lunedì 29 maggio 2017

Il Sole Domenica 28.5.17
I Vizi di Giotto spiegati in poesia
Importante recupero nella Cappella degli Scrovegni: decifrate tutte le iscrizioni sotto i Vizi e le Virtù ritenute perdute. Si tratta di versi che descrivono le figure
di Salvatore Settis

Come due fiumi inarrestabili che corrano entro una vasta pianura, testi e immagini si alternano, si compongono, si separano e si integrano mutuamente nella tessitura culturale dell’Europa medievale. Come è stato spesso osservato, sia i testi che le immagini costituiscono, ciascuno per suo conto, un corpus (e un thesaurus) separato, con proprie regole, ricorrenze, articolazioni, variazioni; e sarebbe ingenuo pregiudizio cercare dietro ogni immagine un testo che l’abbia direttamente ispirata, o vedere dietro i testi (perfino quelli più scopertamente ecfrastici) una specifica immagine-fonte, e una sola. Certo, esempi di questo mutuo rapporto 1:1 esistono, ma vanno rilevati e documentati quando sia il caso; mentre più frequente è il carattere per così dire self-contained del corpus testuale da un lato, di quello iconografico dall’altro, essendo chiaro che testi e immagini vengono ogni volta composti secondo principi di selezione entro un repertorio (o lessico) corrente, di accrescimento di quel ventaglio espressivo, e di affinamento stilistico finalizzato alla sua miglior rappresentazione entro un determinato contesto comunicativo, ogni volta differenziato secondo coordinate proprie (tempo e luogo, committente e pubblico, e così via).
Proprio perché questa è la regola, vanno distinti come una “famiglia” a sé i casi in cui – viceversa – testo e immagine sono dichiaratamente concepiti insieme, per fini comunicativi e/o espressivi convergenti, e messi in tensione l’un con l’altra. In questo genus mixtum si contano svariate modalità d’interazione, che potrebbero accorparsi a seconda di una semplice gerarchia: testi nati senza immagini, ma più tardi illustrati (per esempio Dante); opere concepite sin dall’inizio secondo un’accentuata complementarietà testo-immagini (come i Regia Carmina in onore di Roberto d’Angiò); e infine immagini concepibili senza alcun testo, ma che vengono talvolta arricchite, integrate o spiegate da più o meno lunghe addizioni testuali: tali sono ad esempio le scene bibliche, evangeliche o agiografiche, a cui a volte viene agganciata una veloce didascalia in parole. Senza negare il diffusissimo topos delle immagini come litterae laicorum, tale adiacenza lo sottoarticola rendendolo più pregnante, perché presuppone, com’è storicamente e statisticamente probabile, un pubblico non di soli illetterati né di soli chierici, ma stratificato e ricco di mediazioni. Si disegna in tal modo, intorno alle immagini, tutto un ventaglio di tecniche e strategie dell’osservazione, tutto un discorrere di quelle figure, in un «visibile parlare» che si nutre, anche, di una dimensione squisitamente orale, alla quale le immagini e le loro scritte danno continuo alimento.
È in questo quadro che il prodigioso recupero dei tituli delle Virtù e dei Vizi dipinti da Giotto agli Scrovegni, dovuto alla tenacia e alla competenza di Giulia Ammannati, prende tutto il suo risalto. Senza sprecar parole a ricordare la suprema importanza del ciclo giottesco, per l’altezza irraggiungibile del pittore ma anche per le ambizioni del committente, basti ricordare che ogni figura di quel ciclo si collocò all’origine al centro di uno scontro tra Enrico Scrovegni e gli Eremitani. Il ricco mercante l’aveva concepita come una cappella di palazzo, talché il vescovo lo autorizzò a erigere unam parvam ecclesiam in modum quasi cujusdam oratorii, pro se, uxore, matre et familia tantum con l’assicurazione che non vi sarebbe mai stato alcun concursus populi; ma gli Eremitani, il cui convento sorgeva nei pressi del palazzo dell’Arena (ora distrutto), presto si accorsero che le intenzioni del committente celavano alia multa, quae ibi facta sunt potius ad pompam et ad vanam gloriam et quaestum quam ad Dei laudem, gloriam et honorem, con conseguente grave scandalum, damnum, preiudicium et iniuria in tutta Padova. Su questo contrasto non è qui da insistere, ma esso è sufficiente a dire che ogni pennellata di Giotto, ma anche ogni parola dei tituli che questo libro ci permette ormai di leggere non va vista solo come privato ornamento di un ricchissimo cittadino né come oziosa ostentazione erudita, bensì come uno spaccato di concezioni etiche e religiose che appartengono al tempo stesso a una insistita autorappresentazione dello Scrovegni e a una sorta di programmatica praedicatio di valori morali e civici proposti sul teatro della città di Padova.
