il Fatto 11.7.13
Il governo kazako: “Italia a caccia del dissidente”
Letta ammette le “ombre” sul governo, Alfano scompare
Il ruolo dei servizi nel “rapimento di Stato” di Alma
di Davide Vecchi
“Non saranno tollerate ombre o dubbi”. Enrico Letta promette “una indagine approfondita” per sciogliere “tutti i crescenti interrogativi” che si addensano sul rimpatrio forzato in Kazakhstan di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov, e della figlia di 6 anni. Ma il premier, rispondendo in aula al question time, si mostra in “evidente imbarazzo”, sottolinea Nicola Molteni, esponente del Carroccio che ha chiesto, con altri deputati leghisti, di fare luce su quanto accaduto. Imbarazzo in cui si trova il Governo perché mano a mano che emergono nuovi particolari l’operazione prende la forma sempre più nitida di una “extrordinary rendition”, un rapimento di Stato. Che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno e vicepremier, Angelino Alfano, che avrebbe ricevuto richiesta di far rimpatriare la donna direttamente dal governo Kazako; gli uomini dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, che hanno espulso come clandestina Alma senza attendere la verifica dei passaporti della donna; e, infine, i servizi segreti, quell’Aisi guidata dal generale Arturo Esposito, che si sarebbe mosso per soddisfare una richiesta avanzata da un Paese straniero. Non a caso della vicenda si occupa anche il Copasir. Già martedì il presidente, Giacomo Stucchi, ha incontrato, in una riunione informale, Alfano in vista del question time di ieri a cui il vicepremier avrebbe dovuto partecipare. E Claudio Fava, membro del Copasir, ieri ha sottolineato come “l’irritualità, l’urgenza e la forzatura delle procedure con cui si è svolta questa espulsione ricordano la meccanica malata che si trovava dietro le extraordinary rendition della Cia” nel caso Abu Omar. Mentre alcuni del Pdl mostrano preoccupazione in Transatlantico: “Peggio del caso Ruby e il problema è che c’è di mezzo Alfano, mica Berlusconi; e come lo difendi? ”.
L’ELENCO degli attori coinvolti è destinato ad allungarsi. La procura ha aperto un fascicolo e sta valutando se inoltrare al ministero della Giustizia una rogatoria internazionale per verificare l’autenticità di alcuni documenti, tra cui il passaporto di Alma ritenuto erroneamente falso nonostante due atti emessi dai consolati della Repubblica Centrafricana di Ginevra e di Bruxelles esibiti dalla donna agli investigatori. A quanto pare inutilmente.
I nodi da sciogliere sono ancora molti. Sia sul blitz nella villa a Casal Palocco, sia sul rimpatrio avvenuto a bordo di un jet privato. A cominciare dalla presenza di militari israeliani all’esterno dell’abitazione da cui è stata prelevata la donna la notte tra del 29. A quanto si è appreso gli uomini erano dei contractor a protezione della famiglia e sarebbero stati fatti allontanare poche ore prima che scattasse il blitz. I vicini di casa delle due ville confinanti hanno raccontato di un presidio costante di militari in borghese anche dopo la notte del blitz e almeno fino al 16 giugno, giorno in cui anche la cognata del dissidente ha lasciato la casa e si è nascosta in Svizzera, dove si trova tutt’ora. I legali della famiglia, Federico Olivo ed Ernesto Gregory Valenti, stanno tentando di proteggere i parenti di Alma. Già Alma e sua figlia sono state mandate “in un Paese dove i diritti umani non sono garantiti e dove saranno probabilmente ostaggio del regime in attesa di presentare il conto al marito”, ha detto Fava. C'è stata “una certa opacità nella catena di comando che ha portato a consegnare madre e figlia ad un aereo affittato dal console dopo averle prelevate da casa con un’operazione di stampo militare come se si dovesse catturare Matteo Messina Denaro”. Il Governo kazako già il 3 giugno, appena due giorni dopo il rimpatrio, ha emesso una nota ufficiale sulla vicenda sfruttando l’aiuto ricevuto dal nostro Paese. “La Procura italiana ha dichiarato che le azioni della polizia e l’atto giudiziario sulla espulsione sono legittimi e fondate. Di conseguenza tutte le dichiarazioni di Ablyasov sulla violazione dei diritti e delle libertà da parte dei servizi competenti dell’Italia verso Shalabayeva e della loro figlia sono infondate”. Il governo dittatoriale guidato da Nursultan Nazarbayev, inoltre garantisce “che le forze dell’ordine italiane continuano i lavori sull’identificazione e l’arresto di Ablyazov”. Chi del governo Letta ha garantito un simile impegno al regime kazako? Alfano?
La Stampa 11.7.13
Spuntano nuove incongruenze nel caso della moglie del dissidente kazako espulsa dall’Italia
Caso Ablyazov, il mistero del passaporto fantasma
La Procura pensa a una rogatoria verso il Centrafrica per chiarire il giallo
di Francesco Grignetti
La procedura di espulsione della signora Alma Salabayeva, restituita con la figlioletta di 6 anni al Kazakhstan nonostante fosse la moglie del principale oppositore politico, e nonostante lei abbia implorato asilo politico, è stata possibile grazie ad alcuni documenti che ora sono all’esame degli avvocati difensori della signora e che sono anche al centro degli accertamenti ordinati da palazzo Chigi. Atti che potrebbero essere altrettanti problemi per il ministero dell’Interno.
Il primo è un documento della polizia di frontiera che ipotizza il passaggio della signora Alma Ayan nel 2004 dal valico del Brennero. Ora, il nome Alma Ayan è quello che compare sul passaporto diplomatico emesso dalla Repubblica del Centroafrica, con il cognome da nubile della signora. Secondo la polizia si trattava di un passaporto taroccato. Il tribunale del Riesame ha deciso l'opposto. Potrebbe non finire qui: la procura di Roma sta pensando a una rogatoria internazionale verso il Centroafrica per venire a capo definitivamente del problema. Ma qui interessa poco. Il punto è che nel 2004 questo passaporto non esisteva, essendo stato emesso nel 2010, e che la signora Alma Shalabayeva viveva ancora in Kazakhstan con il suo vero nome.
Al prefetto di Roma, per convincerlo a firmare un ordine di trattenimento e di espulsione, comunque è stata consegnata quella nota risalente al 2004 che implicitamente dimostrava che la signora è un’inveterata immigrata clandestina.
Il secondo atto risale al 30 maggio scorso. La signora Alma è trattenuta al Cie di Ponte Galeria da 24 ore. La questura di Roma ottiene dall’ambasciata del Kazakhstan l’indispensabile «riconoscimento» che la sedicente Alma Ayan è in realtà Alma Shalabayeva, con cittadinanza kazaka, e che quindi si può procedere all’espulsione forzata verso quel Paese. Ebbene, il giorno dopo, il 31 maggio, questo documento cruciale non sembra comparire all’udienza di convalida per il trattenimento davanti al giudice di pace. Mancando il riconoscimento ufficiale di chi fosse in realtà la signora, il giudice di pace ha potuto legittimamente procedere contro una sedicente Alma Ayan, di cui sapeva soltanto che era stata trovata in possesso di un passaporto taroccato della Repubblica del Centroafrica e che era transitata nel lontano 2004 dal valico del Brennero.
Non è un caso, infatti, che l’intero fascicolo del giudice di pace sia intestato alla sedicente Alma Ayan. E quando gli avvocati, nel corso dell’udienza, hanno fatto presente che la signora era disposta a lasciare volontariamente l’Italia, che il passaporto era valido e che godeva di status diplomatico, il giudice di pace ha ovviamente obiettato che ciò sarebbe stato impossibile dato che non aveva documenti in regola.
«Si osservi - sostiene l’avvocato Riccardo Olivo - che la legge prevede in prima istanza l’allontanamento volontario e solo in subordine l’espulsione forzata».
In questa fase, gli avvocati forse non hanno avuto la prontezza di tirare fuori il passaporto kazako e di dimostrare che la signora avrebbe potuto raggiungere il marito a Londra dove entrambi godono di asilo politico. Ma qui pare aver giocato un clamoroso errore di valutazione del marito, l’ex oligarca nonché esule dal 2009 Mukhtar Ablyazov, che ha imposto fino all’ultimo di tenere in vita la finzione del passaporto diplomatico e del nome Alma Ayan. Pare che l’abbia fatto per paura, terrorizzato dall’idea che il Kazakhstan li individuasse. Non si era reso conto che l’ambasciata ormai già sapeva tutto di loro.
Tornando al giudice di pace, «se il documento ufficiale dell’ambasciata del 30 maggio fosse finito sul suo tavolo - dice ancora il legale - la storia avrebbe necessariamente preso un’altra piega. A quel punto non sarebbe stato più necessario e forse nemmeno più legittimo il trattenimento nel Cie, figurarsi l’espulsione forzata».
Lo stesso giorno, alle ore 19, la polizia di frontiera di Ciampino certifica che la signora Alma Ayan e sua figlia Alua Ayan, di 6 anni, lasciano l’Italia in esecuzione di un ordine di espulsione a bordo di un jet privato dopo essere stata affidata al console del Kazakhstan. «Al pilota del jet, invece, la questura di Roma a quel punto consegna correttamente la certificazione che trattasi della signora Alma Shalabayeva».
Corriere 11.7.13
Polizia italiana e pasticcio kazako
Ora vanno individuati i responsabili
di Giuseppe Sarcina
qui
Repubblica 11.7.13
Caso Ablyazov, Letta chiede indagini
Il premier: “Troppe ricostruzioni contrastanti”. Barroso: l’Italia deve spiegazioni
di Alberto Custodero e Vincenzo Nigro
ROMA — Sull’espulsione della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov «gli interrogativi ci sono». Le ricostruzioni sono «in contrasto fra loro», «gli
approfondimenti ineludibili, è legittimo che vengano trovate le risposte dovute». Il premier Enrico Letta risponde così, prendendo tempo, al question time alla Camera sull’allontanamento dall’Italia di Alma Shalabayeva e della figlia avvenuto a velocità
record, quasi senza dare agli avvocati dello studio “Vassalli& Olivo” la possibilità di preparare la difesa. Prende tempo, Letta, ma anche le distanze dal ministro dell’Interno Alfano che, martedì, in una nota, aveva difeso la Questura di Roma sostenendo
che «aveva agito correttamente ». Non deve essere stato troppo corretto l’intervento della Polizia se lo stesso premier ha deciso di ordinare una inchiesta interna che «non tollererà ombre». Se sul caso si sono alzate le proteste di Pd, Sel, M5S e Lega.
