venerdì 13 settembre 2013

Repubblica 13.9.13
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso

QUAL è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante… bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenzadi Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Torino Spiritualità
Stasera l’incontro tra Anima e Psiche

qui
 

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Invitato ad aprire il convegno degli analisti junghiani in Brasile
Leonardo Boff, il teorico della “teologia della liberazione”
“Con Francesco torno a casa”
di Luigi Zoja

qui

il Fatto 13.9.13
NEL REGNO DI NAPOLITANO AMATO VA ALLA CONSULTA
IL QUIRINALE PORTA IL SUO FEDELISSIMO EX PREMIER NELLA CORTE COSTITUZIONALE CHE DOVRÀ PRONUNCIARSI SUL PORCELLUM E FORSE SULLA LEGGE SEVERINO
di Antonella Mascali


Le larghe intese di volontà quirinalizia entrano alla Corte costituzionale con la nomina di Giuliano Amato decisa dal presidente Giorgio Napolitano. Sostituisce Franco Gallo, nominato 9 anni fa, presidente negli ultimi 8 mesi.
Amato, che è stato un papabile primo ministro della maggioranza Pd-Pdl, arriva in un momento delicato: la Corte costituzionale potrebbe dover dirimere due questioni cruciali, che hanno a che fare con la tenuta del governo: la legge elettorale, nota come Porcellum, e la legge Severino che prevede la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore nonché la sua incandidabilità, essendo stato condannato a oltre due anni di pena (4 anni più interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale).
GIÀ IL 19 SETTEMBRE, il giorno dopo il suo giuramento, Amato parteciperà all’elezione del presidente della Corte costituzionale. Sabato, infatti, saluterà il professor Franco Gallo, nominato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Il neo giudice Amato, come vuole la prassi più che consolidata della Corte, non può aspirare alla poltrona più alta. Di solito, il presidente si sceglie tra i giudici con più anzianità. In questo caso c’è una parità dei due vice presidenti, eletti giudici costituzionali dal Parlamento. Su indicazione del centrodestra Luigi Mazzella, avvocato generale dello Stato. Su indicazione del centrosinistra, Gaetano Silvestri, professore di diritto costituzionale. Era giugno 2005, ai tempi in cui una maggioranza Pd-Pdl appariva impensabile.
Ancora incerto chi dei due la spunterà. Si profila una spaccatura all’interno della Corte. Secondo le nomine formali, ci sono tre giudici vicini al centrodestra: Mazzella, Paolo Maria Napolitano e Giuseppe Frigo. Vicini al centrosinistra, invece, ce ne sono due: Silvestri e Sergio Mattarella. Ma Amato, per la sua storia politica, viene collocato come uomo di centrosinistra. E non è il solo giudice.
Proprio per ragioni di equilibrio , o di equilibrismo (a seconda dei punti di vista) sta riprendendo quota la candidatura di Mazzella, finora data quasi per persa. Ma per una parte dei giudici resta un’ipotesi indigesta. Luigi Mazzella è il giudice che ha ospitato, nella sua bella casa romana, Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano nel maggio del 2009, 5 mesi prima che la Consulta votasse sul cosiddetto lodo Alfano, l’ibernazione dei processi per le più alte cariche dello Stato in carica, cioè per Berlusconi. Oltre a Mazzella c’era un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano. Entrambi non hanno ritenuto di doversi dimettere, anzi hanno rivendicato la serata con l’ex presidente del Consiglio, parte in causa di un ricorso su cui si sarebbero dovuti pronunciare.
D’ALTRONDE MAZZELLA è un grande amante dei banchetti conviviali. L’estate scorsa ne ha organizzati diversi, anche con esponenti del centrodestra. E non ha nascosto il suo sogno di diventare presidente della Corte costituzionale.
Sia lui che Silvestri concluderanno il loro mandato il 28 gennaio 2014.
C’è anche un altro nome che sta circolando: è quello di Giuseppe Tesauro, esperto di diritto comunitario e internazionale, nominato dal presidente Ciampi nel novembre 2005. Ma proprio il professore è il relatore sulla legge elettorale su cui la Consulta terrà l’udienza pubblica il 3 dicembre, a meno che il Parlamento non si pronunci prima.
A metà maggio, infatti, la Cassazione ha inviato alla Consulta gli atti sul Porcellum. Alla Suprema Corte si erano rivolti gli avvocati Aldo e Giuseppe Bozzi e l’avvocato Claudio Tani, convinti della lesione del diritto del cittadino a scegliere i propri rappresentanti in Parlamento.
IL 12 APRILE, durante quello che doveva essere il saluto al presidente della Repubblica uscente (non si immaginava che Napolitano sarebbe stato rieletto) il presidente Gallo ha criticato il Parlamento per non aver riformato il Porcellum che “ha profili di incostituzionalità”. “La Consulta”, ha ricordato, “ha invano sollecitato il legislatore a riconsiderare gli aspetti problematici della legge, con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o seggi”. Se la politica non sarà in grado di approvare una riforma elettorale e se la Consulta boccerà il Porcellum, allora tornerebbe a vivere la legge, così com’era prima di esser ritoccata e di determinare un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti.
Il Pdl vorrebbe, invece, che la Corte costituzionale fosse investita della legge Severino. Il partito di Berlusconi sostiene che la norma sulla decadenza e sulla incandidabilità non vale per il Cavaliere perché altrimenti sarebbe applicata retroattivamente. La maggioranza dei giuristi pensa, invece, che il problema non sussista perché è una norma che ha a che fare con i requisiti. In ogni caso, alla Consulta dovrebbe rivolgersi la Giunta del Senato. Ma, a quanto pare, non potrebbe: secondo la dottrina maggioritaria non è un organo giurisdizionale.

il Fatto 13.9.13
L’ennesima poltrona per il signore della Casta
HA GIÀ UN COSPICUO VITALIZIO DA PARLAMENTARE, UNA PENSIONE COLOSSALE E ORA AVRÀ UN SUPER STIPENDIO. CON TANTO DI AUMENTO
di Giorgio Meletti


   L’uomo giusto al posto giusto. La decisione del presidente Giorgio Napolitano di nominare il 75enne Giuliano Amato giudice costituzionale al posto dell'uscente 76enne Franco Gallo, non risponde solo alla logica di prudente ringiovanimento delle istituzioni, e non va ridotta alla pur gettonatissima interpretazione del risarcimento dovuto a un vecchio sodale del presidente che in primavera ha trovato i veti Pd a sbarrargli la strada prima verso il Quirinale e poi verso Palazzo Chigi.

   L'approdo di Amato alla Corte costituzionale (15 membri così scelti: 5 dal Quirinale, 5 dal Parlamento e 5 dalla magistratura), proprio nel momento in cui Silvio Berlusconi chiede alla Suprema corte di esentarlo dagli effetti della legge Severino, sancisce in modo esplicito quell'antico rapporto di complicità tra il potere politico e la Corte di cui la carriera di Amato è simbolo. Una galoppata infinita tra Prima, Seconda e Terza Repubblica l'ha portato a essere braccio destro di Bettino Craxi a Palazzo Chigi (1983-1987), presidente del Consiglio (1992), presidente dell'Antitrust (1994-1997), ministro delle Riforme (1998), del Tesoro (1999), dell'Interno (2006-2008) e presidente dell'Enciclopedia Treccani, della Fondazione ItalianiEuropei e del circolo tennis di Orbetello (per limitarsi agli incarichi più significativi). Ma i momenti chiave della carriera del “dottor sottile” sono scanditi da sottilissime questioni costituzionali.

   LA PRIMA se la ricorda bene anche Napolitano. Quando Amato scrisse i testi dei due cosiddetti “decreti Berlusconi” che restituivano l'agibilità dell'etere alle tv Fininvest oscurate dai pretori, fu l'allora capo dei deputati comunisti a tuonare contro un provvedimento “indubbiamente incostituzionale”, ma nel voto dell'aula sulla costituzionalità, i 60 franchi tiratori della maggioranza diagnosticati dal combattivo Napolitano furono compensati dal soccorso dei missini, che dieci anni dopo sarebbero stati sdoganati da B.: “I missini hanno salvato il decreto, in una logica di lotta distruttiva nei confronti del servizio pubblico”, tuonò Napolitano. Poi le loro strade tornarono parallele come sempre. Un giorno L’Espresso chiese a vari politici di dare un consiglio a Craxi premier: “Si guardi dai comunisti” disse Amato; “Si guardi dai democristiani”, disse Napolitano. Adesso tutti e due si guardano dal Pd, sintesi delle loro fobie di 30 anni fa.

   NEL 1992 AMATO diventò premier e Napolitano presidente della Camera. Naturalmente era all'ordine del giorno l'urgente riforma della Costituzione e già i due, 21 anni fa, vagheggiavano scorciatoie. Amato disse in Parlamento, a proposito dell'immancabile Bicamerale: “I presidenti delle due Camere stanno valutando la possibilità di costituire la nuova commissione con un atto bicamerale non legislativo. Questo semplificherebbe molto le procedure di costituzione, consentendo anche un notevole risparmio sui tempi”. Una procedura “eccellente”, recensiva Amato. Sottigliezze.

   Il capolavoro costituzionale venne pochi giorni dopo, con il famigerato prelievo dello 0,6 per cento dalle giacenze dei conti correnti bancari. C'era da salvare la lira, messa in ginocchio dalla decisione di Amato di mettere in liquidazione l'Efim con i suoi 13 mila miliardi di debiti. E ai poveracci che hanno così pochi soldi da non poterli investire in titoli fu praticato l'asporto di 5.250 miliardi di lire. Un'operazione clamorosamente contraria agli articoli 3, 47 e 53 della Costituzione (uguaglianza, tutela del risparmio, progressività delle imposte). Tre anni dopo la Corte costituzionale, visto che lo Stato non aveva soldi per restituire il maltolto, opinò che lo scippo di Amato “incide sui depositi con un’aliquota invero di contenuta entità, tale da non potersi ragionevolmente considerare ablativa del patrimonio del soggetto”. Invece la medesima Corte ha ritenuto fortemente ablativa la mossa di Giulio Tremonti che nel 2010 tagliò le pensioni sopra i 90 mila euro, tra cui quella di Amato, e gli stipendi dei magistrati, a cui sono agganciati quelli dei giudici costituzionali . E così, opinando che “le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo” (gli aumenti invece no?), i giudici costituzionali ripristinarono il quantum con tanto di arretrati anche per se stessi. Alla faccia degli esodati e delle altre vittime delle leggi retroattive.

   C'È DA DIRE che Amato sembra Gastone Paperone: dove si siede piovono soldi. Per essere stato quattro anni all'Antitrust è riuscito a farsi dare, a 59 anni, una pensione di 22 mila euro lordi al mese, che si aggiungono ai 9 mila del vitalizio parlamentare. Adesso arriva lo stipendio da giudice costituzionale (appena aumentato dai giudici costituzionali), che è pari a quello del magistrato più pagato (il primo presidente della Cassazione) maggiorato del 50 per cento. Fanno 427 mila euro annui, pari a 13 mensilità da 32 mila. Così Gastone ha raddoppiato lo stipendio, e tutti pensano che a 63 mila euro al mese anche loro avrebbero un forte senso delle istituzioni.

Corriere 13.9.13
Le ragioni della scelta del Colle
di Marzio Breda


Certo, è suo amico da una vita, almeno da quando negli anni Settanta l’allora dirigente del Pci seguì da vicino il progetto per un’«alternativa socialista» in cui era al lavoro la nidiata di Antonio Giolitti: gente come Federico Coen, Giorgio Ruffolo e, appunto, lui. E certo, ne ha apprezzato la competenza economica con cui si mosse da ministro e la risolutezza dimostrata nelle stagioni di Palazzo Chigi, con il massiccio intervento da 93 mila miliardi per scongiurare una grave crisi finanziaria e avviare il risanamento dei conti pubblici, nel 1992. Ma è soprattutto allo studioso di Diritto pubblico che Giorgio Napolitano ha pensato, scegliendo Giuliano Amato come nuovo membro della Corte costituzionale. Un giurista il cui sterminato curriculum comprende incarichi di prestigio nel campo della politica e delle istituzioni — in Italia e fuori d’Italia — e non per nulla il suo nome è corso nei mesi scorsi sia per un ritorno a Palazzo Chigi sia per un approdo allo stesso Quirinale, mentre non sarebbe parsa inverosimile anche una sua nomina come senatore a vita. Frequentazioni e stima personali a parte, per una riserva della Repubblica di quel rango e di quell’esperienza non poteva valere la logica del bilancino o un calcolo delle convenienze, quando si è trattato di decidere per il posto che stava per rendersi vacante alla Consulta in un momento particolarmente delicato. Dal punto di vista del capo dello Stato, il nome del «dottor Sottile» si è imposto per forza propria. È prevalso sugli altri candidati — e non erano pochi — al di là delle preoccupazioni per le critiche e per le polemiche che avrebbero potuto sortirne e che anzi, nel marasma di questi giorni dominati da smanie rottamatrici e furori anticasta, erano date per scontate. Critiche e polemiche di basso profilo, secondo il Colle. Insomma, altro che «passo falso» o addirittura «vergognoso», come qualche famiglia politica ha subito recriminato, alimentando pure l’eterna rincorsa di sospetti giocata sul caso della decadenza di Silvio Berlusconi.

