Repubblica 14.9.13
Perché non possiamo non ringraziare Francesco
di Umberto Veronesi
IL DIBATTITO suscitato dalla lettera di papa Bergoglio a Scalfari dimostra che il rapporto fra credenti e non credenti è ben lontano da essere una questione dotta per pochi intellettuali. Non esiste donna o uomo a cui non venga posta, da altri o dalla propria coscienza, la domanda: «E tu in che cosa credi?». Io rispondo: «Credo non in Dio, ma nell’uomo ». E dopo aver letto attentamente la sua lettera, immagino che il Papa risponderebbe: «Credo in Dio e nell’uomo».
È quindi l’amore per l’uomo il punto di incontro fra Chiesa e laicità, ed è accanto all’uomo quel «tratto di strada insieme» che il Papa invita i laici a fare.
Sono dunque i diritti umani il terreno su cui si fonda la possibile intesa. Il diritto alla pace è il primo della lista. È di pochi giorni fa l’appello al digiuno per la pace in Siria, a cui hanno aderito credenti, insieme a laici (io per primo) e credenti di altre religioni. Se allora sul piano etico non c’è incompatibilità — tanto che, scrive il Papa, «il peccato, anche per chi non crede, c’è quando si va contro la propria coscienza » — io penso che lo scontro non sia tanto fra fede ed assenza di fede, ma piuttosto tra religioni e società. In molti casi, nei Paesi progrediti, le religioni sembrano rimaste indietro di migliaia di anni rispetto alle società. La religione cristiana si basa sulla Bibbia e i suoi Dieci Comandamenti, che la Chiesa cattolica considera ancora attuali. Ma come li considera la nostra società?
Tutti siamo d’accordo che non bisogna ammazzare, o rubare, o trattare male il padre o la madre. Ma esistono problemi aperti soprattutto rispetto alla vita sessuale: i rapporti prematrimoniali, l’istituto matrimoniale stesso, la formazione delle famiglie, i rapporti omosessuali, il diritto alla procreazione. Rimane inoltre irrisolto il grande dilemma della disponibilità della vita: il laico crede nella responsabilità della vita, mentre il credente nella sua sacralità. Dunque il laico ritiene di poter disporre della propria esistenza fino alla sua fine, mentre il credente pensa che la sua vita sia dono e proprietà di Dio e solo Dio può decidere che farne. Da qui gli scontri dolorosi su temi come i matrimoni gay, le unioni civili, la fecondazione assistita, la contraccezione e l’aborto, il testamento biologico e l’eutanasia. Trovare anche su questi temi un punto di incontro è davvero impossibile? Il pensiero razionale è diametralmente opposto alla fede? Io credo di no e voglio partire da un’affermazione che papa Ratzinger ha fatto nel discorso di Ratisbona: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Sono parole che aprono alla speranza e che possono portare a un piano di incontro concreto fra credenti e non credenti, proprio nella ragione, nel Logos.
Parole che papa Francesco conferma scrivendo a Scalfari che anche chi crede si pone domande, è alla ricerca, perché anche per lui «la verità non è assoluta, ma si rivela attraverso un cammino e una vita».
Il messaggio che possiamo trarre dalla lettera del Papa aRepubblica è forse che non c’è bisogno di conciliare integralmente tutte le posizioni su Dio, alla ricerca di un accordo oggi (e forse sempre) impossibile, ma si può procedere insieme nel nome dell’uomo. Benedetto Croce scrissePerché non possiamo non dirci cristiani.
Partendo da qui, da molto tempo esploro la possibilità di rendere vera l’affermazione: perché possiamo non dirci cristiani, e fondare una morale laica basata sui principi della natura umana che hanno come riferimento non necessariamente Dio, ma sicuramente l’uomo. A parte la fede nella trascendenza, non c’è nulla, negli insegnamenti del cristianesimo che non sia già presente nella coscienza umana e nell’attitudine ad amare piuttosto che odiare. In questo ci aiutano le più recenti ricerche scientifiche: la violenza non dipende né da istinti di natura che condividiamo con gli animali, né da come è fatto il nostro cervello, né da un ipotetico vantaggio evoluzionistico a favore dei più forti. La natura non seleziona i più forti, ma i più adatti. Ed è più adatto chi costruisce rapporti costruttivi con il prossimo, chi alleva la prole in pace e benessere e assicura così la sopravvivenza della specie. La violenza è piuttosto una reazione a situazioni avverse. Quindi se l’uomo è biologicamente buono, per comportarsi in modo morale, deve semplicemente seguire la propria coscienza. Può esistere allora un’etica laica, che non si vuole sostituire al cristianesimo o ai precetti morali di altre religioni, ma vuole semplicemente aiutare l’uomo a fare buon uso della propria natura e della propria ragione.
Repubblica 14.9.13
Quell’incontro che sfida il dilemma della modernità
di Joaquìn Navarro-Valls
LA LETTERA che il Papa ha inviato giorni or sono a questo giornale rientra sicuramente tra gli atti più eloquenti per capire lo stile semplice e immediato che Francesco ha voluto dare al suo pontificato. Non un atteggiamento di maniera, sforzato. Non un disdegno dall’autorità che si accompagna con un’abdicazione del ruolo pastorale. No. Si tratta di una vera e vissuta “autenticità”. Alcune domande sono state giustamente sollevate e legittimamenterivolte al Papa.
Ebbene il Papa ha voluto rispondere in modo altrettanto schietto e genuino. Tutto qua. Evidentemente, l’occasione ha dato corso a una risposta colloquiale, nel senso che Francesco non aveva alcuna pretesa di ergersi a strumento solenne di dottrina. Eppure, a rileggere bene gli argomenti e le singole parole, si comprende che i contenuti espressi sono qualcosa di più di una replica. È la consegna di alcuni suggerimenti seri, validi e concreti alle inquietudini di tutti noi.
Molte precisazioni, d’altronde, compaiono preziosamente tra le righe. Dal significato della recente Enciclica Lumen fidei,voluta e scritta da Benedetto XVI ma integrata e completata da Francesco, alla fedeltà alla grande lezione del Vaticano II, per finire al valore che assume oggi il parlare una lingua non forbita, comprensibile dai saggi e dai meno saggi.
Nonostante tutto questo sia stato offerto con grande simpatia e solidità dal Papa, il vero motivo dominante, probabilmente quello che veramente l’ha spinto infine a inviare la missiva, è stata la portata della prima domanda. Pressappoco era la seguente: com’è possibile conciliare i valori assoluti della fede con il relativismo della vita di oggi?
Il Papa ha deciso di prendere il toro per le corna. Ha voluto cioè affrontare uno tra i dilemmi più critici e spettacolari della modernità, partendo dal significato verace e genuino che ha il credere per ogni semplice persona. Via gli orpelli culturali, via le maschere di apparenza, per andare subito al nucleo essenziale che muove tantissime persone di oggi a sentirsi ancora attratte, interiormente ed esistenzialmente, dal Cristianesimo.
La fede nasce, questo ha detto Francesco, dall’incontro personale con Gesù. Un desiderio che suscita stupore, amore e voglia di unirsi da vicino con una persona come noi che nascondetuttavia, nelle scelte che fa, nelle azioni che compie, nei miracoli e nel sacrificio che vive, una trascendenza spirituale completa, divina.
La fede, dunque, non nasce dal conformismo e non si attua mediante una valida elaborazione ideologica e moralista. Con la stessa forza con cui ci s’innamora continuamente tra esseri umani, ci s’innamora pienamente e totalmente di Dio. Questo è il senso autentico che ha la parola “luce” nel cuore del credente. La fede nell’amore produce nuovo amore, ottimismo e felicità in se stessi e negli altri.
Logicamente l’incontro a tu per tu con Gesù non avviene per strada e a caso. La casa di Dio è la Chiesa. Il Papa, proprio in questo modo, spiega il valore che assume la Scrittura, in particolare i Vangeli, e il Magistero nel segnalare dove e com’è possibile innamorarsi di Dio.
La lettera giunge così finalmente al grande tema dell’“assoluto”. Francesco, nella sua prima Enciclica, ha spiegato che la causa della confusione contemporanea, anche tra i credenti, è derivata da un abbandono del desiderio del sacro che nei secoli recenti è andato imponendosi come ovvio, scontato. Quella fede che prima era luce è stata vista come oscurità. Quell’amore che era sentito come potenza liberatrice è divenuto, agli occhi del nostro tempo, un fardello oppressivo e improponibile. Tanto che, alla fine, oggi si tende a rifiutare la fede, vedendola come un vincolo assoluto superiore alla debolezza della nostra condizione normale.
In quest’ottica essere senza Dio sembra restare liberi, mentre stare con Dio somiglia a un chiudersi nel buio di una prigione incondizionata.
A Repubblica Francesco ha voluto proprio svelare il grande inganno che si cela dietro quest’affascinante suggestione illuminista. Come possiamo essere realmente vittime dell’assoluto quando ci apriamo con amore alla provocazione che la vita di Gesù suscita in noi? Non è, invece, che quando sciogliamo questo legame chiudiamo veramente le porte della nostra vita alla felicità, lasciandoci persuadere unicamente dalla validità delle nostre opinioni e delle nostre sole idee?
Ebbene la fede è esattamente una cosa del genere: per un cristiano è l’apertura di una relazione non prevedibile con Qualcuno che non siamo noi stessi a dominare. E ciò, prosegue Francesco, è esattamente l’unica possibile liberazione che esiste dai nostri assolutismi psicologici ed egoistici, dai miti illusori che da solo ciascuno è costretto a crearsi per sopravvivere e cancellare l’angoscia e l’infelicità.
Non è in modo diverso che Benedetto XVI parlava di una dittatura del relativismo, evocando una specie di enorme paradosso. In realtà, il relativismo non esiste fin quando l’esistenza personale resta disponibile ad ascoltare e a guardare quello che fa Dio. Viceversa, se non esiste più alcuna fiducia che separi dai criteri che ciascuno si fa da sé è chiaro che le certezze, le persuasioni devono diventare assolute e quindi distruttive.
Per questo Dio non chiama l’uomo a credere a una serie di precetti. L’uomo segue delle regole semmai per amare e identificarsi pienamente con Dio. Cioè esattamente l’inverso di quello che viene detto di solito.