Il giallo per il governo Letta diventa sempre più delicato anche per le ripercussioni internazionali: il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso ha chiesto informazioni. Mentre lo stesso esecutivo italiano ha deciso di sospendere una visita in Kazakhstan, domani, del sottosegretario alla Difesa Roberta Pinotti. Molti elementi iniziano a emergere: sia Palazzo Chigi che il ministero degli Esteri che i nostri 007 confermano di non aver dato alcun via libera all’espulsione di Alma Shalabayeva e figlia. Quello che è chiaro è che il dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, Maurizio Improta, ha gestito l’operazione di espulsione, presentando al Tribunale di Roma e alla Procura della Repubblica tutta la documentazione necessaria a farsi autorizzare nel giro di 48 ore l’allontanamento coatto delle due donne. Quell’ufficio ha taciuto a Giudice di pace, Tribunale ordinario e per i minorenni, e alla Procura che la donna aveva due passaporti rilasciati dal suo Paese. Circostanza, questa, appresa il 30 maggio dall’ambasciatore kazako in Italia che, rivolgendo a Improta i «complimenti » per l’operazione, lo informava che Alma Shalabayeva ha «i passaporti numero 0816235 e 5347890». Lo stesso ambasciatore che aveva arruolato degli 007 privati di Tel Aviv per spiare la donna a Roma. Perché quei passaporti kazaki, che avrebbero consentito alla donna di rimanere regolarmente in Italia, non sono stati presi in considerazione? Bastava un banale accertamento da parte degli uomini di Improta per scoprire che la donna era dovuta fuggire precipitosamente da Londra dopo che i poliziotti inglesi — che le avevano rilasciato lo status di rifugiata — l’avevano informata di essere in pericolo di vita. Avrebbero scoperto, i poliziotti dell’Immigrazione, che la moglie del dissidente kazako, prima di nascondersi a Roma, era riparata a Riga, in Lettonia, dov’era stata pedinata e fotografata da investigatori privati assoldati dalla Jsc Bta Bank, la banca kazaka che aveva denunciato Mukhtar Ablyazov. Perché Alma Shalabayeva è stata espulsa?
il Fatto 11.7.13
Tutte le domande dell’Onu al Vaticano sugli abusi sessuali
A gennaio, a Ginevra, la Commissione sui Diritti dei Bambini convocherà in audizione i prelati per avere dettagli sulle centinaia di casi di pedofilia da parte dei preti cattolici
di Andrea Valdambrini
La Commissione per i Diritti dei Bambini dell’Onu ha chiesto alla Santa Sede di fornire dettagli riguardo alle centinaia di casi di pedofilia e abusi sessuali da parte del clero. La richiesta arriva all’indomani della decisione di stabilire una data per la audizione di rappresentati vaticani presso la stessa Commissione. La data stabilita è gennaio 2014, il luogo è la città svizzera di Ginevra, una delle sedi principali della stessa Onu.
La notizia è stata diffusa martedì sera dal sito web del Guardian. Gli anglosassoni sottolineano come si tratti della prima volta che una richiesta così ampia e circostanziata viene formulata da un dipartimento dell’Onu. E si tratta anche della prima volta che il problema si presenta in questi termini da quando papa Francesco è stato eletto. Promettendo, in continuità con Ratzinger, linea dura sugli scandali sessuali nella Chiesa.
In un passaggio del documento disponibile online si legge: “Alla luce del riconoscimento da parte della Santa Sede della violenza sessuale contro bambini commessa da membri del clero… e considerata la scala degli abusi, chiediamo di fornire dettagli di tutti i casi… di cui la Santa Sede sia venuta a conoscenza”. Le richieste di fare chiarezza riguardano casi specifici: dalle omissioni e coperture delle gerarchie ecclesiastiche circa le violenze alle intimidazioni subìte dalle vittime. La Commissione chiede inoltre ai rappresentati vaticani di specificare come la Chiesa ha condotto le indagini sui casi di pedofilia e perfino se le vittime degli abusi abbiano ricevuto la dovuta assistenza legale o la giusta compensazione economica.
“La Sante Sede aderisce alla convenzione internazionale sulla protezione dell’infanzia, dunque risponderà”, dice al Fatto il direttore della sala stampa vaticana padre Lombardi. “Devo anche dire - minimizza il gesuita - che non vedo la notizia: siamo a luglio, l’audizione è convocata tra 6 mesi. Ho l’impressione che qualche volta la stampa abbia interesse a creare più clamore del dovuto su certi temi”. Da parte sua, l’incaricato diplomatico a Ginevra monsignor Massimo De Gregori in una dichiarazione rilasciata al sito Vaticaninsider mette in guardia da “possibili strumentalizzazioni”. A esser convocato in audizione potrebbe essere il nunzio apostolico in Svizzera. L’iniziativa Onu segue le recenti audizioni di familiari delle vittime di abusi. Tra queste l’associazione Usa Survivor’s Network of those Abused by Priests, che il 19 giugno manifestò davanti la sede Onu a Ginevra “dalla parte delle donne irlandesi e le vittime delle Case Magdalene”.
Corriere 11.7.13
Scelse il suicidio assistito. L’autopsia: non era malato
Il legale dell'ex magistrato Pietro D'Amico, morto ad aprile in Svizzera:
«Nessuna incurabile patologia»
di Andrea Pasqualetto
qui
Repubblica 11.7.13
Non era malato l'ex pm che scelse il suicido assistito
L'autopsia sul magistrato D'Amico: nessun male incurabile. Giallo sulla diagnosi: o sbagliarono i medici o i certificati che presentò in Svizzera erano falsi
di Giuseppe Baldessarro
qui
l’Unità 11.7.13
Berlusconi blocca il Parlamento. Scontro nel Pd dopo il voto. Governo a rischio
Epifani: «Smettano o non si va avanti»
«Se arriva una sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, il Pd voterà perché venga applicata»
Il voto del Pd apre una frattura. Renziani all’attacco
il Fatto 11.7.13
B. blocca il Parlamento, il Pd vota sì
B. ordina: bloccare il Parlamento contro la Cassazione
Il Pd si cala le brache “ma solo per un giorno”
Bagarre in aula con i 5 Stelle, che gridano “venduti” ed escono a manifestare in piazza
di Fabrizio d’Esposito
I democratici si accodano al diktat del Pdl, riunito in seduta di guerra contro la Corte del processo Mediaset Polemici i renziani e la Bindi (“eversione”), ma poi nessuno vota no.
Il senso più feroce, ma vero, verissimo, del-l’incredibile giornata di ieri è nell’autocritica di un candidato alla segreteria democrat, Gianni Pittella: “Il Pd si è inginocchiato al diktat di Berlusconi”. Punto. Tutto il resto è caos, generato da un’estenuante trattativa andata avanti per tutta la notte e proseguita nella mattinata. Un lavorìo incessante che inchioda le larghe intese ai guai di Silvio Berlusconi. Per il Pdl il Trenta Luglio è la possibile nuova Apocalisse e i berlusconiani vogliono solo pensare a questo. Un ricatto che è partito alla mezzanotte di lunedì, quando è terminata l’assemblea dei deputati di B. L’Aventino totale per i prossimi venti giorni non passa. Ci si ferma a tre, in cui si chiede di bloccare i lavori di Camera e anche Senato. Un compromesso tra falchi e colombe e che Renato Brunetta, capogruppo a Montecitorio, annuncia ieri mattina.
MA A QUELL’ORA gli sminatori di governo erano già all’opera. Uno in particolare: Dario Franceschini, ministro dei Rapporti con il Parlamento. Il barbuto democratico Franceschini è lo sminatore più fidato del premier. I due, “Enrico” e “Dario”, già calmarono Angelino Alfano e Maurizio Lupi nel viaggio in auto all’abbazia di Spineto, dopo il comizio di B. a Brescia contro i pm. Stavolta il compito è più arduo, si può solo giocare sul brevissimo periodo, in attesa della Cassazione. Franceschini fa la spola con il Senato. Ufficialmente falchi e colombe del Pdl marciano insieme con il Cavaliere quasi condannato incandidabile e prossimo alla galera. Ma le colombe restano tali nel-l’anima. Il ministro di Letta parla soprattutto con Renato Schifani, capogruppo del Pdl a Palazzo Madama e sodale di Alfano, capo dei filogovernativi. Il risultato arriva. I giorni scendono da tre a uno. Anzi, mezza giornata. Un blocco simbolico. Alla Camera, infatti, la seduta viene chiusa alle 16 e 10.
È due ore prima, però, che si scatena la rissa nell’aula di Montecitorio. Il Pd vota a favore della sospensione dei lavori chiesta dal Pdl. I deputati berlusconiani vogliono tornare a riunirsi in assemblea. La richiesta passa con 171 voti di scarto. I grillini sono i più infuriati. Scendono verso il centro dell’emiciclo e insultano i democratici: “Buffoni, servi, pecoroni”. A un paio di deputati del Pd saltano i nervi. Il più minaccioso è Piero Martino, ex portavoce dello sminatore Franceschini. Si avvicina muso a muso con grillino e poi gli tira addosso un fascicolo. Poi c’è il fatale Stumpo che di nome fa Nico. Il rotondo bersaniano risponde a tono agli insulti del Movimento 5 Stelle. I grillini vanno fuori, in piazza, e si siedono per terra. Al Senato la scena, antecedente a quella di Montecitorio, è diversa. Qui il protagonista è l’ex capogruppo del M5S Vito Crimi. La protesta è contro l’austero regolamento che impone non solo la giacca ma anche la cravatta. Crimi e gli altri maschi grillini presenti si spogliano.
Sostiene l’ex capogruppo: “Signor presidente, ci ritroviamo per l’ennesima volta a discutere di un’espropriazione del ruolo di questo Parlamento a causa, dobbiamo dirlo, di una persona, dell’eterno assente da questo Parlamento. Ci chiediamo cosa ci stia a fare un senatore della Repubblica se non è mai presente in aula. Già questo fatto dovrebbe essere considerato grave: un senatore che non è mai presente in aula e che influenza l’attività dell’aula”. È un’altra immagine, questa, della giornata. Dopo quella del Pd inginocchiato davanti all’Eterno Assente. Crimi e gli altri escono dall’aula. Il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, se la prende con “il disprezzo” del M5S. Il berlusconiano Nitto Palma, ex guardasigilli e specialista delle leggi ad personam, grida: “È una pagliacciata”. Ma è “una pagliacciata” togliersi giacca e cravatta o sospendere la discussione sul ddl costituzionale per le riforme, che doveva cominciare proprio ieri a Palazzo Madama? Questione di punti di vista. Il terrore berlusconiano sconvolge tutta l’agenda politica. Alle due salta pure una riunione di maggioranza. La famigerata cabina di regia tra ministri e capigruppo delle larghe intese.
