il Fatto 10.7.13
La presidente Laura Boldrini
“Lavoro, migranti, ius soli Io sto dalla parte della Carta”
di Mariagrazia Gerina
La Padania l'ha ribattezzata la “papessa”. Il leghista Salvini dice che il problema non è il Papa ma lei che lo strumentalizza. Brunetta le ha dato dell'estremista perché non ha accettato l'invito di Marchionne in fabbrica. La presidente della Camera Laura Boldrini tira dritto per la sua strada. Quella dei “diritti” sui quali – ha detto al numero uno della Fiat – non accetta “gare al ribasso”.
Presidente lei che tante volte ha denunciato la strage nel Mediterraneo come ha accolto le parole del Papa da Lampeudsa?
È stata una grande emozione. Le sue parole sono un monito al Nord ricco del mondo e all'indifferenza. Il Papa ha rimesso al centro le persone che rischiano la vita in mare, ridando dignità a migliaia di morti e ai tanti che ce l'hanno fatta. Negli anni di lavoro con l’Alto commissariato, tra i miei obiettivi c’era il rispetto degli obblighi internazionali e dell'ordinamento italiano, che tutela il diritto d'asilo. Si è trattato di fare anche una battaglia culturale sull’utilizzo ingiusto di parole come clandestino.
“Un conto sono le prediche, un conto è il governare”, ha detto però Cicchitto.
Basta guardare quello che sta succedendo in Egitto per capire che è proprio dal governare che nasce tutto. Da che mondo è mondo le fughe sono conseguenza della cattiva politica, del fallimento della democrazia. La gente fugge quando non ha alternative. E gli Stati hanno l'obbligo di accogliere e verificare se ci sono motivi per rilasciare protezione internazionale. Il diritto d'asilo è nella Costituzione. Governare vuol dire gestire tutto questo, nel rispetto dell'ordinamento nazionale e degli accordi internazionali.
Lei come portavoce Unhcr dal 1998 al 2013 ha avuto come interlocutori governi di centrodestra e di centrosinistra. Quali risposte le davano?
Ci sono stati governi più disponibili al dialogo, altri meno. Ricordo momenti drammatici. Come quando nel 2009 l'Italia scelse di mettere in pratica il respingimento in alto mare senza concedere neppure la possibilità di presentare domanda d'asilo. Fu un momento molto difficile, come portavoce dell'Unhcr venni attaccata duramente. Ma poi l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani. L'altro momento drammatico fu nel 2011, quando i migranti che arrivavano a Lampedusa non furono più trasferiti fuori dall’isola e si creò quella situazione ingestibile tutta sulle spalle degli abitanti. In Libia c'era una guerra, nei paesi vicini arrivavano centinaia di migliaia di persone, in Italia dalla Libia arrivarono 28mila persone ma autorevoli esponenti politici parlarono di tsumani umano, di esodo biblico, facendo sentire l'opione pubblica minacciata.
I suoi interlocutori di allora sono gli stessi che adesso sostengono il governo delle larghe intese. Questo taglia le gambe alla speranza o c’è una possibilità di cambiare rotta?
Io mi auguro che in Italia si esca dall'utilizzo strumentale dell'immigrazione e dell'asilo, che si vada oltre le ideologie, le prese di posizione propagandistiche e le divisioni. Il paese ha bisogno di uscire dalla stagione della paura, nell'era della globalizzazione si va inevitabilmente verso società composite formate da persone che vengono da contesti diversi ma cittadini nel paese in cui vivono. Non si può giocare alla demonizzazione, ci vuole senso della realtà. Non c'è un nemico di fronte. Ci sono solo quattro milioni e mezzo di immigrati e alcune decine di migliaia di rifugiati di cui occuparsi nel rispetto del diritto nazionale e internazionale. Ci vuole più maturità.
Pensa che dal parlamento possa venire un segnale?
C'è un gruppo di parlamentari bipartisan che sta lavorando sui temi dell'immigrazione. Io mi auguro che si riesca ad arrivare presto all'elaborazione di un testo condiviso sulla cittadinanza.