In definitiva, è giusto pensare al coraggio di questa lettera di Francesco come a una disponibilità che testimonia, per l’appunto, la saldezza e la apertura che la fede produce nel singolo credente, fosse anche il Papa in persona. La scelta di dialogare con tutti, specialmente con la gente comune, è l’opposto esatto, infatti, dell’assolutismo che impera nel nostro presente. Probabilmente per questo i comportamenti di papa Francesco scandalizzano il presente. Perché una messa in gioco così forte può farla solo chi non ha idoli da difendere, ma un amore assoluto da testimoniare. D’altra parte, è lo stesso scandalo che suscitava un suggestivo personaggio che viveva in Palestina duemila anni fa e il cui nome, guarda un po’, era Gesù di Nazareth.
Repubblica 14.9.13
Il fascino pericoloso del postsecolarismo
In Italia siamo in presenza di una religione predominante. Non esiste nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento
Il rischio è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso
Parla Nadia Urbinati, autrice con Marco Marzano di un saggio su Stato e Chiesa
di Simonetta Fiori
«Papa Francesco rappresenta la realizzazione compiuta del postsecolarismo di Habermas», dice Nadia Urbinati, al telefono dalla Columbia University dove ha la cattedra di Teoria politica. «Ma proprio per questo occorre ancor più distinguere tra diritto e morale, Stato e religione, ristabilendo quelle paratie che sono necessarie in democrazia». All’indomani della lettera «scandalosamente affascinante» scritta dal pontefice a Eugenio Scalfari, e a pochi giorni dall’appello alla pace che ha raccolto in piazza San Pietro cattolici, musulmani, atei e perfino anticlericali, esce dal Mulino uno stimolante saggio di Nadia Urbinati e Marco Marzano dal titolo provocatorio: Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica.Ma è davvero una missione impossibile? La rivoluzione introdotta da papa Francesco, anche il suo nuovo stile di dialogo, non costringe a rovesciare i termini della questione? «Il suo stile e il suo linguaggio certo scompaginano il progetto culturale inseguito per sedici anni dal cardinal Ruini: è su questo schema che abbiamo costruito molti dei no-stri ragionamenti. Ma restano in piedi tutti i rischi della democrazia postsecolare».
Professoressa Urbinati, che cosa è il postsecolarismo?
«Designa il superamento del secolarismo, ossia dell’esclusione della religione dalla sfera pubblica. Secondo Jürgen Habermas, che ne è il principale teorico, la religione — avendo accettato le regole del gioco democratico — non deve essere più tenuta in un recinto, ma al contrario deve essere accolta nel dibattito pubblico perché porta un prezioso nutrimento morale. E qui interviene l’argomento di un importante teologo tedesco, Böckenförde, secondo il quale la democrazia ha bisogno di religione proprio perché è un metodo di decisione, privo della sostanza etica che lo può tenere in vita. Questo è l’aspetto più preoccupante. Secondo la teoria postsecolare, la democrazia diventa un guscio vuoto, mentre sappiamo che le regole democratiche sono dense di principi morali».
Lei e Marzano denunciate gli “effetti perversi” del postsecolarismo, soprattutto in una cultura monoreligiosa come quella italiana.
«Una delle pecche più gravi di questa teoria è la sua astrattezza, che non tiene conto dei contesti storici e sociali specifici. In Italia siamo in presenza di una religione nettamente predominante. Non esiste nella società e nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento naturale. Il rischio per la nostra democrazia è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso. E le leggi possono diventare laiche al rovescio: non perché distanti da tutte le fedi religiose, ma perché vicine alla fede della maggioranza».
Marco Marzano insiste sullo scarso fondamento in Italia della teoria postsecolare, essendo profondo il divorzio tra fede dichiarata e pratica di vita. Una divaricazione denunciata pochi giorni fa dall’arcivescovo di Milano.
«Sì, è in gioco non solo la riconquista della società liberale, ma della stessa Chiesa dei cristiani. Marzano mostra in modo molto dettagliato anche lo scollamento tra la religione rappresentata dalle gerarchie e la religione vissuta dai credenti. La Chiesa del potere e la Chiesa della fede».
Questo schema però viene rovesciato da papa Francesco, che introduce una rottura netta rispetto ai simboli e alle pratiche di potere della precedente curia romana, anche nei suoi rapporti con la politica italiana. E si propone come cerniera tra Chiesa istituzionale e Chiesa missionaria.
«Se mi si consente il termine, è un papa grillino. Egli salta tutto il corpo intermedio per arrivare direttamente all’incontro con i fedeli: basti pensare alla frequenza delle sue telefonate o al suo quotidiano uso del twitter. Questo è un dato interessante perché riflette un fenomeno diffuso in tutte le istituzioni generatrici di autorità, religiose o politiche che siano: i cittadini non si sentono più rappresentati da questi corpi intermedi, sia che si chiamino prelati o rappresentanti politici, clero o partiti. Papa Francesco avverte questo divorzio, e riesce a colmarlo con straordinaria abilità».
Per le sue idee e per le sue azioni Francesco appare come l’incarnazione esemplare del postsecolarismo di Habermas: non introduce mai nella sfera pubblica uno stile dogmatico o una prevaricazione sullo Stato. Ma così operando non rischia di demolire le vostre critiche a quella teoria?
«Non credo. Semmai il contrario. Grazie alla sua efficace predicazione, che arriva dalla grande tradizione gesuita, con la rievangelizzazione l’infiltrazione religiosa rischia di diventare ancora più dilagante e capillare. E questo rende ancor più necessario preservare le staccionate per distinguere le varie sfere, quella civile e quella religiosa per esempio».
Nel libro non mancano critiche al «postsecolarismo all’italiana», da Giuliano Amato a Giancarlo Bosetti e Alessandro Ferrara.
«Habermas riflette nelle sue idee la democrazia dell’Europa protestante e degli Stati Uniti, ossia realtà caratterizzate da pluralismo effettivo, mentre questi studiosi provengono da una tradizione che è imbevuta in modo egemonico di una sola religione. Quando si parla del rapporto tra Stato e fede religiosa, la teoria dovrebbe prestare più attenzione al contesto».
IL LIBRO Missione impossibile di Marco Marzano e Nadia Urbinati, l Mulino pagg. 144 euro 14
Repubblica 14.9.13
Bersani accetta il patto con Cuperlo “Non lasciamogli tutto il partito”
Oggi incontro a Milano. La ricerca di uno sponsor ex Dc
di Goffredo De Marchis
ROMA — Anche Pier Luigi Bersani salta su un carro. Secondo i sondaggi è quello perdente, ma ora che l’ex segretario ha scelto il suo candidato alla segreteria gli equilibri possono (in parte) cambiare. Alla festa democratica di Milano, stasera, Bersani avrà un primo contatto diretto con Gianni Cuperlo. A quattr’occhi parleranno del futuro del Pd. Ma il terreno è stato già preparato in questi giorni. I bersaniani hanno incontrato lo sfidante principale di Matteo Renzi siglando un accordo di massima per le primarie. «Il nostro vero candidato era Epifani. Ma non esisteva più lo spazio per una corsa davvero competitiva di Guglielmo. La decisione di Franceschini di appoggiare il sindaco di Firenze ha cambiato le carte in tavola». A questo punto alla componente dell’ex leader di Largo del Nazareno conviene restringere il campo a pochi candidati, avere cioè un solo concorrente in grado di dare fastidio a Renzi.
Con buona pace della rottura tra D’Alema, primo sponsor di Cuperlo, e Bersani. La “ragion di Stato” prima o poi li rimetterà allo stesso tavolo per un chiarimento.
Si salda così un’asse che si muove nell’area degli ex Ds, sul territorio ancora maggioritaria. E si crea, innanzitutto, una forza di maggioranza nell’assemblea nazionale di venerdì e sabato prossimi (dalemiani, bersaniani, giovani turchi), in grado di orientare le votazioni sulle famigerate regole. Il primo punto condiviso da Cuperlo e da Bersani è tenere i congressi locali prima del voto sul segretario nazionale. «Un partito davvero federale, che rispetta l’autonomia dei territori — spiega il deputato Alfredo D’Attorre, capofila dei bersaniani — deve evitare di creare filiere nazionali che condizionino le scelte della periferia». È un paletto che il sindaco di Firenze difficilmente riuscirà a dribblare. Non si può aspettare ad avere una guida politica nei tanti comuni che vanno al voto la prossima primavera, tanto più che molti sindaci uscenti non potranno essere ricandidati e occorre scegliere nuovi profili. Questi sono gli argomenti forti dell’area anti-Renzi. Naturalmente è anche un modo per non consegnare tutto il Pd allo stra-favorito: mantenere un controllo sui segretari locali significa avere un ruolo determinante nella formazione delle liste elettorali. L’altro impegno è quello di promuovere una lista unica a sostegno di Cuperlo. «Una mossa concreta contro le correnti — dice D’Attorre —. Noi facciamo le cose sul serio, altri solo a parole». Un chiaro riferimento alla rottamazione delle componenti proclamata da Renzi. Che oggi ha qualche difficoltà in più a gestire la sua immagine di cavaliere solitario e anti-nomenklatura vista la quantità di endorsement incassati. In quel campo, i renziani della seconda ora potrebbero volere liste multiple per far sentire il peso della loro corrente.
