Il Fatto 8.7.17
Pirandello, il fascino del disinganno dietro a tutto il suo Caos
150
anni fa in Sicilia nasceva uno dei più grandi letterati della cultura
italiana, Nobel nel 1934: i suoi testi tradotti nel mondo
di Pietrangelo Buttafuoco
L’involontario
soggiorno sulla terra di Luigi Pirandello inizia il 28 giugno 1867,
giusto 150 anni fa. L’uomo della distruzione dell’Io – Uno, nessuno e
centomila – non gode della totale disillusione di attribuirsi, senza
rimorso, il fallimento sul meglio delle sue stesse illusioni.
E’
l’infelicità – com’è facile a intendersi – a ghermirlo. Nel giorno dopo
giorno della realtà, fino all’ultimo – all’ombra della bella pergola
sull’incannucciata del Caos, a casa sua – Pirandello gusta lo sfascio
del disinganno: “Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che
n’avete un altro davanti.”
Si chiude la porta alle spalle – è
ancora bambino, quindi studente a Bonn, poi promettente letterato a
Roma, infine è in Svezia, insignito del premio Nobel per la letteratura –
e la cupa malia di un destino doppio, il volto e la maschera, gli rende
grave il peso di ogni cosa.
In una dedica – “a Marta Abba, per non morire” – Pirandello fronteggia l’estenuante mutevolezza dell’apparire.
Lei
è l’amore suo mai vissuto, la musa per cui lui scrive, l’attrice che
sul palcoscenico del Teatro Argentina, a Roma, durante le prove gli sta
accanto al modo che conosce solo lui e nessun altro. E lei però non è
adesso polvere accanto a lui, all’ombra del suo pino, ad Agrigento,
segnata ai posteri con quella “rozza pietra” che per essere tale – in
forma di sepolcro – è di certo chic, non convenzionale, ma è tomba di
un’anima sola. E solitaria.
L’albero, erto a modo di Croce, lascia
passare in silenzio la morte ma non certo l’angoscia i cui artigli
invisibili – dal dicembre del 1961, quando dal cimitero del Verano le
ceneri di Pirandello, vengono traslate in Sicilia – sussurrano ansia
alle scolaresche in gita d’istruzione. E’ un’inquietudine che solo il
sentimento del contrario, visitando la casa dello scrittore, può
sciogliere nell’esito tutto umoristico di un foglio esposto, una
reliquia tutta di comicità.
Ecco la storia: è il nove novembre
1934 e Luigi Pirandello – Accademico d’Italia – apre l’uscio e accoglie
in casa una moltitudine di cronisti, operatori di ripresa dell’Istituto
Luce, fotografi, funzionari di polizia e autorità prefettizie.
L’Agenzia
Stefani comunica la notizia appena diramata dalla Casa Reale di Svezia,
l’autore di Novelle per un Anno, di Maschere Nude, del Fu Mattia Pascal
e di tante altre opere apprezzate nella scena internazionale, è
insignito del premio Nobel per la Letteratura.
Affollati
all’entrata, stanno ad attendere con facce ridenti gli accompagnatori,
gli autisti, i curiosi e i vetturini che hanno lasciato le loro
carrozzelle dove la traversa si veste di spuntoni e siepi. La petulanza
degli entusiasti è insoffribile e Pirandello, che acconsente alla
richiesta di fabbricare un’istantanea e un filmato che lo colga “dal
vero”, così da raccontare al mondo la giornata operosa del sommo
artista, batte sui tasti della macchina da scrivere – pesta al modo suo,
proverbiale, con un solo dito – e per 27 volte, senza che né i
fotografi e neppure i cameraman se ne accorgano, scrive la parola
pagliacciate (con 24 punti esclamativi, un “paglia”, due tentativi di
“pppp” e qualche “pagliaxxtte”).
L’unico filmato “dal vero” è quel
foglio. L’esistere oltre l’apparire. La maschera, nella finzione, svela
l’estraneo inseparabile che vive la condizione di ognuno. E a ciascuno,
nel teatro visibile della storia, spetta esserci e sembrare
contemporaneamente. E’ quel sentirsi vivere, oltre le convenzioni
sociali, nella vita che non conclude.
