il manifesto 14.7.17
La storia italiana passata al setaccio
Ritratti.
La scomparsa dello studioso inglese Denis Mack Smith che scrisse sul
nostro Risorgimento e sul fascismo. A mediare il rapporto con il nostro
paese concorse Benedetto Croce
di Claudio Vercelli
Se
ne è andato a 97 anni, dopo una vita passata a studiare l’Italia,
l’Europa e, in misura di molto minore, la storia mondiale. Soprattutto
si era concentrato sulla nostra Penisola, delle cui vicende più recenti
era divenuto un raffinato conoscitore. Denis Mack Smith, nato a Londra
nel 1920, dopo essersi laureato a Cambridge, aveva conosciuto una lunga e
fortunata carriera accademica, diventando membro di istituzioni
prestigiose e celebrate, come la British Academy, l’All Souls College di
Oxford, il Wolfson College.
IL SUO PROFILO INTELLETTUALE, e il
suo stesso aspetto, entrambi al medesimo tempo dinoccolati, austeri ma
anche divertiti, sembravano contraddistinguerne l’appartenenza a una
élite di pensiero depositaria delle vestigia di grandezza
dell’Inghilterra. Senza eccessive pretese egemoniche, ma con un
calcolato aplomb oxfordiano. In realtà, proveniva da una famiglia di
ceto medio, molto distante dalle classi dirigenti coloniali e dal
notabilato che avevano contrassegnato la politica del suo Paese. Così
come il suo liberalismo aveva accenti a tratti radicali.
L’Italia
l’aveva conosciuta e amata sui banchi del college, per poi frequentarla,
a guerra conclusa, in lungo e in largo, non prima di essersi laureato
con una tesi dedicata al nostro Risorgimento. Il suo primo impatto fu
con una nazione dilacerata dagli esiti del conflitto. A mediarne il
rapporto concorse attivamente Benedetto Croce, che gli aprì i battenti
di casa, la sua biblioteca e lo accreditò presso il suo nutritissimo
gruppo di amicizie e conoscenze. Queste ultime, insieme ai ripetuti
colloqui con Don Benedetto, svoltisi in una sorta di impasto tra
italiano e napoletano, si sarebbero rivelate strategiche nella
formazione del pensiero dello storico anglosassone. Il quale, dopo avere
calcato gli archivi italiani, essersi impratichito con la nostra
storiografia e acclimatato, ma non addomesticato, ai regimi culturali
del paese, nel 1959, per la traduzione di Alberto Aquarone, pubblicò la
sua Storia d’Italia, cento anni che andavano dall’unificazione al
secondo dopoguerra. La casa editrice era Laterza, allora presieduta
dalla figura carismatica di Vito, e il volume, destinato nelle sue
numerose riedizioni a conoscere una straordinaria diffusione e un
insperato successo di pubblico, fondò una sorta di canone narrativo
delle vicende peninsulari. Si trattava di un lavoro che incontrò da
subito la rigida opposizione di una cospicua parte degli studiosi
italiani. Così nel caso di un indomabile Rosario Romeo, ma anche di
Federico Chabod e dello stesso Gaetano Salvemini, che ben prima della
sua pubblicazione avevano identificato, nella stessa struttura del
testo, vizi di sostanza.
L’IMPRONTA al medesimo tempo divulgativa,
assertiva e vivacemente critica era messa alle corde di un
preponderante giudizio di superficialità, che gli veniva attribuito come
stigma inemendabile. Gli si rimproverava di affastellare fatti e
personaggi, senza badare troppo a coerenze di interpretazioni,
privilegiando semmai il ricorso ai bozzetti in soggettiva e pervenendo a
giudizi di valore scarsamente comprovabili e comunque difficilmente
condivisibili.
L’ANEDDOTICA DI CONTRO ai grandi quadri
interpretativi, in altre parole. Irritava anche la sua lettura del
Risorgimento, al netto di mitografie cristallizzate ma anche con un
angolo visuale attento alle sensibilità europee. Vito Laterza aveva
colto le opportunità critiche e anche polemiche che il libro portava con
sé, laddove queste si traducevano sia in una breccia rispetto
all’acribia della storiografia di taglio più strettamente accademico sia
a un mercato di lettori che reclamava opere nuove, innovative nel
linguaggio e nei contenuti.
Denis Mack Smith stava dentro l’uno e
l’altro registro, cosa che mantenne nella sua ricchissima produzione
bibliografica che arriva fino agli anni più recenti. Di certo irritavano
le sue conclamate simpatie per figure «rivoluzionarie» come Garibaldi e
Mazzini, di contro ai giudizi severissimi nei confronti di Cavour,
della classe politica liberale e, soprattutto, della monarchia sabauda,
dipinta, soprattutto nella persona di Vittorio Emanuele II, come una
struttura feudale e dispotica, quasi amorale, senz’altro reazionaria.
Sul fascismo lo studioso avrebbe poi licenziato sia una corposa
biografia dedicata a Mussolini, pubblicata nel 1981 che, una decina di
anni dopo, una indagine sulle Guerre del Duce.
PRECEDENTEMENTE,
aveva già aperto un vero e proprio conflitto nei confronti di Renzo De
Felice, accusandolo di andare verso i pericolosi lidi di una eccessiva
condiscendenza culturale verso il capo fascista. Per Mack Smith il
problema di fondo rimaneva la fragilità delle élite liberali italiane.
Da ciò, e dalla incompiutezza dei processi di modernizzazione, faceva
derivare le fortune del fascismo. Dello storico britannico rimane la sua
solida adesione al piglio narrativo tipico di certa scuola britannica.
Ripresa dal suo più importante allievo, Christopher Duggan.