Ma una possibile debolezza del patto tra Cuperlo e Bersani è l’eredità comunista. Il candidato è stato l’ultimo segretario della Federazione giovanile del Pci, D’Alema è considerato da sempre il migliore epigono di quella cultura e Bersani è figlio dell’Emilia “rossa”. Si rischia la rappresentazione di un circolo chiuso. Per questo, nelle “trattative” delle ultime ore, si è molto dibattuto sull’“allargamento” dell’area affinchè vada un po’ oltre l’immagine diessina. Subito dopo l’assemblea nazionale, è in preparazione un appuntamento pubblico che vedrà in prima fila Cuperlo e Franco Marini, figura tutt’altra che secondaria nel mondo degli ex popolari e della cultura cattolica. «Era il loro candidato alla presidenza della Repubblica appena quattro mesi fa», ricordano i bersaniani. All’ex presidente del Senato è affidato il compito di seminare dubbi e ripensamenti nella componente di Franceschini, in parte spiazzata dalla decisione del ministro. E di attirare l’appoggio di movimenti, territori e personalità di orientamento cattolico. Resta poi il rebus legato a Rosy Bindi. Lei cerca un candidato alternativo e il rapporto con Cuperlo sconta la grande distanza di contenutisui diritti civili. Una partita che si delinea con i protagonisti (c’è Pippo Civati sempre in corsa) e con le alleanze interne, rende a questo punto più semplice arrivare a una data del congresso entro l’anno. Senza dubbio un punto a favore di Renzi. L’ipotesi di un rinvio è scongiurata. I pronunciamenti di Franceschini e di Bersani dimostrano che non c’è spazio per posticipare il congresso al prossimo anno. Lo ha capito da tempo anche Enrico Letta, come dimostra la mossa del ministro dei Rapporti con il Parlamento. Ora si attendono le scelte dei lettiani.
l’Unità 14.9.13
Le parole della democrazia
di Michele Ciliberto
Esiste, come è noto, quella che si potrebbe chiamare una superstizione delle parole. Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani, parlava addirittura di un «bonapartismo» delle parole, per indicare l’uso eccessivo e improprio di termini che hanno senso solo se sono usati nel loro ambito di riferimento.
In questo caso intendo però alludere alla moda, oggi diffusissima, di usare alcune parole come una sorta di totem, quasi «figure» religiose rispetto alle quali l’unico atteggiamento possibile è quello dell’accettazione incondizionata e della condivisione reverente. È una sorta di monolinguismo autoritario, accentuato e propagandato dai media, su cui varrebbe la pena di fare una riflessione perché ha a che fare con la democrazia, come sempre accade quando si tratta di questioni di parole, di linguaggio.
Fino a poco tempo fa la parola-totem era «necessità», quando si parlava della situazione italiana e del governo di «larghe intese». In Italia non erano possibili altre strade: questo e solo questo richiedeva la crisi, questo e solo questo richiedeva l’Europa. Aprire il campo ad altre opzioni sarebbe stato solo segno di irresponsabilità e mancanza di senso della realtà.
Mai dire, poi, che Berlusconi si era deciso a sostenere questo tipo di governo perché aveva perso le elezioni e, soprattutto, per questioni puramente personali, non essendo mai stato animato da alcun interesse per il bene pubblico che non coincidesse con i suoi affari privati: un «fatto», non una «opinione», testimoniato da tanti anni di governo, e dalle innumerevoli leggi ad personam da lui varate a suo esclusivo vantaggio. Certo, Berlusconi era Berlusconi, chi poteva negarlo? Ci sarebbe stato perciò qualche prevedibile scarto, qualche sorpresa, ma era un rischio calcolato, che bisognava correre: le cose si sarebbero aggiustate. È un primo paradosso su cui vorrei richiamare l’attenzione: in una curiosa sarabanda, in Italia più si è accentuata la crisi, più si è affermata una sorta di provvidenzialismo icasticamente rappresentato dalle parole-totem più diffuse: «necessità», «responsabilità», «unità»...
Le cose sono andate diversamente, come vediamo anche in questi giorni: Berlusconi non è riuscito, come contava, a evitare la condanna e sta facendo ballare il Paese e il governo per trovare una via di fuga, mostrando a tutti, anche ai più esperti, quali erano i suoi obiettivi concreti quando è nato il gabinetto Letta. E per riuscire a salvare se stesso e il patrimonio ha iniziato una vera e propria azione di guerriglia, delle cui conseguenze dovrà assumersi la responsabilità se arriverà fino al punto di far cadere il governo.
In questa situazione si è verificata una vera e propria conversione linguistica: alla parola-totem «necessità» si è affiancata, fino a sopraffarla, la parola-totem «stabilità». Dovunque in tv come sui giornali più autorevoli e più convinti della propria missione pedagogica risuona come una sorta di refrain la stessa musica inserita nella medesima costellazione linguistica: l’Italia ha bisogno di stabilità; senza stabilità il Paese va a fondo...
«Stabilità» è una parola neutra: cosa significa oggi, concretamente, fare l’apologia della «stabilità»? Che rapporto effettivo può esserci fra una crisi sociale come quella che attraversiamo e la stabilità? Nessuno, penso, se ci si mette dal punto di vista di quelle che una volta si chiamavano le «classi subalterne». Ma posto pure che fossimo in una situazione ordinaria e di relativo equilibrio sociale, dove è mai scritto che la «stabilità», la quiete, è indice di una condizione positiva per uno Stato, una società? Certo, per le ideologie di carattere conservatore la «stabilità» è il principale pilastro di riferimento. Nei primi decenni del Seicento, per fare un esempio, parole come «mutamento» erano una bestemmia ed erano espulse dal vocabolario politico; mentre il lemma e il concetto di «stabilità» campeggiava in varie forme nei trattati sulla Ragion di Stato. Ma questo si capisce: la «stabilità» è l’obiettivo primario quando si tratta di ideologie conservatrici.
Come stanno invece le cose per una prospettiva e un pensiero democratico, anche in una condizione di emergenza come quella che stiamo vivendo? Vorrei partire da una affermazione fatta da un grande Papa a proposito di una nobile parola. Pace, spiegò una volta Papa Montini, non significa quiete, staticità, stagnazione: ha senso se implica movimento, trasformazione, dinamicità. È una posizione che coincide con i momenti più alti del pensiero laico e democratico: la «stabilità» e la «quiete» generano stagnazione, corruzione e infine decadenza. Gli Stati, come le chiese, non si sviluppano e progrediscono attraverso la «stabilità»: hanno bisogno di trasformazione, di mutamenti; il contrario di quello che pensano i teorici della Ragion di Stato tornati oggi di moda.
Certo, nel pieno della tempesta la «stabilità» può essere un obiettivo da conseguire e il governo Letta sta svolgendo un lavoro assai serio, specie a livello internazionale, che va difeso e sostenuto. Ma qui sto ponendo un altro problema, di ordine strategico: per una cultura politica democratica la stabilità deve restare un mezzo, non può essere trasformata in un fine come rischia di accadere in questo periodo in Italia, in nome della Realpolitik.
C’è qualcosa, oggi, che turba e inquieta e su cui occorre riflettere: si stanno imponendo ideologie che privilegiano l’esistente, il presente, inteso come spazio uniforme e unilineare, senza alternative che non siano quelle dettate da parole-totem come «necessità» e «stabilità» alle quali si rischia di sacrificare molte cose importanti, compreso il rispetto delle norme e delle regole che sono l’anima della democrazia. Si diffondono sensi comuni che tendono a escludere il «mutamento» dall’orizzonte delle possibilità, proprio mentre la società italiana, nel profondo, ribolle e chiede in modi inequivocabili mutamenti radicali e trasformazioni. Con la conseguenza di approfondire ulteriormente il divario, già assai ampio, tra mondo delle istituzioni e della politica e i cerchi sempre più complessi e sofferenti della vita sociale, con il rischio di potenziare i movimenti che si escludono volutamente dalla ordinaria vita parlamentare. Simmetricamente, si diffonde un lessico che toglie spazio alla dimensione del mutamento, della trasformazione, della libertà individuale e collettiva.
Uno dei pochi che oggi, rispetto a tutto questo, ha scelto di muoversi in controtendenza con nettezza e intransigenza è il nuovo Papa che sta mostrando a tutti i livelli compresa la politica internazionale come si possa avere un differente punto di vista sulla realtà e ottenere risultati concreti. E lo fa utilizzando un nuovo lessico imperniato sulla critica dell’esistente e sull’apertura alla speranza, rigettando i totem della «necessità» e della «stabilità».
È un fatto importante e positivo, che dà alla Chiesa cattolica una nuova voce. Ma il pensiero laico e democratico, e il partito che si è dato questo nome, non dovrebbero anche loro dire una parola su questa ideologia della «stabilità», cercando di ricostituire un nesso tanto essenziale quanto precario fra democrazia e linguaggio? Sarebbe bene ricordarsene ogni tanto: quella degli uomini, almeno fino ad ora, è stata una storia materiale di mutamenti e di trasformazioni da cui sono nate, faticosamente, le nostre libertà. E di questa «storia delle libertà» il linguaggio è stato e resta, oltre che un indice importante, uno strumento decisivo.
il Fatto 14.9.13
Giunta e Camere non sono giudici
di Bruno Tinti
Pare che la manfrina paragiuridica di B&C si sia conclusa come meritava: ritiriamo tutto, stavamo solo cercando un’ennesima fuga dal processo, in questo caso dalle sue legali conseguenze. Ma se i nostri esperti pro veritate non vi hanno convinto, pazienza; proviamo con il ricatto puro e semplice. Il delinquente resta tra padri della patria; oppure facciamo cadere il governo. Della serie: muoia Sansone (oddio, Sansone ...) etc; e della legge Severino, costituzionale o no che sia, ce ne freghiamo. A questo punto c'è poco da dire se non che, in effetti, che Sansone e i filistei spariscano sarebbe una fortuna per tutta la Repubblica. Non fosse che per questo, la legge sulla decadenza andrebbe subito applicata.
Per arrivare a questa raffinata argomentazione giuridica hanno detto di tutto.
LA GIUNTA e dopo di lei il Parlamento, debbono essere considerati autorità giudiziaria. Equivalgono a un tribunale e di un Tribunale hanno tutti i poteri. Quindi possono proporre ricorso alla Corte costituzionale per la retroattività della disposizione che impone la decadenza per i politici condannati con sentenza definitiva anche per reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge. Solo che di incostituzionale qui c'è solo l'attribuzione a Giunta e Parlamento di poteri giurisdizionali: un quarto grado di giudizio esperibile solo per i politici contrasta con l'art. 3 della Costituzione. Perché mai B. e i suoi colleghi dovrebbero beneficiare di una possibilità processuale (magari un’assoluzione dopo tre condanne) di cui nessun altro cittadino potrebbe usufruire? E poi anche perché, quando la Costituzione ha voluto attribuire a un organo politico i poteri dell'autorità giudiziaria, lo ha fatto esplicitamente: così per le commissioni di inchiesta parlamentari (art. 82 Costituzione).
A tutto concedere, potrebbe sostenersi che Giunta e Parlamento svolgono, in occasioni come queste, un ruolo politico: che vuol dire verificare che la condanna non sia dovuta a persecuzione per motivi politici, tesi in linea con l'istituto dall'autorizzazione a procedere, per decenni prevista dall'art. 68 della Costituzione. Ma, appunto, l'istituto in questione è stato abrogato, segno evidente che questo privilegio tale è stato considerato: vantaggio indebito riservato a una ristretta categoria di cittadini. Allora la lettura dell'art. 66 della Costituzione va fatta alla luce di un criterio interpretativo unitario: nessun giudizio politico sulle sentenze dei giudici è costituzionalmente possibile; residuano le autorizzazioni in materia di perquisizioni, arresti, intercettazioni che sono però relative a provvedimenti tipici della fase delle indagini, propri dei pm e adottati in un contesto in cui l'accertamento della colpevolezza ancora non è avvenuto. Sicché la tesi che attribuisce a Giunta e Parlamento un semplice ruolo notarile (presa d'atto della sentenza e deliberazione delle conseguenze legali di essa) è, all'evidenza, l'unica fondata.
E POI, TANTO per cambiare, sono in contraddizione con se stessi. “Rivendichiamo il ruolo di controllo politico del Parlamento! ”. Va bene. Ma allora non potete sollevare eccezione di incostituzionalità perché questo lo può fare solo l’autorità giudiziaria. Se il vostro è un controllo politico delle sentenze, va da sé che non siete giudici. “Allora proponiamo ricorso alla Cedu”. Prima di tutto lo può fare solo B. (che infatti lo ha presentato). Ma poi, di nuovo, bisogna che si mettano d'accordo con se stessi. Se fosse fondata la tesi secondo la quale Giunta e Parlamento possono presentare ricorso alla Corte costituzionale in quanto titolari, in questo caso, di poteri giurisdizionali, ne deriverebbe implicitamente che l'iter giudiziario di B. non è concluso. Ma, come è noto, il ricorso alla Cedu è possibile solo quando tutti i gradi di giudizio sono esauriti.
Tutta fuffa, come si vede. In realtà, in qualsiasi altro Paese del mondo civile, nessuno penserebbe che una legge che prevede la decadenza da cariche politiche per i condannati sia necessaria. Nel mondo civile il politico condannato (veramente anche solo indagato; e anche quello beccato in comportamenti immorali, anche se non penalmente rilevanti) se ne va spontaneamente, umiliato e confuso; e se non lo fa lui, è il suo partito che lo caccia. Nel nostro straordinario Paese, non solo B. non se ne va spontaneamente; non solo le brave persone (qualcuna ce ne sarà, che diavolo!) che militano nel Pdl non chiedono formalmente di cacciarlo; non solo perfino alcuni uomini di “sinistra” (Cristo si rivolterebbe nella tomba, visto che era “socialista” - La Giustizia 5/1888, Camillo Prampolini) sostengono che B., a differenza di tutti gli altri cittadini, ha diritto a un quarto grado di giudizio; ma soprattutto questa gente discute seriamente del fatto che una legge funzionale a espellere i delinquenti dal Parlamento, approvata otto mesi orsono dal Parlamento tutto (in particolare da loro), in realtà è incostituzionale e liberticida. Della serie, sì è giusto buttare fuori i delinquenti dal Parlamento: ma solo quelli nuovi; i delinquenti di più vecchia data ce li teniamo, oramai ci siamo abituati.
La Stampa 14.9.13
La Giunta per le elezioni
La nomina del nuovo relatore mette in imbarazzo il Pd
Fioroni: «Uno dei nostri? sarebbe una follia». Nessuno vuol passare per il «grande inquisitore»
di Francesca Schianchi
In un corridoio di Montecitorio, l’ex ministro Beppe Fioroni scuote la testa. «Sarebbe una follia anche solo che il Pd pensasse di farlo», ripete. L’argomento è l’ormai celeberrima Giunta per le elezioni del Senato, impegnata a discutere su Berlusconi. E quello che all’esperto deputato democratico sembra «una follia» è l’ipotesi che il prossimo, probabile relatore della questione possa essere un uomo del Pd. Succede infatti che la Giunta, mercoledì, procederà al voto sulla relazione del Pdl Augello: prevedibile è la bocciatura della proposta; a quel punto, toccherà al presidente Stefano indicare un nuovo relatore tra la maggioranza che avrà votato contro e che, presumibilmente, sarà composta da Pd, M5S e Scelta civica. Chi, quindi?
Una scelta che, vista la delicatezza della questione, non è neutra per i democratici. Conviene fare incarnare a uno di loro quello che chiederà la decadenza di Berlusconi e, nella narrazione del centrodestra, diventerebbe immediatamente il grande inquisitore? «Una follia», dice Fioroni, meglio affidare il ruolo a qualcuno di un altro partito. Il capogruppo in Giunta Giuseppe Cucca si appella alla procedura ricordando che «si tratta di una prerogativa del presidente scegliere il nuovo relatore e individuare la figura più opportuna». Che, ricorda il lettiano Francesco Sanna, dovrà saper spiegare chiaramente la situazione. «Perché dovrà sostenere la seduta pubblica, con i membri della Giunta schierati ma che non parleranno, il senatore Berlusconi che, se vuole con i suoi legali, potrà difendersi, e tv di tutto il mondo puntate addosso. Il nuovo relatore dovrà essere qualcuno capace di spiegare con chiarezza la posizione al Paese intero», sottolinea Sanna. Magari, dice più di uno, sarebbe meglio evitare che venisse scelto uno dei membri democratici della Giunta tra quelli che hanno spesso rilasciato dichiarazioni e interviste. «Sono certo che chiunque dei componenti della Giunta del Pd ricoprirebbe il ruolo con scrupolo e sulla base delle carte, perché non si tratta di una scelta politica – assicura il veltroniano Walter Verini –, ma forse per evitare di fornire alibi e scuse per strumentalizzare la questione, sarebbe meglio scegliere qualcuno che non si è troppo esposto con dichiarazioni nei giorni scorsi». Il capogruppo Cucca spiega che «noi non ci siamo neppure posti il problema, perché sarebbe un’ingerenza nelle prerogative del presidente». Ma forse una valutazione nei giorni prossimi andrà fatta.
il Fatto 14.9.13
M5S: foto, minacce e “oscuri informatori”
I parlamentari smentiscono la nascita di nuovi gruppi
Pizzarotti: “Non farò il sottosegretario”
Ma è tutti contro tutti
di Paola Zanca
Minacce, fotografie, sms, “oscuri e segreti informatori”. L’aria intorno al Movimento Cinque Stelle è piuttosto tesa. Le notizie sul progetto – ancora in divenire e in balìa degli eventi – di un nuovo gruppo al Senato e del suo corrispettivo alla Camera scatenano un coro di smentite. Prendono le distanze i tre friulani eletti in Parlamento: il senatore Lorenzo Battista e i deputati Aris Prodani (“Mai, dalla mia bocca, è uscita un’ipotesi del genere. Sono stato eletto con il M5S. E con il M5S terminerò il mio mandato”) e Walter Rizzetto (“Vado avanti dritto per la mia strada. Il contraddittorio non è dissidenza come del resto il solo dialogo non è tradimento” ). Si tirano fuori Alessio Tacconi, Ivan Catalano, Gessica Rostellato e Paola Pinna (“Fantasie”), mentre Francesco Campanella manda a dire alla “fonte di quelle voci” che “può rosicare fino allo spasimo”: lui non se ne va. Ormai è guerra tra bande. E lo dimostra l’ultima puntata della crisi di nervi a Cinque Stelle. Si tratta di una foto, scattata con un cellulare l’altro ieri nell’aula del Senato. Ritrae tre dei senatori “indiziati” (lo stesso Campanella, Battista e Fabrizio Bocchino) intenti a leggere qualcosa sul computer. La paranoia interna ha raggiunto livelli tali che la considera la prova madre della “cospirazione”: pochi minuti dopo quello scatto, Battista pubblicherà su Facebook un post condiviso dal fuoriuscito Zaccagnini e dai colleghi Luis Orellana, Monica Casaletto, Alessio Tacconi, Fabrizio Bocchino in cui, tra le altre cose, si chiedeva: “Mesi fa ebbi modo di chiedere se il M5S si sarebbe fatto trovare pronto quando B. avrebbe staccato la spina al governo. Siamo pronti? ”.
Federico Pizzarotti pare di no. Ieri ha risposto agli “oscuri informatori” che lo “avrebbero avvisato della certa caduta dell’attuale governo”, secondo i quali “il primo ottobre mi dimetterei da sindaco pronto per essere chiamato a un incarico da sottosegretario in un ipotetico Letta bis, oppure che mi candiderei a futuro premier”. “Tranquillizzo i detrattori – dice Pizzarotti – sono stato eletto sindaco di Parma e non c’è altro a cui penso”.
È un clima che scatena gli istinti più bassi e retrivi della Rete, tanto che molti degli eletti denunciano inaccettabili minacce ricevute sui profili Facebook e Twitter. Hanno chiesto a Beppe Grillo in persona di abbassare i toni, perchè l’aria è pesante. Lui ha risposto ieri aprendo sul blog la tanto attesa sezione dedicata all’attività dei parlamentari e rendendo pubblico il discusso intervento di Gianroberto Casaleggio a Cernobbio. Il guru agli imprenditori ha parlato dell’avvento della democrazia diretta: “Si diffonderà in futuro grazie all’aumento dell’informazione libera dovuto a Internet”. Poi ha ricordato la prima apparizione di Nixon e Kennedy in tv: “Allora si disse: ‘mostratemi un politico che non capisce la televisione e vi mostrerò un perdente’, oggi vale la stessa cosa: ‘mostratemi un politico che non capisce Internet e vi mostrerò un perdente’”.
La Stampa 14.9.13
Cinque Stelle
Video-lezione di Casaleggio “Il Parlamento risponda al web”
di Andrea Carugati
Esangue e pallido come un gallese di campagna, accompagnato dal suono magneticamente soporifero di una chitarra classica, Gianroberto Casaleggio, profetica guida del Movimento 5 Stelle, presenta sul blog di Grillo - in un video in cui le sue immagini da fotoromanzo si alternano alle slide che accompagnano i ragionamenti - il controverso discorso tenuto a Cernobbio l’8 settembre davanti alla platea più potente del Paese. La supposta Casta che detesta e blandisce.