La realtà d’oggi è
l’illusione di domani. La parola ad Anselmo Paleari, la teoria della
lanterninosofia, da Il Fu Mattia Pascal: “Nell’improvviso bujo, allora è
indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua,
chi va di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la
via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non
possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran
confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la
bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele”.
L’illusione
di oggi non è mai la realtà di domani. Alla rappresentazione s’affianca
sempre un suo riflesso: la rappresentazione della rappresentazione. Ben
tre corde – quella seria, quella civile e quella pazza, e sono quelle
del Berretto a Sonagli – si fanno carico dell’intera coscienza giusto a
impedire agli uomini quello che incombe sugli animali: l’immediata
risoluzione del bramare. Pirandello – l’uomo che nel distruggere l’io
diventa aggettivo – indica nella messa in scena pirandelliana la strada
sbagliata da cui non c’è più uscita.
Chi scansa l’ora, scansa il
pericolo, e Leonardo Sciascia, in Alfabeto Pirandelliano, alla voce
psicoanalisi – dove Michel David lamenta nel pur cervellotico don Luigi
un ritardo rispetto agli sviluppi delle scienze – può ben rallegrarsi.
“Nel caso di Pirandello il proverbio è di splendente verità: l’avere
scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna.”
Pirandello,
di formazione culturale germanica, più che francese, rasenta infatti
quegli stessi Holzwege (I sentieri interrotti di Martin Heidegger) che
nella seconda metà del Novecento inoltrano l’estetica e la teoretica
nell’aurora esistenzialista e nella fenomenologia.
Acuto
scandagliatore dei segni, Pirandello non si sottrae all’incontro con
Walt Disney, e tutto quel suo teatro – il suo prodigarsi perfino da
capocomico, a farsi complice di Angelo Musco, ossia il supremo artista
del riso a lui contemporaneo – non è un solco dove lui sta da epigono ad
altri, fosse pure Carlo Goldoni o William Shakespeare, bensì dimora,
luogo che dà origine.
Ancora una citazione dall’Alfabeto di
Sciascia, giustappunto la voce teatro: “‘Cominciando, si era fermato su
due parole ignote; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola
idea di quel che volessero dire’. Le parole sono ‘tragedia’ e
‘commedia’: e Borges immagina lo smarrimento di Averroè quando,
traducendo la Poetica di Aristotele, vi si imbatte. Come poteva
penetrare il significato di quelle due parole, se tutto l’Islam non
aveva nozione del teatro? Così – come ancora nell’Islam di cui Agrigento
era parte – Pirandello il teatro lo inventa. Dirà Pitoëff: ‘Il teatro
era in lui, egli era il teatro’”.
È teatro, dunque, il Pirandello
che disegna il profilo elegante di Rossella Falk nell’allestimento dei
Sei personaggi in cerca d’autore del 1954, con lei c’è – un monumento –
Romolo Valli, ed è canone quello che si genera dall’orchestrazione di
regia, parola e disinganno.
Com’è facile intendere, il fallimento
sul meglio delle nostre stesse illusioni è nell’attesa, nell’assenza,
nell’istante, nel compimento degli addii, nello struggimento di bellezza
e grazia e nel mai più.
Il cervello nulla può, è come un
mulinello, e l’amore muta in disperazione, fa bottino del cuore e lo
incatena. A Marta Abba, “per non morire”, Pirandello destina quel che
riserva a se stesso. Il mai più. Lo esprime in Romanza di Liolà ed è la
più bella delle serenate.
Con Nicola Piovani, i versi, hanno
trovato uno spartito dove poter volare (l’esecuzione più bella è quella
del Maestro Antonio Vasta, la voce definitiva nel canto è quella di
Mario Incudine) e fa così:
D’un regnu di biddizzi e di valuri
Avia essiri almenu na regina
Chidda ca m’avia a vinciri d’amuri
Chidda ca m’avia vinciri lu cori
Chidda ca m’avia a mettiri a catina
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari
L’amuri avi quattru arbuli ciuriti
Unu d’aranciu e l’autru di lumìa
Unu di gelsuminu spampanati
L’autru ca è a rama di la gilusia
Ca fa tutti l’amanti disperati
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari