Repubblica 12.7.17
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati
IL
FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza
comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i
simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo
si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella
lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere
spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente
radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il
contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti
liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine
dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità
comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo
conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se
questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo
rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico — le
fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a
chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta,
sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene
fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi
di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le
proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i
diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia
nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è
arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più
sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione
accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non
probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato
la società nazionale nel ventennio. Nei paesi di cultura cattolica, dove
il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la
dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di
una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la
nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione
dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non
sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I
diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare,
ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di
solitudine — definisce la relazione di libertà della persona in un
rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni
sociali strutturate — senza quei corpi intermedi associativi, dalla
famiglia al mutualismo locale — essi sono sinonimo di una libertà troppo
faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i
liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla
giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati
dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la
rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel
che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un
ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente,
dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente.
Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe
miope non vedere. Il primo corrisponde al declino di legittimità della
politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a
destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che
fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando
consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita
politica — la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno
che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla
mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è
povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta,
di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo
luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale
connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre
parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato
dall’atomizzazione individua-listica, dalla solitudine delle persone,
dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare,
per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni
sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a
sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la
storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che
ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie.
Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno
presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori
del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la
nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti,
pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al
vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela
anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci
fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e
correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione
sociale e del potere politico dei cittadini democratici.