Nelle foto Casaleggio appare come un uomo con un fascino disordinato, che dà l’impressione di avere una gamma di emozioni che ballano tra la malinconia e la scontrosità. Ma soprattutto una lezione da impartire. Spiega agli astanti la rivoluzione internet. E gli effetti che produrrà l’accesso globale dei cittadini all’informazione. Le prospettive di un mondo che sta per passare da un triciclo a una Kawasaki. «La democrazia diretta si diffonderà grazie all’aumento dell’informazione libera. Internet non è solo un super-media destinato a assorbire tutti gli altri, è lo strumento che sta trasformando la società». Benvenuti su un pianeta in cui tutti sanno tutto, in cui i media classici non esistono più, in cui i politici esistono solo se soddisfano le esigenze dei cittadini. Chi non è all’altezza viene rispedito a casa dai suoi elettori con l’utilizzo del recall. «Se il recall fosse presente nel nostro Parlamento, il Parlamento sarebbe molto diverso». Forse. O forse il recall lo utilizzerebbero anche le organizzazioni criminali. Chissà.
In attesa di raggiungere l’obiettivo - apparentemente non vicinissimo - di avere una classe di elettori informati, il Guru dovrebbe trovare un modo per tenere informati i propri parlamentari, che da mesi lavorano su una proposta di legge elettorale. Peccato che Grillo e Casaleggio abbiano deciso di chiedere alla Rete quale sistema gradirebbe. E per agevolare la coscienza dei propri cittadini si affideranno a una serie di costituzionalisti (neutrali?) che terranno lezioni sui vari modelli possibili. A quel punto interverrà la scelta popolare. E il lavoro dei loro portavoce-parlamentari? Preistorica carta straccia.
l’Unità 14.9.13
Calano gli aborti aumentano gli obiettori
Relazione al Parlamento sui dati 2011-12: -5% d’interruzioni volontarie di gravidanza. Dimezzate in 30 anni
Complessivamente, si praticano 105mila Ivg l’anno: uno dei dati più bassi dei Paesi occidentali
Il 70% dei ginecologi non applica la 194
di Pino Stoppon
Calano gli aborti. È stata trasmessa ieri al Parlamento la relazione annuale sull’attuazione della legge 194/78, sulla tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), che presenta i dati preliminari relativi al 2012 e quelli definitivi del 2011. Nella relazione ancora una volta viene confermato il trend degli anni precedenti: una diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza secondo tutti gli indicatori. I dati preliminari indicano che nel 2012 sono state effettuate 105.968 Ivg, con un calo del 4,9% rispetto al dato definitivo del 2011 (111.415 casi) e un decremento del 54.9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all’Ivg: allora furono 234.801 casi. Il tasso di abortività (numero delle Ivg per 1000 donne in età feconda tra 15-49 anni), l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’Igv, nel 2012 è risultato pari a 7,8 per 1.000, con un decrementi simili al dato generale.
«Per la prima volta ha commentato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin è stato avviato un monitoraggio articolato sul territorio relativamente ad alcuni aspetti dell’applicazione della 194, quelli più specificamente legati all’obiezione di coscienza, che arriva fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio. I dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace. Stiamo lavorando per verificare, insieme alle Regioni, la presenza di eventuali criticità locali per giungere al più presto al loro superamento».
Dal 1983 il tasso di abortività è diminuito in tutti i gruppi di età, più marcatamente in quelli centrali. Tra le minorenni, nel 2011 è risultato pari a 4,5 per 1000 (stesso valore del 2010), con livelli più elevati nell’Italia settentrionale e centrale. Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale, così come minore è la percentuale di aborti ripetuti e di quelli dopo novanta giorni di gravidanza. Rimane elevato il ricorso all’Ivg da parte delle donne straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle Ivg totali in Italia: un contributo che è andato crescendo negli anni e che si sta stabilizzando.
Nella relazione si osserva anche come l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza abbia riguardato elevate percentuali di ginecologi fin dall’inizio dell’applicazione della Legge 194, con un aumento percentuale del 17,3% in trenta anni, a fronte come si è visto di un dimezzamento delle Ivg nello stesso periodo. In particolare, una stima della variazione negli anni degli interventi di Ivg a carico dei ginecologi non obiettori mostra che dal 1983 al 2011 gli aborti eseguiti mediamente ogni anno da ciascun non obiettore si sono dimezzati, passando da un valore di 145,6 Ivg nel 1983 (pari a 3,3 ivg a settimana, ipotizzando 44 settimane lavorative annuali, valore utilizzato come standard nei progetti di ricerca europei) a 73,9 ivg nel 2011 (pari a 1,7 aborti a settimana, sempre in 44 settimane lavorative in un anno).
I numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi d’interruzione di gravidanza.
Eventuali difficoltà nell’accesso a questi «percorsi» sembrano quindi dovuti ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. In collaborazione con le Regioni, il Ministero delle Salute ha avviato un monitoraggio a livello di singole strutture ospedaliere e consultori per verifica-
re meglio le criticità e vigilare, attraverso le Regioni, affinché vi sia una piena applicazione della Legge su tutto il territorio nazionale, in particolare garantendo l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei singoli operatori sanitari che ne facciano richiesta e, al tempo stesso, il pieno accesso ai percorsi di Ivg, come previsto dalla Legge, per le donne che scelgano di farvi ricorso.
La Stampa 14.9.13
L’annuale relazione al Parlamento
Aborti in calo, ma non tra le minorenni
I medici obiettori di coscienza cresciuti del 17% in 30 anni
Il ministro: la via farmacologica assente in molte regioni
di Flavia Amabile
La legge 194 sull’interruzione di gravidanza è applicata efficacemente. La ministra della Salute Beatrice Lorenzin presenta la relazione annuale da trasmettere in Parlamento e si dice soddisfatta. Eppure, ad analizzare bene il documento, si scopre che c’è l’usuale ritardo di mesi e mesi rispetto alla scadenza prevista per la presentazione, ci sono le interruzioni che non calano fra le minorenni e le donne immigrate, ci sono gli obiettori di coscienza che lievitano (sono aumentati del 17% in 30 anni, scrive la relazione) e ci sono intere regioni dove l’aborto farmacologico non è possibile.
Il vero dato positivo è il calo costante delle interruzioni di gravidanza. Nel 2012 sono stati effettuati 105.968 aborti con un calo del 5% rispetto all’anno precedente quando le interruzioni di gravidanza erano state 111.415. Dal 1982, anno in cui si hanno i primi dati sull’applicazione della legge, si è avuta in totale una diminuzione del 54,9% degli interventi (allora si era a quota 235 mila interruzioni).
A questo trend fanno eccezione le minorenni e le donne immigrate. Il tasso di abortività delle minori, è stato nel 2011 il 4,5 per 1000, lo stesso valore del 2010. Per le immigrate il ministero non ha ancora fornito dati definitivi ma informa che si tratta di tassi «elevati e costanti», e gli aborti che le riguardano sono un terzo del totale.
Fra le italiane, invece, il numero di aborti per mille donne, dai 15 ai 49 anni è calato in un anno dal 2011 al 2012 dell’1,8%, siamo a 7,8 per mille. Si conferma la tendenza tutta italiana di fare meno ricorso alle interruzioni di gravidanza rispetto al resto dei Paesi industrializzati, tendenza confermata anche fra le minorenni rispetto alle coetanee europee.
Secondo il ministero non esiste un’emergenza obiettori»: il numero di Ivg praticate ogni anno dai ginecologi non obiettori si sono dimezzate, passando da 146 all’anno nel 1983 a 74 nel 2011. Secondo la relazione «i numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi di Ivg» Se poi ci sono difficoltà sono dovute «ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione». La realtà è che sette ginecologi su 10 sono obiettori e che in 30 anni sono cresciuti del 17% anche se ora la loro percentuale rispetto al totale sta stabilizzandosi. La ministra Lorenzin ha avviato a giugno, per la prima volta, un monitoraggio insieme alle regioni per capire che cosa accade «fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio».. Per Eugenia Roccella, deputata del Pdl la relazione mostra che «ciascun non obiettore ha a proprio carico 1,7 interruzioni a settimana. Il loro carico di lavoro è molto basso».
l’Unità 14.9.13
Rafforzare i centri di salute mentale
di Nerina Dirindin
Senatrice Pd
L’OMICIDIO DELLA DOTTORESSA PAOLA LABRIOLA DI BARI È L’ENNESIMA MORTE SUL LAVORO, DI FRONTE ALLA QUALE NON PUÒ CHE ESSERCI RISPETTO E MEDITATA PARTECIPAZIONE. Per chi si occupa di politiche sanitarie, l’omicidio è anche l’occasione per riflettere ancora una volta sulle azioni necessarie per qualificare l’attività svolta dai servizi di salute mentale, promuovere servizi inclusivi ed integrati e migliorare le condizioni di lavoro degli operatori.
Una premessa è necessaria: a uccidere la dottoressa Labriola è stato un giovane uomo, non la malattia mentale. La relazione tra violenza e malattia mentale, luogo comune molto diffuso, non è dimostrata dalle evidenze scientifiche. Anche nei casi in cui comportamenti violenti e disturbo mentale sono associati, le ricerche non documentano un rapporto di causa effetto; anzi i dati mostrano che il tasso di reati gravi commesso da persone con disturbo mentale non è superiore a quello dei cosiddetti «normali». Non si può quindi rispondere a questi episodi invocando solo il ricorso a misure di sicurezza. In Italia i manicomi sono chiusi da ben 35 anni e, malgrado le più nere previsioni, non abbiamo assistito ad una crescita generalizzata della criminalità legata alla malattia mentale, né ad un aumento drammatico degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari. La riduzione dei livelli di violenza si ottiene con la cultura dell’accoglienza, facendo in modo che le persone siano seguite da una adeguata rete di servizi; non si ottiene con un aumento del numero di telecamere, guardie giurate e campanelli d’allarme applicati a servizi scadenti e sottofinanziati. Per fare in modo che gli operatori e anche i pazienti siano al sicuro, le persone devono essere inserite in un sistema territoriale di servizi efficiente. Quando i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura funzionano bene, a porte aperte e senza contenzione fisica, gli episodi di aggressività dei ricoverati sono significativamente inferiori a quelli registrati dove le porte sono chiuse e si pratica la contenzione meccanica.