ALLE QUATTRO DEL POMERIGGIO la giornata si ammoscia d’improvviso. Deputati e senatori di B. si riuniscono. Comincia così la Grande Attesa per il Trenta Luglio. Da qui ai prossimi venti giorni si formerà una gigantesca bolla che conterrà tutto e il contrario di tutto. In serata salgono al Quirinale sia il premier sia Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme in quota Pdl ma soprattutto il più filo-Napolitano del centrodestra. Il capo dello Stato invoca come al solito “il senso di responsabilità”. Ma da ieri, anzi da lunedì, quando si è saputo dell’udienza del Trenta Luglio, è possibile solo il senso dell’attesa.
il Fatto 11.7.13
I soliti democratici si piegano ancora Ma si spezzano pure
Rosato in aula: “Fermi solo mezza giornata”. I renziani prima si adeguano e poi sparano
di Wanda Marra
È stato uno spettacolo terribile”. Il primo democratico a uscire dall’Aula dopo il voto che dà il via alla sospensione dei lavori è il più giovane deputato eletto dal partito, Enzo Lattuca. Viso scuro, commento a mezza bocca. Poi sparisce. Facce stralunate, sguardi persi, dichiarazioni balbettanti e contraddittorie. Il Pd ancora una volta si trova impreparato a spiegare e a spiegarsi che cosa è successo. Come è stato possibile concedere la sospensione della seduta chiesta dal Pdl dopo che la Cassazione ha fissato al 30 luglio l’udienza del processo Mediaset? La cronaca è quella di un’ennesima giornata di caos collettivo. Che alla fine sancisce il cedimento del Pd all’alleato di governo.
SONO LE 7 E 30, partono le telefonate dei capigruppo. Brunetta chiama Speranza, Schifani Zanda: il Pdl vuole l’Aventino, chiede di fermare l’attività parlamentare per tre giorni. In solidarietà con Berlusconi. Pena la crisi di governo. Nel Pd cominciano le consultazioni. Il segretario Epifani, Zanda e Speranza sembrano su una posizione netta: non è possibile. Ma la cabina di regia, quella dei momenti di crisi, è al lavoro: i due capigruppo insieme a Letta e a Franceschini (il “tessitore”, quello che si trova a dover gestire nel prossimo futuro centinaia di nomine) cercano una soluzione. Un accrocco. Qualcosa che possa essere indicizzato come prassi parlamentare. E non metta a rischio l’esecutivo. Per esempio, sospendere i lavori per una mezza giornata, per “consentire al Pdl di svolgere l’assemblea dei gruppi” (dall’intervento di Ettore Rosato in Aula). Speranza alla Camera convoca un ufficio di presidenza. La renziana Fregolent e la giovane turca Velo esprimono qualche perplessità. Tutto va molto velocemente. Alle 13 e 16 i deputati Pd ricevono un sms in cui si richiede la loro “presenza obbligatoria” in Aula alle 13 e 30 per “un voto procedurale sull’ordine dei lavori”. L’intervento è affidato a Ettore Rosato (franceschiniano). Inizia prendendosela con i grillini: “Dopo un giorno di ostruzionismo, che ieri abbiamo subito da parte del MoVimento 5 Stelle oggi ci troviamo in una situazione diversa da quella che è stata descritta”. Poi, l’excusatio non petita: “Siamo contrari a qualsiasi tentativo di blocco delle istituzioni”. Però: “Vogliamo consentire che ci sia una riunione di gruppo congiunta del Pdl. Ricordo semplicemente che poche settimane fa ad analoga richiesta che è stata presentata dal nostro gruppo tutta l'Aula ha acconsentito”. Dietro di lui la lettiana Paola De Micheli si mangia le unghie, Guglielmo Epifani è una sfinge. Il precedente è la direzione del Pd dello scorso 20 giugno, quando la chiusura dei lavori fu anticipata. Nessun voto in Aula, nessuna valenza politica o simbolica. Mentre la Boldrini comunica che la Camera approva “con 171 voti di scarto” dal banco dell’ M5S partono le urla “venduti”: Un drappello di democratici, Emanuele Fiano, Nico Stumpo, Piero Martino scendono. “No, non li abbiamo menati perché i commessi ci hanno fermati”, ammette dopo lo stesso Fiano.
Fine della seduta, inizio dello psicodramma. Nel Pd mancano almeno 20 voti. “Sono uscita dall’Aula. Sostenere il governo non significa adeguarci a ogni atto di eversione istituzionale che pratica il Pdl”. Parole pesanti. Ma uscire o astenersi è abbastanza rispetto a un giudizio di questo genere? Il massimo dissenso del Pd si esprime anche questa volta con un mezzo diniego.
IL FIORENTINO Bonifazi esce per primo: “Abbiamo votato secondo le indicazioni del gruppo. Ma così non può andare”. Maria Elena Boschi del cerchio magico del Sindaco è stavolta: “Io non faccio il pierino. Ma questo modo distrugge il Pd”. Lei e Luca Lotti si consultano per ore. In effetti, qualcosa è andato storto. Per tutta la durata della seduta Renzi è al telefono con Lotti. Gli chiede di fare un intervento in cui si dica che la gestione del gruppo non ha funzionato. Sono momenti concitati. Non c’è il tempo di elaborare una strategia. Alla fine tranne qualcuno (Faraone si astiene, Gentiloni e Giachetti escono), i renziani dicono sì. L’ex Rottamatore pare non sia proprio soddisfatto: avrebbe voluto un no, per qualche motivo non è riuscito a imporlo. Tant’è vero che nel pomeriggio i renziani chiedono una riunione del gruppo ed è la Boschi a dare la versione finale: “Questa conduzione ci porta al suicidio politico e al blocco istituzionale. Chi spiega ai cittadini che abbiamo interrotto i lavori, anche se solo per tre ore, per consentire una riunione del Pdl? ”. Matteo Orfini è furibondo: “Chi si è astenuto o è uscito è uno sciacallo o un cretino. Sono sciacalli che lucrano uno 0,5ç in vista del congresso. Perchè non hanno chiesto che si riunisse il gruppo per discutere? ”. Alle 15 Epifani dirama una nota: “La richiesta di sospendere i lavori del Parlamento per tre giorni, a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione, costituisce un atto irresponsabile e inaccettabile, che lega campi che vanno tenuti distinti, quello giudiziario e quello parlamentare”. Dopo i fatti, le parole. Ma dietro i dissensi ci sono le larghe intese che a molti continuano a non andare giù. Bersani, Zoggia e D’Attorre fanno un mini vertice in Transatlantico. “È chiaro che il sostegno al governo diventa un compito ancora più difficile e impegnativo per il Pd. Abbiamo bisogno di un Pd unito per tener fermo il punto che l’esecutivo Letta è un governo di servizio, e non invece alle vicende personali di Berlusconi. Non serve qualcuno che dica ‘bravo Enrico’, e poi attacchi”, dice d’Attorre. I vertici del gruppo stanno pensando a lettere di richiamo per gli astenuti. Quelle che non sono partite verso i 101 che non hanno votato Prodi al Quirinale. Il clima è un po’ lo stesso. Lo sconforto, la vergogna sono palpabili. “Se cade il governo, ci evitiamo le regole del congresso”, scherza Guerini l’uomo nel Comitato. I renziani cominciano a far filtrare la voce che magari si vota a ottobre. Al loro capo di certo piacerebbe.
il Fatto 11.7.13
Ecco i contrari (senza dire no)
UNA VENTINA di astenuti Orfini, un’altra decina tra usciti e assenti. Ieri non tutti nel Pd ce l’hanno fatta a dire sì alla richiesta del Pdl. Un dissenso misto, non organizzato. L’unico gruppo più compatto degli altri quello dei cosiddetti “civatiani” (una decina d’astenuti). Ma per il resto il malumore è stato diviso tra le varie componenti. È uscita la Bindi, sono usciti i renziani Gentiloni e Giachetti (scrive su Tweet: “Non sapendo più cosa rinviare abbiamo rinviato l'Aula!”).
Non ha votato la Zampa furibonda (“era inaccettabile”) e nemmeno Giampiero Galli. Non ha votato nemmeno Dario Ginefra. Pare sia uscito anche Gero Grassi. Lui non conferma. Perché i renziani chiedono che se è andata così, visto che si tratta di un vice capogruppo, che ha avuto i voti di tutti per l’incarico, servono provvedimenti. Si sono astenuti poi Pippo Civati, Michela Marzano (“un errore politico quello di dare la sensazione di cedere ai ricatti del Pdl”), Davide Mattiello, Marco Di Maio (“Sarebbe stato quasi come votare che Ruby era la nipote di Mubarak”), Luca Pastorino (“Ci sono motivazioni che attengono al buon senso oltre la soglia delle indicazioni del gruppo e del governo di servizio”), i renziani Davide Faraone e Giovanna Martelli, Eleonora Cimbro, Antonio De Caro, Maria Chiara Gadda. Dario Nardella (renziano) non ha mancato di far sapere a tutti che era fuori per un appuntamento a pranzo.
il Fatto 11.7.13
Reazioni sul web
“Basta tradimenti, c’è un limite”
di V.R.
“Sono senza parole, altrimenti sarebbero solo bestemmie! ”. Firmato Mariangela Mori. È uno dei commenti delusi a Guglielmo Epifani, segretario del Pd, che, dopo la bagarre di ieri mattina alla Camera, compare sul suo facebook: “La richiesta di sospendere i lavori del Parlamento per tre giorni, (...) costituisce un atto inaccettabile”. Scrive lui: “La vicenda giudiziaria di Berlusconi e le attività di Governo e Parlamento sono sfere che vanno tenute distinte l’una dall’altra, perché altrimenti, a furia di tirare, la corda si può spezzare”. E la base, come invita a fare il social network, commenta:
“E ALLORA perché diavolo votate a favore della sospensione? Buffoni! ”
Alfredo Cassano
“MA SI RENDE CONTO di ciò che scrive? è inaccettabile e quindi lo voto? Davvero, siete oltre il ridicolo, siete nel patologico. Come qualcuno ha detto nei precedenti commenti, siete almeno bipolari. Io personalmente vi ritengo vergognosi”
Fabio Morgese
“ANCHE VOI avete contribuito a trasformare quell’aula sordida e grigia in un bivacco di manipoli berlusconiani. Fra voi e loro c’è solo una elle di troppo! Pavidi e vigliacchi, come potete ancora pretendere che la gente vi voti di nuovo?
