il manifesto 7.7.17
Il disastro dell’Europa «a due farse»
Unione
europea. Dalla farsa sulla «solidarietà» a quella neocoloniale: il
«Piano Merkel» vuol dire aiuti, sostegno vero, soccorso e riparazioni
alle malefatte della nostra economia di rapina? No, stesso ed eguale
coinvolgimento degli organismi finanziari internazionali che elargiscono
fondi al Continente africano solo in cambio di ulteriori cessioni di
sovranità
di Tommaso Di Francesco
Così inizia Il
Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte di Carl Marx: «Hegel osserva da
qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e grandi personaggi della
storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato
di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», e
Friedrich Engels nella lettera a Marx che aveva ispirato la sua
citazione, sottolineava «una farsa pidocchiosa».
Non ci sarà la
«farsa pidocchiosa» di una nuova guerra austro-ungarica, l’invio di
carri armati e soldati alla frontiera annunciati dal ministro della
difesa austriaco. È evaporata al sole dell’estate la manovra elettorale
di Vienna intesa a cavalcare, come in ogni capitale europea, la
xenofobia che si vuole dilagante.
Il traballante premier austriaco
Christian Kern, ha fatto marcia indietro, visto anche il fatto che dal
Brennero purtroppo di migranti ne passano ormai sempre meno.
Le
truppe austro-ungariche non metteranno a repentaglio i nostri confini.
Diciamo austro-ungariche perché da almeno due anni Vienna è diventata
capofila neo-imperiale dei «Quattro di Visegrad», Slovacchia, Polonia,
Ungheria e Repubblica ceca, il fronte dei più refrattari contro i
profughi e allo stesso tempo i Paesi europei che rimettono in
discussione, non solo sui migranti, i legami con l’Ue cancellando
diritti e principi democratici, contro le opposizioni e ogni minoranza.
Ma
la marcia indietro non riesce a nascondere il disastro di quella che ci
ostiniamo a chiamare Unione europea, naufraga e profuga di se stessa
rispetto alle promesse con cui si è costituita. Perché ecco che s’avanza
un’altra «farsa pidocchiosa», ben più pericolosa.
Quella
neo-coloniale, ma presentata come svolta salvifica dal governo italiano e
dal ministro Minniti: è l’«aiutiamoli a casa loro in Africa », già
parola d’ordine delle destre razziste, ora programma di Bruxelles
formalizzato nel «Piano Merkel», in discussione al vertice europeo che
si è aperto ieri a Tallinn in Estonia, dove la proposta di
regionalizzare gli approdi dei migranti viene respinta da Francia,
Spagna e ora anche dalla Germania.
Il «Piano Merkel» vuol dire
aiuti, sostegno vero, soccorso e riparazioni alle malefatte della nostra
economia di rapina? No, stesso ed eguale coinvolgimento degli organismi
finanziari internazionali che elargiscono fondi al Continente africano
solo in cambio di ulteriori cessioni di sovranità (una sovranità che non
c’è quasi mai stata), di privatizzazioni, di rinnovate concessioni alle
multinazionali, di commerci di nuove sofisticate armi ad inasprire
altri conflitti – come scriveva ieri sul manifesto Giulia Franchi di
Re:Common – e a gravare i già smunti bilanci delle nazioni africane,
proprio lì da dove fuggono i cosiddetti «migranti economici». Sarebbe
stato sbagliato chiamare questo programma «piano Marshall».
Quello
fu davvero il primo piano – strumentale durante la Guerra fredda –
d’investimenti americani in Italia e in Europa. Ma in Africa i nostri
investimenti di rapina ci sono già e aiutarli a casa loro dovrebbe voler
dire cambiarne natura, mezzi e scopo. Ora Minniti lamenta il fatto che
alla Turchia per tenerci i profughi in campi di concentramento, abbiamo
dato due miliardi, «invece alla Libia le briciole».
Ma prima della
guerra della Nato del 2011, la Libia era il principale Paese
investitore in infrastrutture e opere civili dell’intera Africa e con il
reddito più elevato del Continente nero, inoltre poneva all’ordine del
giorno il problema del cambio denaro-materie prime non più solo in
dollari ma in euro, con addirittura la possibilità che nascesse una
divisa africana.
Ora che cos’è diventata la Libia? E soprattutto, a
quale brandello della lacerata Libia dovremmo dare miliardi come per la
Turchia del Sultano Erdogan? A Sarraj che conta meno del sindaco di
Tripoli o a Khalifa Haftar sul trono a Bengasi all’ombra di Al-Sisi e
Francia, alle milizie di Misurata o alle guardie petrolifere, o al
figlio di Gheddafi, Seif al Islam?
Intanto continuiamo a
pompare-rapinare per noi petrolio e gas dai preziosi pozzi libici.
Intanto la frontiera dell’Europa «deve diventare il Niger», più a sud
della Libia, «lì e prima dobbiamo fermarli», in Mali (dove la guerra
continua) e in Ciad. Nessuno spiega come per 5mila chilometri di
frontiera che delimita il sud del Sahara. Ma questa è la «nuova» idea.
E
la Francia, che con il Bonaparte-Macron rompe la solidarietà con
l’Italia e dice «no ai migranti economici», con questa «solidarietà» non
a caso è d’accordo. Parigi ha semplicemente in mano le economie
dell’area, detiene praticamente le chiavi delle banche centrali di
questi Paesi e l’intera loro economia, controlla le ricchissime fonti
minerarie.
Che c’è da aggiungere? Magari un prezioso commercio di
armi (finché c’è guerra!), il rafforzamento delle già corrotte
leadership e in più la disponibilità dei Paesi africani diventati il
«nuovo confine europeo» a farsi «campo di concentramento» per chi fugge
da guerre e da miseria. Non opere riparatrici e di bonifica dello
sfruttamento, occidentale e dei Paesi sviluppati, delle risorse
africane.
Guardate come le multinazionali occidentali del petrolio
hanno ridotto il Delta del Niger, grande quasi un quarto dell’Italia:
un pantano immenso di bitume e scarti del grezzo di prima estrazione che
ha compromesso le falde acquifere costringendo alla fuga centinaia di
migliaia di contadini nigeriani: e la Nigeria risulta non a caso al
primo posto tra i paesi di provenienza dei profughi africani. Invece
offriamo un altro scambio ineguale, un «piano» per allargare l’universo
concentrazionario di un intero continente, nel disprezzo di quelli che
vantiamo, ma solo per noi, come i beni più preziosi: i diritti umani e
la democrazia.