sabato 15 luglio 2017

Repubblica 15.7.17
Cronache di una rivoluzione 1917 2017
Gli intellettuali traditi
Uomini e donne della San Pietroburgo letteraria, cresciuti nel culto del popolo, sono in un primo tempo sedotti e poi colpiti duramente dai fatti del 1917
di Ezio Mauro

SAN PIETROBURGO Doveva essere un’eco terribile, che risaliva dal profondo della storia russa, il rumore dell’acqua che batte nelle fondamenta del bastione Trubezkoj, sotto il livello della Neva, e il rimbombo della campana sulla fortezza che sembra chiamare a un funerale tutto il giorno e anche di notte, quattro volte ogni ora. Usciti i bolscevichi, nelle celle rettangolari erano entrati i dignitari dello Zar, presidenti del Consiglio, ministri, ciambellani, dame di Corte, capi della polizia, e adesso dovevano muoversi tra un letto di ferro, un secchio, un minuscolo lavandino grigio, un tavolo con l’unica sedia. Mi sono affacciato allo spioncino di legno delle celle, per inquadrare il ribaltamento del mondo avvenuto proprio qui cent’anni fa: quando il conte Frederiks, generale, cavaliere dell’Ordine dei Serafini e ministro di Corte si sedette su questo pagliericcio, passando in poche ore dal palazzo imperiale alla rivoluzione, talmente in fretta da precipitare subito e per sempre nella demenza senile. A quello stesso spioncino il mattino del 19 maggio arrivò Aleksandr Blok con i suoi capelli folti, il colletto alto, l’amore russo per le poesie che lo circondava e lo accompagnava per tutto il Paese, convinto che lui scrivesse i suoi versi direttamente davanti a Dio. A 37 anni, era il più grande poeta russo di un’epoca di ferro, come l’aveva definita sporgendosi “su quell’abisso cupo e solitario che si chiama Pietroburgo”. Faceva sogni profondi come presagi, da cui ricavava l’immagine “di una terribile oscurità, con questa nube minacciosa che ci viene incontro”, mentre “l’Anima del mondo si vendica su di noi, che custodiamo moltissimo presente e solo una goccia di futuro”, per veder giungere infine sulla Russia “un fuoco tranquillo, che si diffonde a consumare tutto”.
Proprio quel fuoco lo ha portato qui, nella fortezza di Pietro e Paolo, prigione di tutte le Russie, chiunque comandi. È il segretario della Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini zaristi e prima degli interrogatori visiterà le celle dei trenta prigionieri, fermandosi sull’ex Capo del governo Goremykin che sonnecchia col pomello d’oro sul bastone nero e i pantaloni a righe, respirando a fatica col suo grosso naso, sull’ex ministro degli Interni Protopopov in calzoni corti e lo sguardo infantile disorientato, sulla favorita della Zarina Anna Vyrubova (le faranno una visita ginecologica per accertare che non sia stata anche l’amante dello Zar) che si regge con una stampella mentre getta le sue carte stracciate nella padella. Odore di latrina identico in tutte le celle, la stessa luce metallica al chiuso, l’angelo dorato sulla guglia che spunta all’angolo della finestra, mentre l’orologio a carillon della fortezza suona le dieci.
Solo la Russia, che per ripararsi dalla tragedia trasforma in leggenda la realtà mentre la sta vivendo, poteva affidare a un poeta la stenografia in carcere dei verbali d’interrogatorio dell’impero sconfitto dalla rivoluzione. Il nuovo potere giudicherà: ma intanto Blok guarda, e se a Palazzo d’Inverno osserva indifferente la sala del trono con tutta la stoffa rossa strappata sui gradini, nella fortezza vede il vecchio Presidente del Consiglio che perde la memoria, il vicecapo dei gendarmi Kafafov che piange, l’ex capo della polizia Belezkij che tentenna davanti alle domande, nasconde le mani in tasca, ritrae le gambe. “Tutte queste persone – dirà – non le ho conosciute nello splendore del potere, le incontro oggi nell’umiliazione. Non ho una visione chiara di quel che sta accadendo, ma per volere del destino sono stato elevato a testimone di una grande epoca”. La conclusione è scritta nei suoi taccuini: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”.