Fernando Antonio
“LA CORDA LA STATE TIRANDO soprattutto voi (avete tradito milioni di elettori). Attenzione c’è un limite a tutto”
Enzo Rallo
“EPIFANI, NON PREOCCUPARTI per la corda. Al momento giusto. Utilizzeremo la ghigliottina”
Carmine Olmo
“SERVI DI BERLUSCONI... almeno vi passasse la gnoxxa.. ma lo sostenete gratis”
Arturo Presotto
“MA PENSATE CHE SIAMO TUTTI rincoxxxoniti? la verità è che dovete per forza votare a favore altrimenti il vostro amico Berlusconi vi tira via le poltroncine da sotto il cxxo..... questo vi interessa a voi, le poltrone e lo stipendio.. ” Cinzia Fiorini
“DIMETTITI ORA, ma subito, prima di stasera! Se non capisci o vuoi darci ad intendere che non è una questione politica ma di ore, allora non puoi guidare il Pd! Non importa se non avete accettato tre giorni, neanche tre minuti di tempo di lavori parlamentari andavano sprecati” Gessica Tempestini
“CI AVETE ROTTO. A casa, congresso e nuovo segretario scelto dalla base. Veramente basta. Basta con questo governicchio e questa dirigenza” Guido del Fante
“MI PARE CHE IL RAGIONAMENTO di Epifani sia correttissimo sotto il profilo istituzionale e politico. Non comprendo gli insulti, con i quali alcuni stanno commentando il post. Purtroppo questo modo di approcciare al dibattito sta creando solo gran confusione” Dino Falconio.
il Fatto 11.7.13
Il presidente e il verme nella mela
di Antonio Padellaro
La domanda è: possibile che Giorgio Napolitano non sapesse che il governo delle larghe intese, da lui fortemente voluto e imposto, contenesse in sé, come un verme nella mela, i problemi giudiziari di Silvio Berlusconi? Escludiamo che abbia potuto minimamente fidarsi della promessa del Caimano di tenere il governo Letta al riparo dalle conseguenze dei suoi molteplici reati. Chi può credere infatti che un personaggio navigato come il capo dello Stato, magistrale artefice della propria rielezione al Quirinale, abbia potuto dare retta all’uomo più bugiardo del pianeta? Resta la seconda risposta: che cioè Napolitano, purché si desse vita a quel mostro politico che è la maggioranza Pd-Pdl, non ha badato a spese, non prevedendo forse un prezzo così salato. Dopo aver tradito il mandato elettorale con gli elettori (“Mai con Berlusconi”), ora il Pd è costretto a vergognarsi di se stesso. Aver votato quell’indegna sospensione dei lavori parlamentari non solo equivale a una sottomissione ai voleri del Pdl, ma acquista un valore simbolico incancellabile nel momento in cui quella pausa istituzionale diventa omaggio penitenziale al miliardario plurinquisito, oltreché pressione inaudita sulla Corte di Cassazione. Il fatto è che il gruppo dirigente democratico, a furia di compromessi con la propria storia, ha perso completamente identità e orientamento, tanto che oggi, per dire, tra uno Speranza e un Alfano non si nota nessuna differenza. Ma forse era proprio questo che si voleva.
Il verme nella mela sta producendo un altro inevitabile effetto. I guai penali dell’affettuoso protettore di Ruby Rubacuori, da ossessione privata dell’imputato e problema esclusivo del Pdl, grazie alle improvvide intese allargate si è trasformato in un gigantesco affare di governo e di Stato. Addirittura una bomba termonucleare sul futuro dell’Italia, come vanno preconizzando i terrorizzati giornaloni. Poiché, se la Cassazione dovesse confermare la condanna di Berlusconi con le annesse pene accessorie, costui risulterebbe interdetto dai pubblici uffici. Compresi quelli che non esercita come senatore della Repubblica, visto che è risultato assente dall’aula nel 99,7 per cento delle sedute. Un’onta che, secondo i profeti di sventura, comporterebbe con la crisi di governo una serie di catastrofi a catena, comprese la peste bubbonica e le cavallette. Un trucco da imbroglioni che ha l’unico scopo di far ricadere sui giudici della sezione feriale della Cassazione una responsabilità enorme. Insomma, visto che il governo non decide un fico secco e che l’economia va di male in peggio, retrocessa dalle agenzie di rating, che fosse questo il vero scopo delle larghe intese, salvare il Cavaliere?
La Stampa 11.7.13
Le notti insonni del Cavaliere rimasto senza un “piano B”
L’accelerazione sulla sentenza ha minato il suo spirito combattivo
di Marcello Sorgi
Martedì mattina, quando Thanatos ha bussato alla sua spalla con la punta della falce che annuncia la fine, Silvio Berlusconi non era affatto di buon umore. Non lo era da giorni. Le due settimane trascorse ad Arcore, per sfuggire al tritatutto romano del suo partito, non erano riuscite a ritemprarlo. Quando il centralino gli ha annunciato Ghedini, tra i più assidui frequentatori dei giorni del ritiro a Villa San Martino, pensava a una delle tante telefonate di routine, dato che i guai giudiziari occupano ormai due terzi del suo tempo.
Ciò che non solo lui, ma anche i suoi avvocati non si aspettavano, era l’accelerata decisa dalla Cassazione per fissare al 30 luglio il giudizio definitivo sul processo Mediaset, per cui il Cavaliere è già stato condannato anche in appello a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici, cioè alla conclusione per via giudiziaria della sua ventennale carriera politica. Tutt’insieme, l’anticipo della Suprema Corte veniva a sovvertire la strategia, chiamiamola così, abbozzata faticosamente dall’imputato e dal suo nutrito collegio di difesa, rafforzato di recente dall’ingresso del professor Franco Coppi, il penalista che assistette Andreotti nel processo palermitano per le accuse di mafia.
Era stato proprio Coppi, per dar subito un segnale di cambiamento - e chiudere con la strana commistione tra difesa nelle aule di giustizia e manifestazioni dei parlamentari Pdl sui gradini del Palazzo di giustizia di Milano -, a chiedere a Berlusconi di astenersi da qualsiasi dichiarazione o commento sulle sentenze e sulle iniziative della magistratura. Un sacrificio accettato a denti stretti dall’interessato, che aveva dovuto mordersi le labbra, la scorsa settimana, quando un gruppo di supporters s’era assiepato davanti al cancello di Arcore e aveva acconsentito a togliere le tende solo dopo la promessa, ottenuta da Daniela Santanchè, che Silvio, invocato nei cori della sua gente, si affacciasse almeno per un salutino.
Le immagini del Cavaliere sorridente, ma insolitamente e forzatamente muto, che stringeva le mani dei fedelissimi, avevano fatto subito il giro del mondo. Ed erano rimaste come uno dei pochi documenti di questo strano esilio tra i muri di casa, a cavallo tra la sconfitta alla Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato contro i giudici di Milano e la pesante condanna subita nel processo per il «bunga-bunga» e il «caso Ruby». Chi è riuscito a superare quel cancello, in queste due settimane di silenzio, ha visto un Berlusconi stanco, provato, consapevole che la morsa dei processi ormai lo stia stringendo. S’infuriava, si sfogava come fa sempre, tirando fuori dalla montagna di carte giudiziarie che ha studiato a memoria quelle che gli sembrano le prove di una persecuzione ad personam. O ripetendo, con la precisione di un computer, le osservazioni dei suoi legali. Ma una via d’uscita, una ragionevole speranza, un verosimile calcolo delle probabilità, non sono usciti, né da questa lunga sessione di studio, né dalle notti in cui il Cavaliere ha cercato di tirar fuori un’idea di salvezza, uno di quei tipici lampi con cui ha contrassegnato la sua lunga vita di imprenditore e leader politico.
Se Berlusconi la soluzione non l’ha trovata quando l’appuntamento con la Cassazione era previsto per l’autunno, figurarsi adesso che neppure gli avvocati sono sicuri di fare in tempo a concludere le loro memorie in meno di quindici giorni. Il panico, l’agitazione e la confusione che hanno preso tutto intero il centrodestra, esplodendo ieri in Parlamento pubblicamente fin quasi alle soglie di una crisi, nascono essenzialmente di qui. Perchè il Cavaliere è sempre stato abituato ad avere, non uno, ma due piani per ogni evenienza delicata; non uno solo, ma almeno due responsabili operativi per ogni progetto; non una, madue (o anche più) trattative aperte contemporaneamente. È il suo caratteristico sistema binario, un metodo che la cerchia più ristretta di persone che lo frequentano conosce molto bene. Tanto per fare un esempio, è l’abitudine a sentire, prima di decidere, Gianni Letta e Fedele Confalonieri, sapendo che non la vedono sempre alla stessa maniera. È il raccontare a se stesso una cosa diversa da quella che farà. Spesso è anche il suo modo di tenersi un’idea di riserva e cambiarla all’ultimo minuto.
Stavolta invece tutto s’è consumato in un giorno e ora non c’è più tempo: sentirsi stretto e legato a una scadenza per cui è già partito il conto alla rovescia ha messo Berlusconi in uno stato d’angoscia. Nella sua mente, il piano originario doveva assomigliare a un missile a tre stadi. Il primo, ovviamente, rivolto verso la Cassazione: Berlusconi aveva accolto con soddisfazione (leggi: si era adoperato per) la scelta del nuovo presidente della Suprema Corte, Giorgio Santacroce, unanimemente considerato a lui non ostile. Si aspettava che il ricorso che può decidere l’intero suo destino fosse indirizzato verso la terza sezione, che in passato lo aveva già giudicato e assolto. Al contrario, l’approdo dei suoi dossier all’impenetrabile sezione feriale (in cui tuttavia, a giudizio degli esperti, non figura neppure una «toga rossa»), e motivata a emettere la sentenza nel più breve tempo possibile, rende ardua qualsiasi previsione, e fa propendere per il peggio. Berlusconi si sente davanti a un plotone d’esecuzione, come lo ha definito in uno dei suoi sfoghi privati davanti ai difensori.
Il secondo stadio del missile era puntato sul governo e sul Pd. Pur tenendoli a bada, il Cavaliere aveva fin qui incoraggiato i falchi del suo partito a proseguire la campagna quotidiana di attacchi all’esecutivo delle larghe intese perchè pensava, presto o tardi, di arrivare a un serio compromesso con l’alleatoavversario. La parola pacificazione, così come l’idea di un salvacondotto giudiziario che aveva fatto arrivare fino al Quirinale, prevedevano la disponibilità a farsi da parte in un ruolo notabilare (per esempio da senatore a vita) e la fine della guerra civile che ha avvelenato il ventennio della Seconda Repubblica. Berlusconi, va detto, non si era mai impressionato di fronte ai «no» o ai silenzi imbarazzati che aveva ricevuto, direttamente o per interposta persona. Ci vorrà tempo, ripeteva tra se e se, ma alla fine si convinceranno. Oggi piuttosto comincia a temere, non solo che il Pd non si convinca, ma che possa cercare di approfittare delle sue difficoltà per farlo fuori una volta e per tutte. Un segnale in questo senso era arrivato l’altro ieri, con il voto dei Democrat a favore di un’autorizzazione a procedere contro di lui chiesta per una querela di Di Pietro. E la disponibilità, in controtendenza, data ieri dal Pd alla sospensione dei lavori parlamentari decisa dalla Camera, non ha fugato i timori del Cavaliere. Il problema non è cosa faranno se noi ritiriamo l’appoggio al governo, ha spiegato ai suoi. Ma se la crisi la aprono loro, approfittando del nostro momento di debolezza.