Repubblica 13.9.13
Lo scrutinio segreto sul Cavaliere nell’assemblea di palazzo Madama terrorizza il Pd
In Scelta Civica c’è chi tratta
Il Pdl a caccia di 43 franchi tiratori veleni e sospetti tra Democratici e 5Stelle
di tommaso Ciriaco


ROMA — Denis Verdini, fidato “contabile” di Arcore, ha stupito anche un inguaribile ottimista come Silvio Berlusconi: «Presidente, in Aula c’è il voto segreto. Non avranno i numeri per farti decadere, ce la possiamo fare». Previsione a dir poco azzardata, sulla carta, perché per ribaltare un’espulsione che appare certa dovrebbe convincere decine di senatori. Quarantatre, per la precisione.
Numeri alla mano, infatti, la somma dei parlamentari di Pdl (91), Lega (16) e Gal (10) si ferma a quota 117. La maggioranza è 161. Ma visto che il Presidente non vota, per salvare il leader del Pdl servono 160 schede a favore di Berlusconi. Vetta impervia, certo, eppure ad Arcore puntano a fare proseliti nel campo avverso. Nel partito del “non voto” e fra i peones incupiti dal rischio delle urne, ma anche fra gli inquieti di Scelta civica e in un Pd ancora sotto choc per i 101 che affossarono Romani Prodi.
Il veleno scorre copioso, tra gli scranni di Palazzo Madama. E i grillini hanno gioco facile a gettare ombre sul partito delle largheintese. Sentite il capogruppo Nicola Morra: «Noi chiederemo il voto palese, vedremo se il Pd ci sosterrà. Altri, e non il M5S, hanno il problema della doppia verità. Per noi Berlusconi era già ineleggibile, ma non per il Pd. Almeno ci mettano la faccia».
Parole dure e un pizzico di propaganda, forse. Eppure nel Pd il terrore di urne infauste è reale e cresce ora dopo ora. Due giorni fa, a Montecitorio, il ministro Graziano Delrio sussurrava: «Non dobbiamo dare a Berlusconi iltempo di organizzarsi...». Se Berlusconi decidesse di non dimettersi, sfidando l’Aula, tutti guarderebbero a eventuali franchi tiratori dem: «Occhi aperti - avverte Pippo Civati - ma non voglioneanche immaginare che tornino i 101. Sarebbe la fine del Pd. Non reggeremmo».
L’incubo peggiore, però, è un altro. Prevede un blitz dei cinquestelle nel segreto dell’urna e un clamoroso sostegno dei grillini al Cavaliere. Ugo Sposetti non si nasconde: «I dalemiani pronti a sostenere Berlusconi? A parte che io sono migliorista, ma comunque chi lo dice è un mascalzone. Il Pd non ha alcun interesse a fare una cosa del genere». Piuttosto, domanda l’ex tesoriere dei Ds, «chivuole destabilizzare la politica italiana e il governo?». La risposta non si fa attendere: «Il M5S. Ecco, secondo me sono pronti a salvare il leader del Pdl. È lo stesso schema di vent’anni fa, quando Lega e MSI salvarono Craxi».
Mentre il Partito democratico è alle prese con il pallottoliere, dalle parti di Arcore si alimenta una fiammella che sembrava già spenta. Il sottosegretario Michaela Biancofiore è tra quelli pronti a scommettere sulla “conversione” in Aula: «Pd e Giunta sono fuori legge e vogliono decidere prima di eventuali ricorsi? Vogliono bruciare Berlusconi come Giordano Bruno? Bene, penso che fra i democratici ci siano persone intellettualmente oneste pronte a votare in Aula contro la decadenza».
E poi c’è Scelta civica. Può contare su venti, preziosissimi voti. Nulla è ancora deciso, ma a molti non è sfuggito l’attivismo di Pier Ferdinando Casini. Il leader dell’Udc coltiva il confronto con i mille ambasciatori di via dell’Umiltà. Come lui, anche il ministro Mario Mauro. Di certo, i due possono contare su sette o otto senatori e continuano a predicare il verbo della stabilità di governo.

l’Unità 13.9.12
Modificare la Costituzione senza tradirla
di Cesare Pinelli


Il tema delle riforme costituzionali ha diviso il campo di quanti nel 2006 si opposero alla legge costituzionale approvata dal centrodestra e poi rigettata in sede di referendum. Sono convinto che di questa divisione non vi sia bisogno, e sono perciò sollevato nel vedere che gli interventi sull’Unità di Stefano Rodotà e di Massimo Luciani ridimensionano la materia del contendere.
L’avversione al progetto avviato dal governo riguarda anzitutto la deroga all’art. 138, prevista al fine di rivedere le norme sulla struttura del Parlamento, sulla forma di governo e sull’impianto autonomistico. Alcuni costituzionalisti ritengono in perfetta buona fede inammissibile qualunque deroga all’art. 138, in quanto norma sulla produzione normativa. L’argomento fu già adoperato nella polemica contro il procedimento previsto dalla legge costituzionale del 1997, che diede vita al progetto di riforma della commissione bicamerale, e che anche allora modificava le modalità di esame e di approvazione parlamentare del testo di revisione costituzionale. La differenza è che il progetto in discussione prevede una serie di leggi costituzionali per ciascuna parte della Costituzione coinvolta dalle riforme, per evitare il rischio plebiscitario di un unico referendum (che costringerebbe gli elettori a un prendere o lasciare); inoltre i titolari della richiesta di referendum possono proporla anche se la legge fosse approvata in seconda deliberazione con una maggioranza dei due terzi.
Chi ritiene inammissibile qualunque deroga, esclude che tali misure compensino le alterazioni apportate alla fase parlamentare di approvazione della legge costituzionale. Altri non sono d’accordo, e la discussione scientifica continuerà come è giusto che sia. Ma il fatto è che la tesi dell’inammissibilità della deroga è stata gettata come benzina sul fuoco di una polemica ben diversa. Se dalla «deroga» si passa allo «stravolgimento», dunque a una rottura della Costituzione, in un ambiente avvelenato da strumentalizzazioni i più lesti alla propaganda salgono sui tetti di Montecitorio o scrivono sul palmo della mano il numero 138 ignorando di cosa si tratti. Ma davvero i pacati studiosi contrari alla deroga credono che il procedimento da loro criticato, e che per le ragioni dette garantisce il corpo elettorale più dello stesso art. 138, determini una rottura del nostro ordinamento?
Per molti, l’obiezione procedurale si salda però a una di ordine sostanziale. La Costituzione richiede attenzioni ben diverse dalla ricerca ossessiva della stabilità, che si fa strada nel vuoto di politica costituzionale del nostro discorso pubblico. Quel vuoto è tuttavia anche frutto di culture politiche che negli ultimi trenta anni non sono riuscite a superare il divorzio fra progresso sociale e modernizzazione verificatosi nelle democrazie occidentali, e da noi aggravato per l’incapacità di legare la tradizione e i princìpi costituzionali alla innovazione e alla progettualità politica.
È vero che, divorziando dal progresso, la modernità è rimasta nelle rappresentazioni pubbliche come sinonimo di efficienza, rapidità delle decisioni, stabilità di governo. Eppure la stabilità non è fine a se stessa né sinonimo di durata in carica del governo. È soprattutto strumento per far valere la responsabilità per le scelte politiche compiute di fronte all’elettorato, componente ineludibile del principio democratico. Nonostante gli equivoci (dal modello Westminster al sindaco d’Italia), è innegabile che l’assenza di stabilità abbia seriamente compromesso la tenuta del principio di responsabilità politica, e che da decenni la ricerca dei rimedi coinvolga il disegno della forma di governo.
L’area dei rimedi va oggi dall’attuazione dell’odg Perassi alla Costituente, che intendeva correggere le possibili varianti assemblearistiche del parlamentarismo con congegni di razionalizzazione dell’esecutivo, alla introduzione di un sistema semipresidenziale nella versione della V Repubblica francese.
Allo stato non si tratta di accettare a scatola chiusa una proposta, ma che ognuna di quelle in campo sia conforme ai princìpi democratici. In questo senso, dire che «il semipresidenzialismo non è un tabù» significa solo «accettiamo di sederci al tavolo con quelli che propongono una forma di governo adottata in un Paese democratico da oltre mezzo secolo».
La scelta dipenderà da altri criteri: dal rendimento di ciascun assetto istituzionale considerato, da quale si ritenga più utile a noi, da se e come i singoli congegni di ciascuno si innestino nel nostro sistema. Non proprio una passeggiata; casomai, un lavoro paziente e ingrato. Non vedo allora contraddizione, ma piena continuità, fra la difesa della Costituzione quale si espresse nel referendum del 2006 e la ricerca delle modifiche utili a migliorarne il rendimento in termini democratici.

l’Unità 13.9.12
Guai a trasformare il congresso in un’opa ostile
di Vincenzo Visco


PREOCCUPA LA SOSTANZIALE ASSENZA DI DIBATTITO POLITICO SULLE QUESTIONI DI MERITO IN VISTA DEL CONGRESSO DEL PD. Quello che si è visto finora è sostanzialmente un moto plebiscitario basato sulla insoddisfazione e la sfiducia nei confronti del gruppo dirigente storico, e sulla volontà (speranza?) di «vincere», senza neppure considerare che una modifica della legge elettorale in senso proporzionale potrebbe costringere il Pd ad alleanze di grande coalizione per i prossimi decenni.
Eppure gli argomenti su cui fare chiarezza non mancano. Ne indicherò alcuni. Per esempio la natura, la collocazione e le prospettive del partito. Il Pd è nato dalla confluenza di forze accomunate da una visione della società molto simile: quella socialista e quella cristiano-sociale. La differenza principale tra le due visioni, lo statalismo della prima e la fiducia nei corpi intermedi della seconda si è risolta nel riconoscimento condiviso del principio di sussidiarietà. Si tratta quindi di fondamenti culturali sicuramente antiliberisti, e anzi, in origine, antiliberali, La convergenza nel Pd di una terza componente, quella laica liberale di sinistra, si può collocare agevolmente in un contesto ispirato alla giustizia (sociale) e alla libertà (democrazia). Questo è (dovrebbe essere) quindi il Pd. Tuttavia una discussione seria su questi problemi non è mai stata fatta: nel partito esiste una componente liberista molto combattiva e convinta. Fino a pochi anni fa a Strasburgo gli eletti della Margherita partecipavano al gruppo liberale per sottolineare la loro alterità rispetto ai socialisti. Ora Matteo Renzi ha proposto l’ingresso del Pd nel Pse; è una decisione importante, per molti potrebbe apparire scontata, ma altri potrebbero non essere d’accordo. Sarebbe bene discuterne.
Se il Pd trova le sue radici culturali nel pensiero socialista e nella dottrina sociale della Chiesa, ne discende che il partito dovrebbe essere contro ogni forma di individualismo (egoismo) o accentuato leaderismo, a favore di soluzioni condivise, discusse collettivamente e adottate a maggioranza, e attuate però con la massima disciplina. Il funzionamento concreto del Pd, la feroce lotta tra le correnti, l’elezione del Presidente della Repubblica e le proposte ed evoluzioni recenti non sembrano andare in questa direzione. Si tratta di problemi da chiarire. E ancora, immaginiamo un partito degli eletti e degli amministratori come ceto sostanzialmente autoreferenziale (la «Casta» di Rizzo e Stella) o un partito attraverso il quale i cittadini possano organizzarsi per partecipare democraticamente alla vita politica del Paese (come dice la Costituzione)? Al tempo stesso la partecipazione effettiva degli iscritti alla discussione politica dovrebbe essere garantita e le loro opinioni valorizzate, anche mettendo in rete i circoli, utilizzando le nuove tecnologie, ecc.
Più volte negli ultimi anni esponenti del Pd sono stati coinvolti in episodi inaccettabili dal punto di vista della moralità pubblica. Su questo nessuno parla, eppure si tratta di un problema centrale che ha a che vedere non solo con i valori e la cultura degli iscritti, ma anche con i criteri di selezione e promozione dei gruppi dirigenti, con i sistemi elettorali (le preferenze sono l’anticamera della corruzione) e col finanziamento della politica (mille euro da tante persone non condizionano, un milione di euro ricevuti da una sola persona condizionano inevitabilmente in modo decisivo).
E ancora, qual è la posizione del Pd sulle riforme istituzionali? Infatti, nonostante i documenti ufficiali, non pochi nel gruppo dirigente sarebbero d’accordo su un sistema presidenziale.
Vi sono poi le questioni economiche. A me sembra che la ragione principale per cui Bersani ha vinto le ultime primarie ha a che vedere con il fatto che Renzi proponeva una linea di politica economica basata sulla cosiddetta «agenda Monti», più le proposte di Pietro Ichino sul mercato del lavoro, posizioni che dopo la grande crisi iniziata nel 2007 apparivano (ed erano) discutibili, se non del tutto superate, come modello di riferimento. Bersani invece sembrava più ancorato alle tradizionali proposte della sinistra europea, pur prospettando innovazioni significative. Oggi Renzi pone al centro delle sue proposte il lavoro, l’occupazione e il rilancio dell’economia con una qualche discontinuità rispetto al passato. Si può essere d’accordo. Ma lo siamo veramente tutti? In sintesi, siamo sulle posizioni di Stiglitz, Krugman, Roubini e Fitoussi, o su quelle di Alesina e Giavazzi?
Infine vi sono i problemi specifici del Paese che sono molto gravi e seri. L’Italia va radicalmente riformata, ricostruita, e non si tratta di modificare la Costituzione in direzione di modelli maggiormente decisionisti, salvo il bicameralismo perfetto e (forse) alcuni poteri del presidente del Consiglio. Si tratta piuttosto di cambiare l’assetto istituzionale e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni e delle imprese recuperando principi di giustizia, eguaglianza, funzionalità ed efficienza. Le idee in proposito sono scarse, la consapevolezza anche, le resistenze degli interessi costituiti enormi, il dibattito, finora, del tutto assente.
Non so se il Congresso riuscirà a concentrarsi su queste e altre questioni di merito che pure potrebbero essere sollevate (e non sono poche). Ma se ciò non avverrà esso rischia di apparire o tradursi in una sorta di opa ostile sul partito da parte di un pezzo del gruppo dirigente finora minoritario, con rischi seri per le prospettive future.

il Fatto 13.9.13
Iscritti Dem dimezzati in Toscana
di Wanda Marra


Iscritti al Partito democratico in Toscana: meno il 50 per cento. Rispetto ai 55mila del 2012, quest’anno i tesserati sono dimezzati, circa 27mila. Ad ammetterlo sono i vertici regionali, che non per niente stanno organizzando iniziative speciali per cercare di rimediare. Al netto delle chiacchiere pre-congressuali e delle giravolte collettive intorno alle larghe intese, il dato è eloquente. Mentre ai vertici del Nazareno si fanno e si disfano alleanze e strategie, la cosiddetta base evidentemente non ne può più. Con buona pace di Matteo Renzi (peraltro Sindaco del capoluogo toscano, fatto non secondario rispetto a questo dato) che si prepara ad espugnare un fortino sempre più sguarnito e indebolito.
IERI È STATA un’altra giornata di ammuina collettiva. Caratterizzata da una parte dall’incontro al vertice tra il segretario Epifani e l’aspirante tale Renzi. Dall’altra da un’alzata di scudi contro il sindaco di Firenze, accusato di aver attaccato Letta mercoledì sera a “Porta a Porta” (frase incriminata: “Letta pensa solo alla sua seggiola”). L’incontro tra i due (ieri mattina al Nazareno) era in programma da giorni, e in teoria doveva arrivare a un accordo sul congresso. In realtà quest’accordo non s’è trovato (non c’è ancora una data, né si è arrivati a un compromesso sui segretari regionali, che i renziani vorrebbero eleggere con il leader nazionale o al massimo dopo, in modo da poterne incassare il più possibile). Ma il colloquio tra i due è durato un’ora e mezza. Oggetto principale di discussione: il governo. Il premier stesso - raccontano fonti renziane - avrebbe chiamato tutti per lamentarsi delle ultime dichiarazioni del sindaco di Firenze. Tant’è vero che i lettiani ieri faticavano a tenere a freno la lingua: “Renzi è così, problema suo”, tra le dichiarazioni più tenere. Il capo del Governo sta facendo di tutto per mantenere slegata la questione decadenza di Berlusconi dalla tenuta del-l’esecutivo. Ieri è stato reso noto il suo incontro alla Casa Bianca con Obama, in programma il 16 ottobre. E lui stesso ha ripetuto: “Sono determinato ad impedire che il paese si faccia male”. In questo contesto, il fuoco amico va stoppato. E così ieri Epifani ha richiamato Renzi al sostegno sul governo. Lui però ha rilanciato le sue posizioni: sulla decadenza di Berlusconi il Pd de-v’essere netto; e l’esecutivo non può essere immobile, né andare a ricasco del Pdl. Poi, certo, Renzi ci tiene a dire che non sarà lui a far saltare il tavolo. Mentre i due hanno cercato di tenere il più possibile coperti i contenuti dell’incontro, a parlare - e rintuzzare - ci hanno pensato gli altri. Dario Franceschini: “Letta sta facendo un lavoro straordinario con autentico spirito di servizio, anche perché sa, come tutti noi, che finché durerà avremo quotidianamente più critiche che applausi e soprattutto sa che alla fine avremo sul petto più cicatrici che medaglie”. Area Dem in realtà freme anche perché i renziani vanno ribadendo che non ci saranno troppi posti per loro nel listone unico che presenteranno alle primarie. Gianni Cuperlo: “Giudizio ingeneroso su Letta”. Francesco Boccia (che è assurto al ruolo di “pontiere” tra i due): “Il governo non può cadere per colpa nostra”. La replica arriva per bocca del fedelissimo Dario Nardella: “Attacchi fuori luogo, Renzi sosterrà Letta”. Ma chi lo conosce bene sa che in fondo al “giovane” Matteo questa polemica non va troppo male: dopo essere stato accusato negli ultimi giorni di essere il “riciclatore” per eccellenza, pronto a caricarsi sul suo carro i vecchi potenti, tornare a giocare il ruolo dell’altro Pd è un punto a suo favore.

Repubblica 13.9.13
Lite Epifani-Renzi, niente intesa sul congresso
Rischio conta all’assemblea nazionale
Giù il tesseramento, in molte regioni meno 50%
di G. C.


ROMA — «Una conclusione unitaria sulle regole del congresso è nell’interesse di tutti, dobbiamo trovare questo accordo». Epifani pesa le parole dopo l’incontro con Renzi. Ma l’accordo non c’è. E nell’Assemblea nazionale del Pd del 20 settembre quella che dovrebbe decidere data e modi per l’elezione del nuovo segretario democratico si potrebbe andare alla conta. Un’ora e mezza di colloquio tra il sindaco fiorentino e il leader non sono serviti a dissipare le nuvole che sia addensano sia sul congresso che sul governo.
«Abbiamo parlato di regole sì, e non solo...», dice Epifani a incontro appena terminato. Quel “non solo” riguarda le ultime uscite del “rottamatore” su Letta. Il segretario gli ha rimproverato gli attacchi al governo. Ribadisce in tv, alTg3:«Renzi mi ha confermato che non creerà problemi al governo in una fase così difficile per il paese. Del resto sarebbe un gravissimo errore mettere in difficoltà un esecutivo che sta affrontando le condizioni dei nostri cittadini, non possiamo chiedere al centrodestra un atto di responsabilità enon farlo innanzitutto noi...». È l’altolà al sindaco.
Parla Epifani di un’intesa sulla data, che in realtà non c’è. Oggi si riunisce il “comitatone” per il congresso per tentare un compromesso. Renzi è disponibile alla fine dell’automatismo tra segretario del partito e premiership (come del resto fece Bersani per permettergli di sfidarlo alle primarie del 2012), ma non vuole allungamenti dei tempi. Chiede restino le regole di sempre. I congressi locali perciò vanno fatti dopo le primarie nazionali. È l’opposto della proposta di Epifani. Ed è difficile che suquesto il sindaco ceda, perché ritiene sia uno dei tanti trabocchetti disseminati lungo la strada della sua candidatura. Teme di diventare il segretario di un Pd che non controlla, che nei territori esprime altre maggioranze. I Democratici del resto sono in acque agitatissime, con un crollo dei tesseramenti. In Toscana è stato registrato un meno 50%; non è la sola regione.
Epifani avrebbe insistito per un congresso con tempi più lunghi, che coinvolga i circoli, che apra un dibattito approfondito. Però anche Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi e candidato della sinistra, è per non prendere tempo. D’Alema, che appoggia Cuperlo, attacca: «Renzi sicuramente anche sull'onda di un enorme trascinamento mediatico è il candidato che appare come il vincitore annunciato. Ma a me non interessano i vincitori, mi interessano i principi ... e le idee, le proposte di Cuperlo sono indubbiamente superiori». Mentre il “rottamatore”, aggiunge, si candida a segretario parlando d’altro, come se stesse facendo una campagna per governare il paese: «Non ci sono però elezioni, e al governo del paese c’è un membro del nostro partito». Insiste anche sulla divisione tra la leadership del partito e la premiership: «Una regola che non ha più senso».
I renziani a loro volta contrattaccano. «D’Alema ha questa idea, quasi fosse la separazione delle carriere dei giudici», ironizza Paolo Gentiloni. Dario Nardella invita ad avere «calma e serenità: gli attacchi a Renzi, dopo la sua intervista a“Porta a porta”sono una polemica inesistente».

il Fatto 13.9.13
Renzi: Vedi Firenze e poi la compri
Ancora una festa a pagamento
di Tomaso Montanari


Cristina Acidini colpisce ancora. Dopo aver redatto un tariffario dei monumenti fiorentini che ha suscitato costernazione in tutto il mondo, la Soprintendente (molto) Speciale del Polo Museale Fiorentino ha organizzato un party per seicento ospiti del fondo di investimento Azimut nel Cortile dell’Ammannati, a Palazzo Pitti.
Tutto normale, comunica sbarazzino il sito della Soprintendenza: “I musei del Polo fiorentino non sono solo luoghi dove si conserva la cultura e la bellezza. Sono anche spazi dove è possibile organizzare cene di gala, eventi, congressi, visite straordinarie. Luoghi che possono fare da suggestiva cornice a manifestazioni di alto livello qualitativo”. Un bel giro di quattrini, in altre parole. La cui gestione è affidata direttamente al responsabile della segreteria della Acidini, Marco Fossi (che regge anche il non meno strategico Ufficio Mostre, oltre a essere segretario pure del Consiglio di amministrazione del Polo).
Peccato che domenica scorsa i 50 pulmini dei convitati abbiano sostato per ore sulle rampe di Palazzo Pitti, dove i comuni mortali non possono arrivare nemmeno in taxi. La cosa non è piaciuta per nulla ai cittadini dell’Oltrarno, che già qualche mese fa si erano visti sbattere fuori dalla stessa piazza dai buttafuori in nero che la recintarono per proteggere la festa nuziale di un miliardario indiano cui la giunta di Matteo Renzi e il Polo Museale avevano affittato i luoghi simbolo della città.
MA ORA SI È DAVVERO passato il segno, e il Corriere Fiorentino ha raccolto l’irrituale censura di Alessandra Marino, la soprintendente architettonica che ha giurisdizione sulla piazza: “Noi non abbiamo rilasciato alcuna autorizzazione che consentisse la sosta a quei pulmini. L’evento con tutti quegli invitati è stato organizzato dal Polo museale, a cui è stato espressamente vietato che le auto sostassero sulle rampe della piazza”.
E non è solo un problema di regole, è anche questione di trasparenza. Ricalcando fedelmente le orme del pasticcio dell’affitto di Ponte Vecchio a Montezemolo architettato da Renzi, anche in questo caso non si riesce a sapere quanto il Polo abbia guadagnato da questa disastrosa performance. E, in assenza della Acidini, un portavoce del Polo ha dichiarato: “Non possiamo comunicarlo senza l’autorizzazione di Azimut”. Un vero capolavoro: Firenze è ormai così in mano a chi la paga, che i fiorentini non possono nemmeno sapere quanto frutta il meretricio dei loro beni comuni.
Cristina Acidini ha ereditato dal suo mentore e predecessore Antonio Paolucci (il direttore dei Musei Vaticani recentemente autoproiettatosi ai vertici del Monte dei Paschi di Siena) un vasto sistema di potere, che ha coniugato con un modo molto originale di valorizzare il patrimonio artistico che dovrebbe custodire. Nel maggio del 2010 finì sul Corriere della Sera per aver festeggiato il proprio 59esimo compleanno con una festa privata dentro uno dei musei pubblici che dirige, Casa Martelli.
NEL 2012 È STATA invece citata dalla Procura della Corte dei Conti, che le contesta un danno erariale di ben 600.000 euro per l’acquisto (da lei proposto) del famigerato Cristo ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo. Ma nonostante la pesantissima accusa di aver abdicato “alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale”, i vari ministri per i Beni culturali si sono finora ben guardati dal rimuoverla.
Proseguendo la politica di Paolucci (che si autodefiniva il “movimentatore massimo”, in quanto capo del “sistema dei musei fiorentini: la più vasta riserva, in Europa, di opere d’arte mobili”), la Acidini è diventata la più grande organizzatrice di mostre propagandistiche all’estero: dal Giappone alla Cina al Brasile, non c’è paese al mondo che non abbia avuto la sua edizione della solita, eterna mostra sul Rinascimento che mette a rischio opere delicatissime dei musei di Firenze.
Proprio in questi giorni, quando il ministro Bray ha sospeso l'invio in Israele di un delicatissimo affresco staccato di Botticelli lungo cinque metri (che secondo i restauratori ha subito danni da movimentazione, forse proprio durante la trasferta dell’anno scorso a Pechino), la Acidini si è affrettata a dichiarare a Repubblica che “non è vero che l’opera non partirà. È stato deciso solo di rimandare la spedizione a quando saranno più chiari gli sviluppi della situazione mediorientale”. Parole davvero curiose in bocca a chi è pagato per assicurare la tutela del patrimonio, e non le relazioni internazionali. Tra catering di arte a domicilio (“spediamo in tutto il mondo” p otrebbe ormai essere il motto del Polo Museale) e cocktail party privati in piazze, ponti e musei pubblici, la premiata ditta Renzi-Acidini sta trasformando Firenze in una grande location di super-lusso: una camera a ore, con vista.
E per certificare questa decadenza (culturale, morale, sociale) non c'è bisogno di nessuna giunta. Basta passare per Piazza Pitti, in una sera di fine estate.

il Fatto 13.9.13
Tariffario dei tesori: il menu è questo
Non solo Ponte Vecchio: da 5 a 150mila euro, i prezzi


Galleria Palatina, Ponte Vecchio, perfino gli Uffizi: i gioielli di Firenze sono disponibili in affitto, con tanto di tariffario deciso dalla soprintendenza e dalla giunta cittadina. Per chi avesse voglia di un pic-nic in un parco davvero speciale, può avere tutto per sé la Grotta del Buontalenti nel giardino dei Boboli: prezzo 5 mila euro. Troppo spartano? Con 15 mila euro il Comune mette a disposizione il Cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti. Capolavori del Rinascimento affittasi, questo potrebbe essere il titolo delle polemiche che hanno investito Matteo Renzi e la sua amministrazione nel luglio scorso. A rendere nota la vicenda è stata Ornella De Zordo, consigliera comunale della lista civica Perunaltracitta . La denuncia non si ferma tra le mura di Palazzo Vecchio, ma arriva dritta fino a Palazzo Madama, dove il senatore del M5s Maurizio Romani rilancia le accuse. Si scatena un mezzo putiferio, con il sindaco fiorentino che minaccia querele e sfida Romani a rinunciare all'immunità . Il senatore contrattacca, accusando Renzi di avere affittato il Ponte Vecchio alla Ferrari per fare un favore all’amico Montezemolo. “Non è vero, ci hanno pagato 120 mila euro che serviranno a pagare le vacanze dei bambini disabili, dati i tagli di alcuni enti che avrebbero dovuto occuparsene”. L’ente che volle tenere i piccoli in città rimane misterioso, ma le liti intorno a quel tariffario che sembra una rotta turistica sono continuate. Il listino è interessante: noleggiare gli Uffizi costa 5 mila euro in caso di aperitivo, 10 mila per una cena. Prezzi più popolari per il Salone di Pietro da Cortona di Palazzo Barberini: la miseria di 7 mila euro. Con 10 mila, invece, si può prendere in affitto la Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Il catering, ovviamente, si paga a parte. C’è pure un’offerta dedicata agli eventi commerciali. Allestire uno showroom tra i capolavori di Palazzo Medici Riccardi costa 150 mila euro. Forse è un po’ caro, ma rispetto alle solite fiere campionarie fa tutta un’altra figura.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Il popolo della sinistra è diventato democristiano
E nessuno lo ha avvertito
Di Diego Bianchi “Zoro”

qui

il Fatto 13.9.13
I dissidenti si fanno il gruppo. 10 cinquestelle verso l’addio
Dialogo con sel al senato, con quelli del misto a Montecitorio
di Paola Zanca


Dodici di loro non saranno in Aula per cinque giorni, puniti per aver protestato sul tetto della Camera contro la riforma dell'articolo 138. Ma altrettanti potrebbero scegliere di non sedersi più sui banchi dei Cinque Stelle per sempre. Addio al sogno tradito del Movimento, il momento è arrivato.
Una dozzina, bastano questi. Metà di loro, deputati, potrebbe unirsi agli ex colleghi che già stanno nel gruppo Misto e dare vita a una componente politica autonoma. Bastano dieci persone: Adriano Zaccagnini, uscito dal gruppo a fine giugno in dissenso con i metodi “aziendalisti” del M5S, guida la fronda che potrebbe accogliere malpancisti della prima ora come Tommaso Currò, Paola Pinna, Walter Rizzetto, Aris Prodani, Alessio Tacconi e new entry della “dissidenza” come Gessica Rostellato e Ivan Catalano. Ma, per muoversi, aspettano un segnale da palazzo Madama. A Montecitorio sanno bene di contare pressoché nulla, ma credono anche che solo un ping pong con il Senato può dare il coraggio di alzare la testa dopo tanti mesi di insofferenza. I colleghi più anziani (e più determinanti per le sorti della maggioranza) hanno bisogno di un sostegno: “È come se fossimo amici della stessa comitiva – ragiona un deputato – Siamo usciti insieme tutti questi mesi, poi loro se ne vanno, ti guardano e ti dicono: 'Tu che fai, resti?'”.
PER QUESTO, per non lasciarli soli, hanno cominciato a ragionare sull'escamotage della “componente politica”. Ma anche al Senato, serve una via di fuga. I dieci nomi necessari a formare un gruppo autonomo, al momento non ci sono. Così, da questa estate, è cominciato un dialogo con alcuni senatori di Sel, in particolare con la toscana Alessia Petraglia: gli eletti a palazzo Madama del partito di Nichi Vendola sono 7, l'esperimento di fusione con i dissidenti grillini potrebbe portarli a formare un gruppo autonomo (con tutto l'armamentario del caso: soldi, personale, uffici). Si dà già per scontata l'adesione di Adele Gambaro, espulsa dai Cinque Stelle per aver criticato Grillo, che domani sarà ospite di un convegno della rivista Left a Roma (presente anche Zaccagnini) e che proprio ieri ha parlato delle sorti del governo: “Io penso e ho notizie che non cadrà, ma se cade vedremo... Io mi auguro che non cada, perché sta facendo bene”. Se non è una dichiarazione di intenti, ci assomiglia parecchio. A darle coraggio potrebbero arrivare i rinforzi di tre dissidenti storici del gruppo: Lorenzo Battista (ieri di nuovo ipercritico con Grillo e Casaleggio), Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino. Per ora il patto – rispettato – tra i malpancisti è quello di sostenersi in Rete, condividendo gli status Facebook dei più coraggiosi.
Per ora, chi si piazza sul podio degli audaci, sono i 12 deputati che la settimana scorsa sono saliti sul tetto di Montecitorio. Ieri, l’ufficio di Presidenza della Camera li ha puniti con 5 giorni di sospensione dal-l’Aula. Una sanzione esemplare, ma meno grave del previsto. I questori avevano addirittura fatto i conti e immaginato per i parlamentari avventurosi una richiesta danni di 3800 euro. Commenta il vicepresidente grillino della Camera Luigi Di Maio: “Puoi frodare il fisco, essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, essere un pregiudicato a vario titolo, essere un ex piduista e stare comodamente seduto in Parlamento ma, per favore: non salire sul tetto! ”. La Boldrini e gli altri componenti dell’ufficio di Presidenza non hanno gradito l’atteggiamento della pattuglia Cinque Stelle che ieri è stata convocata per il “processo”. I 12 hanno chiesto che il resoconto della seduta fosse reso pubblico attraverso uno streaming e una diretta Twitter. La Presidenza ha risposto di no, il vice Fabrizio Adornato ha lasciato intendere che non si fidava della buona fede dei deputati M5S. Loro, stizziti, hanno appoggiato i cellulari sui banchi. Poi sono usciti: “Ci trattano come a scuola, questa è una dittatura”.

Corriere 13.9.13
I dissidenti 5 Stelle in contatto con Sel per formare insieme gruppi autonomi
di Alessandro Trocino


ROMA — Sono passati i tempi delle accuse tra Beppe Grillo e Nichi Vendola. Quando il leader dei 5 Stelle lo accusava di fare affari con Emma Marcegaglia e Don Verzè e il leader di Sel deprecava «gli urlatori dell’antipolitica». Da tempo, nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama le battaglie comuni, a cominciare da quella contro Silvio Berlusconi, hanno avvicinato M5S e Sel. Ora però si avvicina una prospettiva che potrebbe far risorgere gli antichi rancori tra i leader. Perché si fa sempre più concreta un’ipotesi, alla quale stanno lavorando senatori di Sel e colleghi a 5 Stelle con la valigia in mano: creare un gruppo autonomo a Palazzo Madama. Anche alla Camera le manovre dei «dissidenti» sono sempre più stringenti: a fronte di 6-7 deputati irrequieti, ne starebbe arrivando almeno uno a dar man forte ai colleghi fuoriusciti, Adriano Zaccagnini, Vincenza Labriola e Alessandro Furnari. Decisione che farebbe raggiungere il numero magico di 4 (la soglia è 10, ma anche i socialisti hanno ottenuto la deroga) che consentirebbe la nascita di una componente autonoma degli ex 5 Stelle alla Camera (in questo caso senza l’aiuto di Sel).
Ai piani alti del Movimento sono sicuri: «Ci sono almeno 4 senatori che hanno già deciso di uscire dal gruppo». E fanno anche i nomi: Francesco Campanella, Fabrizio Bocchino, Lorenzo Battista e Alessandra Bencini (ancora incerta). Altri aggiungono nel gruppo anche Mario Giarrusso, ma il vulcanico avvocato non sembra della partita. Parallelamente, i senatori di Sel stanno facendo i conti. Sono 7, compreso la presidente del gruppo Loredana De Petris. La soglia per formare un gruppo autonomo al Senato è di 10: basta quindi aggiungere almeno uno dei 5 Stelle attualmente nel Misto, Adele Gambaro, e un paio dei prossimi ad abbandonare il gruppo (che, come si è visto, sono 3-4), per arrivare al risultato. Colloqui e contatti si moltiplicano ancora in queste ore. Che l’operazione si compia immediatamente è improbabile. «Aspettiamo il casus belli , un segnale», dice uno dei possibili transfughi. Molti degli irrequieti sono disposti ad uscire solo in vista di un’operazione politica concreta. Cioè solo in caso di caduta del governo. In quel caso, il gruppetto ribelle potrebbe nascere per dare il sostegno all’esecutivo in cambio di un programma che abbia al suo interno almeno 2-3 punti già inclusi nella piattaforma elettorale dei 5 Stelle. E potrebbe più agevolmente respingere le prevedibili critiche di chi è pronto ad accusarli di volere passare al «nemico» per soldi.
Se al Senato le trattative sono ben avviate con alcuni esponenti di Sel, alla Camera i contatti sono continui. Le operazioni sono collegate e tra gli irrequieti si fanno i nomi di Alessio Tacconi, Paola Pinna, Walter Rizzetto, Ivan Catalano, Gessica Rostellato e Marta Grande. Ma anche di Tancredi Turco, che ieri al Secolo XIX ha detto: «Proponiamo l’alleanza con il Pd».
Intanto, l’ufficio di presidenza della Camera ha irrogato una sanzione di 5 giorni di sospensione a 12 deputati M5S: erano gli autori della protesta, venerdì scorso, contro la modifica dell’articolo 138 della Costituzione. I contestatori avevano passato una notte sui tetti, srotolando uno striscione.

l’Unità 13.9.12
Femminicidi, il decreto da solo non basta
di Antonella Anselmo

Se non ora quando Libere

TANTE SONO LE VERSIONI DELLA STAMPA SUL DIBATTITO PARLAMENTARE DEL DECRETO GOVERNATIVO DI CONTRASTO ALLA VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE. Secondo alcune, nel corso delle audizioni, il movimento «Se non ora quando» avrebbe espresso una posizione unitaria di critica dura e globale al decreto. Per un movimento composito, plurale come «Snoq» che ambisce, dalla sua nascita, a dare voce alle donne italiane, al di là di storici e datati steccati, sarebbe un ben strano risultato esprimere un rifiuto totale di un provvedimento, che pur con i suoi limiti, ha raccolto apprezzamenti da una larga opinione pubblica, testimoniati dai numerosi articoli comparsi sui grandi organi di informazione e su settimanali a larghissima diffusione. E in effetti non è così. Il movimento ha manifestato orientamenti diversi. Una parte di esso ha colto, come ho sottolineato nel corso della mia audizione a nome di «Se non ora quando Libere», nel decreto un importante segnale politico di accelerazione nel processo di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul recentemente ratificata dall’Italia.
Il fenomeno dei femminicidi e della violenza essendo strutturale, assurge a fatto politico perché investe i diritti e le libertà delle donne nelle relazioni con gli uomini. Non riconoscere questo dato da parte dello Stato sarebbe un grave inadempimento degli obblighi internazionali. Dunque un intervento governativo non era procrastinabile. Si può e si deve viceversa discutere del merito, prescindendo da dogmi, ideologismi, interessi di parte e contingenza politica.
Il dl 93 è un passo avanti, per quanto incompleto e migliorabile in sede di conversione. Ad esso però dovrebbe seguire un Codice di settore (che riordini e dia forma coerente alla abbondante e disordinata legislazione in materia) e completi il percorso normativo fino alla piena attuazione della Convenzione di Istanbul.
Personalmente, come donna, sento che vada sostenuta ogni misura pensata per la sicurezza, protezione e il sostegno delle vittime di violenza di genere e tali sono appunto alcune misure contenute nel decreto: il gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito, l’accelerazione dei processi, la testimonianza protetta, l’estensione dell’allontanamento e di altre misure di protezione a reati della stessa indole, le garanzie processuali di comunicazione alla persona offesa di revoca o modifica di alcune misure di protezione. Sulla base della fondamentale indagine Istat del 2006 emerge che il volto più brutale della violenza è dentro le mura di casa. Ora, il dl ha completato un percorso rendendo un po’ più omogenea la reazione repressiva dello Stato per i reati di violenza sessuale, stalking e di maltrattamenti nelle relazioni familiari. Sono invece da verificare alcuni delicati meccanismi processuali.
Diversa la valutazione sul Piano nazionale straordinario. Il Consiglio d’Europa impone con la Convenzione di Istanbul un approccio integrale e strutturale delle azioni di contrasto. E così il decreto governativo prescrive un piano straordinario che anticipa da subito una politica su più livelli di intervento, omogenea su tutto il territorio nazionale: prevenzione, educazione, assistenza, welfare pubblico, monitoraggio, formazione degli operatori, sostegno ai centri antiviolenza.
Tuttavia la norma non assicura adeguate risorse economiche. E questo è un limite invalidante. In chiave propositiva, «SnoqLibere» ha dunque avanzato la proposta che per legge sia prescritta la regolare rilevazione dall’Istat dei dati disaggregati e che la contribuzione, fatto salvo il pareggio di bilancio, avvenga attraverso la partecipazione anche finanziaria delle varie amministrazioni interessate. Solo così il Piano straordinario avrà speranza di essere concretamente attuato.

il Fatto 13.9.13
Boldrini cambia idea e torna al macchinone

NIENTE LANCIA, preferisce la Bmw. Secondo l’Espresso, il presidente della camera Laura Boldrini ha cambiato idea sulla vettura istituzionale da usare. Appena eletta allo scranno più alto di Montecitorio, nel pieno della polemica sulle auto blu, la Boldrini aveva annunciato di voler rinunciare alla berlina tedesca blindata cui avrebbe avuto diritto (scelta peraltro già compiuta da Gianfranco Fini). Ora però sembra avere cambiato idea e si muove per il centro di Roma a bordo della lussuosa auto che aveva promesso di lasciare in garage. La Lancia Delta usata in questi mesi dalla Boldrini era quella in dotazione al direttore generale di Montecitorio.

Corriere 13.9.13
Se un padre può uccidere sua figlia in nome di una religione distorta
di Michele Farina


Halima è stata uccisa dal padre con due colpi di kalashnikov davanti agli abitanti del villaggio, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, trecento persone riunite tra le colline remote e brulle della provincia di Badghis, distretto di Ab Kamari, ovest dell’Afghanistan.
Il nome Baghdis vuol dire «la casa dei venti» e migliaia di italiani conoscono quel nome e quelle zone, molti ci sono passati, diversi hanno combattuto, qualcuno è morto. La strada che da Herat porta su a Bala Murghab, dove il nostro contingente ha lavorato fino a un anno fa, non attraversa il villaggio di Kookchaheel. Nessuno dei nostri Lince forse è mai transitato lungo la pista che si vede nel video diffuso dal quotidiano El Mundo a distanza di quasi 5 mesi da questo orrore: il megafono appoggiato a terra al centro della scena, l’imam Abdul Ghafur vestito di bianco che spiega la condanna a morte della giovane Halima colpevole di adulterio, «perché consegnarla al governo vorrebbe dire liberarla», perché il governo «è corrotto» (ed è vero), perché Halima merita di essere uccisa e le prove sono in cielo: «Voi stessi — dice l’imam alla folla — capite bene perché non piove». La siccità è colpa di quella ragazza di 18-20 anni il cui profilo sfuocato appare nel video in mezzo alla distesa secca, in ginocchio aspettando la morte. Il suo volto è coperto dal burqa, il padre deve esserle vicino. Si vedono gli sbuffi di fumo bianco dei proiettili, il megafono e la gente che grida «Allah Akbar», forse il padre che torna indietro alzando le mani in segno di trionfo e poi in mezzo alla folla degli uomini, tra le rade motorette che costituiscono l’unico mezzo visibile di locomozione, per un secondo si intuisce qualcuno disteso a terra che piange. Chi ha ripreso le immagini con il telefonino, quel 22 aprile 2013, ha raccontato che il ragazzo in lacrime era il fratello di Halima.
Ora l’imam Abdul Ghafur è rinchiuso in una cella di Qala-e-now, villaggio-capoluogo di una delle province più arretrate dell’Afghanistan, capitale dei pistacchi e dei tappeti, a una cinquantina di chilometri dal luogo dell’esecuzione del 22 aprile. Lì il contingente spagnolo (nel settore della missione Isaf a guida italiana) ha la sua base principale. Lì la giornalista del Mundo Monica Bernabé ha raccolto la testimonianza dell’influente leader religioso che aizzava la folla al megafono, arrestato dalla polizia soltanto a fine luglio: «Certo c’ero anch’io quando l’hanno uccisa, però c’era anche molta altra gente. Io non ho fatto nulla: se il governo non controlla la popolazione, come faccio a farlo io?».
Non ha molta importanza cosa abbia fatto Halima. Su di lei si raccontano diverse storie: che il marito era violento, che l’avesse ripudiata andando a vivere in Iran lasciandola con un figlio a casa dei suoceri che abusavano di lei. Si dice che lei avesse lasciato quella casa per scappare con un cugino. Forse lui l’ha riportata indietro, forse è fuggito in moto abbandonandola senza darle scelta, forse è stato il padre ad andare a prenderla in un villaggio vicino. Non ha importanza. L’orrore è che Halima ha avuto tutti contro. L’imam che l’ha condannata e il padre che l’ha uccisa. La famiglia e gli anziani del villaggio che diverse volte negli anni passati si saranno seduti a parlamentare con occidentali di pattuglia: qualcuno tra gli anziani avrebbe voluto lapidarla, ma la lapidazione avrebbe forse comportato anche la presenza del cugino con cui era fuggita e che guardacaso l’ha fatta franca. Non sono le grida «Allah è grande» e il megafono e il fumo degli spari a colpire di più: è la folla che guarda, tra le colline brulle, nella provincia dei pistacchi e degli italiani.

Corriere 13.9.13
Russia e America, le due nazioni «speciali»
La sacralità di Mosca. La missione degli Usa
Da Dostoevskij a Reagan, entrambe credono nel proprio destino manifesto
di Paolo Valentino


Probabilmente non dispiacerà, a Vladimir Putin, sapere che prima di lui soltanto un altro capo del Cremlino se l’era presa con «l’eccezionalismo americano». Di più, Iosif Stalin fu il primo in assoluto a usare il termine specifico. Successe nel 1929, quando Jay Lovestone, segretario generale del Partito comunista americano, venne cacciato dai ranghi dell’organizzazione su ordine di Mosca, non tanto per essersi schierato con Bukharin nella lotta per il potere sovietico, quanto per aver sostenuto che la forza, il radicamento e la mobilità sociale del capitalismo yankee rendevano inattuale la rivoluzione comunista negli Stati Uniti. «Occorre mettere fine a questa eresia dell’eccezionalismo americano», tuonò Stalin, cambiando per sempre il vocabolario del primo nemico.
Certo il concetto della «prima nuova nazione», qualitativamente diversa da tutte le altre, è antico. Ancora in navigazione verso il Massachusetts, nel 1630, John Winthrop, primo governatore della colonia, aveva teorizzato «the city on the hill», la città sulla collina, faro di luce per il resto del mondo, immagine poi ripresa nella brillante retorica di Ronald Reagan. A dare una descrizione compiuta della posizione «eccezionale» degli americani, era stato poi Alexis de Toqueville. Un americano, per lui, era un individualista, dedito al commercio, convinto di essere eguale a tutti gli altri membri di una società completamente libera.
Non ci volle molto però, perché l’eccezionalismo delle origini incontrasse nei primi decenni dell’Ottocento la dottrina jacksoniana del «destino manifesto», acquistando zelo missionario e militare. L’America aveva ricevuto da Dio la missione di espandersi attraverso il Continente e civilizzarlo. «Regeneration through violence», l’avrebbe definita in un libro fondamentale Richard Slotkin.
Fermiamoci un attimo. E ripensiamo al monito di Putin. Era solo americano il mito della nazione speciale già nel corso del Diciannovesimo secolo? Ascoltiamo cosa fa dire Fëdor Dostoevskij ai suoi personaggi Satov e Stavrogin, in uno dei più celebri dialoghi de «I Demoni».
«Sapete… qual è ora in tutta la terra l’unico popolo “portatore di Dio”, quello che verrà a rinnovare e salvare il mondo del nuovo dio ed è il solo cui siano state date le chiavi della vita e della nuova parola? Sapete qual è questo popolo, e qual è il suo nome?». «Dal modo che tenete devo necessariamente concludere e, credo, al più presto possibile, che è il popolo russo».
Ma già alcuni anni prima, Gogol aveva chiuso la prima parte dello straordinario «Le Anime morte» paragonando la Russia a «un’ardita, insorpassabile trojka» che vola via «tutta infusa dell’afflato di Dio»: «Russia dove mai voli tu? Rispondi. Non risponde. Stupendo lo squillo si spande dalle sonagliere; rimbomba e si muta in vento l’aria squarciata; vola indietro tutto quanto è sulla terra, e schivandola si fanno in disparte e le danno la strada gli altri popoli e le altre nazioni».
L’ambizione della Terza Roma e l’«idea russa» come idea cristiana, di cui aveva parlato il filosofo Soloviev, completano il quadro: di pulsioni eccezionaliste sono piene l’anima e la vicenda della Russia. Quella zarista. Come quella sovietica, vedi la madre del socialismo, la dottrina Breznev e tutto il resto.
E tuttavia, con abilità urticante, il nuovo zar post comunista, pur pronto a invadere un Paese sovrano come la Georgia senza autorizzazioni o basi legali di sorta, tocca un nervo scoperto dell’America di oggi, lacerata tra la vocazione alla crociata morale, la missione di imporre al mondo i suoi valori distillata dall’eterna riflessione sull’eccezionalismo e la voglia di ripiegare su se stessa, prendendo atto delle proprie fragilità, delle proprie insicurezze, dei propri limiti.
Nel 2009, Barack Obama disse di «credere nell’eccezionalismo americano» ma di sospettare che «anche gli inglesi credano in quello britannico e i greci in quello greco». La frase lo espose all’attacco del suo avversario Mitt Romney, che in campagna elettorale accusò il presidente di «non avere gli stessi nostri sentimenti verso l’eccezionalismo americano». Fu facile per Obama ricordare che la sua stessa biografia ne fosse la testimonianza. E poi correggere il tiro, spiegando di non vedere contraddizioni «tra credere nel ruolo dell’America di guidare il mondo verso la pace e la prosperità e pensare che ciò dipenda dalla nostra capacità di creare alleanze, perché non possiamo risolvere i problemi da soli».
Non ha grandi titoli, Vladimir Putin per bollare come pericolosa la rivendicazione dell’eccezionalità americana. Ma come osserva Roger Cohen, «quanto eccezionale puoi essere, se ogni grande problema che hai di fronte, dal terrorismo al nucleare, richiede un’azione comune?».

Repubblica 13.9.13
Verdi e gauche all’assalto di Hollande “Ormai è il presidente dei padroni”
Critiche per la finanziaria e l’ambiente. E il governo vacilla
di Giampiero Martinotti


Liberation
“Il presidente dei padroni” titolava in prima pagina martedì il giornale di sinistra, che ieri è tornato ad attaccare in copertina il capo dell’Eliseo, contrario a tassare le auto diesel: “Hollande l’inquinatore”

PARIGI — Presidente dei padroni, scarsamente ecologista e magari guerrafondaio: se il disamore tra i francesi e François Hollande è ormai di vecchia data, quello con una parte della sinistra è cronaca di questi giorni. Contestato a destra e all’estrema sinistra per la gestione della crisi siriana, adesso anche la sua politica interna suscita le ire di una parte della gauche. A interpretarle sono le prime pagine di
Libération, che accusa il presidente di aver abbandonato il suo programma di sinistra per una politica classicamente social- liberale e di aver tradito gli ideali dell’ecologia. E sono proprio i Verdi in prima linea nella battaglia politica: di fronte al rifiuto del governo di tassare le auto diesel, gli ecologisti minacciano di lasciare governo e maggioranza. L’autunno si annuncia infido e il 2014 pericoloso: le elezioni comunali di marzo e le europee di fine maggio rischiano di trasformarsi in una disfatta per i socialisti e in un trionfo per Marine Le Pen. A contrastare la tendenza servirà a ben poco il dirigismo economico dimostrato ieri con la presentazione di 34 progetti industrialiper il futuro, commentata dalla stampa con molto scetticismo.
Il candidato che accusava la finanza di essere il suo grande nemico, che arringava le folle contro i ricchi e annunciava divoler ricreare «il sogno francese » ha lasciato il posto a un presidente pragmatico. E come tanti suoi predecessori, Hollande ha cambiato linea senza spiegarsi: la sua impopolarità, confermata dagli ultimi sondaggi, nasce anche da questa sua incapacità a far capire la coerenza della strategia. Durante i primi mesi all’Eliseo, Hollande si è reso conto che il vero problema dell’economia francese è la competività delle imprese. Una diagnosi che in genere non piace a sinistra, perché implica una soluzione obbligata, cioè un aumento della produttività e una riduzione del costo del lavoro. E da qualche mese le sue misure vanno tutte nella stessa direzione: controllo del deficit pubblico, sgravi alle aziende, riduzione dell’imposta sulle società, rifiuto di imporre un tetto agli stipendi dei manager del settore privato. La Finanziaria 2014, che sarà varata il 25 settembre, codificherà la svolta: gli sconti alle imprese saranno pagati dalle famiglie.
Sul fronte ecologico, il clima rischia di farsi ancor più incandescente: per i Verdi, la tassa sul diesel, che ogni anno provoca la morte di migliaia di persone, è un impegno imprescindibile. Ma il governo tentenna: non vuole penalizzare i costruttori transalpini e nemmeno le classi popolari (il diesel rappresenta il 60% del parco automobilistico). Poco incline alle scelte drastiche e portato invece a mediare fra le varie correnti della gauche (social-liberali, ecologisti, keynesiani, massimalisti), Hollande ha finito per scontentare tutti.

Corriere 13.9.13
Libertà individuale e pluralismo
di Massimo Teodori


Il ministro dell'Istruzione Vincent Peillon, nel diffondere nelle scuole francesi la «Carta della laicità», ha proclamato che «l'essenza stessa della laicità è accompagnare gli studenti nel loro divenire di cittadini senza ferire alcuna coscienza», e che «la laicità della scuola non ostacola la libertà, ma la condiziona nella sua realizzazione». Il documento, espressione della migliore tradizione francese codificata nel primo articolo della Costituzione del 1958 («La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale»), indica l'opportunità di adottare un orientamento nazionale unificante nelle scuole di una società pluralista, in cui la presenza di islamici è contornata anche da gruppi islamisti che tendono a sovrapporre le proprie visioni integraliste alla libertà di tutti garantita dallo Stato neutrale. Nei Paesi europei, Italia in primis, in cui cresce la reazione anti-islamica in nome dell'identità nazionale, si dovrebbe guardare alla «Carta della laicità» francese come ad un buon esempio di conciliazione tra la tradizione occidentale della separazione tra l'appartenenza religiosa e la cittadinanza e tra Stato e Chiesa, e le esigenze della convivenza rispettosa delle diversità garantite dallo Stato laico.
Confesso perciò che non sono riuscito a leggere nella «Carta» francese le «gravi ferite dei principi liberali» indicate sul Corriere del 10 settembre da Giovanni Belardelli («Quella carta francese della laicità che ferisce i principi liberali»): «documento poco laico e poco liberale», «rischio di discriminazione», «concezione attivamente antireligiosa della laicità», «religione incompatibile con la libertà umana», e «rischio autoritario». Queste espressioni attribuiscono alla «Carta» formulazioni e interpretazioni del tutto estranee alla lettera ed allo spirito del testo ufficiale che ha raccolto il consenso della stragrande maggioranza dei francesi. Basta infatti leggere i suoi concetti chiave per rendersi conto che si tratta della riproposizione ad uso di professori e studenti dei principi enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 e nella Convenzione europea dei diritti umani del 1950, fatti propri da tutti i Paesi dell'Occidente liberale ed avversati solo dagli integralisti d'ogni specie. Nella «Carta», all'articolo 2, si sostiene che «la Repubblica laica organizza la separazione delle religioni dallo Stato» (vedi Bill of Rights americano); al 3 si afferma che la laicità «garantisce la libertà di coscienza», al 4 che concilia «la libertà di ciascuno con l'eguaglianza e la fraternità di tutti», al 6 che «protegge da tutti i proselitismi e da tutte le pressioni», all'8 che tutela «la libertà di espressione», al 9 che tutela «l'eguaglianza tra uomini e donne», e al 10 che «trasmette il senso e il valore della città», cioè la centralità della cittadinanza. È vero che all'articolo 11 si vieta di «manifestare ostentatamente i simboli dell'appartenenza religiosa» come era stato già scritto nella legge del 2004, ma la chiave di lettura sta in quell'ostentatamente che nella società pluralista tende a proteggere la sensibilità individuale dalle provocazioni che possono aver luogo nelle convivenze istituzionali come la scuola.
In molti settori della nostra società trasformata radicalmente dalla secolarizzazione e dalle pluralità etniche, si invoca spesso la necessità per i cittadini del recupero di valori comuni intorno a cui stringersi al di là delle diversità religiose e culturali. Negli Stati Uniti, il Paese al massimo diversificato e unitario, i nuovi cittadini giurano sulla Costituzione che, insieme alla bandiera, rappresenta il riferimento fisso della nazione. In Francia anche con la «Carta della laicità» il governo tenta di fornire un indirizzo costituzionale che aiuti a formare il cittadino in nome dei diritti e delle libertà condivise rispettose delle coscienze individuali. Non mi pare che tutto ciò possa essere scambiato per «rischio autoritario».

l’Unità 13.9.12
Il Festival della filosofia
Dov’è finito l’amore?
Ora che ne abbiamo più bisogno stanno per strapparcelo... in nome della libertà
di Manuel Cruz


Anticipiamo la lectio magistralis che Manuel Cruz terrà stasera a Sassuolo: solo il giorno in cui riusciremo
a combattere la dipendenza affettiva spiega saremo davvero liberi e avremo raggiunto l’equilibrio di chi non conosce il dolore. Ecco come siamo arrivati fin qui

PER LUNGO TEMPO, IL RICORSO ALL’AMORE HA FUNZIONATO COME UN ARTEFATTO IDEOLOGICO PERFETTAMENTE OLIATO. Da un lato, è chiaro che l’amore offre all’individuo la possibilità di un’esperienza straordinaria, di un’intensità inusitata. Grazie alla passione amorosa, gli innamorati hanno sempre creduto di accedere a dimensioni sconosciute di sé, di conoscere strati del proprio essere che restavano nascosti al proprio sguardo e da quelle scoperte hanno ricavato la forza per fronteggiare la realtà con un’energia e un coraggio impensabili in circostanze normali. Chi ama è disposto a far saltare in aria qualunque convenzione, norma o abitudine, per quanto radicata nella tradizione e nelle usanze più diverse.
Ma, da un altro lato, questo flusso di vita in apparenza irrefrenabile ha finito invariabilmente e quasi senza eccezione per scorrere entro un inequivocabile alveo istituzionale. Nella sua esagerazione, il «vissero felici e contenti» sottolinea senza mezzi termini il segno dell’operazione ideologica: far credere agli individui di essere illimitatamente liberi (in alcuni casi, addirittura pervicaci sfidanti dell’ordine esistente) per finire nel migliore dei casi col sottometterli ai disegni prestabiliti. Nessun dubbio sull’efficacia dell’operazione: con un candore degno di miglior causa, nel corso della storia gli innamorati hanno insistito nell’idea che quell’esperienza vecchia quasi quanto la stessa umanità avrebbe acquisito con essi una dimensione nuova, inedita, e che là dove a lungo c’era stata strumentalizzazione per il dominio e il controllo, adesso sempre attraverso di loro, così candidamente fondativi, così ingenuamente inaugurali ci sarebbe stata l’opportunità di edificare, su nuove basi, una realtà radicalmente altra. In questo modo essi hanno dato compimento, senza saperlo, alla diagnosi che Spinoza ha lasciato scritta nella sua Etica: «gli uomini si ingannano nel ritenersi liberi, opinione che consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni ma sono ignari delle cause da cui sono determinati».
La cosa ha funzionato senza grandi problemi finché una robusta struttura sociale ed istituzionale ha fornito all’operazione un’efficace copertura. Senza dubbio, nella coppia sposata c’era molta meno felicità di quanto si facesse credere, ma, per converso, al di fuori di essa rimanevano soltanto solitudine e tristezza (invecchiare senza essere riuscito a sposarsi era quasi il paradigma del fallimento personale). Del resto, il dispositivo funzionava così bene da consentire anche qualche ritocco per adeguarlo alle nuove circostanze. Si ricorderà che, contro chi, da miopi posizioni conservatrici, considerava il divorzio come l’inizio della fine dell’istituto matrimoniale, già Bertrand Russell osservava che nessuno crede nel matrimonio più di chi divorzia, proprio perché con il suo atteggiamento prova di avere tanta fiducia nell’istituto da essere disposto a contrarre un nuovo matrimonio tutte le volte che sia necessario e pensa anzi di essere l’unico responsabile, avendo sbagliato fino a quel momento la scelta del coniuge.
Ma ecco che la postmodernità e la società dei consumi di cui costituisce l’altra faccia della medaglia nella sfera dell’immaginario ha fatto saltare in aria questo schema. Le forme istituzionali ereditate, anche quelle già flessibilizzate, da un certo momento in poi sono diventate un ostacolo al flusso di presunte esistenze liquide che dovevano adeguarsi senza resistenza alle permanenti mutazioni del reale, adottandone le forme cangianti. Le relazioni amorose hanno virato verso una crescente volatilità e, a titolo esemplificativo, l’espressione l’amore della mia vita ha ceduto il passo ? forse come annuncio della sua definitiva scomparsa? all’espressione l’amore di questo momento della mia vita, momento, tra l’altro, sempre più fugace.
Alcuni dei danni collaterali che tale trasformazione ha causato negli individui si possono riconoscere senza difficoltà alla superficie del linguaggio. Chiunque può constatare che continuano ad essere a tono affermazioni come «va bene, ciò che succede è che io, sotto sotto, sono un po’ romantico» (dove «romantico» si può anche sostituire con «sdolcinato», se si preferisce). Tali affermazioni conservano una certa aria di famiglia insieme ad altre come: «io per queste cose e non c’è bisogno di specificare quali, perché so già a cosa state pensando sono molto classico». Tutte danno ad intendere, se cerchiamo l’inequivocabile complicità dell’interlocutore, che, anche se con tutta probabilità il modello precedente (romantico, sdolcinato o classico) è entrato in una crisi irreversibile, non siamo stati capaci di trovare alcuna alternativa abbastanza soddisfacente e lamentiamo più le difficoltà per concretizzarlo che il modello in sé in gran parte perduto, nostro malgrado. In altre parole, pare che, in fondo, ciò che ancora tante persone pensano potrebbe essere così formulato: «non posso credere, poiché è irreale, a sogni come quello della dolce metà ma, se esistesse davvero, certo continuerei a preferirlo ad ogni altra alternativa!».
Quant’è lontana la diagnosi di Habermas di qualche decennio fa, secondo la quale le utopie erano emigrate dal mondo del lavoro al mondo della vita! Pii desideri, ora lo vediamo, che si sono rivelati del tutto illusori. Ciò che si è veramente prodotto, per riprendere il titolo del famoso romanzo di Michel Houllebecq, è un’estensione del dominio della lotta. Il capitalismo attuale coinvolge l’intera vita e la massimizzazione dei consumi riguarda anche le emozioni e i sentimenti, che sono diventati un’altra merce, in quanto tale suscettibile di obsolescenza e caducità (oltre che di banalità), così come le relazioni personali sono divenute occasione di transazione e di dominio.
I tempi attuali non sono quindi i migliori per l’esperienza amorosa, a meno che non sia proprio l’ultimo riparo che ci resta quando la durezza del mondo esterno pare in procinto di arrivare al parossismo. O se preferite un’altra formulazione dello stesso crudele paradosso: siamo sul punto di rimanere senza amore proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno. E stanno per strapparcelo con il medesimo argomento con cui ci strappano tutto: in nome della libertà. Come accade in altre sfere dell’esistenza umana in particolare in quella economica, come la presente crisi sta mostrando con lacerante evidenza -, quando l’ordine capitalistico ci promette libertà, mentre in realtà ci sta gettando nell’abbandono più assoluto.
So che è parlare dall’ultima trincea, ma diffidate di tutte le proposte che, nelle vesti dell’auto-aiuto, si ostinano a introdurre linguaggi e categorie di risonanza clinica per curare l’esperienza amorosa. Così, mirano così in modo inequivocabile alla liquidazione definitiva di ciò che per il nuovo ordine sembra essersi convertito in un’ingombrante, perché disfunzionale, questione (l’amore, certo). Sospettate di chi, sempre per il vostro bene, cerca di convincervi che dovete combattere la dipendenza affettiva, come se fosse pensabile un amore che non la include. Il giorno in cui riusciste a sconfiggerla del tutto godreste di una perfetta libertà senza rischio, sperimentereste la stessa serena atarassia di un anestetizzato, avreste raggiunto l’impeccabile equilibrio di chi non conosce il dolore per la mancanza dell’essere amato né la felicità senza limiti davanti alla sua mera presenza. Arrivati a questo punto, non trovo argomento migliore che formulare una domanda: vi interessa uno scenario del genere?
Traduzione dallo spagnolo di Nacho Duque García e Michela Zago
Consorzio per il festivalfilosofia 2013