Ne avete parlato con Napolitano che oggi (ieri per il lettore ndr) l'ha ricevuta?
Abbiamo parlato della visita del Papa a Lampedusa. E di quando lui era ministro dell'Interno. Anche da presidente della Repubblica, ha sempre sollecitato i partiti a riconsiderare la legge sulla cittadinanza.
Le ha espresso la volontà di andare a Lampedusa?
Non ne abbiamo parlato.
E lei ci tornerà?
Se me lo chiedono, volentieri.
Dallo stabilimento di Atessa dove lei non è andata Marchionne ha attaccato quanti “anche da autorevoli istituzioni” considerano “esercizio dei diritti” “comportamenti violenti”.
Non credo che si riferisse a me. Io considero il mondo delle imprese centrale per la ripresa del paese, per questo ho ricevuto delegazioni di imprenditori, sono andata dai giovani industriali, ho accolto l'invito del presidente di Confindustria. Ma non posso esimermi dal ribadire che ci vuol rispetto dei lavoratori. Un concetto che dovrebbe essere pacifico. Lo dice la nostra Costituzione. Questo scrivevo nella lettera a Marchionne. Non si può pensare che il gioco al ribasso sui diritti sia il modo per uscire alla crisi.
Marchionne risponde che rischiamo di morire di diritti.
Non penso sia questo il rischio, piuttosto oggi ci sono più generazioni che vivono la precarietà del lavoro e di ogni ambito della vita. E che rischiano di morire della mancanza di diritti. Il nostro paese ce la farà se i lavoratori avranno più capacità di incidere. La formula di chi ordina e di chi esegue non è più praticabile, bisogna coinvolgere chi lavora nei processi produttivi.
Gliele dirà a voce queste cose?
Perché no? Se ci sarà occasione. Ho lavorato una vita per la mediazione, non mi tiro mai indietro di fornte a uno scambio di vedute.
Brunetta le dà dell'estremista, Salvini dice che strumentalizza il Papa. Sente il suo ruolo in discussione?
Ormai il gioco è a chi rilancia di più. Ma non è nel mio stile uscire dal linguaggio del rispetto. Quando uno ha buone ragioni non ricorre alle grida. Continuo nella mia strada e se questo provoca reazioni scomposte, non è un mio problema. Non mi interessa assecondare il pensiero unico. Seguo la mia coscienza e il programma che ho esposto il giorno in cui sono stata eletta alla presidenza della Camera. Quello è il mio impegno con gli italiani.
l’Unità 10.7.13
Giallo Kazakistan: «Alfano deve spiegare»
La denuncia del senatore pd Manconi, presidente della commissione Diritti umani
Fioccano le interrogazioni di M5S e Sel
di Claudia Fusani
Il governo balbetta da un mese su una brutta storia di spie, petrolio e diritti umani negati. E il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha una lancia nel fianco di cui non riesce a liberarsi. Perchè è difficile andare davanti al Parlamento, che lo reclama da giorni, a spiegare perchè la questura e la prefettura di Roma hanno, in meno di 72 ore, impacchettato e messo su un aereo privato una donna di 46 anni (Alma) e la figlia di sei (Alua) e le ha consegnate al presidente kazako Nursultan Nazarbayen e al premier Serik Akmetov. Due nomi che non brillano per principi democratici e rispetto delle libertà. E il cui obiettivo primario, oltre alla gestione degli immensi giacimenti energetici che fanno gola a tutto l’occidente, è arrestare, in ogni modo e ovunque si trovi, il dissidente Ablyazov. Per l’appunto il marito e il padre di Alma e Alua.