Il terzo stadio riguarda le aziende di famiglia. Nel ritiro di Arcore, il problema s’è affacciato di frequente, ora con i volti preoccupati dei figli Marina e Piersilvio, tutelati dal fido Confalonieri, ora su iniziativa dello stesso Berlusconi, che non rinuncia a intromettersi su tutto e a dare consigli non richiesti appena accende un televisore. Ma anche in questo caso, la prospettiva di avere a disposizione ancora qualche mese, e magari, com’è successo altre volte, di cavarsela per il rotto della cuffia, lo aveva spinto a rinviare ogni decisione, anche perchè tra i processi aperti c’è anche quello civile intentato da Carlo De Benedetti per la Mondadori, e costato finora alle casse familiari più di cinquecento milioni di euro. In quindici giorni, una soluzione non s’improvvisa. E anche questo pesa sulla veglia insonne di Berlusconi.
Repubblica 11.7.13
Salvare Silvio, il dilemma Pd
di Concetto Vecchio
L’altro giorno il ministro Dario Franceschini ha detto che il collante dell’antiberlusconismo è finito, e che il Pd avrebbe dovuto ritrovare le ragioni del suo stare insieme, quand’ecco che il fantasma di Berlusconi riappare, a porre a ciascuno dei senatori democratici la fatale domanda: tu con chi stai? Dopo il 30 luglio, in caso di condanna e d’interdizione dei pubblici uffici, il Senato dovrà decidere a voto segreto se confermare o negare la decadenza da parlamentare di Berlusconi. Se lo salvano, salta il Pd; se fanno la cosa più ovvia, fatta sin qui in sessantacinque anni di storia repubblicana – ovvero ottemperare a una sentenza definitiva letta dai giudici in nome del popolo italiano – allora si sfasciano le larghe intese. E’ subito partita la solita rumba dei falchi e dei falchetti di Silvio, che minacciano perfino l’Aventino pur di concedere un salvacondotto al Capo, e le cui grida echeggiano nel Paese sfinito dalla crisi, dove ogni italiano si chiede con angoscia fino a quando ancora avrà il suo posto di lavoro, e chi non ce l’ha più non sa dove sbattere la testa. Il Pd, aggrumatosi nella strana maggioranza, pacificato, si era illuso di poter archiviare l’anti-berlusconismo; invece alla fine riemerge sempre con tutto il suo carico di anomalie, come succede ormai da vent’anni: a interrogarlo, a interrogarci tutti.
Repubblica 11.7.13
Le Larghe Intese contro la Cassazione
di Francesco Bei
IL CONGRESSO del Pd è iniziato ieri a Montecitorio. Quando una trentina di deputati si è rifiutata di votare, secondo le indicazioni del gruppo, a favore dello stop chiesto dal Pdl ai lavori parlamentari. Voti a favore, voti contro, astenuti, assenti. Un caos. Sono renziani, soprattutto, ma anche prodiani come Zampa e Gozi, oltre a qualche
outsider (Pippo Civati).
Il Pd si spacca sullo stop ai lavori no dei renziani: “Un suicidio” Epifani al Pdl: basta tirare la corda
Trenta dissidenti, il capogruppo Speranza sotto accusa
ROMA E ROMPONO la disciplina del gruppo, come è avvenuto in altre occasioni. Nel partito la tensione è alle stelle per quel voto che sembra schierare la maggioranza di larghe intese - Pd, Pdl e Scelta Civica - contro la corte di Cassazione. La maggioranza accusa invece i renziani di aver sfruttato una facile vetrina per lucrare consensi. Lo stesso segretario, Guglielmo Epifani, è costretto ad alzare la voce contro il Pdl, consapevole che il suo partito non può reggere a lungo la fibrillazione provocata dai berlusconiani: «A furia di tirare, la corda si può spezzare».
Intanto la rivolta nel gruppo democrat sfocia in dichiarazioni pubbliche. «Mi sono attenuta all’ordine di scuderia — dice ad esempio la renziana Simona Bonafè — ma il sì alla sospensione è stato un clamoroso autogol ». Khalid Chaouki, pur avendo votato, attacca: «È sembrato che ci prestassimo a una decisione che conviene a Berlusconi. Dovevamo gestirla meglio». Dario Nardella, renziano, si dice basito: «Ma che sospendiamo i lavori per una cosa del genere? Assurdo». Su Twitter confessa la sua disobbedienza Paolo Gentiloni: «La Camera sospende lavori fino per protesta contro la Cassazione. Un precedente grave. Io non ho capito e non ho votato ». Sempre con un tweet si sfoga Roberto Giachetti, un altro renziano: «Non sapendo più cosa rinviare abbiamo rinviato l’Aula». È un diluvio di parole che investe la dirigenza dei gruppi parlamentari, mentre il sindaco di Firenze resta in silenzio. Ma la regia della giornata non prevede assemblee che potrebbero trasformarsi in processi pubblici. Franceschini, Letta ed Epifani discutono a lungo della questione. Poi, insieme al capogruppo Speranza, si decide di non regalare una vetrina ai dissidenti. I renziani mettono sotto accusa proprio il capogruppo Speranza. Una nota firmata da una decina di deputati vicini al sindaco di Firenze critica «la gestione del voto» perché sarebbe stata «incomprensibile». «Nessuno», dicono, «è stato informato, nessuno ha capito cosa è successo. È urgente che il gruppo si riunisca per capire se ci sono responsabilità e se i meccanismi decisionali sono efficaci oppure vadano ridiscussi ». La prossima settimana l’assemblea si farà. «Ma non perché l’hanno chiesta loro — fanno presente dalla presidenza — era già stata convocata».
A spargere sale sulle ferite ci si mette anche il Movimento 5 Stelle che in aula si scaglia con violenza contro il Pd. Quando i grillini al grido di «buffoni! servi! schiavi!» si avvicinano ai banchi democratici, Piero Martino (secco ma alto) e Nico Stumpo (massiccio e minaccioso) scendono come delle furie per affrontarli. Solo l’intervento dei
commessi riesce a evitare il contatto fisico. Speranza difende la decisione del Pd. Sostiene che, a fronte della richiesta di uno stop di tre giorni, al Pdl è stata concesso solo il rinvio di un pomeriggio. Per questo, aggiunge il capogruppo, «la volgare strumentalizzazione seguita da parte del M5S è frutto di un nervosismo ormai fuori controllo, conseguenza di una inesorabile perdita di consensi e di credibilità nel Paese e nell’opinione pubblica. Non consentiremo a chi punta solo allo sfascio delle istituzioni di prevalere».
Repubblica 11.7.13
Rivolta tra i dem contro le larghe intese
Il segretario: “Meglio un altro governo”
Il sindaco apre il fronte, ma anche Bersani chiede la verifica
di Giovanna Casadio
ROMA — «Il Pd è nel tritacarne? È il paese che è finito nel tritacarne di Berlusconi...». Epifani ha domato un’infinità di vertenze sindacali, ma ora gli tocca fronteggiare la rivolta dei Democratici. Mai così drammatica. Non sono solo le proteste dei renziani, degli outsider, dei dissidenti cronici come Pippo Civati. Si avvicina Cesare Damiano, compagno di tante battaglie nel sindacato, e dice: «Abbiamo toccato il fondo, insopportabile prestarsi al gioco del Cavaliere e delle sue sentenze ». Eppure, per disciplina, Damiano si è adeguato.
Perciò il segretario decide di alzare la voce: «O si separano i destini di Berlusconi dal governo o se no è meglio un’altra soluzione, un altro governo». Un ultimatum. La famosa corda che il Pdl sta tirando troppo, se si spezza non porta alle urne: «Il voto non è la prima opzione», spiega. Un’altra maggioranza si può sempre trovare; al Senato i Democratici stanno già facendo i calcoli, puntando sui fuoriusciti del M5Stelle, perché a Montecitorio, come si sa, la maggioranza il centrosinistra ce l’ha, e abbondante.
L’insofferenza per il governo delle larghe intese - alla cui tenuta il Pd ha offerto ieri l’ennesimo sacrificio votando la sospensione dei lavori parlamentari come chiesto dai berlusconiani - è giunta a un punto di non ritorno.
I filogovernisti - lettiani, Popolari, Areadem di Franceschini fanno fatica a reggere e a giustificare la bontà della scelta. E quando arriverà la sentenza Mediaset, a fine mese, cosa accadrà? Alle 13,30 con un sms i deputati democratici erano stati avvertiti: «In aula per voto procedurale». Una procedura che porta il partito in un vicolo cieco, all’abbraccio con il caimano. Lo dicono gli astenuti, quelli che non partecipano al voto, che si alzano e se ne vanno oppure non entrano affatto in aula: sono quasi una trentina, Michela Marzano, Paolo Gentiloni, Giovanna Martelli, Roberto Giachetti, Sandra Zampa, Carlo Galli, Rosy Bindi, Davide Faraone, Dario Nardella... Poi i renziani fanno anche un documento che è un “j’accuse”. È concordato con Matteo Renzi. Il sindaco fiorentino afferma: «È stato uno sbaglio, un grave errore».
