sabato 15 luglio 2017

Repubblica 15.7.17
Turchia
Un anno fa il golpe fallito L’opposizione accusa “Erdogan sapeva tutto”
Così il Sultano si è rafforzato: la sollevazione militare “prevista e controllata”, dice un dossier dei kemalisti
di Marco Ansaldo

ISTANBUL. Erdogan lo definì “un dono di Dio”. Come un inaspettato regalo dal cielo. Quattro ore di caos, fra le 10 di sera e le 2 del mattino del 15 luglio 2016. Nelle prime due ore i militari golpisti sembrarono poter avere la meglio, eliminando i soldati lealisti, occupando a Istanbul il ponte che collega l’Asia all’Europa, bombardando il Parlamento a Ankara. Ma dopo la mezzanotte le truppe regolari ripresero il controllo, il disordine si ricompose e la legalità fu ripristinata in tutto il Paese. I reprobi sono presi a scudisciate lungo la strada, denudati e messi a sedere in un capannone. Il leader fa scattare lo stato di emergenza per 3 mesi, rinnovato per 4 volte, e avvia una repressione formidabile, reiterata giorno per giorno contro sospettati e avversari, fino a incarcerare 50 mila persone, licenziandone 150 mila e reintegrandone 30 mila dopo avere constatato la loro innocenza. Dell’ultima purga si è avuta notizia proprio ieri: 7000 tra poliziotti, funzionari dei ministeri e accademici cacciati con l’accusa di aver «agito contro la sicurezza dello Stato».
Ora è il primo anniversario dell’ultimo colpo di Stato in Turchia. Il più recente di una lunga serie, inaugurata negli anni Sessanta. L’unico non riuscito, che però si chiuse con un bilancio di 249 morti e 2300 feriti. Da molti mesi osservatori ed esperti discutono se il putsch organizzato da militari di seconda fila, fedeli alla laicità espressa alla Costituzione degli anni 80 e desiderosi di sovvertire il governo sempre più confessionale di Erdogan, sia stato mal condotto, oppure un falso, o addirittura un auto golpe condotto dai fedelissimi del presidente con il solo scopo di provocare una minaccia e intervenire brutalmente facendo piazza pulita e una volta per tutte dei nemici.
L’ultima versione, con l’imprimatur della principale forza dell’opposizione, quella di Kemal Kilicdaroglu, il “Gandhi” turco protagonista recente di una lunga marcia a piedi fra Ankara e Istanbul per chiedere il ripristino dei diritti e il ritorno nel Paese della giustizia e della democrazia, parla di un golpe “controllato”. Cioè, come si legge nel rapporto da poco presentato in Parlamento, “previsto e non evitato” dal governo di Ankara e dal presidente Erdogan, il quale, è scritto, “ne ha beneficiato”.
Accuse durissime. A sostenerle un dossier, portato in Assemblea dal Partito repubblicano, quello kemalista vicino alla socialdemocrazia: 307 pagine preparate dai deputati Zeynel Emre, Aykut Erdogdu, Sezgin Tanrikulu and Aytun Ciray. Secondo il rapporto l’intelligence conosceva da tempo i progetti che circolavano intorno a un possibile intervento di militari delusi, rimasti oltretutto in secondo piano rispetto agli anni in cui l’Esercito era il punto imprescindibile delle istituzioni turche. Il putsch stava già prendendo forma alla fine del 2015. Il Mit, il servizio segreto, ne avrebbe ricevuto informazione alcune ore prima dell’inizio delle operazioni, direttamente dal pilota di un elicottero militare. Costui racconta di avere ricevuto l’ordine di rapire il capo della struttura degli 007, il potentissimo Hakan Fidan, un tempo uomo fidato di Erdogan e in seguito più defilato. E giornali e riviste specializzate, su iniziativa di reporter molto ben introdotti, avevano addirittura segnalato iniziative anomale all’interno delle Forze armate. Con un preavviso di settimane. Come è possibile pensare che l’astutissimo e solitamente ben informato Erdogan non fosse a conoscenza di nulla?
Con il presidente in vacanza in un resort di Marmaris, sulla costa a sud ovest, il tentativo di golpe non fu fermato sul nascere. Alla vigilia si tenne un incontro, durato sei ore, fra lo stesso Hakan Fidan e il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Hulusi Akar. E l’azione prese il via. Dodici teste di cuoio passate tra le file dei golpisti si fiondarono sull’hotel dove si trovava il leader. Erdogan fu portato via solo 15 minuti prima, e prese un volo per tornare nella capitale. «Volevano ucciderlo», disse il suo consigliere per le questioni internazionali Egemen Bagis. Alcune voci raccontarono che un aereo dei putschisti affiancò persino il velivolo dove il capo dello Stato si era nascosto. Il pilota giurò che sul volo c’erano bambini, e i ribelli non mitragliarono. Erdogan fu salvo. Si legge oggi nel dossier: «I decreti dello stato d’emergenza sono strumentali a mantenere in vita il regime di un uomo solo, di Erdogan». Dal giorno dopo il golpe sono partiti lo stato d’emergenza, gli arresti, i licenziamenti. E le accuse, rivolte in maniera univoca contro l’imam Fetullah Gulen, ex alleato al tempo in cui gli islamisti volevano abbattere il potere dei militari, e adesso nemico del Sultano. È lui ad avere organizzato tutto dal suo rifugio in Pennsylvania, si sostiene ad Ankara, dove il leader pretende l’estradizione del predicatore e chiede a gran voce il ritorno della pena di morte.