È alla luce di questi dati e dell’analisi delle buone prassi che bisogna domandarsi cosa possiamo fare perché tragedie come quella di Bari non accadano più.
Come scritto nella legge 180 e nei progetti obiettivo di salute mentale, servono servizi di salute mentali «forti», dotati di adeguate risorse umane, radicati nel territorio ed integrati con gli altri servizi socio-sanitari: Centri di Salute Mentale aperti sette giorni alla settimana, almeno 12 ore al giorno, capaci di accogliere la persona nella sua globalità di bisogni e farsi carico del suo contesto sociofamiliare, sostenerla negli ambienti naturali di vita avviando progetti individualizzati e attivando i budget di salute. Ad oggi, nella quasi totalità delle Regioni, i Csm sono invece solo ambulatori specialistici che forniscono risposte frammentate e parcellizzate, dove gli operatori lavorano da soli, spesso demotivati, quando non in pericolo. Paola Labriola era sola a fare accoglienza: non mancava la guardia giurata come alcuni hanno detto, ma mancava l’equipe, mancava una rete di servizi di supporto. E continuare a far mancare quella rete, non migliora la sicurezza di nessuno, ma rende tutti noi corresponsabili di questi episodi drammatici.
E la morte della dottoressa Labriola non è, purtroppo, che la più recente di una lunga lista di morti, su differenti fronti, frutto della difficoltà a realizzare un reale rinnovamento nei servizi di salute mentale. Ricordiamo Giuseppe Casu, morto a Cagliari dopo aver trascorso 144 ore legato al letto, oppure Franco Mastrogiovanni, morto a Vallo della Lucania nelle stesse tragiche condizioni, dopo 84 ore. E l’ultimo tragico episodio, che risale solo al 12 agosto, a Civitavecchia, dove un uomo ha cercato di liberarsi dai lacci che lo costringevano usando un accendino, finendo per bruciare vivo.
La politica di riordino dell’organizzazione dei servizi della salute mentale preannunciata in Puglia meriterebbe qualche approfondimento. L’accorpamento dei servizi territoriali porterà sì ad un aumento di personale, ma a fronte di una triplicazione del bacino d’utenza per ogni Csm, aumentando la distanza degli operatori dalla comunità, dalla quotidianità della vita delle persone. Preoccupa che la Puglia spenda due terzi delle risorse per la salute mentale per ricoveri in istituti, strutture e comunità sedicenti terapeutiche e che i dieci Servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura, sempre affollati, operino con le porte chiuse e facciano ricorso alla contenzione. Si torni invece ad investire sui servizi territoriali, mantenendoli vicini ai pazienti e alle loro famiglie; riqualifichiamo la spesa, sosteniamo e ri-motiviamo gli operatori, riconoscendo loro professionalità e dedizione. Evitiamo di attribuire troppo facilmente le responsabilità degli episodi drammatici ai pazienti e asteniamoci dal strumentalizzare le morti.
il Fatto 14.9.13
Usa
50 anni a un prete pedofilio
Shawn Ratig, il prete scoperto ad aver scattato centinaia di foto “intime” o pornografiche di bambini della sua parrocchia a Kansas City, è stato condannato a 50 anni di carcere. Il giudice ha deciso una pena di 10 anni per ognuno dei 5 bambini violati nella loro intimità.
Repubblica 14.9.13
Nuova Delhi, condannati a morte gli stupratori della studentessa Folla in festa davanti al tribunale
I genitori: “Giustizia è fatta”. I media: sentenza storica
Ma non sarà il boia a salvare le donne
di Shoma Chaudhury
LA VIOLENZA subita da una sola ragazza, il 16 dicembre del 2012, ha avuto l’effetto mirabolante di risvegliare la coscienza di un Paese intero. Ha spinto un miliardo e duecento milioni di cittadini di una nazione zeppa di contraddizioni a guardarsi dentro come mai forse avevano fatto prima.
L’ondata di rabbia generata dallo stupro di gruppo New Delhi è stata benvenuta e catartica. Oggi nei salotti scintillanti della classe media urbana, così come nelle catapecchie di villaggi e baraccopoli, lo stupro ha smesso di essere tabù. Sedute attorno a un tavolo, intere famiglie hanno iniziato a discutere di quanto strisciante fosse la misoginia nel Paese, se le donne avessero paura di denunciare gli stupri che subivano perché non sarebbero state viste come vittime, ma come colpevoli. Fino a ieri questa concezione patriarcale così crudele permeava non solo la struttura familiare, ma anche le istituzioni statali. Tanto che persino le forze dell’ordine non si prendevano più di tanto il disturbo a indagare le denunce di stupro che ricevevano da chi aveva il coraggio di farsi guardare dagli agenti come una sgualdrina per quello che aveva subito.
Il processo di introspezione che è seguito alle imponenti proteste di piazza di dicembre e gennaio ha messo a nudo tutto questo. Lo stupro di una studentessadi ventitré anni hamostrato all’India le sue debolezze, ma alla fine le ha infuso anche forza. Ha mostrato quanto lo stupro in India fosse giustificato culturalmente, quanto fosse usato come rozzo strumento di controllo sulle donne, esercitato anche dalle caste alte verso quelle più basse. Ma dopo quell’evento l’India ha iniziato a percorrere un processo difficile, ma essenziale, di coraggio e maturità. Ha iniziato a sanare quell’enorme contraddizione tra un Paese in preda a una spumeggiante emancipazione economica, ma ancora attraversato da una cultura profondamente tradizionalista, dove il rispetto dei costumi può diventare pretestuosamente l’àncora a cui aggrapparsi nella disorientante fase di globalizzazione.
Eppure questo processo di introspezione ha avuto anche effetti terrificanti. Sull’onda emotiva delle proteste lo Stato si è arrogato il diritto di togliere la vita a quattro uomini colpevoli di uno stupro. Può uno Stato che fregia di chiamarsi la più grande democrazia al mondo arrogarsi questo diritto? La pena di morte è una condanna estremamente sproporzionata anche di fronte al più orribile dei reati. Non c’è alcun dubbio che gli autori dello stupro delloscorso dicembre, che hanno martoriato il corpo di quella povera ragazza al punto da farla morire per le lesioni interne che le avevano provocato, andavano puniti con estrema durezza. Ma la sentenza emessa dal tribunale di Nuova Delhi non servirà da deterrente verso potenziali stupratori. Non aiuterà a salvare altre donne dall’infamia della violenza carnale. Al contrario, la legge che quest’anno, sull’onda emotiva dell’indignazione sollevata dallo stupro di Delhi, ha esteso la pena di morte anche ai colpevoli di violenze non farà che causare la morte di altre donne. Perché ora chi commetterà questo crimine preferirà uccidere la sua vittima per cancellare la prova vivente di quel gesto.
(Testo raccolto da Valeria Fraschetti)
Repubblica 14.9.13
Stefano Rodotà affronta al Festival di filosofia il rapporto tra leggi e passioni
Diritto d’amore
Perché i sentimenti sfuggono alle regole
di Stefano Rodotà
Nel 1943, nella Roma occupata dai tedeschi, uno dei maggiori giuristi del tempo, Filippo Vassalli, distoglie per un momento lo sguardo dal “tramonto sanguigno della nostra civiltà” e si dedica a un piccolo e raffinato libro nel cui titolo, inattesa, compare la parola “amore”. Inattesa, perché rompe la sequenza dei riferimenti a categorie giuridiche che vogliono ridurre il rapporto amoroso a un potere proprietario sul corpo del coniuge. E perché impone l’attenzione per quella che può apparire come una relazione impossibile – quella tra amore e diritto.
Nel definire la vita, Michel de Montaigne ne aveva parlato come di “un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Qualcosa, dunque, che per la sua intima natura si presenta irriducibile alle esigenze di un diritto che parla invece di eguaglianza, regolarità, uniformità, dunque di astrazioni che non tollerano l’imprevedibile, il volubile, la sorpresa. Lo stesso può dirsi dell’amore, che consegna alla vita il massimo di soggettività, la immerge nelle passioni, nell’intimo di motivi che la regola giuridica non può e non vuole cogliere, perché intende parlare il linguaggio della ragione e non dei sentimenti. Ancora una volta le ragioni del cuore che la ragione non può comprendere?
Forse il tentativo più intenso di sfuggire a questa logica conflittuale può essere cercato in un poema di W. H. Auden, Law Like Love, dove un tratto comune è ritrovato nel fatto che, quando il diritto viene considerato dal punto di vista della singola persona, diviene anch’esso legato ad una vita che lo rende indefinibile in termini astratti, appunto come l’amore. Un paradosso poetico o una indicazione di cui profittare?
Nell’esperienza storica, il diritto ha variamente definito un perimetro chiuso, l’unico all’interno del quale l’amore può essere considerato giuridicamente legittimo – il rapporto coniugale. In questo perimetro viene poi operata una seconda riduzione, riportando il rapporto tra i coniugi a uno schema patrimoniale, che vede il coniuge proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali.
Viene così costruito uno spazio giuridico recintato, governato dalla ragion pubblica e dall’autorità maschile, nel quale l’amore è sostituito dalla gerarchia, con il marito “capo della famiglia”. Si perdeva così il senso delle parole di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: «la moglie non ha potere sul suo corpo, ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio corpo, ma la moglie». In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza tra i coniugi, che morale religiosa e regola giuridica poi tenacemente contrasteranno, in un contesto fatto di diffidenze, se non di ostilità, di limiti imposti dal buon costume e dall’ordine pubblico, con barriere invalicabili per un diritto riconducibile all’amore.
