il manifesto 14.7.17
Luigi Ferrajoli: «Contro le diseguaglianze ci vuole il reddito universale»
Rapporto
Istat sulla povertà 2016. Intervista al filosofo e giurista Luigi
Ferrajoli: «La povertà dilagante è uno degli effetti delle
diseguaglianze create da politiche che hanno soppresso i vincoli del
mercato». «240 miliardi di euro trasferiti dal lavoro al capitale, ora è
giunto il momento di restituire il maltolto».
intervista di Roberto Ciccarelli
Luigi
Ferrajoli, in dieci anni la povertà in Italia è raddoppiata. Quali sono
state le politiche che hanno generato questo fenomeno?
Nasce da
politiche che hanno soppresso i vincoli ai poteri del mercato che sono
diventati poteri assoluti e selvaggi, hanno provocato in tutto il mondo,
e non solo in Italia, un trasferimento di quote di Pil dal lavoro al
capitale, dai poveri ai ricchi. Luciano Gallino calcolò nel suo ultimo
libro che negli ultimi anni 240 miliardi di euro, il 15% del pil, sono
stati trasferiti al capitale. È un fenomeno gigantesco, sintomo di un
ribaltamento del rapporto tra politica e economia. Non è più la politica
che governa la economia, ma è l’economia che detta regole alla
politica. La politica ha favorito questo processo liberalizzando i
capitali e abbattendo le garanzie del lavoro e i salari, cancellando i
diritti.
Di recente è stata approvata una prima misura contro la povertà assoluta. La ritiene adeguata?
La
forma più in accordo con il costituzionalismo, l’universalità dei
diritti fondamentali e la dignità della persona è il reddito universale.
Di fronte a disuguaglianze che concentrano nelle otto persone più
ricche del pianeta la stessa ricchezza della metà più povera della
popolazione mondiale, una politica degna di questo nome dovrebbe
redistribuire le ricchezze sterminate esistenti. Questa concentrazione è
l’effetto di un ‘iniqua redistribuzione del reddito da parte del
mercato. Per cambiare direzione occorrerebbe perlomeno la garanzia di
un’equa retribuzione minima per chi lavora, stabilita dall’articolo 36
della Costituzione, e un reddito minimo garantito per chi non lavora
previsto dall’articolo 38. Occorrerebbe insomma restituire il maltolto,
non favorire una crescita delle diseguaglianze.
La nostra
Costituzione afferma che la dignità della persona si afferma anche nel
lavoro. Anche le statistiche Istat dimostrano che anche quando si lavora
si continua a essere poveri. E la «trappola della precarietà» colpisce i
nuclei familiari più giovani. Come si può rispettare questo principio?
Il
lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, è il fondamento della
Repubblica. Perciò, non è una merce, ma ha un valore. Sopprimere la
stabilità del lavoro con la precarietà significa sopprimere questo
fondamento della nostra democrazia. C’è una massima di Kant che andrebbe
ricordata ai nostri governanti: «Ciò che ha prezzo non ha dignità, ciò
che ha dignità non prezzo». Se ha valore, non ha un prezzo, e perciò non
si può licenziare una persona in cambio di una manciata di mensilità
come ha fatto il Jobs Act cancellando l’articolo 18. Così si distrugge
la dignità della persona. Questa riforma ha eliminato la garanzia su cui
si regge il nostro assetto costituzionale: l’intrinseca dignità del
lavoro, trasformato in merce.
I populisti usano la povertà degli
italiani contro quella degli stranieri, al punto da negare i loro
diritti fondamentali. Come ribaltare questo discorso?
È la
strategia di tutti i populismi, a cominciare da Trump: mettere i
penultimi contro gli ultimi, i poveri contro i migranti. Si ribalta la
direzione della lotta di classe: non più il basso contro l’alto, ma il
basso contro chi sta ancora più in basso. Così si fomenta la lotta tra i
poveri e la guerra contro i poverissimi: i migranti, ad esempio. Vorrei
ricordare che il diritto di migrare è il più antico diritto naturale
teorizzato nel 500 da Francisco de Vitoria per giustificare la
colonizzazione spagnola e lo sfruttamento dei popoli. Da allora è
rimasto una norma del diritto internazionale che ha giustificato le
rapine che l’Occidente ha fatto in tutto il mondo. Il diritto di migrare
è stato un diritto universale riconosciuto a tutti, ma asimmetrico. Nel
senso che solo gli europei potevano di fatto esercitarlo e non certo i
popoli colonizzati. Oggi che il flusso migratorio si è ribaltato e sono
gli altri popoli a migrare, questo antico diritto è stato rimosso e il
suo esercizio è stato convertito nel suo opposto, in un reato. Le leggi
odierne sull’immigrazione esibiscono questa eredità razzista.
I
tagli e le politiche di austerità hanno aggredito un altro diritto
fondamentale: la sanità. Dobbiamo rassegnarci alla dismissione del
pubblico e alla sua gestione privatistica?
Assolutamente no.
Questa azione insensata non può cancellare il diritto alla salute, che è
un diritto costituzionale, base dell’uguaglianza, e perciò universale e
gratuito. Una politica come quella dei ticket, insieme alla
precarizzazione del lavoro e delle tutele, hanno spinto 11 milioni di
persone a rinunciare alle cure anche fondamentali perché non hanno le
risorse finanziare. Senza contare che la somma ricavata dai ticket è
ridicola: 4 miliardi su 110 di fondo nazionale.
Nel Lazio esiste
una vertenza esemplare della situazione che descrive. Dopo anni di
lotte, ai lavoratori esternalizzati della Sanità regionale è stato
riconosciuto il lavoro di anni. Avranno un punteggio che potranno
utilizzare nei prossimi concorsi. Il governo ha impugnato davanti alla
Corte Costituzionale la legge regionale. Che ne pensa?
È una
decisione giuridicamente infondata perché la legge regionale non è
subordinata alla legge statale. Tra l’altro la legge statale permette
questi riconoscimenti a chi lavora presso le Asl e non solo a chi lavora
alle loro dirette dipendenze. La legge in questione estende le tutele
del lavoro sulla base del riconoscimento di titoli professionali. È
insensato sanzionare una legge regionale a causa di una modestissima
norma che dà un punteggio preferenziale a chi già lavora da anni nel
settore e ha una professionalità attestata dalle stesse istituzioni. Gli
unici a essere danneggiati saranno i lavoratori precari ed è
inaccettabile.
Cosa dovrebbe fare la Regione Lazio?
Mi
auguro che difenda la sua legge davanti alla corte costituzionale
sperando che dia torto al governo, sulla base di argomenti anche
soltanto formali; se non altro a difesa dell’autonomia e della potestà
legislativa della Regione.
***
Luigi Ferrajoli è uno dei
massimi teorici del diritto. Negli anni Sessanta ha partecipato alla
fondazione di Magistratura Democratica, è stato magistrato presso la
pretura di Prato fino al 1975 . Dal 2014 è professore emerito di
filosofia del diritto a Roma Tre. È autore di più di 30 libri tradotti
in tutto il mondo. Ha scritto capolavori come « Diritto e Ragione.
Teoria del garantismo penale» (1989) e «Principia Iuris. Teoria del
diritto e della democrazia» (3 voll.) (2007)