Il Sole 28.5.17
A tavola con. Carlo Rovelli
Il fisico che gioca d’azzardo con il tempo
di Paolo Bricco
Nell’esplosione
del tempo. Nell’incedere della vita. E nel sobbalzare delle anime. «A
volte mi alzo nel cuore della notte e fermo tutti gli orologi». Carlo
Rovelli (nel disegno) utilizza un verso di Hofmannsthal per fissare la
sua linea di luce e di ombra. Indossa una maglietta verde militare,
sotto a un maglioncino blu scuro. Ha una particolare abitudine: porta la
mano destra dietro all’orecchio destro, quasi per sentire meglio, poi
si accarezza il lobo.
Siamo seduti sotto al pergolato in paglia
della Trattoria Arisentimpò di Albano Laziale, sui Colli romani. Il suo
nuovo saggio, L’ordine del tempo, è appena uscito da Adelphi. La
vertigine è garantita: la pila dei libri venduti con il precedente Sette
brevi lezioni di fisica (nate sulle pagine della Domenica del Sole) è
formata da oltre un milione di copie (di cui 350mila in Italia, 200mila
sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, 160mila in Cina). «Le Sette
brevi lezioni erano una sorta di storia d’amore fra me e la scienza.
Questa volta, l’argomento è invece uno solo: il tempo. Ed è la storia di
un inseguimento. Più lo si studia, più si sciolgono i misteri, più
sorgono le domande», dice.
Rovelli ricomincia da qui: dal provare a
unificare il pensiero attraverso il racconto. Facendo dialogare la
scienza e la filosofia. Con l’inserimento in questa architettura –
culturale e esistenziale - della poesia e dei romanzi. Così da
costruire, in forma di saggio, una sorta di autobiografia della mente,
dei sentimenti e dell’interiorità. Per iniziare, entrambi ordiniamo
all’oste abbondanti bruschette condite con olio, sale e pomodori a
pezzetti (aglio solo per me, non per Rovelli). Coca Cola per lui e acqua
minerale per me. È appena arrivato da un viaggio in fuoristrada nel
deserto dell’Oman, dove ha trovato «silenzio, spazio e solitudine».
Partirà fra pochi giorni per il Brasile.
Albano Laziale ospita la
Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Chiesa Cattolica.
Rovelli è qui per partecipare a un seminario sui buchi neri, le onde
gravitazionali e il concetto di singolarità nello spazio tempo. In
questa trattoria, all’ora di pranzo, la frescura è godibilissima. A un
tavolo all’ingresso del giardino tre muratori mangiano piatti di pasta
ricchi di sughi, con una spolverata alta un dito di pecorino. Tiro fuori
dalla mia borsa il libro. È una copia staffetta, una delle prime
recapitate dalla casa editrice nelle redazioni giornalistiche. Rovelli –
anzi, in questo caso solo Carlo – si emoziona: «È la prima copia che
vedo. È bellissima». Fa scorrere un pollice sul dorso rilegato, di un
elegante color rosso Pontormo. Sembra felice come un bimbo che,
scartando e rompendo l’uovo di cioccolato, ha trovato la sorpresa che ha
sempre desiderato.
Rovelli, all’età di sessanta anni, è una
specie di puer ludens. Nella costruzione intellettuale e estetica di
questo saggio, compare una speciale sfacciataggine che non è mai
sfrontata, una naïveté che non diventa sbruffoneria. Ma sono quella
sfacciataggine e quella naïveté che spingono Rovelli a usare la prima
persona singolare contraddicendo – signora mia, così non si fa – le
regole dell’accademia, valide in particolare per la saggistica
scientifica e filosofica, dell’autore che si nasconde dietro al libro.
Rovelli,
invece, è dentro ed è davanti al libro. E, per riuscirvi, si confronta
con i “Maggiori”, come avrebbero detto Carlo Dionisotti e Norberto
Bobbio. Anche se, nel farlo, non trasmette un senso di presunzione
vanitosa o di fredda alterigia. Assomiglia piuttosto al bimbo che gioca
come Cristiano Ronaldo o Lionel Messi. E, magari, in campo non sfigura
affatto. «Giacomo Leopardi a sedici anni ha scritto una storia
dell’astronomia densa e coltissima, che ha una sua intima dimensione
insieme narrativa e scientifica. Il Discorso sul metodo di Cartesio è
un’opera scritta in prima persona», spiega senza alcuna posa
professorale e con un entusiasmo che ricorda nel timbro della voce le
eccitate passioni di un adolescente che, nell’estate solitaria, scopre i
grandi classici. «Io penso sia importante, in tutto ciò che si fa,
cercare l’unità e l’organicità», afferma.
Rovelli è titolare della
cattedra di fisica teorica all’università di Aix-Marsiglia, dove
insegna relatività generale e storia della scienza antica. In
particolare, si occupa di teoria della gravità quantistica a loop,
esponente di una comunità di specialisti che in tutto il mondo contempla
un centinaio di scienziati. «La scienza – ricorda Rovelli – mostra come
il tempo sparisca dalla struttura fondamentale del mondo». Non a caso,
scrive nel suo libro: «La gravità quantistica a loop dimostra che
scrivere una teoria coerente senza spazio e tempo fondamentali – e ciò
nonostante usarla per fare predizioni qualitative – è possibile. In una
teoria di questo genere, spazio e tempo non sono più contenitori o forme
generali del mondo. Sono approssimazioni di una dinamica quantistica
che di per sé non conosce né spazio né tempo. Solo eventi e relazioni. È
il mondo senza tempo della fisica elementare».
