lunedì 29 maggio 2017

Il Sole 28.5.17
A tavola con. Carlo Rovelli
Il fisico che gioca d’azzardo con il tempo
di Paolo Bricco

Nell’esplosione del tempo. Nell’incedere della vita. E nel sobbalzare delle anime. «A volte mi alzo nel cuore della notte e fermo tutti gli orologi». Carlo Rovelli (nel disegno) utilizza un verso di Hofmannsthal per fissare la sua linea di luce e di ombra. Indossa una maglietta verde militare, sotto a un maglioncino blu scuro. Ha una particolare abitudine: porta la mano destra dietro all’orecchio destro, quasi per sentire meglio, poi si accarezza il lobo.
Siamo seduti sotto al pergolato in paglia della Trattoria Arisentimpò di Albano Laziale, sui Colli romani. Il suo nuovo saggio, L’ordine del tempo, è appena uscito da Adelphi. La vertigine è garantita: la pila dei libri venduti con il precedente Sette brevi lezioni di fisica (nate sulle pagine della Domenica del Sole) è formata da oltre un milione di copie (di cui 350mila in Italia, 200mila sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, 160mila in Cina). «Le Sette brevi lezioni erano una sorta di storia d’amore fra me e la scienza. Questa volta, l’argomento è invece uno solo: il tempo. Ed è la storia di un inseguimento. Più lo si studia, più si sciolgono i misteri, più sorgono le domande», dice.
Rovelli ricomincia da qui: dal provare a unificare il pensiero attraverso il racconto. Facendo dialogare la scienza e la filosofia. Con l’inserimento in questa architettura – culturale e esistenziale - della poesia e dei romanzi. Così da costruire, in forma di saggio, una sorta di autobiografia della mente, dei sentimenti e dell’interiorità. Per iniziare, entrambi ordiniamo all’oste abbondanti bruschette condite con olio, sale e pomodori a pezzetti (aglio solo per me, non per Rovelli). Coca Cola per lui e acqua minerale per me. È appena arrivato da un viaggio in fuoristrada nel deserto dell’Oman, dove ha trovato «silenzio, spazio e solitudine». Partirà fra pochi giorni per il Brasile.
Albano Laziale ospita la Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Chiesa Cattolica. Rovelli è qui per partecipare a un seminario sui buchi neri, le onde gravitazionali e il concetto di singolarità nello spazio tempo. In questa trattoria, all’ora di pranzo, la frescura è godibilissima. A un tavolo all’ingresso del giardino tre muratori mangiano piatti di pasta ricchi di sughi, con una spolverata alta un dito di pecorino. Tiro fuori dalla mia borsa il libro. È una copia staffetta, una delle prime recapitate dalla casa editrice nelle redazioni giornalistiche. Rovelli – anzi, in questo caso solo Carlo – si emoziona: «È la prima copia che vedo. È bellissima». Fa scorrere un pollice sul dorso rilegato, di un elegante color rosso Pontormo. Sembra felice come un bimbo che, scartando e rompendo l’uovo di cioccolato, ha trovato la sorpresa che ha sempre desiderato.
Rovelli, all’età di sessanta anni, è una specie di puer ludens. Nella costruzione intellettuale e estetica di questo saggio, compare una speciale sfacciataggine che non è mai sfrontata, una naïveté che non diventa sbruffoneria. Ma sono quella sfacciataggine e quella naïveté che spingono Rovelli a usare la prima persona singolare contraddicendo – signora mia, così non si fa – le regole dell’accademia, valide in particolare per la saggistica scientifica e filosofica, dell’autore che si nasconde dietro al libro.
Rovelli, invece, è dentro ed è davanti al libro. E, per riuscirvi, si confronta con i “Maggiori”, come avrebbero detto Carlo Dionisotti e Norberto Bobbio. Anche se, nel farlo, non trasmette un senso di presunzione vanitosa o di fredda alterigia. Assomiglia piuttosto al bimbo che gioca come Cristiano Ronaldo o Lionel Messi. E, magari, in campo non sfigura affatto. «Giacomo Leopardi a sedici anni ha scritto una storia dell’astronomia densa e coltissima, che ha una sua intima dimensione insieme narrativa e scientifica. Il Discorso sul metodo di Cartesio è un’opera scritta in prima persona», spiega senza alcuna posa professorale e con un entusiasmo che ricorda nel timbro della voce le eccitate passioni di un adolescente che, nell’estate solitaria, scopre i grandi classici. «Io penso sia importante, in tutto ciò che si fa, cercare l’unità e l’organicità», afferma.
Rovelli è titolare della cattedra di fisica teorica all’università di Aix-Marsiglia, dove insegna relatività generale e storia della scienza antica. In particolare, si occupa di teoria della gravità quantistica a loop, esponente di una comunità di specialisti che in tutto il mondo contempla un centinaio di scienziati. «La scienza – ricorda Rovelli – mostra come il tempo sparisca dalla struttura fondamentale del mondo». Non a caso, scrive nel suo libro: «La gravità quantistica a loop dimostra che scrivere una teoria coerente senza spazio e tempo fondamentali – e ciò nonostante usarla per fare predizioni qualitative – è possibile. In una teoria di questo genere, spazio e tempo non sono più contenitori o forme generali del mondo. Sono approssimazioni di una dinamica quantistica che di per sé non conosce né spazio né tempo. Solo eventi e relazioni. È il mondo senza tempo della fisica elementare».
