giovedì 13 luglio 2017

La Stampa 13.7.17
Renzi nega il golpe, lite con Letta
Il segretario: “Il Pd decise di cambiare cavallo. Nessun complotto, ma lui mise il broncio”
La replica: “Disgustoso, mantengo le distanze. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare”
di Fabio Martini

La “presa” di palazzo Chigi in quel convulso febbraio del 2014 era diventata la leggenda nera più infamante per Matteo Renzi, la prova provata della sua inaffidabilità: passata, presente e futura. Per questo l’ex segretario del Pd, da mesi, aveva annunciato che avrebbe reso nota la sua versione dei fatti nel libro “Avanti”, finalmente uscito ieri. E il racconto di quei giorni, fatto dal principale protagonista, restituisce una sequenza diversa dalle ricostruzioni di tanti osservatori che, come scrive Renzi, avevano descritto l’uscita di scena di Enrico Letta «come un golpe». L’attuale leader del Pd racconta che sin dal dicembre 2013, il capofila della minoranza bersaniana Roberto Speranza gli aveva confidato: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare».
Poi si arriva al febbraio 2014: «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché il governo Letta non si muoveva». E presentando il suo libro, Renzi ha rincarato: «È stata un’operazione voluta in primis dall’allora minoranza del Pd. Dalla Direzione del partito, in streaming, si capisce che la mia non è una ricostruzione ex post». E a quel punto - racconta Renzi - il presidente della Repubblica Napolitano «mi convoca informalmente al Quirinale, mi invita a cena nel suo appartamento, capisco che ha deciso di rispondere alle sollecitazioni non solo del Pd». Conclusione: «Quello che è stato definito “complotto” ha un nome più semplice: si chiama democrazia».
Come in tutte le ricostruzioni fatte da una delle parti in gioco, anche quella di Renzi può presentare significativi omissis in tornanti decisivi ma la sostanza corrisponde a quel che accadde in quei giorni: tutto il Pd, compresa la minoranza, “licenziò” in tronco Enrico Letta, “chiamò” Matteo Renzi e il capo dello Stato registrò la staffetta. Certo, Pier Luigi Bersani era momentaneamente fuori gioco per motivi di salute, ma tutti gli altri, da D’Alema ad Epifani, da Speranza a Fassina accesero il semaforo verde.
Alla ricostruzione, l’ex premier aggiunge anche alcuni apprezzamenti personali su Letta, ma in questo caso la qualità del racconto cambia. Al suo predecessore, che in questi tre anni gli ha riservato critiche politiche molto taglienti, Renzi indirizza apprezzamenti di questo tipo: «L’unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie, nel 2007, aveva raccolto la miseria dell’11% di voti». E ancora: «Non è un caso se nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome di quell’esecutivo, se escludiamo l’aumento dell’Iva». E ancora: una volta uscito di scena, «Letta entra in modalità broncio». E in un momento che «per definizione deve essere giocato all’insegna del fair play», la consegna della campanella «segna un investimento del premier uscente» che assumendo un atteggiamento brusco, fa la parte della vittima, che funziona sempre». Meno argomentata la spiegazione del celeberrimo «Enrico stai sereno», per tanti prova provata dell’inaffidabilità di Renzi, che scrive: «L’idea che “Stai sereno” sia una fregatura mi ferisce. La cosa che più mi fa male è l’accusa di non aver mantenuto la parola data».
A Renzi che, per una volta dà lezioni di stile, Enrico Letta risponde con una nota durissima: «Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare». Un duello con lo sguardo rivolto al passato. Ma nel tentativo di rimpicciolire la figura di Letta, in Renzi ci può essere anche il tentativo di dare un colpo ad un personaggio come Letta, che prima delle elezioni potrebbe diventare un testimonial del disagio di una parte dell’elettorato del Pd verso la leadership renziana.