Vanno all’attacco i renziani, chiedono una riunione del gruppo che ci sarà lunedì. Non sono i soli. Bersani, l’ex segretario che ha gettato la spugna quando all’orizzonte si è profilato il governo delle larghe intese, parla fitto in Transatlantico con i fedelissimi Alfredo D’Attorre e Davide Zoggia. D’Attorre subito dopo detta una nota alle agenzie di stampa chiedendo «una verifica politica», e si sfoga: «Il Pd così non regge, il problema politico c’è tutto e ora tra di noi e con la nostra gente è ancora più difficile da digerire l’alleanza con Berlusconi ». I bersaniani ce l’hanno come sempre con i renziani, con Luca Lotti, che è il responsabile degli enti locali, e parla di scelta assurda; con Davide Ermini che dichiara «continuiamo a farci del male, e se cambiassimo qualcosa? ». Dario Nardella, l’ex vice sindaco di Firenze, ripete che la tensione è altissima, e che il Pd non può sopportare tutto il peso del governo Letta, come già fu con Monti mentre il Pdl si sfilava. È saltata anche la riunione del “comitatone” per il congresso del Pd, dove oggi si dovevano decidere le regole. Epifani ha fatto sapere: «Non sappiamo cosa succede, non possiamo metterci a parlare di regole». Il rischio della crisi di governo è concreto: forse non salta subito l’esecutivo, ma presto continuando così. Renzi non gongola, però - dicono i renziani - va a finire che si deve preparare alla corsa per la premiership e non per la segreteria Pd. Tra insofferenza e imbarazzo, aspettando l’arrivo di Letta per il question time, i filogovernisti tentano di minimizzare. Raccontano della trattativa che c’è stata per convincere il Pdl a passare dall’Aventino a uno stop ai lavori parlamentari di una giornata. «No a moratorie o chiusure di istituzioni, però se si tratta di una giusta assemblea del Pdl...», twitta Antonello Giacomelli. Non basta. La paura è che il Pd ci rimetta l’osso del collo. «Chi ci vota più se continuiamo ad assecondare Berlusconi», commenta Ivan Scalfarotto che ha rispettato la disciplina del gruppo. Come
Sandro Gozi («Il gruppo doveva discuterne»); Khalid Chaouki («Che figura!»). «Se continuano così a trascinarci nelle vicende di Berlusconi, il Pd non può starci», rincara il renziano Matteo Richetti. Piero Martino, Nico Stumpo, Emanuele Fiano sono reduci da un quasi corpo a corpo in aula con i 5Stelle e difendono le decisioni prese. Matteo Orfini è convinto che per un quarto d’ora di visibilità, e per posizionarsi in vista del congresso i dissidenti («inqualificabili, sciacalli»), si sono messi sulle barricate. «Non sono un paraculo, mi hanno accusato pure di questo - si difende Civati - è che il Pd non può reggere questo stillicidio».
Repubblica 30.7.13
La Bindi critica Speranza e la decisione di accettare la sospensione di un giorno: “Bisognava almeno riunire il gruppo”
“Un errore assecondare l’eversione io non ho votato perché così moriamo”
di G. C.
ROMA — «Il Pd è sempre stato una sentinella contro la deriva berlusconiana, non possiamo venire meno al nostro compito di presidio democratico». Rosy Bindi ha detto “no” alla sospensione dei lavori parlamentari, lasciando l’aula di Montecitorio.
Bindi, perché non ha partecipato al voto?
«Il Pd non dovrebbe mai assecondare gli atteggiamenti di eversione istituzionale del Pdl. Il centrodestra ha attaccato la Cassazione; ha minacciato di bloccare i lavori parlamentari per alcuni giorni. È vero che lo stop delle commissioni e dell’aula è stato di un pomeriggio, ma il significato politico non cambia. Inoltre con il nostro comportamento in aula, abbiamo assecondato i “falchi” del Pdl: non dovevamo offrire sponda agli irresponsabili».
Il Pd ha fatto un errore?
«Il Pd deve sciogliere un nodo che ci portiamo dietro da quando abbiamo dato vita a questo governo. Una cosa è la lealtà a Letta, altra è annacquare il nostro profilo alternativo alla destra e soprattutto la nostra contrarietà
assoluta ai comportamenti berlusconiani, che sono improntati al conflitto tra i poteri dello Stato e alla pretesa di bloccare il corso della giustizia».
La sentenza Mediaset a fine mese accelererà una crisi di governo?
«Chi si proclama innocente dovrebbe auspicare una decisione veloce e non invocare il diritto alla prescrizione. Ci si lamenta sempre della lentezza della magistratura nei processi. Nella passata legislatura presentai un disegno di legge perché i processi per i politici abbiano tempi velocissimi, non per privilegiare i politici ma per assicurare ai cittadini che chi li rappresenta o li governa sia affidabile. Auguro a Berlusconi di essere assolto: perciò se arriva presto la sentenza, è meglio per tutti. Di certo, questa è una fase molto difficile e pericolosa per il Pd: non può mancare il sostegno leale al governo ma non è possibile neppure condizionare le prospettive del partito, peraltro in una fase congressuale, rinchiudendolo nello stato di necessità rappresentato dall’alleanza di governo con Berlusconi.
Non possiamo compromettere il nostro profilo politico».
I Democratici non reggono una maggioranza con Berlusconi?
«Noi abbiamo un atteggiamento molto responsabile. Ma era necessaria una decisione collegiale del gruppo parlamentare. Alcuni democratici si sono astenuti, altri non hanno votato. Ma anche quelli che sono stati disciplinati erano in grande sofferenza. Una cosa così impegnativa, meritava una discussione adeguata».
È indispensabile per il Pd cambiare maggioranza?
«Il governo deve fare cose importanti per il paese. Ma non possiamo accettare che questa fase diventi una camicia di forza, perché così rischiamo di morire. Non sarà il Pd a mandare in crisi Letta. Però se il Pdl puntasse a una crisi di governo, in Parlamento si possono sempre cercare altre soluzioni. Comunque non si va a votare con questa legge elettorale: il Pdl se lo metta bene in testa».
Il suo è un “j’accuse” al partito?
«No. Non votare è stata una sofferenza. Sono uscita dall’aula perché la tentazione più grande era di intervenire dissociandomi. Ho evitato. Ci vuole responsabilità in questo momento, è vero. Ma di subire il ricatto del Pdl non me la sono sentita. Nonostante il mio no alle larghe intese, al governo ho assicurato il voto di fiducia e la lealtà che non è mai venuta meno. Però ho detto che avrei presidiato il profilo alternativo del Pd e rifiuto l’equivoco della pacificazione».
(g.c.)
Repubblica 11.7.13
E Beppe boccia l’ipotesi ribaltone “Fare un governo con il Pd? Non si può, loro non esistono più”
“Credo al capo dello Stato, ma ormai è ostaggio dei partiti”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA — La legislatura rischia di precipitare. Il Pdl tira la corda fin quasi a spezzarla. L’esecutivo barcolla. Ci sarebbe il Movimento cinque stelle, però. Il piano B. Ma sulla soglia dell’ascensore che porta nel cuore del Senato, a due passi dall’Aula, Beppe Grillo chiude la porta al ribaltone. È una rapida battuta, ma ultimativa: «Un governo con il Pd? Ma come si fa, il Pd non c’è più!». È così, il leader. Due ore da Giorgio Napolitano, un’ora a urlare in conferenza stampa. Giacca, cravatta e abbronzatura da Costa Smeralda. Poi, terminata la maratona, si lascia coccolare a palazzo Madama dai suoi senatori. «Voglio stare con loro - dice, quasi timidamente - non li conosco neanche tutti». E loro lo circondano e lo guidano. La prima tappa è il Transatlantico. La senatrice Laura Bottici gli sussurra: «Vedi, Beppe, questo è il corridoio che porta all’Aula». Il clima è disteso.
Insomma, Grillo, si può fare un governo con i democratici?
«Con loro? Ma dai, scusa, ma come si fa a fare un governo con loro, il Pd non c’è più! Il Pd è scomparso!».
Com’è andata davvero con il Capo dello Stato? Il Porcellum riuscite a cancellarlo una volta per tutte?
«Mah, che devo dire? Napolitano vuole cambiare questa legge, è stato sempre contro. Ce l’ha detto. Però ci ha anche detto che non può fare altro. Che non riesce a fare di più».
E lei, Grillo, che ha detto al Presidente?
«Ma ve l’ho detto, gli ho chiesto di andare in televisione, di raccontare la verità agli italiani. Però Napolitano ci ha spiegato che in tv ci può andare solo per gravi motivi, per fatti gravi».
E la delegazione del Movimento che ha risposto?
«Che secondo noi potrebbe andare. Che ha alcuni minuti a disposizione e può usarli. Va sulle principali tre Reti, unificate, per una volta. E spiega la situazione ai cittadini».
Avete parlato anche del Parlamento. Voi denunciate lo stallo.
«Abbiamo detto a Napolitano che non è possibile andare avanti così. Lui lo sa, ci ha detto che la decretazione d’urgenza dovrebbe avvenire solo per motivi straordinari. Ma che lui non ce la fa, non può fare altro...».
E voi? Come giudicate la risposta?
«Mah, io credo che se lui dice così, è vero. Non ho motivo di non credergli. C’è da dire che lui ormai è ostaggio dei partiti».
Ostaggio?
«Sì, ma se l’è cercata con la rielezione ».
Il cordone circonda il Fondatore. Grillo arriva a un passo dalla buvette. Gliela mostrano, per molti grillini è il simbolo dell’odiata Casta. Un attimo e la truppa pentastellata si allontana via veloce. Qualcuno gli ricorda il caso di Adele Gambaro. Lui usa toni sfumati: «Sai, poverina, è caduta in una trappola...». Poi brindano nella sala del gruppo. Cambio rapido di camicia, via la cravatta. Si torna in Costa Smeralda.
Repubblica 11.7.13
In caso di condanna del Cavaliere il Senato dovrà ratificare la sentenza. Casson: “Non c’è storia”
Il Pd deciso sul sì all’interdizione ma c’è l’incognita del voto segreto
ROMA — «È senza storia». Dice proprio così l’ex pm Felice Casson, oggi esponente di punta del Pd, a proposito del futuro voto sull’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici di Berlusconi. Nella sue parole si coglie una certezza, quella che il Pd, «di fronte a una sentenza», non si farà prendere da improvvisi e trasversali mal di pancia. Perché «le sentenze vanno rispettate ed eseguite». Tutt’altra storia da quella dell’ineleggibilità,
dove i mal di pancia ci sono, e sono anche molto forti. Ma le due vicende sono assai diverse, anche se per un caso finiscono per incrociarsi nello stesso lasso di tempo e nello stesso Senato. Dove ancora ieri il Pdl, tramite i suoi emissari, in vista della seduta di oggi sull’ineleggibilità in giunta per le autorizzazioni, cercava di liquidare il prima possibile il caso, anticipando i tempi del voto per incassarne uno favorevole a Berlusconi.
Dunque Casson — ma non è il solo perché a Repubblica risulta che importanti esponenti del Pd la pensano allo stesso modo — è convinto che, qualora l’ex premier dovesse essere condannato, il percorso sarà assai semplice. A verdetto pronunciato in piazza Cavour, dalla Cassazione verrà trasmesso a palazzo Madama il dispositivo della sentenza che arriverà sul tavolo della giunta per le autorizzazioni. Qui un’unica eccezione potrebbe essere sollevata, quella che bisogna attendere le motivazioni, per le quali di solito sono necessari alcuni mesi. Ma qualora si decidesse di votare subito, Pd, Sel e M5S sarebbero assieme nel contrapporsi al Pdl che cercherà disperatamente il rinvio e punterà alla sorpresa del voto segreto in aula. Lì, trasversalmente, si potrebbe anche verificare il colpo di teatro di un Berlusconi salvato dal voto dei franchi tiratori.