Sul testo più rappresentativo della modernità giuridica, il codice civile francese del 1804, non soffia lo spirito di Olympe de Gouges e della sua Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine che, in nome del “sesso superiore per bellezza e coraggio”, si apre proclamando che “la donna nasce libera e rimane eguale all’uomo per quanto riguarda i diritti”. Al contrario, in quel codice il diritto di famiglia è impregnato delle “turcherie” di Napoleone che, all’epoca della campagna d’Egitto, era stato colpito dal modo in cui il diritto islamico regolava i rapporti tra donna e uomo. E il linguaggio del suo codice non potrebbe essere più eloquente: «ilmarito ha il dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito». Un modello che si diffonderà oltre i confini francesi, troverà accoglienza nella legislazione italiana, con una minuzia di prescrizioni che allargherà ancora di più il fossato tra amore e diritto.
Obbedienza e subordinazione, logica autoritaria e patrimonialistica, senza spazio per gli affetti. Certo, le donne non perdono il potere domestico, “il potere delle chiavi”, a condizione di rimanere nel triangolo che la tradizione tedesca indica con le tre K di “Kinder, Kuche, Kirche” (bambini, cucina, chiesa). E rimane il potere di influire sulla sfera pubblica grazie a quella che, sempre Olympe de Gouges, ha chiamato «l’administration nocturne des femmes ».
Oltre questi confini il diritto fa comparire l’amore con i segni della stigmatizzazione sociale e della sanzione penale. Reato l’adulterio; “figli della colpa” quelli nati fuori del matrimonio; repressione della sessualità femminile; negazione dell’identità omosessuale; irrilevanza delle unioni di fatto. Ci imbattiamo così in un “amore fuori legge”..
Sono queste le ripide mura da scalare per costruire una cittadinanza giuridica per l’amore. Per ciò il diritto deve ritirarsi progressivamente da molti degli spazi che aveva occupato. E quindi: libertà attraverso il divorzio al posto del matrimonio indissolubile; eliminazione dell’adulterio come reato; riconoscimento della libertà sessuale attraverso il legittimo ricorso alle tecniche anticoncezionali e alla interruzione della gravidanza; e, soprattutto, riforma del diritto di famiglia, che nel 1975 sostituisce il modello gerarchico con quello paritario, fondato sugli affetti, e riconosce i diritti dei figli nati fuori del matrimonio. Al posto della norma costrittiva troviamo la volontà delle persone, libere di costruire la loro vita e l’insieme delle relazioni, non più chiuse nel perimetro obbligato del matrimonio. Scompaiono l’impropria identificazione tra peccato e reato e il peso di una morale di cui il diritto si faceva custode, in una visione pubblicistica che vincolava le persone non alla realizzazione dei sentimenti, ma alla stabilità sociale e alla continuazione della specie.
A fondamento di questo rinnovato modo di guardare alle persone troviamo il riconoscimento dell’eguaglianza, la logica dei diritti fondamentali, la scoperta del corpo. Qui è visibile l’influenza dal pensiero femminista, ineliminabile presenza critica. La centralità del corpo ridisegna il tema dall’identità,propizia la rilevanza costituzionale del riferimento alle “tendenze sessuali”. L’amore non è sciolto da tutti i vincoli, non è “il libero amore” associato ai momenti rivoluzionari. Ma l’aver liberato la vita affettiva da una serie di obblighi coatti, l’aver attribuito un ruolo centrale alla volontà delle persone, l’aver messo al centro dell’attenzione i dati di realtà e non solo le categorie giuridiche, sono i fondamenti di un diverso rapporto tra amore e diritti.
Non siamo approdati ad una situazione pacificata. Forse la questione che meglio esprime tensioni e opportunità è quella del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ormai centrale nel dibattito pubblico e nella legislazione di un numero crescente di paesi, con una Italia che arranca, prigioniera ancora di quella che Martha Nussbaum ha definito “la politica del disgusto”. Ma dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea viene una indicazione ineludibile: matrimonio e altre forme di convivenza sono messe sullo stesso piano, e scompare il riferimento alla diversità di sesso.
Resi sempre meno costrittivi i vincoli giuridici, e accresciuta la possibilità per le persone di utilizzare modelli diversi nei quali riversare il loro desiderio d’amare, possiamo dire che siamo di fronte ad un amore “a bassa istituzionalizzazione”. Questo non fa certo scomparire un riferirsi all’amore come travestimento del narcisismo, addirittura come giustificazione della pretesa violenta di mantenere il possesso del corpo del partner. Ed è pure vero, come sottolinea Silvia Vegetti Finzi, che «in un mondo incerto manca all’amore una cornice sociale che lo confermi e lo stabilizzi». Sociale, appunto, sì che sarebbe un vano e pericoloso rifugiarsi nel passato esigere di nuovo un diritto che si impadronisca della vita delle persone.
Repubblica 14.9.13
L’intellettuale americano è morto a 73 anni
Addio a Berman, marxista e moderno
di Federico Rampini
Marshall Berman (1940-2013) Tra i suoi saggi L’esperienza della modernità
NEW YORK Nelle più diffuse traduzioni italiane, la frase è fin troppo esplicitata: «Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce», oppure «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi». Nella versione originale delManifesto comunista di Karl Marx e Friederich Engels l’immagine è più astratta, misteriosa. Citata da sola richiama un trattato di fisica. «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Significa che il potere rivoluzionario del capitalismo non risparmia nulla: ha travolto società feudali scaraventandole nella modernizzazione, e prima o poi la sua furia distruttiva dissolverà la stessa borghesia. È quella frase che Marshall Berman scelse come titolo del suo libro più bello e più fortunato, pubblicato in Italia dal Mulino. Fu una fatica durata dieci anni, cominciò a scrivere nel 1971 e finì nel 1981. Ne valeva la pena: fu all’origine di un revival d’interesse americano per il marxismo, capace di sopravvivere alla caduta del Muro di Berlino. Trent’anni prima della grande crisi del 2008 o di Occupy Wall Street, Berman aveva riscoperto una lettura marxista del suo tempo, rifiutandosi di abbandonare quei testi alla critica dei roditori. Edmondo Berselli in
Adulti con riservalo ricordò come «una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo ed agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se la ficcava in bocca sporcandosi la barba»...
È morto come lo ricordava Berselli: stroncato da un infarto l’11 settembre, a settantatre anni, mentre mangiava in uno dei suoi “diner” preferiti, il Metro dell’Upper West Side. Newyorchese fino al midollo, nato nel South Bronx, laureato alla Columbia, docente al City College, Berman negli ultimi anni si era dedicato proprio alla storia della sua città, curando un’opera collettiva sulla Grande Mela “dal blackout a Bloomberg”. Teorico della modernità, la studiava nei grandi fenomeni sociali così come nella vita personale. Pubblico e privato facevano tutt’uno per lui, questo contribuiva al fascino dei suoi scritti: «Essere moderno, vuol dire sperimentare la propria vita personale e sociale come un vortice, trovarsi in una perpetua disintegrazione e trasformazione, fra turbamento e angoscia, ambiguità e contraddizione ». Cioè, appunto, essere parte di un universo in cui tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. Berman era capace di scrivere con la stessa prosa seducente sul Faust di Goethe, su Dostoevskij, o sull’architettura di Manhattan. Al centro del suo pensiero c’è la potenza creatrice e devastante della modernità. Non lo convinceva il pensiero “leggero” dei post-moderni. Anche in questo incrociava la sua filosofia con la sua esperienza di vita, segnata da tragedie come il suicidio della prima moglie. Da Dissent aThe Nation allaNew York Review of Books, la sua firma è stata su tutte le riviste più radicali e impegnate, dove l’intellighenzia newyorchese non rinuncia a esercitare la critica del presente. Era convinto, con Marx, che non basti interpretare la storia, occorre cambiarla.
l’Unità 14.9.13
Da oggi è in libreria «Sole nero»
Julia Kristeva. Sms ai lettori italiani
Un viaggio affascinante nella depressione e nella melanconia
Anticipiamo l’introduzione al nuovo libro della semiologa francese sull’attualità
di questo «sole nero»
Certi problemi non sono «solubili». Ma ciascuno può aprire la cicatrice delle sue pene e metterle in discussione
L’unica arma che abbiamo per combatterlo è la cultura
di Julia Kristeva
Sole nero. Depressione e melanconia di Julia Kristeva traduz. Alessandro Serra pagine 215 euro 27,50 Donzelli
Due tesi sostengono questo libro: la prima è che la «melanconia» degli antichi, abbia assunto ai giorni nostri il volto di una malattia riconoscibile: la depressione. La seconda è che quest’ultima, proprio perché sperimenta l’inconsistenza del senso delle cose, sia capace di cambiare il pensiero e le forme artistiche.
CHI È
Da «Genio femminile» a «Storie d’amore»
Julia Kristeva insegna Linguistica e Semiologia all’Università di Parigi. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi attorno ai temi della psicoanalisi. Di Kristeva, Donzelli
ha pubblicato, oltre alla trilogia sul «Genio femminile» («Colette», 2004; «Hannah Arendt», 2005; «Melanie Klein», 2006, ripubblicati in cofanetto nel 2010), «Bisogno di credere» (2006), «Teresa mon amour» (2008), «La testa senza il corpo» (2009), «Il loro sguardo buca le nostre ombre», con Jean Vanier (2011), «Storie d’amore» (2012).
E da oggi è in libreria «Sole nero».
VENTISEI ANNI DOPO LA PRIMA EDIZIONE FRANCESE DI SOLEIL NOIR. DÉPRESSION ET MÉLANCOLIE (GALLIMARD,PARIS1987),il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede se ho qualcosa da aggiungere. Io lo ringrazio, e senza deprimermi mi interrogo.
Per la verità, non avevo mai chiuso questo libro. I miei pazienti di oggi hanno una bella voglia di essere iperconnessi dai vari smart-phone e skype: il web non impedisce il suicidio; può capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari sono più che mai alla moda, e la bellezza resta immancabilmente l’altra faccia del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno diventando la norma, ma l’amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere quella forma lucida del perdono che è l’interpretazione. Le conferenze che ho tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lingue, mi persuadono dell’attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne sono scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più all’indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana?
Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa bottiglia.
Essendo cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare, in questa introduzione, una contrazione, una sorta di sms al tempo stesso denso e serrato, che la lettura del libro permetterà spero di distendere e sviluppare.