Il Festival di filosofia
Da Bauman a Wulf oltre 200 appuntamenti

Da oggi a domenica 15 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Il tema di quest’anno sarà l’amore. Tra i protagonisti Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Umberto Galimberti, Massimo Gramellini, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Vincenzo Paglia, Giovanni Reale, Stefano Rodotà, Chiara Saraceno, Silvia Vegetti Finzi, Remo Bodei, Luc Ferry, Michel Maffesoli, Anne Dufourmantelle, Marc Augé, Christoph Wulf; Zygmunt Bauman, Aleksandra Kania, Eva Illouz, Manuel Cruz, Stavros Katsanevas. Ingresso libero.

Repubblica 13.9.13
Quel che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio
di Massimo Recalcati


Un sintomo sociale dell’attuale difficoltà che caratterizza il rapporto tra le generazioni è l’assottigliarsi dell’eredità materiale: sempre meno i figli ereditano ricchezze accumulate dai propri genitori o dai propri nonni. La crisi economica oltre a rendere più fosco il futuro dei nostri figli sembra che li abbia spogliati anche del loro passato rendendoli più poveri, meno garantiti dalla possibilità di contare su chi li ha preceduti. Tuttavia la psicoanalisi insegna che l’eredità che più conta non è fatta tanto di beni, di geni, di rendite o di patrimoni. Essa concerne le parole, i gesti, gli atti e la memoria di chi ci ha preceduti. Riguarda il modo in cui quello che abbiamo ricevuto viene interiorizzato e trasformato dal soggetto. Nell’ereditare non si tratta dunque di un movimento semplicemente acquisitivo, passivo, come quello di ricevere una donazione. I nostri figli ereditano ciò che hanno respirato nelle loro famiglie e nel mondo e che hanno fatto proprio. La più autentica eredità consiste di come abbiamo fatto tesoro delle testimonianze che abbiamo potuto riconoscere dai nostri avi. Da questo punto di vista ogni figlio deve accogliere che il suo destino di erede è quello di essere anche orfano – come l’etimologia greca, mostra: erede viene dal latino heres che ha la stessa radice di cheros, che significa
deserto, spoglio, mancante e che rinvia a sua voltaal termine orphanos.
Cosa illustra questa convergenza dell’erede con l’orfano? Diverse cose, tra le quali il fatto che il giusto erede non si limita a ricevere ciò che gli avi gli anno lasciato, ma deve compiere, come direbbe Freud attraverso Goethe, un movimento di riconquista della sua stessa eredità: “ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se lo vuoi possedere”. In questo senso l’eredità autentica implica un movimento attivo del soggetto più che una acquisizione passiva. Ma cosa si eredita se non si eredita un Regno, se non si è figli di Re? Quello che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. È il modo con il quale i nostri padri hanno saputo vivere su questa terra provando a dare un senso alla loro esistenza; è il modo con il quale i nostri padri hanno dato testimonianza del loro desiderio, ovvero che si può vivere con slancio, con soddisfazione, dando senso alla nostra presenzanel mondo. Ne troviamo un esempio formidabile in un film dedicato interamente al rapporto tra le generazioni e al tema dell’eredità come èGran Torinodi Clint Eastwood. I legittimi eredi restano a bocca asciutta di fronte al giovane Tao che viene riconosciuto, al di là della stirpe e del sangue, cioè al di là di un diritto stabilito, come giusto erede. A dimostrazione che l’eredità più che una acquisizione o, peggio, una clonazione è un movimento di “riconquista”, è un fare originalmente nostro ciò che è stato fatto di noi dagli altri. Tao, diversamente dai figli biologici, è il giusto erede perché ha accolto la testimonianza di Walt, ha accolto la Legge della sua parola, come quando gli intima di non rubare la Gran Torino, o come quando, più teneramente, lo inizia all’incanto dell’incontro amoroso. Tao accoglie la Legge del padre – non si può vivere rubando, non si può vivere dissipando la propria vita – non grazie ad una eredità di sangue ma da una eredità simbolica, riconoscendo il valore della parola del padre “adottivo”. Solo attraverso questo riconoscimento può decidere di essere nel mondo in modo diverso dalla banda omicida dei suoi cugini.
In questo senso il giusto erede è colui che può ricevere qualcosa dai suo padri proprio perché non si limita a riprodurlo passivamente. Non è questo il destino di ogni figlio? Lo statuto orfano di ogni figlio non significa anche questo? Non significa che siamo obbligati ad inventare la nostra eredità? In un processo positivo di filiazione non è forse sempre in gioco l’eredità come eresia, come una deviazione creativa del solco tracciato da chi ci ha preceduto?

La Stampa 13.9.13
Festival Filosofia
Non si è mai soli come due innamorati
La coppia può sentirsi fuori dal mondo o ciascuno può sentirsi un’entità a parte
Quando si ama il sentimento della fusione appartiene al singolo, ognuno lo vive per sé
Nella passione l’altro è l’uomo o la donna che trasforma il mondo con la sua presenza
di Marc Augé


I fidanzatini del disegnatore francese Peynet sono un’icona per gli innamorati Un immagine da Gli innamorati sono soli al mondo, il film di Louis Decoin, uscito nel 1947 e interpretato da Louis Jouvet. Il titolo è diventato in Francia una sorta di modo di dire. Nel film Jouvet è un celebre compositore conteso da due donne, la diciottenne Renée Devillers e la trentenne René che è sua moglie. La diciottenne è innamorata, crede che anche lui lo sia, ma lui alla fine le preferisce la moglie. «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole» questi versi da le foglie morte di Jacques Prévert ( trad. di Maurizio Cucchi, Guanda 2004) esprimono bene, secondo Augé, un tipo di «solitudine degli innamorati». Prévert (nella foto) è stato il poeta dell’amore nella stagione dell’esistenzialismo francese Una scena dal Don Giovanni di Moliére. Il protagonista in realtà non è un seduttore, è un amante di sensazioni; è possibile immaginare che egli abbia avuto un’esperienza di solitudine a due con la moglie Elvira e che – giunto ad un certo punto della sua vita – abbia preferito alle illusioni effimere della «solitudine a due» la solitudine radicale delle emozioni istantanee e delle conquiste facili
«Gli innamorati sono soli al mondo»: il detto è divenuto p rove rb i a l e. Ha dato il titolo ad un film di Louis Decoin, uscito nel 1947; l’attore principale era Louis Jouvet. Ricordo di avere canticchiato, all’età di dodici o tredici anni, il valzer che faceva da colonna sonora, risentendo forse senza sapere perché - del suo fascino ambiguo (a dire il vero non gioioso, ma nemmeno triste). L’evocazione della solitudine a due per le strade di Parigi è un tema trito e ritrito delle canzoni d’amore. Ma in che cosa consistono esattamente la «solitudine» di cui esse parlano e l’«amore» che ne è la causa?
Malgrado la sua apparente banalità, la frase da cui siamo partiti si presta a due interpretazioni differenti. La prima è la più immediata: la solitudine a due degli innamorati prigionieri della loro passione e ciechi verso tutto il resto. Tale interpretazione basta a spiegare quella sorta di malinconia che quella frase porta con sé e che i ritornelli delle canzoni popolari esprimono a modo loro: ognuno sa o dovrebbe sapere che la passione è passeggera e che, nella sua forma esplosiva ed esclusiva, è destinata a morire. Ad ulteriore sostegno di questa interpretazione si può d’altro canto aggiungere la considerazione del fatto che la solitudine degli innamorati è rafforzata dall’indifferenza, dall’incomprensione o dalla gelosia degli altri, di coloro che non hanno mai conosciuto l’amore o che l’hanno scampata bella.
È tuttavia possibile fornire una seconda interpretazione, più letterale, di quel detto che forse esprime il vero significato della prima. Se gli innamorati sono soli al mondo, lo sono ciascuno per proprio conto: due solitudini vengono a coincidere; è questa unione che chiamiamo amore, sia che si manifesti come «colpo di fulmine» improvviso sia che si manifesti come un movimento progressivo ma irreversibile, movimento che Stendhal chiamava «cristallizzazione». Per quanto fusionale possa essere o sembrare, è pur sempre un’unione di due individualità, il sentimento stesso della fusione appartiene al singolo, ognuno lo vive per sé. I temi dell’anima gemella e delle metà complementari nel Simposio di Platone esprimono un desiderio: l’apparente unione di due solitudini alimenta per qualche tempo la nascita di un’illusione. I due innamorati sono soli al mondo, ma il mondo comincia con l’altro. La «doppia solitudine» è il vero significato della «solitudine a due». Le parole, le parole pronunciate spontaneamente o riprese più sottilmente dai poeti, lo affermano e lo confessano con ingenuità. Cercano di esprimere la voglia di vivere intensamente che si prova quando sentiamo sorgere intorno a noi un mondo che improvvisamente acquista più forza ed evidenza: «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole» (Jacques Prévert, Le foglie morte, trad. di Maurizio Cucchi, Guanda 2004).
L’altro, nella fusione della passione amorosa, è l’uomo o la donna che trasforma il mondo con la sua presenza. Ma ognuno vive il suo sogno con le proprie sensazioni e i propri colori e vi trasporta la propria immagine dell’altro. In tal senso, la «relazione amorosa» non è propriamente una relazione; una relazione tra due individui, per quanto possa essere forte, non si lascia compromettere dalla tentazione della «fusione». La fusione non è solo la simpatia o l’empatia, è il divenire padroni dell’altro a livello immaginario e, in tal senso, la negazione di esso, una forma di cannibalismo vorace e pulsionale. Per questo motivo, rompere lo stato di sudditanza reciproca a cui in definitiva corrisponde l’unione di due solitudini può essere molto pericoloso: nel momento in cui si profila la possibilità di un amore autentico e illuminato, grazie al riconoscimento dell’altro in quanto altro, l’egoismo della passione impedisce spesso di costruire una relazione. La disillusione, la delusione e la disaffezione possono però fornire anche l’occasione per giungere a una scoperta, la prova dell’esistenza dell’altro, e per rendere possibile un nuovo inizio: una sfida, una promessa, o al contrario, una minaccia di morte, la fine dell’avventura e della storia d’amore.
La consapevolezza di questa forma esacerbata di solitudine è il tratto caratteristico di un personaggio come Don Giovanni: in questo caso, non è opportuno parlare di infedeltà in quanto egli non prende nemmeno in considerazione la possibilità di una relazione. Il «fascino delle inclinazioni nascenti», al quale dice e sa di essere così sensibile, riguarda soltanto lui. Il Don Giovanni di Molière non è un seduttore, è un amante di sensazioni; è possibile immaginare che egli abbia avuto un’esperienza di solitudine a due con la moglie Elvira e che – giunto ad un certo punto della sua vita – abbia preferito alle illusioni effimere della «solitudine a due» la solitudine radicale delle emozioni istantanee, delle conquiste facili e delle menzogne immediate. Don Giovanni è un personaggio tragico che, al di là delle peripezie della sua vita amorosa, sembra incarnare in anticipo sui tempi la forma di solitudine tipica della modernità ed oggi molto attuale.