(l.mi.)
Repubblica 11.7.13
L’amaca
di Michele Serra
Un partito di guerra, questo è oggi il Pdl. Non una voce solida, ragionevole, si leva dal suo interno per dire che non solamente l’Italia e le sue istituzioni, ma la stessa destra italiana è qualcosa di più e di meglio del suo vecchio capo pazzo di vanità e di rabbia. Non solamente la cerchia dei fedelissimi – le pitonesse, le amazzoni, i direttori dei suoi giornali e dei suoi telegiornali, gli ex craxiani che sono, del berlusconismo, i veri pretoriani – ma l’intero partito ragiona e sragiona all’unisono con il suo leader, come se sapesse di essere, senza di lui o al di fuori di lui, niente. Semplicemente niente. Non è un partito-azienda, il Pdl. È un partito-persona, in grado di digerire la perdita di sei milioni e mezzo di voti (un’ecatombe mai vista nella storia repubblicana) come una “grande vittoria”, e di fingere di non vedere e non sapere, per anni, il disdoro e il ridicolo che il solo nome di Berlusconi evoca in giro per il Pianeta Terra (fa eccezione la Bielorussia, ma non tutta). Si dice, da anni, che far coincidere i destini di un Paese con quelli di un individuo è quanto di più lontano dalla democrazia si possa concepire. La giornata di ieri, con il procurato coma parlamentare, ne è l’ennesima prova. Fortunatamente, a dare il senso della normalità, del tranquillo tran-tran quotidiano, c’era il Pd che non sapeva che pesci pigliare.
Repubblica 11.7.13
Culle vuote per la recessione così nella vecchia Europa i giovani non fanno più figli
Ogni anno 200mila neonati in meno. Grecia eSpagna più colpite
di Elena Dusi
ROMA — L’anno scorso in Italia sono nati 12mila bambini in meno rispetto al 2011. L’anno precedente il calo era stato di 6mila bebè. Dal 2009 il leggero aumento delle culle iniziato nel 2001 si è arenato, eppure in Europa possiamo dirci fra i più fortunati. In tutto il continente infatti non c’è un singolo paese in cui le nascite siano aumentate dal 2008 a oggi. Se Francia, Austria, Svizzera e Germania mantengono le posizioni, in Spagna, Grecia, Irlanda e Lettonia la curva del tasso di fecondità disegna un vero e proprio crollo. La tendenza è particolarmente sentita nella fascia d’età tra 20 e 24 anni. E se tutti questi indizi puntano verso un unico colpevole — la crisi economica — è perché la responsabile è proprio lei. Incertezza sul futuro e disoccupazione ci hanno precipitare di nuovo in quella crisi della natalità da cui l’Europa si stava stancamente risollevando dall’ingresso nel nuovo millennio. Dai 5,6 milioni di bambini nati nel continente nel 2008 si è scesi ai 5,4 del 2011. Alla recessione sono dunque imputabili 200mila culle rimaste vuote ogni anno.
Gli effetti della “grande recessione” sulla fecondità in Europa sono stati pubblicati oggi sulla rivista Demographic Research.
I ricercatori del Max Planck Institute di Rostock, in Germania, hanno incrociato i dati sulla disoccupazione con quelli delle nascite nell’ultimo decennio. E l’effetto è subito apparso lampante in ognuno dei 28 paesi presi in considerazione (solo la Russia fa più figli rispetto al passato). «Il declino della natalità nel sud Europa è evidente. Soprattutto in Spagna, un po’ meno in Italia» conferma Massimo Livi Bacci, demografo dell’università di Firenze. «Se mi si perdona il paragone, fare figli in questo momento è come comprare una macchina. Si rimanda a momenti migliori. Ma è ancora presto per dire se si tratta di un effetto congiunturale o di lunga durata».
«Il rapporto fra condizioni economiche e fertilità è uno dei temi più dibattuti in demografia» spiegano i ricercatori tedeschi guidati da Michaela Kreyenfeld. «Ma la crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha colpito l’Europa nel momento in cui il tasso di fecondità stava registrando timidi progressi, bloccandoli». Lo studio del Max Planck conferma una serie di ricerche che negli ultimi anni hanno legato depressione e crisi delle nascite. E che fanno notare come quella odierna sia la prima grande recessione con mezzi di contraccezione affidabili e diffusi universalmente.
Due anni fa ad esempio l’Accademia delle Scienze austriaca aveva osservato come l’aumento delle nascite sbocciato in Europa negli anni Sessanta sia stato interrotto dalla recessione del 2008, mentre negli Stati Uniti l’inversione di tendenza demografica era iniziata un anno prima. Dai 4,3 milioni di bambini nati negli Usa nel 2007 si era arrivati ai 4 tondi del 2010. E se, fino al 2008, 26 dei 27 paesi europei registravano un tasso di fertilità in aumento, a partire dall’annus horribilis della finanza mondiale la tendenza si è ribaltata. Tredici paesi si sono ritrovati con un calo dei nuovi nati e altri quattro con
dati stagnanti. «Le crisi economiche — prosegue Livi Bacci — hanno spesso dato risposte equivoche sul piano della demografia. La recessione degli anni Trenta per esempio è stata seguita da una netta ripresa. Il fenomeno del baby boom nasce proprio da quella crisi e dalla guerra. Ma il problema europeo oggi è che i dati economici colpiscono una situazione già compromessa, con tassi di natalità bassissimi in partenza ». I primi a soffrire sono proprio gli immigrati che mantengono a galla la popolazione europea. I dati di Eurostat pubblicati all’inizio dell’anno dimostrano che il calo della fecondità si fa sentire di più fra le coppie straniere, le prime a essere espulse dal mercato del lavoro e le ultime a essere inserite nei programmi di assistenza sociale.
Repubblica 11.7.13
“Arrestate il n.1 dei Fratelli musulmani” la piazza: “Pronti a scatenare l’inferno”
L’America invia 12 cacciabombardieri al nuovo governo egiziano
di Fabio Scuto
IL
CAIRO — Hanno incitato per giorni prima alla disobbedienza, poi alla
rivolta di piazza e infine alla guerra civile mentre l’Egitto era
spazzato da un’ondata di violenze che ha fatto 100 morti e quasi 2000
feriti dal 30 giugno. Adesso i leader della Fratellanza musulmana sono
costretti a nascondersi, a ritornare in clandestinità, inseguiti da un
mandato di cattura del procuratore generale del Cairo. A partire dal
leader massimo, Mohammed Badie, il murshid, la Guida suprema che venerdì
scorso al suo comizio alla Rabaa Adawiya aveva invitato l’Egitto alla
ribellione contro il colpo di mano dei militari e il “nuovo corso”
aperto dopo la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi.
Mandati d’arresto anche per il suo vice Mahmoud Ezzat, per due leader
del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico dei Fratelli, e altri 5
dirigenti islamisti. Dal 3 luglio nello stesso carcere che ospita l’ex
raìs Hosni Mubarak sono in cella Khairat al Shater — lo “stratega” della
Confraternita — e l’ex presidente islamista del Parlamento. Resta
invece ancora nel mistero la sorte dell’ex presidente Morsi che però,
assicurano al ministero degli Esteri, si trova in un «posto sicuro, è
trattato in modo dignitoso» e a suo carico «non è stata formulata ancora
alcuna accusa».
Un portavoce della Fratellanza si affrettava a
precisare ieri sera che nessun leader è ancora stato arrestato e ha
definito le accuse un tentativo di stroncare le proteste, ma è
innegabile che la Piazza degli islamisti a Nasr City appare isolata.
Solo qualche decina
di migliaia di militanti mantiene il sit-in nella
zona teatro all’alba di lunedì del fallito assalto al Comando della
Guardia repubblicana, dove gli islamisti pensavano fosse rinchiuso
Morsi, finito con un massacro. Ma la sfida della Confraternita non si
ferma: manterrà il presidio fino a quando Morsi non tornerà al suo
posto. «Possiamo scatenare l’inferno », dice Reda Ibrahim, un manovale
di 43 anni che viene da Ismailia, «Morsi deve finire il suo mandato».
Posizioni che ripetono tutti sulla piazza, sembrano sempre più
distaccate dalla realtà ma non per questo meno pericolose. Oltre
duecento militanti della Fratellanza sono stati già stati arrestati per
possesso di pistole o fucili.
La presidenza ad interim sostenuta dai
militari punta a tornare rapidamente a un governo di civili: sarà un
esecutivo di tecnici, i cui membri devono ancora essere annunciati.
Appare certo però che non ci saranno gli islamisti. Ma è la
dichiarazione costituzionale del presidente Adly Mansour, che resterà in
vigore per almeno sei mesi — fino alle elezioni parlamentari e
presidenziali — a tenere agitata l’intera opposizione. Il testo è stata
bocciato dal Fronte di salvezza nazionale (Fsn), principale alleanza
liberale, e dall’influente predicatore salafita Yaser Borhami, guida del
Partito islamista Al-Nour, che si è schierato contro la Fratellanza. I
vertici del Fsn hanno inviato una lettera a Mansour per spiegare i
motivi del rifiuto e proporre degli emendamenti alla dichiarazione
costituzionale, compreso un nuovo sistema di selezione del Comitato
incaricato di redigere la nuova Carta.
Il parziale ritorno verso la
stabilità del “nuovo corso” è stato rapidamente ricompensato. Le ricche
monarchie del Golfo erano contrarie a Morsi e alla Fratellanza e adesso
tendono la mano. E anche gli Stati Uniti — i principali finanziatori
delle casse egiziane — sembrano fidarsi del “nuovo corso” continuando
senza modifiche gli invii di cacciabombardieri F-16 all’aeronautica
cairota: 4 saranno consegnati il prossimo mese e altri 8 aerei entro
dicembre. Per il Pentagono «al momento non c’è alcun cambio nei piani di
consegna degli aerei da guerra agli egiziani».
Repubblica 11.7.13
Egitto
La debolezza dei movimenti islamici
Un golpe necessario
di David Brooks
È ormai palese come questi tipi di movimenti non solo al Cairo, ma anche in Turchia, in Iran e a Gaza, siano incapaci di guidare un governo moderno basato su pluralismo e tolleranza
Il dibattito sull’Egitto si svolge tra coloro che danno importanza alla forma e coloro che la danno al contenuto.
I primi hanno affermato che il governo del presidente Mohamed Morsi era stato eletto liberamente e che il sostegno democratico ricevuto era stato più volte confermato. La cosa più importante in assoluto, secondo loro, è difendere le fragili istituzioni democratiche e contrastare chi vorrebbe annientarle con un colpo di stato. La democrazia – si sostiene – finirà col placare l’estremismo. I membri della Fratellanza potrebbero anche arrivare al governo con le loro idee radicali, ma poi si troverebbero a dover porre rimedio ai guai e a quel punto si preoccuperebbero del rating del credito e del favore di cui godono presso l’opinione pubblica. Governare li renderà più moderati.