Ma torniamo sotto
al pergolato della Trattoria Arisentimpò. Nota Rovelli: «Il paradosso è
che, se il tempo non c’è, è invece indubitabile che noi esistiamo nel
tempo. Dunque, diventa fondamentale capire la nostra condizione
nell’essere nel tempo». La condizione umana nell’essere nel tempo non
viene analizzata soltanto attraverso le leggi scientifiche, ma è
esplorata dai concetti filosofici e soprattutto tramite le categorie
della narrativa e della poesia che distillano e coagulano, trasfondono e
uniscono la comprensione e l’intuizione, il sapere e il sentire. Nel
suo libro, una cui copia è adesso appoggiata a fianco di una bottiglia
di acqua minerale, si legge: «Mondi sterminati. Sono quei mondi che il
giovane Marcel ritrova confuso ogni mattina nella vertigine del momento
in cui la coscienza emerge come una bolla da profondità insondabili,
nelle pagine iniziali della Recherche. Quel mondo in cui si dischiudono
poi a Marcel vasti territori quando il sapore della madeleine gli
riporta il profumo di Combray. Un mondo immenso, di cui Proust dipana
lentamente una mappa che si svolge lungo le tremila pagine del suo
grande romanzo».
Il profumo del cacio e pepe dal tavolo vicino mi
riporta al mio essere affamato. La conversazione procede spedita. La
simpatia fluttua nell’aria. In qualche maniera, astraendosi dagli odori
della cucina dei Colli romani, prende forma - mentre lui mangia con
gusto una caprese di pomodori, mozzarella di bufala e basilico e io mi
fiondo su una deliziosa bistecca con crema di funghi - una concezione
neo-platonica della conoscenza del mondo. Con l’emozione – il dolore e
il piacere, l’amore e la sofferenza – che provoca lo scatto di
conoscenza dell’uomo che è nel tempo. Quest’ultimo «non è altro – si
legge nel suo saggio – che una labile struttura del mondo, una
fluttuazione effimera nell’accadere del mondo, ciò che ha la
caratteristica di dare origine a quello che noi siamo: essere fatti di
tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra stessa
esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza
che è la radice di ogni nostro soffrire».
In qualche maniera – con
un senso di giocosità autoironica – emerge nella persona che è a tavola
con me il profilo dell’intellettuale del Quattrocento. In ogni caso,
qualcosa di molto differente rispetto allo specialismo iper-tecnico
dell’intellettuale contemporaneo. In questa identità da gambler
impegnato a giocare su più tavoli una unica partita - scommettitore
magari inconsapevole - Rovelli è un autore che, appunto, è dentro e
davanti al suo L’ordine del tempo e che, peraltro, sta perfettamente in
quel gioco d’azzardo continuo che è il catalogo di Adelphi.
Nel
suo essere un autore, compare anche la traccia di una biografia intensa e
marcata. La Verona dell’adolescenza, città conservatrice e segnata –
nella sua borghesia e fra gli insegnanti – da nostalgie per il
Ventennio: «Al liceo classico, ho iniziato a covare un senso di
ribellione fortissimo verso tutto e tutti». La Bologna del 1977, dove si
iscrive a fisica: «Volevo fare il vagabondo. Stare con i miei amici.
Farmi le canne. Lo studio era l’ultimo dei pensieri». La Bologna di
allora era vitale e violenta, grassa e veloce. Continua Rovelli: «Davo
un esame all’anno per non partire militare. Una volta alcuni professori
si allarmarono vedendomi arrivare con i capelli lunghi fino ai fianchi e
con una fascia da indiano in testa». È la città che, a quel tempo,
tiene insieme Andrea Pazienza e il Mulino, Freak Antoni e il
dossettismo, Pier Vittorio Tondelli e il Partito Comunista, la semiotica
di Umberto Eco e le ragazze più desiderate d’Italia. Poi, qualcosa
cambia. Il giovane Rovelli inizia a studiare il libro di Paul Dirac su I
principi della meccanica quantistica. «Fu sconvolgente. Una esperienza
simile a quella provata da adolescente con I Fratelli Karamazov. Iniziai
a leggere. E non riuscii più a smettere. Andavo avanti e capivo. Capivo
e andavo avanti».
Da allora, tutta una corsa nel tempo e nel
flusso della vita, fino a oggi e fino al domani. Mentre passiamo alle
fragole (io le chiedo all’oste con zucchero e limone, lui le preferisce
lisce), intuisci la chiusura del cerchio secondo Rovelli, che scrive:
«Poi il canto si attenua, si placa. “Si rompe il cordone d’argento, la
lucerna d’oro si infrange, si rompe l’anfora alla fonte, la carrucola
cade nel pozzo, ritorna la polvere alla terra”. E va bene così. Possiamo
chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello.
Questo è il tempo».