lunedì 10 luglio 2017

Il Fatto 10.7.17
La riscoperta dei briganti, primi ribelli contro le caste
Per anni si è cercato di rimuovere il ricordo delle loro lotte post-unitarie, oggi quel marchio d’infamia si è trasformato in motivo d’orgoglio e identità meridionale, celebrato nelle canzoni e nelle feste locali
di Gigi Di Fiore

Più di 3 milioni di link cliccando su Google briganti dimostrano l’attualità di una parola, che sembrava retaggio del passato chiusa nei libri di storia. E invece il termine brigante ha perso il suo significato negativo, per trasformarsi in sintesi positiva di ribellione e protesta contro tutte le ingiustizie. E, se il brigante post-unitario del Mezzogiorno fino a qualche tempo fa era imprigionato nell’etichetta della reazione e del revanchismo di destra, oggi questa figura viene sdoganata dalla sinistra che se ne è appropriata. Centri sociali, gruppi musicali, associazioni di protesta si richiamano alle figure dei briganti. Del resto, fu Antonio Gramsci a evidenziare il carattere elitario della rivoluzione risorgimentale bollandola come operazione di pochi, espressione della classe borghese che lasciò fuori, nel Mezzogiorno, le masse contadine.
Quando presero le armi, contadini, pastori ed ex soldati dello Stato delle Due Sicilie lo fecero contro un’unità nata male, calata dall’alto, che aveva promesso miglioramenti e terre che non erano arrivati. Fu rivolta sociale e scontro tra culture: quella contadina dei cunti dinanzi ai camini, dei silenzi, della diffidenza, della fatica e del sacrificio contro la nascente civiltà industriale del progresso spietato, del cinismo politico, dei sotterfugi, della spregiudicatezza.
Se il brigante è diventato simbolo positivo, lo si deve alle tante riletture storiche che hanno ridisegnato in maniera più ampia gli anni della “guerra contadina”, come la definì Carlo Levi. “I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati”, scrisse sempre Levi. Lo Stato sceso nel Mezzogiorno era violento, parlava una lingua sconosciuta, fucilava senza processi, difendeva solo le ragioni dei “galantuomini”, i proprietari terrieri e i notabili pronti a riciclarsi. Uno Stato che si imponeva con la forza senza consenso. In quegli anni va ricercata l’origine del senso di estraneità che in molte zone del Sud si prova nei confronti dello Stato, visto come entità lontana.
Lo Stato, in quel 1861, era un corpo con testa lontana nella capitale Torino, parlava in francese come gli ufficiali spediti a guidare la repressione calpestando lo Statuto albertino e utilizzando i tribunali militari che fucilavano senza tanti complimenti. Quella rivolta è fatta di tante storie e tanti protagonisti (che racconto in Briganti – Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi, pubblicato da Utet). Lo studioso Aldo De Jaco sosteneva che per comprendere il brigantaggio bisogna conoscere soprattutto tre vicende: la grande marcia di Carmine Crocco in Basilicata, l’eccidio di Pontelandolfo nel Sannio, la rivolta di Gioia del Colle in Puglia. Sono le tre sezioni del libro, con protagonisti tre capibrigante: Carmine Crocco, Cosimo Giordano e Pasquale Romano. Le loro storie si intrecciano con quelle di decine e decine di Gattopardi del Sud, quella classe dirigente meridionale immobile che fece il doppio gioco, per poi diventare il potere della “nuova Italia”.
Nel Sud, la rilettura di un’altra storia dell’unificazione ha portato alla riscoperta dei briganti, che lo Stato di allora bollò come criminali. Senza conoscere il brigantaggio, quel Sud che fu il Far West italiano in una guerra civile da migliaia di morti cancellati dalla storia nazionale, non si riuscirà a comprendere cosa sia il Mezzogiorno.
Fu una rivolta sociale, pilotata dai Comitati borbonici che diedero anche connotazione politica, soprattutto nei primi anni, alla ribellione contro lo Stato italiano in fasce. I briganti “per loro sventura si trovarono a essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro” dice ancora Levi. Erano i “cattivi” e furono sterminati. Ma per anni su di loro si tentò la rimozione di ogni memoria come si addice ai criminali. Eppure, chissà perché, due fenomeni violenti come il brigantaggio e il terrorismo sono stati sconfitti dallo Stato e non è avvenuto così con le mafie. Qualcosa significa. Le ribellioni contro uno Stato vengono annientate dallo Stato. Le mafie resistono, perché non sono ribellioni allo Stato. Crocco definì i mafiosi “sporcaccioni” e la mafia “spurgo del suo naso”. In Puglia, in Basilicata, in Campania, in Calabria i riferimenti ai briganti si moltiplicano: comitati di protesta, associazioni, organizzazioni culturali si rifanno a Crocco, a Giordano, a Romano. Strade intitolate ai capibrigante, musei, percorsi turistici raccontano quella guerra che non fu ufficialmente considerata guerra, anche se i militari impegnati vennero decorati con migliaia di medaglie. Una guerra sporca, con rapporti ufficiali deformati, foto fasulle a nascondere la verità, come per l’uccisione a tradimento del capobrigante Ninco Nanco.
C’è tanta Italia di oggi in quella guerra di 156 anni fa. I “briganti” ribelli alle storture. Ieri come oggi. Un marchio d’infamia è alibi di comodo per aggirare problemi, squilibri sociali e ingiustizie politiche. Quel marchio d’infamia è stato impresso sui briganti del Sud per decenni. Oggi, Brigante se more di Eugenio Bennato è diventato un pezzo cult suonato nei centri sociali, nelle notti della taranta o delle tammorre, nei concerti del nu folk elettronico. Quel marchio d’infamia si è trasformato in motivo d’orgoglio e identità meridionale.