Quanti danno importanza al contenuto, invece, sostengono che i Fratelli musulmani sono caratterizzati da idee e principi ben precisi. Rifiutano il pluralismo, la democrazia laica e, per taluni aspetti, la modernità. Quando si eleggono dei fanatici – così prosegue il loro ragionamento – non si dà vita a una democrazia avanzata: di fatto si dà potere a chi innesca uno sconvolgimento della democrazia. Ciò che conta è estromettere dal potere questo tipo di persone, anche se dovesse rendersi necessario un golpe. L’obiettivo è indebolire l’Islam politico, con qualsiasi mezzo si rendesse necessario.
Gli eventi degli ultimi mesi sul piano internazionale hanno confermato la correttezza delle opinioni di chi dà particolare importanza al contenuto. È ormai palese – in Egitto, in Turchia, in Iran, a Gaza, e altrove – che gli islamisti radicali sono incapaci di guidare un governo moderno. Molti hanno mentalità assolutiste e idee apocalittiche. Gli islamisti possono dar vita a efficaci movimenti di opposizione ed essere impegnati quanto basta da fornire servizi sociali di base. Sono però del tutto sprovvisti della logica indispensabile per governare. Una volta in carica, cercheranno sempre di mettere a rischio la democrazia stessa che li ha eletti.
Una volta eletta, la Fratellanza ha sconvolto la revisione giudiziaria, ha usato la mano pesante nei confronti della società civile, ha arrestato gli attivisti dell’opposizione, ha snaturato il processo di stesura della costituzione, ha accentrato il potere e ha reso impossibile deliberare in modo democratico. È inutile deplorare i pasticci di Morsi, perché l’incompetenza è innata nel Dna intellettuale dell’Islam radicale. Abbiamo già visto emergere in Algeria, in Iran, in Palestina e in Egitto un’inettitudine pratica, un’incomprensione del mondo reale che porta all’implosione dell’apparato di governo.
I sostenitori dell’importanza del contenuto rispetto alla forma hanno dunque ragione. Promuovere le elezioni è in genere una cosa positiva, anche quando da esse derivi la vittoria di forze democratiche con le quali siamo in disaccordo. Ma le elezioni non sono qualcosa di positivo quando portano all’affermazione di persone i cui principi di fondo sono radicati fuori dall’orbita democratica. È indispensabile quindi indagare sull’insieme dei principi di fondo di un partito, e non limitarsi ad accettare chiunque riesca ad affermarsi nel corso di un iter democratico.
Il golpe militare di questa settimana potrebbe semplicemente riportare l’Egitto al punto in cui si trovava: un superstato straripante e disfunzionale controllato da un’élite militare che bada al proprio tornaconto. Quanto meno, però, l’Islam radicale, la più grave minaccia alla pace globale, in parte è stato screditato e destituito dal potere.
Traduzione di Anna Bissanti © 2013, The New York Times
Repubblica 11.3.13
Spesso gli Usa hanno appoggiato un “putsch”
L’imbarazzo americano
di Vittorio Zucconi
Ci sono almeno ventisei nazioni nel mondo con particolare attenzione ad America Latina, Asia e Africa che hanno conosciuto simili rivolgimenti grazie all’azione, palese o “coperta”, di Washington
Strano: non esiste una traduzione in inglese di “Golpe”. Per raccontare quello che sta ora accadendo in Egitto, America, Regno Unito e nazioni anglofone devono sempre ricorrere a lemmi d’altre lingue, allo spagnolo da repubblica delle banane, al sinistro tedesco “Putsch” o al più elegante francese “Coup d’état”. Nella storia inglese, ci viene detto, non ci sono stati colpi di stato, nel senso che Curzio Malaparte e Luttwak hanno codificato per il rovesciamento di governi con la forza. Anche se il vecchio “Fianchi di Ferro”, Oliver Cromwell non ci andò leggero nel tagliare la testa al re e farsi nominare Lord Protettore.
Strano, perchè dalla Guerra Ispano-Americana di 115 anni or sono che trasformò Cuba in un protettorato degli Usa per oltre mezzo secolo e inghiottì Puerto Rico per arrivare a quando sta accadendo in Egitto secondo i Fratelli Mussulmani che vedono la lunga mano dello Zio Sam nella caduta del presidente eletto Morsi, una certa pratica gli Usa se la sono fatta. La neonata prima e poi robusta potenza americana ha fatto entusiasticamente ricorso ai “Golpe” per espandere la propria influenza e i propri interessi.
Ci sono almeno ventisei nazioni nel mondo, con particolare attenzione ad Asia, America Latina e Africa, che hanno conosciuto rivolgimenti politici e militari grazie all’intervento diretto o indiretto, sfacciato o “covert”, di Washington. Tra i casi celebri come quelli del Cile di Allende, dell’Iran di Mossadeq, del Brasile del “comunista” João Goulart nel 1964, di Ngo Dinh Diem ucciso a Saigon sotto la presidenza Kennedy, fino ai despoti arabi coltivati e aiutati dalla Cia come Saddam Hussein e Anwar Sadat padre in Siria passando per schiere di marionette centro e sud americane, la lista dei “Coup d’ètat” made in the USA è ineguagliata.
Invece alla ruvida, diretta semplicità di Golpe de Estado, il perbenismo anglo luterano ha via via preferito eleganti eufemismi, come quel piatto “Regime Change”, cambio di regime, riscoperto dagli ideologi neo-con della democrazia da esportare, che pare una semplice opera di manutenzione, cambio dell’olio, cambio di biancheria. Ma c’è in compenso una efficacissima espressione che fa spesso da corollario ai Golpe e che l’America ha ripreso dal vocabolario dei vigili del fuoco: il “Blowback”, il terribile ritorno di fiamma in faccia che spesso accoglie chi spalanchi incautamente la porta di un incendio.
E “Blowback”, la fiammata di ritorno, è quello che in tanti dei Paesi dove Cia, Dipartimento di Stato, Pentagono, hanno “cambiato regimi”, l’America sta conoscendo. In Afghanistan, in Iraq, in Libia, in America Centrale, in Sud America, in Siria e in Egitto, il fuoco dell’incendio che era stato appiccato, o alimentato, o non spento, per «difendere gli interessi e gli investimenti privati americani» come scrisse l’ambasciatore in Brasile a Lyndon Johnson organizzando il “golpe” del 1964, sta ustionando, o rischia di ustionare, i piromani. Lo stesso rischio che ora Washington corre in quell’Egitto controllato dai militari –un classico “Golpe” – finanziati al suono di oltre un miliardo e mezzo di dollari all'anno, per comperare la pace con Israele.
Poiché le grandi potenze non hanno amici permanenti, ma soltanto interessi permanenti, come avvertiva Lord Palmerstone, la tentazione del colpo di stato è passata da presidente a presidente, dagli anni della carica di Teddy Roosevelt sulle colline di Puerto Rico e non cambierà presto. Sarebbe almeno il caso, a questo punto, di creare un lemma inglese, possibilmente meno ipocrita di “Regime Change”.
Repubblica 11.7.13
Egitto
Boom della vendita di armi. Nel suk clandestino del Cairo “saldi” su pistole e fucili
Vengono distribuite prima dei cortei. E diversi gruppi salafiti le starebbero accumulando
Per una buona pistola bastano 400 dollari
Un kalashnikov invece può costare fino a 1000 dollari
di F. S.
IL CAIRO — «Basha, puoi averla per 250 dollari», dice Abu Karim mostrando da uno straccio sporco una Smith & Wesson calibro 9 in buone condizioni. «Con altri 20 dollari ci metto vicino anche una scatola da 50 pallottole». Insieme a quello della droga, quello delle armi è uno dei traffici più redditizi di Boulaq, uno slum abitato da due milioni di persone nel cuore del Cairo. Un termitaio di vicoli sterrati dove si può comprare di tutto, basta avere dollari contanti. Con il dilagare della criminalità dopo la rivoluzione del 2011 con il moltiplicarsi di furti, rapine e stupri il mercato «privato» delle armi è molto cresciuto.
Fra le dune bianche al confine con la Libia passano le rotte dei trafficanti d’armi, è il paradiso dei beduini contrabbandieri, i grandi beneficiari del crollo del regime di Gheddafi. Per quel poroso confine passa di tutto: vestiti, scarpe, droga e soprattutto armi. Già durante l’epoca di Gheddafi il contrabbando era una fonte redditizia per le tribù beduine. Nuotando in un mare di petrolio e di gas naturale, il colonnello non aveva bisogno di imposte indirette sui beni di consumo, mentre in Egitto sono molto alte. Un camion, un fuoristrada, «importato» nuovo dalla Libia può costare la metà rispetto al prezzo di un rivenditore al Cairo.
Adesso molte delle armi che vengono da oltre confine — destinate prima a Gaza e alla Siria — si fermano in Egitto. Nelle manifestazioni dei giorni scorsi pistole e mitragliette si sono moltiplicate, le armi vengono distribuite prima dei cortei, sono decine i sequestri nelle sedi della Fratellanza musulmana.
Ci sono molti rumors sui giornali egiziani sulla formazione di milizie armate. Certo la caduta di Mubarak non ha posto fine alle teorie del complotto. Per esempio, si dice che alcuni gruppi salafiti si stanno armando fino ai denti. Ora la voce più diffusa è che i Fratelli musulmani hanno una potente milizia formata da migliaia di membri. I portavoce della Confraternita negano, ma le centinaia di arresti di suoi militanti sorpresi con pistole e fucili confermano che fra le loro file circolano molte armi. I prezzi variano a seconda del produttore. «Una buona pistola può arrivare a 400 dollari, ma se cinese è sui 100-150», spiega Abu Ismail, mediatore d’affari con Rolex d’oro al polso. «Per un kalashnikov si possono raggiungere anche i 1000 dollari. Per i mitra di grosso calibro andiamo dai 10 mila in su». Il contrabbando è un’attività antica tra i beduini, la cui conoscenza del territorio supera di gran lunga quella delle autorità. Diverse tribù beduine si estendono poi oltre i confini di Sudan e Libia. I convogli si muovono su vecchie rotte carovaniere solo a loro conosciute. Ciascun clan ha depositi di acqua e benzina sepolti sotto la sabbia e ricambi per i camion: il carico che ogni volta vale milioni di dollari deve arrivare ad ogni costo.
Corriere 11.7.13
Il vero sapere somiglia a Ulisse
non ha paura dei mari sconosciuti
di Giulio Giorello
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