Sì, la depressione e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac, l’Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi sono in grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o senza di essi, la vita e la morte della parola si giocano nella caverna sensoriale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta dell’odio indicibile e dell’eccitazione innominabile che fa rinascere il suicida o la suicida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare.
Sì, la sindrome depressiva non è più soltanto un malessere personale. Le nazioni stesse oggi sono depresse, sotto lo choc della crisi endemica e dell’inevitabile austerità. L’Europa stessa è minacciata in prima persona da un malinconico pensionamento, con relativa perdita di identità, di valori e di fierezza. Avevo scritto Contre la dépression nationale (Textuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata già allora dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall’ondata degli immigrati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che mai, a quello stesso punto: perché l’identità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si traduca in una fonte di regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico politico dell’Europa che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo il Cristo morto di Holbein, rileggiamo El Desdichado di Gérard de Nerval, il carnevale dei Demoni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras... E parliamone: esiste una cultura europea. Cos’è? Ieri, oggi, domani? No, io non sono né depressa né depressiva. Certi lettori me lo chiedono, e approfitto dell’occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e l’ho vista sconfitta dalla persistenza del pensiero, che mia madre (cui ho reso omaggio nel mio La testa senza il corpo, Donzelli, Roma 2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da tutto... Più tardi ho voluto fare compagnia alla sofferenza dei malati all’Hôpital de la Salpetrière a Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che sono «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Aristotele e Heidegger, che la malinconia è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere.
E poi ho esplorato il genio femminile. E ho aggiunto l’erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); e oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi, se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi bisogni di credere e i suoi desideri di sapere. E preferisco di gran lunga l’éclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compiangersi nel mal-être alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt.
«La malinconia non è francese», mi avevano detto all’epoca dei critici che pensavano a Rabelais, a Sade, alla Rivoluzione, e nascondevano le loro lacrime, degne al massimo di brume tedesche o nordiche. È italiana, la malinconia? Sì o no? Amo il blu di Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli... Il mondo intero viene da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come culto della malinconia? L’Italia dunque come negazione delle realtà dolorose? O piuttosto come scrigno globalizzato della depressione nazionale, inmancanza di alternativa, in assenza di avvenire? Oppure chissà in anticipo sul désêtre mondiale, e pronta ad analizzare, a rivoltarsi, a rinascere?
Mi piacerebbe che quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi. Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre, tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzionarie o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non sono «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegarle. Il mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine che seguono. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere.
Repubblica 14.9.13
Una svolta per la storica sala romana gestita da attori e tecnici da oltre due anni. Diventa una società e produce il suo primo spettacolo scritto da Paravidino
Teatro Valle Non più occupato, diventa fondazione
di Anna Bandettini
ROMA In soli due anni e mezzo la sua storia è già stata percorsa da esaltazioni, critiche, entusiasmi, antipatie, illazioni e fantasie; da chi avrebbe fatto meglio, diverso, più intelligente e da chi lo considera un “luogo magico”, chi “uno spazio sprecato con tutte le compagnie che ci sono a spasso”, chi un “atto illegale”, chi “un’avventura pionieristica”... Nel panorama teatrale italiano pochi eventi hanno suscitato schieramenti stizzosi o entusiasti, tassi di incomprensione e sperticata adesione come il Teatro Valle Occupato di Roma, insolita esperienza di ribellione da quando, nel giugno 2011, per fermare un progetto, di fatto già pronto, di privatizzazione, la più antica sala teatrale chiusa della capitale, palcoscenico storico della prosa italiana (qui nel 1921 Pirandello esordì tra i fischi con I sei personaggi)venne occupato da artisti e tecnici — in buona parte precari — e restituita alla città diventando da subito un simbolo del difficile rinnovamento culturale nel paese, con riconoscimenti in Italia e all’estero.
Ora, piaccia o no, tra alti (tanti: qui hanno voluto esserci Peter Brook, Judith Malina, Luca Ronconi, Peter Stein...) e bassi, inevitabili turbolenze e ricambi interni, sempre sospinto tra quelli che lo vedono come “uno scandalo, una illegalità” e quelli che lo considerano un modello “di sperimentazione di nuove possibilità di produzione e partecipazione culturale“ come recita il premio della Principessa Margriet (ultimo prestigioso riconoscimento internazionale in ordine di tempo appena arrivato dall’Olanda, che verrà consegnato il prossimo marzo), il Valle Occupato annuncia un doppio importante traguardo: mercoledì verranno ufficialmente presentate la nascita della “Fondazione Teatro Valle Bene Comune”, alla presenza di Stefano Rodotà, che vi ha contribuito,e la prima produzione artistica, Il macello di Giobbe a cura di Fausto Paravidino, attesa per marzo 2014, autentica scommessa, prima produzione “partecipata”, frutto di saperi comuni tra cento e più artisti e tecnici.
Entrambe le notizie aprono un nuovo orizzonte nella storia del Valle e non solo. «La Fondazione rappresenta l’uscita dall’illegalità: smettiamo di essere occupanti — ammettono Laura, Daniele, Camilla, Valeria alcuni degli artisti impegnati a tempo pieno — Quando siamo entrati al Valle due anni e mezzo fa nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto. La protesta, però, è diventata prospettiva. Non solo grido, ma occasione per riflettere sul teatro e sulla possibilità di una “terza via” di gestione delle imprese culturali, oltre a quella di fare teatro per i soldi col ristorante e il merchandising o di farlo con la politica che poi decide chi deve essere il direttore. Noi stiamo provando una gestione pensata a partire dai beni comuni e dal principio di svincolare il peso di ogni socio dal suo rapporto economico. I seimila soci del comitato avranno pari peso. Il Comune di Roma? E’ vero, finora si è fatto carico delle bollette, ma a fronte di 90mila euro circa spesi per le utenze ha risparmiato il milione e 300 mila euro dei costi precedenti. Ci auguriamo che Ministero, Comune e tutte le istituzioni pubbliche vogliano riconoscere questa esperienza. Siamo aperti ad ogni forma di confronto. Un segnale? Qualche sera fa per lo spettacolo di Concita De Gregorio Manchi solo tuil ministro della Cultura Massimo Bray era tra gli spettatori del Valle. La Fondazione, intanto, conta su un capitale sociale patrimoniale di 140mila euro più altri 100 in opere d’arte offerte dai sostenitori». Per la gestione, è in preparazione un bilancio preventivo con «paghe regolari e uguali per quelliche lavorano e, speriamo un domani, anche per chi frequenterà i corsi di formazione» confidando anche nella collaborazione con istituzioni e fondi europei.
Quindicimila per ora gli euro stanziati perIl macello di Giobbe,altri ne verranno dal crowdfunding in modo da arrivare a 100mila euro per quella che si annuncia come una inversione di logica rispetto al consueto modo di scrivere e produrre teatro: il testo è di Fausto Paravidino, 37enne attore e drammaturgo (Exitè il suo ultimo applaudito lavoro), ma è il risultato di uno studio collettivo con altri autori. E anche il lavoro dei tecnici, degli scenografi è il frutto di laboratori e pratiche di confronto. In questi giorni una ventina di musicisti, sotto la guida di Enrico Melozzi, sta realizzando le musiche. «Per parlare di oggi siamo tornati all’antico — spiega Paravidino — a Shakespeare, ai grandi classici, alla Bibbia. Il nostro Giobbe è un padre perfetto, uno come Lear, come Napolitano, insostituibile e come tale suscita frustrazione in chi dovrebbe diventarne il successore ». Questo Giobbe “teatrale” è un onesto macellaio («quando si parla di finanza, viene naturale l’ambientazione in una macelleria ») stritolato dalla crisi economica. Prova a salvarlo il figlio, un liberista che vede la finanza come filantropia, e si arricchisce sul default del padre con «un’operazione simile a quella che ha distrutto la Grecia e sta distruggendo l’Italia», chiosa Paravidino. L’intreccio famigliare diventa un piccolo palcoscenico del mondo, fiabesco e realistico insieme: si parla di capitalismo rapace e amore, solitudine e vendetta. «Ci si chiede dov’è il bene — sottolinea l’autore — La risposta? Nella Bibbia, se non sei animato dalla fede, trovi una non risposta; se sei un credente, una risposta misteriosa. Lo spettacolo si limita ad articolare la domanda. Ma già vedere le proprie sfighe in palcoscenico, ti infondesperanza».
l’Unità 14.9.13
Referendum
I radicali consegnano 66mila firme per la legalizzazione dell’eutanasia
I promotori della legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia (associazione Luca Coscioni/Radicali, Exit Italia, Uaar, Amici di Eleonora onlus e Associazione Radicali Certi diritti), sono arrivati davanti alla Camera dei deputati per depositare 66.200 firme raccolte in tutto il paese. Le firme sono state portate a Montecitorio da alcuni attivisti, partiti in fila indiana, ciascuno con uno scatolone, dalla sede del Partito radicale che si trova in via di Torre Argentina. A guidare la «processione» è stata Mina Welby, che è anche la prima firmataria della proposta di legge, seguita da alcune figure di spicco dei radicali dell’associazione Luca Coscioni, come Marco Cappato, tesoriere dell’associazione e Filomena Gallo. «Questo è soltanto il primo passo, importantissimo al quale dovrà però seguire una vera e propria mobilitazione affinché questa proposta di legge non marcisca nei cassetti del parlamento», ha detto Cappato rivolgendosi in piazza di Montecitorio agli attivisti. «È tempo che come in altri paesi dell’Unione europea e negli Stati americani dove c’è stato un referendum, anche nel parlamento italiano si possa discutere se è meglio continuare con l’accanimento dello Stato nei confronti dei malati oppure se si vuole lasciare a ciascuno la libertà di decidere». «Sono molto commossa in questo momento ha affermato dal canto suo Mina Welby -, noi non vogliamo la morte di qualcuno ma soltanto una morte dignitosa. Vorrei non sentire più parlare di cittadini italiani obbligati ad andare all’estero per morire come vogliono». Sulla piazza gli attivisti hanno esposto alcuni striscioni a favore dell’eutanasia e campeggiano anche dei grandi palloni sui quali si legge «Eutanasia legale. Per vivere liberi fino alla fine». La stessa scritta è apposta anche sugli scatoloni contenenti le firme.