi diventeremo leader, la lingua è uno strumento per difendere la nostra buona vita», dice con fierezza — «la nostra buona vita» ripete nella sua lingua misteriosa.
Corrado è qui da dieci anni, e in questo tempo ha visto molti cambiamenti, «evidenti, rapidi» dice, secondo lui c’è stata un’accelerazione, «il relazionarsi con la società circostante influisce sulla vita stessa degli Yanomami qui nella foresta, l’acquisizione di oggetti, di apparecchiature tecnologiche. Stiamo vivendo una situazione di minaccia, dovuta a scelte di governi o imprese, come il progetto di legge per la liberalizzazione dello sfruttamento minerario in terra indigena, che comporterebbe anche la costruzione di strade, la creazione di una centrale idroelettrica sul rio Mucaraji, cose che avrebbero un impatto drammatico sul popolo Yanomami». Secondo il giovane missionario la possibilità di sopravvivere dipenderà anche dalle scelte che loro faranno, la vittoria degli Yanomami dipenderà dalla loro forza di resistere, anche alle tentazioni del mondo globale.
Lui dice di essere stato «yanomamizzato», ha imparato il valore della generosità, quello molto forte della comunità. «Siamo andati per cinque giorni in foresta per partecipare a una festa, che è durata quattordici giorni. Ho pensato, cosa c’è di diverso qui dalla missione? C’è la corrente elettrica? No. C’è l’acqua potabile? No. L’acqua è quella del fiume, quando finisce la luce del sole per vedere c’è la luna nel cielo. La cosa diversa è la comunità, sono le persone, per loro è importante creare relazioni, stare insieme, scambiare e condividere».
Mentre parliamo ci raggiunge il pilota, dice che è ora di andare, ci sono nuvole all’orizzonte, potremmo anche incontrare la pioggia. Ci avviciniamo al Piper, parcheggiato sul prato sotto la missione, alcuni Yanomami ci guardano andare via da lontano, composti e silenziosi. Quando il piccolo aereo bianco dopo una lunga corsa sulla pista alza l’ombra da terra è come se, con un senso fortissimo di perdita, me ne andassi da un mondo e volassi verso un altro. Il velivolo sorvola i villaggi, vedo le capanne dentro gli squarci verdissimi di foresta, lo slalom di corsi d’acqua e macchia, il misterioso e compatto tappeto di alberi di una natura selvaggia che nasconde i villaggi e il suo magico mondo animale. È in quel momento che mi tornano in mente le parole struggenti di Davi Kopenawa, mentre il genocidio del suo popolo continua nell’indifferenza del mondo cosiddetto civilizzato: «Se la mia gente sarà sterminata, dovrete distruggere anche tutte le nostre fotografie, perché le future generazioni, guardando quelle immagini, si vergognerebbero di un simile crimine contro l’umanità».
Angelo Ferracuti