l’Unità 13.9.12
Il pensiero delle donne che cambia il mondo
Hannah e le altre Il bel libro di Fusini esplora le riflessioni filosofiche
di Arendt, di Weil e Bespaloff su percorsi nella Storia alternativi al sistema violento del maschile
di Valeria Viganò


IN QUESTO LIBRO SI PARLA DI DONNE. DONNE IMPORTANTI, PENSATRICI CHE HANNO IMPRESSO IL LORO SIGILLO A UN INTERO SECOLO, RISCOPERTE A POSTERIORI NELLA LORO UNICA GENIALITÀ. Non che Hannah Arendt mancasse di qualche fama in vita, ma certamente nei decenni il suo pensiero ha acquisito uno spazio più ampio e fondamentale nella storia della filosofia. Non che Simone Weil mancasse di una originalità prepotente e assoluta nelle sue scelte esistenziali, ma oggi la sua pratica di condivisione sociale portata all’estremo e le sue scelte teoriche controverse e attualissime sono costantemente recuperate e studiate come materia preziosa. La terza donna che abita il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, è meno nota, anzi quasi sconosciuta, Rachel Bespaloff, appartata e autodidatta. Hanno in comune un tempo, gli anni della seconda guerra mondiale, la fuga dalle persecuzioni, la perdita e la volontà di emanciparsi, liberarsi dal vincolo che precludeva il sapere alle donne, e anche se i loro destini diversi si incrociano appena, convergono nella medesima speculazione filosofica sulla prevaricazione, la violenza, l’orrore della guerra e dell’ingiustizia. La loro attenzione non può esimersi dall’affondare nei meccanismi che generano l’oppressione e il male, perché lo subiscono e lo pagano personalmente. Non demordono mai, una cocciutaggine bisognosa di indagare e capire le porta a stare fuori dagli schemi, perché dagli schemi lo sono già come scrittrici, come donne. La lotta attraverso il pensiero e la pratica contro il potere che manifesta le sue lordure più atroci è ciò che le sostiene. Ma l’unica che sopravvivrà allo scontro reale sarà Hannah, la meno outsider, la più inserita in ambito accademico. Le altre, Simone Weil e Rachel Bespaloff, umanamente ne usciranno tragicamente sconfitte. La prima muore giovane, provata da una febbrile vita di stenti e domande, dopo essere emigrata e poi rientrata coraggiosamente per portare a termine il suo compito. La seconda, emigrata e mai più rientrata in patria, affida al suicidio la sua disperazione profonda.
Fusini è una donna che parla di donne che parlano il mondo. Il libro è pervaso nei contenuti e nella narrazione da un’inconfondibile punto di vista femminile, sono occhi femminei quelli che osservano e quelli che sono osservati e davvero costituiscono un solco di diversità ineludibile nella riflessione filosofica. Perché colgono della Storia i nodi essenziali, indicano sentieri inusuali e tentano con pervicacia di minare il sistema violento e sanguinario che il maschile porta come unico esempio di confronto con la realtà umana. Fusini, nelle prime pagine di Hannah e le altre, mette anche specularmente la sua voce in campo, e lo fa con il preciso scopo di ridarci la pregnanza di queste pensatrici e riflettere sulla barbarie del presente che sguazza nel sangue delle donne. Il nostro presente che discende da un secolo di guerre e stermini, dovrebbe aver incamerato, per avversione, la repulsione per il male inflitto arbitrariamente da una parte dell’umanità sull’altra che le è diversa e imprimere così il suo dominio. Oggi la necessità aberrante di imporre il dominio è perpetrata da un genere sull’altro. La lezione non è stata imparata. Perché il bisogno di dominare ancora non è stato dismesso dagli uomini, loro continuano a uccidere e comandare, e a usare l’odio come difesa di quel comando. Alle donne non appartiene questa tipo di follia, se non introiettata raramente come sparuto adeguamento a un modello culturale dominante.
Hannah e le altre ci dice questo, e fa leva sul pensare e sull’agire delle tre filosofe, che è stato laterale e originale in quanto femminile, ma ha focalizzato meglio di chiunque altro il cuore di tenebra delle relazioni umane e politiche. Davvero qui la parola outsider che Fusini usa per definire Hannah, Simon e Rachel ha una valenza pregnante e polivalente. Si potrebbe tradurre con reiette, non conformi, estranee, controcorrente. Certamente un’altra corrente etica le percorre, un’altra passione che non dimentica ma ingloba la vita.

Hannah e le altre, Nadia Fusini pagine 168 euro 18 Einaudi

Repubblica 13.9.13
Dieci anni fa moriva la regista e fotografa tedesca. Un libro la racconta: dalle celebrazioni del nazismo al pentimento
La ninfa del Fuhrer
Leni Riefenstal, il talento e le colpe
di Irene Bignardi


La ninfa egeria del Führer o un’artista persa nella sua ambizione al punto da non vedere quello che stava succedendo attorno a lei? Un talento epico che per esprimersi ha avuto bisogno di pretesti importanti come il congresso di Norimberga e le Olimpiadi - o, complice la sua ambizione e il suo talento, una oggettiva fiancheggiatrice del potere nazista?
A dieci anni dalla scomparsa di Leni Riefenstahl, morta nel settembre del 2003 a 101 anni, l’audace, algida attrice di tanti film di montagna, la regista diLa bella maledetta, diIl trionfo della volontà, diOlympia, la fotografa eccellente dei nuba e del mondo sottomarino, è ancora un personaggio scomodo, ammirato da molti (da Pauline Kael alle femministe americane degli anni Settanta, da Warhol a Coppola), ma sempre sotto accusa e sotto processo, molto più di quanto non sia mai accaduto ad altri artisti - uno per tutti: Herbert von Karajan – compromessi con il regime nazista e abilmente sopravvissuti alla loro vicinanza con il medesimo.
Su di lei, Leni, che pure è uscita scagionata da una lunga serie di processi per “denazificazione”, che è stata assolta dagli americani come dai francesi, («Leni Riefenstahl non è mai stata membro del Partito Nazista o di alcuna sua sottodivisione », recitava il testo del verdetto, e tra lei e i gerarchi del partito non c’è stato alcun rapporto «che non sia nato da normali relazioni commerciali finalizzate all’esecuzione dei progetti artistici a lei assegnati»), che è stata ridotta in povertà dai costi di queste azioni legali, ha vissuto tre anni tra prigioni e istituti psichiatrici, ha dovuto inventarsi un nuovo mestiere portato avanti con il talento e la capacità di invenzione che (almeno questo) nessuno le nega, su Leni Riefenstahl si addensa sempre e nonostante tutto l’etichetta pesante e cupa di una astuta fiancheggiatrice, di una donna che esercita il suo talento e la sua ambizione senza scrupoli.
Non è questa l’impressione che ho avuto, ormai vent’anni fa, quando l’ho intervistata per queste pagine in occasione del suo novantesimo compleanno, e ho assistito a un’esplosione di lacrime a commentare il suo dichiarato e sofferto senso di colpa per la propria cecità, per il proprio egocentrismo, per quell’ambizione che le ha impedito di vedere qualsiasi cosa al di fuori di ciò su cui puntava la sua cinepresa e la sua voglia di autorealizzazione. Grande attrice? Non lo è mai stata. Difficile pensare a una simulazione. Ma, spiegava, «era difficile capire le cose allora. O almeno era difficile per me. Ero spesso in cima a una montagna o con l’occhio incollato a una cinepresa. I giornali che leggevo dicevano ben poco», e lei si occupava solo delle sue invenzioni tecniche, a cui ho piegato persino l’apparato della propaganda nazista, e delle meraviglie del montaggio dei chilometri di pellicola girati.
Questa Leni è anche quella che racconta, in perfetta puntualità con l’anniversario della sua scomparsa, un libro metà romanzo metà rievocazione storica, Riefenstahl, di Lilian Auzas (Elliot, pagg. 189, euro 18,50, traduzione un po’ strana di Monica Capuani: si può definire “scalcinata” la Germania del dopoguerra?).
Auzas, che ha trent’anni e si avvicina alla storia con lo stupore dei giovanissimi, ha conosciuto Leni Riefenstahl attraverso la comune passione per l’arte africana, poi come studioso degli artisti attivi sotto i regimi totalitari. E ha debuttato con questo romanzo in terza persona sì, ma soggettiva, ricalcato sulle vicende che Leni Riefenstahl ha raccontato nella sua autobiografia del 1987, Memoiren (in Italia tradotto con il titoloStretta nel tempo, Bompiani).
L’effetto della terza persona in soggettiva – a cui si alternano dei momenti “critico/storici” dell’autore - è spiazzante e a tratti un po’ cheap. Soprattutto, sottolinea ed enfatizza quel che di volgarotto, di ovvio, di facile c’è in questa storia vera di ambizione e di potere, di bravura e di sessualità così libera da essere imbarazzante – almeno se te la senti raccontare con un linguaggio da “sfumature”. Si veda la descrizione dell’avventuroso incontro sessuale di Leni con tale Glenn Morris, sedotto e abbandonato in uno spogliatoio per soli uomini fortunatamente deserto. O, dal lato letterario, ecco le suggestioni che avrebbero spinto Leni Riefenstahl a tentare una nuova vita in Africa, dove avrebbe realizzato le sue bellissime foto sui nuba: «La scrittura franca di Ernest Hemingway si confondeva con i pochi stereotipi che galoppavano nella sua testa: misteriosa Africa».
Nonostante l’enfasi letteraria e la prosa avventurosa, escono da queste pagine un pezzo di storia e un ritratto “per tutti” di questa donna caparbiamente creativa, di questa artista capace di reinventarsi continuamente, di questa cineasta testardamente votata a una egocentrica realizzazione di se stessa e, come scrive con un brillante ossimoro Auzan, dei suoi «orribili capolavori».
Leni, pentita o no, diceva che il suo passato diIl trionfo della volontà e di Olympia era «una tale ombra sulla mia vita che la morte sarà per me una liberazione ». È morta con questa verità, o con questa menzogna, sulle labbra. Ma anche un libro facile come quello di Auzan ci conferma che merita di essere conosciuta e studiata di più e al di là delle etichette che le si sono incollate addosso.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
La mente è informazione che “sente” il mondo e se stessa, due scienziati lo dimostrano
Tradotti in cifre i segreti della coscienza
di Elena Dusi

qui