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Blok faceva sogni da cui ricavava l’immagine di una terribile oscurità Solo la Russia poteva affidare a un poeta i verbali degli interrogatori
Come molti scrittori, Blok aveva vissuto il Febbraio nel fragore futurista subitaneo, “come uno scontro tra due treni in piena notte, un ponte che si sfascia, una casa che crolla”. “È accaduto un miracolo – scriveva alla madre subito dopo la prima rivoluzione –, e ce ne possiamo aspettare altri”. “Se dobbiamo vivere – annotava con slancio una sera – ebbene, viviamo”. Poi, dopo un mese appena di interrogatori in carcere si accorgerà che i suoi nervi sono diventati “ottusi”, perché “tutti costoro, figli vivi e uccisi del mio secolo, dimorano in me”. Da qui la riflessione sulla democrazia, “non si può mai dimenticare che è cinta di tempesta”, la confessione intima (“è tutto talmente senza scampo, nell’anima e nel corpo c’è un indicibile peso, il denaro vola, la vita diventa mostruosa, turpe, insensata, depredano ovunque”), fino alla frase del rifiuto e della condanna sussurrata da un amico al telefono e riportata nel segreto del diario, di notte: “è ripugnante il paradiso socialista-piccolo borghese-bolscevico”. Poi la resa. Prima nell’anima della città: “Voci sulla chiusura di tutte le botteghe, mancano i generi di prima necessità, quello che c’è ha prezzi folli. Gelo, oscurità quasi completa. Un vecchio urla, morendo di fame”. Quindi si arrende l’anima del poeta: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio, finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco”. Lui, l’autore dei Dodici, con le Guardie Rosse che marciavano guidate da Gesù Cristo, morirà per denutrizione, per esaurimento, ma soprattutto per la sua “asma spirituale”, come la chiama Andrej Belyj, delusione e angoscia. Non scriveva più: “Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, soffochiamo tutti, anche la quiete e la libertà ci vengono tolte. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.
Ingigantita dalla sua figura e dal suono ipnotico dei suoi versi, la parabola di Blok è quella di gran parte dell’intellettualità russa, tradita e colpita dalla rivoluzione dopo essere stata sedotta: perché cresciuta nel culto del popolo, anzi con la missione di costruire nel popolo un’ideologia di ribellione al potere autocratico, tanto che Nikolaj II chiederà di cancellare dal vocabolario la parola “intellighentija”. Per questo i funerali del poeta segneranno la fine degli anni d’argento, l’inizio secolo delle avanguardie artistiche, tanto che per due settimane si parlò sottovoce nel retropalco dei teatri, nelle librerie sul lato illuminato dal sole del Prospekt Nevskij, al Club Artistico, al Circolo Musicale, alla Casa del Letterati, come se fosse morta una certa idea di Pietroburgo. Ho risalito le scale da cui il 10 maggio del ’21 Blok è sceso per l’ultima volta accompagnato dal canto funebre ortodosso, dal vento caldo che arrivava dal mare, da Belyj, Berberova, Achmatova, Zamjatin, in mezzo a centinaia di sconosciuti coi fiori e le candele in mano, richiamati dai versi senza più voce, come se la città non avesse più luce.
In quelle stesse ore, Anna Achmatova aveva saputo dell’arresto dell’ex marito, il poeta Nikolaj Gumilev, accusato di far parte dell’”Organizzazione Combattente di Pietrogrado”, e condannato alla fucilazione, nonostante le intercessioni e le richieste di grazia che a un certo punto fecero sbottare Dzerzhinskij, il Capo della polizia segreta, la Ceka: “Perché mai dobbiamo giustiziare gli altri e salvare un poeta”? Eppure all’inizio il Febbraio aveva trovato Piter dentro un sommovimento artistico senza precedenti, le due rivoluzioni sembravano parlarsi. Cinquecento film russi in produzione nell’anno fatale, il 1917, i primi attori dell’Aleksandrinskij che non ricevono più il portasigarette dorato dello Zar con l’aquila tempestata di diamanti ma vedono le orchestre che decidono di suonare senza direttore, i poeti di strada acclamati come maghi nel silenzio della sera, i pittori tra cubismo e futurismo che colorano gli alberi e trasformano le case in tele gigantesche. Per poi cominciare la notte in fondo a via Italianskaja al “Cane Randagio” (con le foto dei poeti appese al muro ancora oggi, tra i “bicchieri gelati sul tavolino e il vapore odoroso del caffè nero”), e continuarla alla Casa delle Arti dove vivevano insieme – bruciando d’inverno al fuoco del camino le vecchie carte della banca vicina – Mandelshtam, Chodasevic, Olga Forsh, e Nina Berberova a Capodanno ballava il fox trot nella sala degli specchi. Poi tutto, musica, letteratura, poesia e rivoluzione, andava a finire alla “Bashnja”, la Torre di Vjaceslav Ivanov che riceveva gli ospiti in guanti neri il mercoledì discutendo di Dioniso e di Cristo, mentre i poeti recitavano i loro versi fino all’alba, sporgendosi dai tetti per veder sfiorire il bianco della notte.