Grazie al minuziosissimo lavoro di Giulia Ammannati, le figure di Giotto e i versi latini che le accompagnano tracciano questo quadro con una chiarezza che pareva impossibile, tale da innescare, c’è da credere, nuove interpretazioni e ricerche, destinate a coinvolgere l’intero ciclo della Cappella. Per citare solo qualche esempio, il “metodo” dell’estensore dei tituli è esplicitato in quello di Karitas: Hec figura Karitatis [cioè proprio quella lì dipinta] / sue sic proprietatis / gerit formam, cioè viene rappresentata in modo aderente alle sue caratteristiche morali.
Analogamente il titulus di Fortitudo, mentre ne descrive atteggiamento e attributi, esplicita il nesso con l’immagine: sicut est similitudo / depicta subtiliter. L’attitudine di Ira che si strappa le vesti viene descritta come aderente al suo significato morale: Vestis actus hic [cioè: in quest’immagine] scissure / signant hoc [cioè che claritate rationis / Ira privat hominem]. Patet hic Invidia [«ecco qui Invidia»], dichiara il titulus relativo: e insomma le scritte, con quell’insistito hic, hec, sicut est e così via, intendono richiamare l’osservatore a un puntuale riscontro fra la personificazione rappresentata, i suoi attributi, spesso descritti e spiegati uno per uno, e la “moralità” che deve trarsene. Spe depicta sub figura / hoc signatur, quod…: da un lato la figura o la forma, dall’altro quello che esse signant, cioè significano. Nelle immagini complementari di Iusticia e Iniustitia, le sole dove sotto la figura allegorica si disponga una sorta di predella, il titulus ne dà piena ragione alludendo alle singole scenette, dal miles probus che venatur (sotto Iusticia) agli homicidia che figunt spolia all’ombra di Iniustitia; e ancora (ultimo esempio) dal titulus di Prudentia si ha conferma che la figura fu concepita con due volti, uno dei quali orientato all’indietro, ma si ricava anche la precisa indicazione degli attributi significanti come lo specchio e il compasso. In questo dialogo tra il poeta e il frescante, che agiscono entrambi in nome e per conto del committente, tra testi e immagini non c’è gerarchia, ma piena complementarietà. Perciò l’estensore dei tituli espressamente sigilla le scelte del pittore elogiandone la subtilitas (nel dipingere Fortitudo), e ancor di più l’industria docte mentis che lo guidò nel comporre (pinxit) la figura di Invidia, tanto ricca di attributi. Allusione, quest’ultima, al frequente topos della docta manus degli artefici, richiamato ad esempio nel Battistero di Pisa per la tam bene docta manus di Nicola Pisano (1260). Insomma, la doctrina di Giotto non è in nulla inferiore a quella di chi ne commenta le immagini in un latino a suo modo ricercato.
Che un’indagine essenzialmente paleografica (ma anche metrica e letteraria) come questa debba a pieno titolo integrarsi nella storia dell’arte e nell’interpretazione degli affreschi di Giotto, non c’è bisogno di mostrare. Vorremmo sapere di più su chi scrisse quei versi, vorremmo ascoltare – se mai fosse possibile – il suo discorrerne con Enrico Scrovegni e col grandissimo maestro toscano, via via che l’uno dipingeva e l’altro componeva, variando il metro, i suoi versi; vorremmo guardare i padovani che, accorsi in processione il giorno dell’Annunciazione di ogni anno (25 marzo), si raccoglievano nella Cappella. Ma questo contrasto fra i Vizi e le Virtù, che lascia intravedere la città con le sue tensioni sociali e politiche, ci basta a dire che (nonostante l’opposizione degli Eremitani) davvero Enrico Scrovegni aveva edificato la sua parva ecclesia non solo in remedium suae animae, ma soprattutto in honorem et bonum statum civitatis et communis Paduae (così in un atto nota rile del 1317).