Ma torniamo sotto al pergolato della Trattoria Arisentimpò. Nota Rovelli: «Il paradosso è che, se il tempo non c’è, è invece indubitabile che noi esistiamo nel tempo. Dunque, diventa fondamentale capire la nostra condizione nell’essere nel tempo». La condizione umana nell’essere nel tempo non viene analizzata soltanto attraverso le leggi scientifiche, ma è esplorata dai concetti filosofici e soprattutto tramite le categorie della narrativa e della poesia che distillano e coagulano, trasfondono e uniscono la comprensione e l’intuizione, il sapere e il sentire. Nel suo libro, una cui copia è adesso appoggiata a fianco di una bottiglia di acqua minerale, si legge: «Mondi sterminati. Sono quei mondi che il giovane Marcel ritrova confuso ogni mattina nella vertigine del momento in cui la coscienza emerge come una bolla da profondità insondabili, nelle pagine iniziali della Recherche. Quel mondo in cui si dischiudono poi a Marcel vasti territori quando il sapore della madeleine gli riporta il profumo di Combray. Un mondo immenso, di cui Proust dipana lentamente una mappa che si svolge lungo le tremila pagine del suo grande romanzo».
Il profumo del cacio e pepe dal tavolo vicino mi riporta al mio essere affamato. La conversazione procede spedita. La simpatia fluttua nell’aria. In qualche maniera, astraendosi dagli odori della cucina dei Colli romani, prende forma - mentre lui mangia con gusto una caprese di pomodori, mozzarella di bufala e basilico e io mi fiondo su una deliziosa bistecca con crema di funghi - una concezione neo-platonica della conoscenza del mondo. Con l’emozione – il dolore e il piacere, l’amore e la sofferenza – che provoca lo scatto di conoscenza dell’uomo che è nel tempo. Quest’ultimo «non è altro – si legge nel suo saggio – che una labile struttura del mondo, una fluttuazione effimera nell’accadere del mondo, ciò che ha la caratteristica di dare origine a quello che noi siamo: essere fatti di tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra stessa esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza che è la radice di ogni nostro soffrire».
In qualche maniera – con un senso di giocosità autoironica – emerge nella persona che è a tavola con me il profilo dell’intellettuale del Quattrocento. In ogni caso, qualcosa di molto differente rispetto allo specialismo iper-tecnico dell’intellettuale contemporaneo. In questa identità da gambler impegnato a giocare su più tavoli una unica partita - scommettitore magari inconsapevole - Rovelli è un autore che, appunto, è dentro e davanti al suo L’ordine del tempo e che, peraltro, sta perfettamente in quel gioco d’azzardo continuo che è il catalogo di Adelphi.
Nel suo essere un autore, compare anche la traccia di una biografia intensa e marcata. La Verona dell’adolescenza, città conservatrice e segnata – nella sua borghesia e fra gli insegnanti – da nostalgie per il Ventennio: «Al liceo classico, ho iniziato a covare un senso di ribellione fortissimo verso tutto e tutti». La Bologna del 1977, dove si iscrive a fisica: «Volevo fare il vagabondo. Stare con i miei amici. Farmi le canne. Lo studio era l’ultimo dei pensieri». La Bologna di allora era vitale e violenta, grassa e veloce. Continua Rovelli: «Davo un esame all’anno per non partire militare. Una volta alcuni professori si allarmarono vedendomi arrivare con i capelli lunghi fino ai fianchi e con una fascia da indiano in testa». È la città che, a quel tempo, tiene insieme Andrea Pazienza e il Mulino, Freak Antoni e il dossettismo, Pier Vittorio Tondelli e il Partito Comunista, la semiotica di Umberto Eco e le ragazze più desiderate d’Italia. Poi, qualcosa cambia. Il giovane Rovelli inizia a studiare il libro di Paul Dirac su I principi della meccanica quantistica. «Fu sconvolgente. Una esperienza simile a quella provata da adolescente con I Fratelli Karamazov. Iniziai a leggere. E non riuscii più a smettere. Andavo avanti e capivo. Capivo e andavo avanti».
Da allora, tutta una corsa nel tempo e nel flusso della vita, fino a oggi e fino al domani. Mentre passiamo alle fragole (io le chiedo all’oste con zucchero e limone, lui le preferisce lisce), intuisci la chiusura del cerchio secondo Rovelli, che scrive: «Poi il canto si attenua, si placa. “Si rompe il cordone d’argento, la lucerna d’oro si infrange, si rompe l’anfora alla fonte, la carrucola cade nel pozzo, ritorna la polvere alla terra”. E va bene così. Possiamo chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello. Questo è il tempo».