“All’assalto delle porte del paradiso/ noi avanziamo/ per gli altri abbiamo sfondato la porta” – cantava nei primi mesi della rivoluzione Vladimir Majakovskij che nel 1930 si sparerà un colpo di pistola al cuore dopo aver scritto il suo addio al “compagno governo” – “Più in alto, nostro vessillo/ falce, in un giunco di fiamma/ abbraccia il martello con l’arcobaleno del tuo arco”. “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”– aggiungeva Osip Mandelshtam, che morirà nel gulag nel ‘38 – “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille”? E Andrej Belyj spiegava convinto: “Come un colpo dal sottosuolo che tutto distrugge, arriva la Rivoluzione. Arriva come un uragano, che spazza via ogni forma, come una statua, una pietra, grandine, inondazione, cascata. Tutto batte oltre ogni limite, tutto è esagerato. La Rivoluzione si riversa nell’anima dei poeti, e da lì rinasce e riemerge nel colore azzurro del romanticismo e nell’oro del sole”. Ma Lenin diffidava, nonostante gli ardori poetici. Per lui gli intellettuali di Pietrogrado “non comprendono, non imparano, non dimenticano”, mentre l’energia culturale operaia cresce e si rafforza, emarginando l’intellighentija “che si crede il cervello della nazione, e invece è soltanto lo sterco della Russia”. Diceva che la letteratura “deve essere partigiana, la ruota e la vite della grande macchina del partito”: e per questo addirittura seguì da vicino gli studi del premio Nobel Ivan Pavlov sul riflesso condizionato, pensando di unire bolscevismo e scienza per modificare l’uomo, portando dopo i corpi anche l’anima dentro il vortice della rivoluzione.
In quel vortice del ’17 gli scrittori e i poeti russi erano finiti ad uno ad uno, sorpresi ognuno in un punto diverso della Russia e della vita, come sotto un uragano. A Boris Pasternak la notizia del Febbraio arrivò nel pieno dei suoi 27 anni, mentre correva su una slitta da Tichie Gory verso Mosca, dentro tre cappotti, affondato nel fieno, con tre cavalli che tiravano nella neve la “kibitka” coperta sui pattini. L’Ottobre per lui cominciò invece a Mosca, con una telefonata del cugino: si spara nel quartiere della Precistenka, è una vera battaglia, guai a uscire di casa. Poi era saltato subito il telefono, e Pasternak rimase isolato per una settimana, senza sapere nulla di ciò che accadeva in città ma sentendo il suono delle granate lanciate dall’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, il crepitio delle lampadine che lampeggiavano per spegnersi subito e infine l’incedere sordo e massiccio di un carrarmato che risaliva la strada: subito dopo, tornato un silenzio pauroso, lo scrittore che uscì nel suo cappotto studentesco di panno capì che la Mosca fin lì conosciuta era finita per sempre.
