Corriere 8.7.17
Il dilemma di Matteo Renzi sulla candidatura a premier
di Michele Salvati
È
stato pubblicato da poco un bel libro, soprattutto un libro utile, per
chi si interessa delle vicende dei partiti e dei movimenti politici del
nostro Paese: L’ultimo partito , di Luciano Fasano e Paolo Natale,
editore Giappichelli. L’ultimo partito è il Partito democratico, il solo
grande partito sopravvissuto attraverso continue trasformazioni e
ridenominazioni alla doppia crisi che i partiti italiani hanno
conosciuto nell’ultimo quarto di secolo: quella dei primi anni 90, a
seguito di Tangentopoli, e quella più recente, che ha condotto alla
straordinaria affermazione del Movimento 5 Stelle. E’ il partito che ha
raccolto l’eredità politica del Partito comunista e della sinistra
democristiana e ha mantenuto forme organizzative e modelli di democrazia
interna che assomigliano a quelli dei partiti di una volta.
Sconvolgimenti di questa intensità e durata — il primo soprattutto — non
ci sono stati negli altri grandi Paesi dell’Europa occidentale e solo
di recente il loro sistema politico e i loro modelli di democrazia
stanno risentendo dell’ondata populista e antieuropea conseguente alle
difficoltà economiche e all’intensità dell’immigrazione.
Nato nel
2007 dalle radici dell’Ulivo, nei suoi dieci anni di vita il Pd ha già
conosciuto tre significativi mutamenti di indirizzo politico,
coincidenti con le tre leadership che si sono succedute: lasciando da
parte le reggenze precongressuali di Franceschini (dopo Veltroni) e
Epifani (dopo Bersani), abbiamo avuto «il partito amalgama» di Veltroni
(2007-09), il «partito vecchio stile» di Bersani (2009-13) e «il partito
pragmatico» di Renzi (2013-17), come li definiscono Fasano e Natale. E
faticosamente ci si sta avviando verso un quarto mutamento, sempre con
Renzi al comando. Le cause e conseguenze di questi mutamenti sono
descritte con grande dettaglio dai due autori e le lascio all’interesse e
all’attenzione di chi leggerà il libro. Qui vorrei accennare all’ultimo
mutamento, e in particolare al passaggio tra Renzi 1 e Renzi 2.
Trattandosi
di un libro di politologi seri, basato su accurate ricostruzioni
fattuali, quest’ultimo passaggio — relativo a eventi futuri e
imprevedibili — è solo descritto per quanto è già avvenuto, per i
risultati del congresso che si è appena svolto, quello che ha portato
appunto al Renzi 2. Non essendo un politologo ma solo un appassionato di
politica (sì, ci si può ancora appassionare di politica!), poche
considerazioni le ho avanzate nella prefazione al libro che gli autori
mi hanno chiesto, e le riassumo telegraficamente. La prima è che
l’indirizzo politico che Renzi 1 ha tentato di imprimere al partito è un
indirizzo di sinistra liberale, aperto e competitivo verso il centro
dello schieramento politico, in questo non dissimile da quello di
Veltroni. La seconda considerazione è che, per imporre questo indirizzo,
come presidente del Consiglio Renzi 1 ha cercato di attuare condizioni
istituzionali di democrazia decidente, mediante una legge elettorale
fortemente maggioritaria (tramite il ballottaggio, essa comunque avrebbe
ricondotto il sistema ad un confronto bipolare) e mediante una riforma
costituzionale che escludeva il Senato dalla fiducia al governo. La
terza considerazione è che questo secondo obiettivo è fallito, e ci
ritroviamo oggi in un sistema elettorale proporzionale. È fallito perché
Renzi 1 si è trovato solo, osteggiato nel suo stesso partito e isolato
al di fuori: se con diverse scelte tattiche e con diversi atteggiamenti
personali sarebbe riuscito a raggiungere entrambi i suoi obiettivi è
problema al quale dedico qualche accenno nella prefazione al libro. La
quarta considerazione è più positiva: Renzi 1 (confermato da Renzi 2) è
comunque riuscito, a livello nazionale, a portare un partito in cui un
indirizzo di sinistra liberale era del tutto minoritario ad una
situazione in cui è di gran lunga prevalente.
Prevalente nei
numeri della direzione e della segreteria nazionali, ma non radicato
nella cultura del partito, non compreso nelle sue implicazioni e,
soprattutto, non accettato a livello locale: qui spesso prevalgono — e
prevalevano da lungo tempo, assai prima dell’ascesa di Renzi alla
segreteria — orientamenti eterogenei e spesso assai difformi da quelli
nazionali. Come segretario del Pd, Renzi 2 ha di fronte un compito di
grande difficoltà cui dedicare le proprie energie, se vuole perseguire
nel lungo periodo i due grandi obiettivi (sinistra liberale e democrazia
decidente) che ha cercato di attuare dall’alto, come presidente del
Consiglio. Occorre pazienza, dote che il segretario non ha sinora
mostrato, insieme all’abilità politica e all’opportunismo di cui è
ampiamente provvisto. Occorre comprensione delle logiche di un sistema
proporzionale: in questo il segretario di partito, anche del partito di
maggioranza relativa, non è necessariamente il candidato alla presidenza
del Consiglio, come lo è invece in un sistema maggioritario.
Se
però Renzi non si candidasse per il Pd come presidente del Consiglio
nelle prossime elezioni politiche — a cominciare da Gentiloni ci sono
altri che potrebbero svolgere bene questo compito — ciò verrebbe inteso
come rinuncia a perseguire gli obiettivi sui quali ha vinto il congresso
e come una vittoria di coloro — e sono molti, nel partito e fuori — che
tali obiettivi avversano e considerano l’attuale segretario del Pd
estraneo alla storia della sinistra. Questo sarà probabilmente un
argomento decisivo nelle future scelte di Renzi 2.