il manifesto 6.7.17
Utopie reali in attesa del sole dell’avvenire
Erik
Olin Wright. Intervista al presidente dell’Associazione statunitense di
sociologia. Docente all’università del Wisconsin è diventato
l’animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo,
sostenendo che Uguaglianza, libertà, partecipazione devono diventare i
principî guida di cooperative, economia solidale, istituzioni e
esperienze di mutuo soccorso
di Devi Sacchetto
«È
sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle
alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni
complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi
alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e
sicuramente frutto di congetture. Questo è uno dei motivi per cui Marx è
sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a
pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come
naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente
presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione
statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di
classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico.
Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è
diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi
delle forme economiche alternative al capitalismo.
Abbiamo
incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha
partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways
Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto
incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di
Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).
Negli
ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla
produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto
«utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi
inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre
istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di
elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel
mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori:
uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà.
Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi
forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In
secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per
le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano
un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che
potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia
profondamente e solidamente democratica.
Cosa significa in pratica?
L’utopia
di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori
emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici
per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo
interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali
comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo
imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i
valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci
partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche,
le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.
Il punto
saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse
si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe
facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica
l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere
organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero
espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base
incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee
legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.
La strategia di
base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di
strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie
capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo.
Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure
servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I
movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a
migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle
condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento
delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo
bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di
emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e
nella società civile.
Questi mattoni sono anche nell’interesse di
un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con
l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.
L’anticapitalismo
è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che
si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e
diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la
disabilità e l’emarginazione.
I movimenti sociali più recenti
negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni
relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di
classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio
punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale,
allora la classe deve essere importante, perché una delle
caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di
classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che
l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.
L’identità
di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti
indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della
frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici
(l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche
neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle
responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di
relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la
determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del
conflitto.
Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno
sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene
del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche
aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo
contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi
attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che
arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime
ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche
importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano
radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore
spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto
riguarda la tassazione.
Quando la socialdemocrazia raggiunse il
suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva
lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei
lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento
critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà
di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo
chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».
Negli
ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti
proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i
lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe
operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono
così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come
un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre
le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni
razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca
nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la
rigenerazione del movimento operaio.
Ma sono divisioni che devono
essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi,
sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è
chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il
lavoro migrante.