A Piter Zinaida Gippius – che fino a poche settimane prima riceveva vestita di bianco o di rosa, guardando gli ospiti dall’occhialino che reggeva con una stanghetta – viveva proprio davanti a palazzo Tauride, la sede della Duma, e dalle finestre chiuse per paura delle pallottole poté partecipare dall’alto alle convulsioni della rivoluzione. A Febbraio quello è l’epicentro del terremoto che scuote il Paese, passano davanti alla casa le fanfare dei reggimenti ammutinati, le prime bandiere rosse, i marinai dormono per strada, lo spazio davanti a Tauride e le vie vicine sono bloccate dalla folla, gli amici impiegano 5 ore per arrivare dalla stazione fin qui, dove quasi ogni sera sale il vecchio amico Kerenskij. Zinaida guarda: “Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Le parole e le frasi, tutto ormai ha perso di significato. Gli uomini si sono stretti un cappio alla gola, c’è nell’aria un soffio di mistero. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo”. Fuori, tram bloccati, giornali assenti, scuole chiuse, giardini sbarrati, “risplendono solo i teatri pieni zeppi e i falò delle truppe che bivaccano sulle strade”. Per la scrittrice “non è l’ora di pronunciare giudizi, è un momento terribile e insieme gioioso”. Poi ecco “gli aculei scintillanti” delle baionette, i soldati che sparano alle finestre, la fiaba che diventa “minacciosa e terribile”, su un terreno ardente. E a settembre, la profezia: “Kerenskij è un autocrate pazzo”, “i bolscevichi sono ottusi fanatici”. Poi un’ultima cena alla vigilia dell’Ottobre, frutta, baranki col cumino, vino georgiano. Quindi salta la luce, Zinaida sbarra le finestre, la strada è buia, lei scrive davanti a un mozzicone di candela. È “il potere delle tenebre: che il diavolo se li porti”.
Tutti i diavoli e i santi, dice Nina Berberova, avevano già deciso di convergere su Pietroburgo in quell’anno in cui ogni cosa sembrò precipitare di colpo: “Una folla felice, irata, esitante, un lampo che balena, lo sfacelo cruento, un patriottismo nocivo e a buon mercato, parole, parole e l’incapacità di fare alcunché”. Si stava sfasciando il vecchio ordine che il popolo disprezzava, ma si avvicinava la rovina di fasce intere di popolazione “perdendo due generazioni di intellettuali, un ce- to colto che verrà eliminato e che non si riuscirà a ricostruire nemmeno in 200 anni”. Per la scrittrice il ’17 è l’ultimo anno del ginnasio, ma anche della scoperta dei Dodici di Blok e del primo amore. In poche settimane passerà dal conforto di una casa borghese all’inferno di una povertà che non aveva mai conosciuto. Quando la famiglia, pochi mesi dopo l’Ottobre, si trasferisce a Mosca sente per la prima volta la miseria dei suoi 17 anni trascinati nella polvere e nell’afa del Bulvar senza amici, con l’ingresso nelle mense pubbliche, una stanza in coabitazione, il pomeriggio a guardare le salsicce sul marmo di un negozio in viale Smolenskij, l’umiliazione della fame, le focacce con la buccia delle patate, e nonostante tutto il conforto di vedere il paiolo con la minestra sul fuoco e di sapere che ci sono i libri alla biblioteca del Corso. Il ritorno a Piter è l’ingresso con le poesie in mano alla Casa dei Poeti, poi in quella “Nave dei folli” che è la “Casa dei Letterati”, il cappotto rivoltato e gli stivali cuciti col feltro della moquette per arrivare al Capodanno del ’22 “nella città mezza morta”, vino, musica, profumo di Houbigant“ e tutti presentivano che sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca, costretti a morire o a abbandonare la letteratura”. Finché arrivano i passaporti numero 16 e 17 per lei e Chodasevic, il marito poeta, e si può partire.
Se ne andrà anche Vladimir Nabokov, una settimana dopo l’Ottobre, per paura di un arruolamento forzato. Si chiuderà alle spalle la casa dove oggi stanno riportando alla luce gli affreschi, al numero 47 di quella via Morskaja che metteva in fila l’abitazione del principe Oginskij al 45, l’ambasciata italiana al 43, quella tedesca al 41, per arrivare infine a piazza Mariinskij. Lui sente “l’alito ardente di straordinari sconvolgimenti, un sordo brontolio dietro le quinte” già nel 1915, quando con la sua prima ragazza, Tamara, gira per Pietroburgo in ghette bianche, ma con un tirapugni nella tasca di velluto. Dopo la prima rivoluzione, ascolterà la notizia della rinuncia al trono di Mikhail tra una lezione di scherma e un’ora di boxe con monsieur Loustalot. Prima, da bambino, c’è il bacio della madre attraverso la rete sottile della veletta, i gioielli custoditi in un tramezzo dello spogliatoio e che poi in esilio verranno nascosti in una scatola di talco per essere venduti a poco a poco, il gioco al mattino con Volkov l’autista, per capire se lo accompagnerà a scuola con la Benz o con la nuova Wolseley munita d’interfono, che sarà smontata e nascosta in campagna dopo la rivoluzione per paura della confisca. Il padre è segretario del Consiglio dei ministri nel primo governo provvisorio, la famiglia ha tre tenute di campagna, uno stemma araldico con due leoni, 50 persone a servizio, un valletto che sta in piedi tra i pattini della slitta guidata da Zachar, nel suo pastrano azzurro imbottito d’ovatta.
Tutto questo si rovescia fino a scomparire di colpo, quando i marinai bolscevichi vogliono arrestare Nabokov padre che riesce a scappare verso la Crimea con uno zaino che gli porta il cameriere Osip all’ultimo momento: tutta la vita che resta è ormai lì dentro, insieme con i sandwich al caviale del cuoco Nikolaj Andreevic. Svanisce la geografia familiare di Piter, la scuola, il negozio inglese sul Nevskij, cambiano a Jalta gli odori e i colori, è nuova anche la preghiera del muezzin ogni sera, il raglio di un asino al tramonto. Arriveranno fin qui i bolscevichi, e allora da Sebastopoli la famiglia Nabokov salperà per il Pireo, prima tappa dell’esilio, fino alla pallottola fascista che nel ’22 a Berlino ucciderà il padre, curvato per proteggere il suo maestro Miljukov. Per Vladimir Nabokov comincia la vita da émigré, che lui definirà di indigenza materiale e di lusso intellettuale: “Con pochissime eccezioni tutte le energie creative di orientamento liberale, poeti, narratori, critici, storici, filosofi, lasciavano la Russia di Lenin. Quelli che non lo facevano, o avvizzivano laggiù, o adulteravano il proprio talento uniformandolo ai dettami politici di Stato”.
Non tutti, o almeno non sempre. Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ’17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin –, ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?
In quel luglio del ’17, non sono ancora gli intellettuali a preoccupare Vladimir Ilic. È titubante (la Pravda uscirà con uno spazio bianco in prima pagina per l’indecisione del partito) quando scoppia la rivolta del Primo Reggimento Mitraglieri che si rifiuta di partire per il fronte, quando si aggiungono i 30 mila operai delle officine Putilov, quando arrivano i marinai di Kronstadt che affollano palazzo Tauride chiedendo tutto il potere ai Soviet. Ci sono spari tra l’esercito e le Guardie Rosse, ma Lenin rientrato in fretta dalla Finlandia pensa che il tempo dell’insurrezione finale non sia ancora venuto, perché non è certo l’appoggio delle truppe al fronte. Lo scossone porta alle dimissioni del governo L’vov, Kerenskij diventa Primo Ministro e lancia subito una campagna contro Lenin, Zinovev e Kamenev, con tre mandati di cattura per intelligenza col nemico e tradimento al soldo della Germania. Lenin entra subito in clandestinità, fuggendo verso la frontiera finlandese dopo essersi tagliato il pizzo e i baffi, grazie a una chiamata d’emergenza nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, dove si poteva telefonare alla rivoluzione componendo il numero 24-643.
Anni dopo, Lenin ricorderà queste avventure estreme, tentando un bilancio quando Gorkij gli chiederà conto dell’oppressione di tanti intellettuali: “la nostra generazione ha compiuto un’impresa meravigliosa. La crudeltà della nostra vita, resa necessaria dalle circostanze, sarà compresa e perdonata. Tutto sarà compreso, tutto”. Ma basterebbe solo leggere il Requiem di Anna Achmatova, per capire che non può essere così: “Di morte sopra noi stavano stelle/ e innocente la Rus’ si contorceva/ calpestata da stivali sanguinosi”. Si cammina piano ancora oggi nella casa della poetessa, in fondo al cortile dove giocano i bambini, davanti alle finestre dove scrisse “come un fiume io fui deviata/ mi deviò la mia era poderosa”. Nel salotto c’è ancora il posacenere rotondo di peltro dove finivano i versi del Requiem, scritti in poche righe su un foglietto per gli amici in visita che in silenzio li imparavano a memoria, perché non si potevano nemmeno pronunciare, nel terrore che qualcuno ascoltasse. Poi lei accendeva un fiammifero, e li bruciava qui dentro. I versi nel fuoco per diventare polvere di carta, prima di ritornare parola, ma settant’anni dopo. Dopo la cenere russa della poesia.