UNA PISTA IN ISRAELE
Quella accaduta a Roma, in una villa di Casal Palocco, tra il 29 e il 31 maggio 2013 è una brutta storia che ormai il governo e gli apparti non riescono più a tenere nascosta. In Parlamento, tanto alla Camera quanto al Senato, fioccano le interrogazioni. Il primo ad alzare la voce è stato, il 5 giugno scorso, in aula, il senatore Cinque stelle Mario Giarrusso. Ieri il senatore Luigi Manconi (pd), presidente della commissione per i diritti umani, ha chiesto di nuovo che il «governo venga in aula a riferire il prima possibile su questa storia». Il prima possibile, per Manconi, significa «al massimo entro la settimana». Ma se su questa storia si sono fatti sentire dapprima una
furibonda ministro degli Esteri Emma Bonino e poi un’altrettanto furibonda Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, tutto tace da Alfano che è il ministro che tutto dovrebbe sapere della faccenda. E che invece continua a tacere. Oppure a far veicolare versioni per cui «sarebbero tutto avvenuto a sua insaputa». Cioè, prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che Alfano voleva a capo della polizia; questore, capo della mobile e della Digos avrebbero agito in autonomia senza informare il livello politico di quello che accadeva tra il 29 e il 31 maggio in quel di Casal Palocco.
Ieri la storia è stata per la prima volta raccontata in una sede istituzionale, al Senato, dal senatore Manconi e dai due avvocati, Riccardo Olivo e Gregori Valente che hanno mostrato quei pochi documenti di cui sono riusciti ad entrare in possesso. Perché questo è il primo buco nero della storia: «Due persone su cui non pende alcuna accusa penale sono state prelevate da casa, perquisite e trattenute tre giorni senza poter vedere alcun legale e poi espulse in via amministrativa, poichè sprovviste di permesso di soggiorno. E di tutto questo denunciano i due avvocati non riusciamo ad avere accesso agli atti».
La storia può essere così riassunta. Su Ablyazov pesa da anni un mandato di cattura internazionale del Kazakistan per truffa, bancarotta e una lunga serie di reati economici. In realtà è il più grosso oppositore politico del presidente Nazarbayen, caro e grande amico di Berlusconi. Ablyazov, moglie e figlia hanno vissuto per anni a Londra. «Nel 2011 raccontano gli avvocati mostrando un documento della polizia di Londra le autorità inglesi hanno spiegato di non essere più in grado di garantire la loro sicurezza e che il livello di minaccia su di loro era diventato troppo alto». Inizia, nei fatti, una lunga latitanza, che tocca Lettonia, Francia, Svizzera. Da settembre 2012 Roma, Italia. Intanto un’agenzia di sicurezza privata, ingaggiata da una collegata di Tel Aviv, scopre che Ablyazov vive con la famiglia a Casal Palocco. Siamo al 28 maggio scorso. Quando un fax Interpol, di cui non c’è traccia, segnala a Prefettura e Questura dove andare a prelevare il dissidente.
QUATTRO IRRUZIONI
La prima irruzione è la notte tra il 28 e il 29 maggio. «Sembravano gangster ma invece erano poliziotti della questura di Roma, senza riconoscimenti, tesserini, nulla» raccontano gli avvocati. Seguono altre tre perquisizioni. Ablyazov non c’è. La moglie viene trattenuta tre giorni tra questura e Cie. «La bambina viene prelevata senza alcuna tutela aggiungono i legali la mattina del 31 maggio e portata a Ciampino dove su un aereo privato pagato dai kazaki l’attende la mamma».
Espulsione «illegittima» sulla base di «documentazione falsa» denunciano i legali. «Era entrata sottraendosi ai controlli di frontiera» filtra dal Viminale «e aveva con sè passaporti falsi». Quindi il decreto di espulsione è legittimo». Risulta dal fascicolo degli avvocati che i passaporti sono regolari (una della Repubblica Centroafricana e l’altro kazako). E che sicuramente Alma e la figlia, a prescindere dalle eventuali colpe del marito, erano in fuga da una minaccia più grande di loro.
Il nuovo capo della polizia Alessandro Pansa si insedia proprio il 31 pomeriggio, quando tutto si è già concluso. Un’operazione del genere non può essere stata condotta senza via libera dall’alto. Il ministro Alfano deve spiegare.
Il Fatto 10.7.13
Il rimpatrio di Alma rischia di diventare un nuovo caso Ruby
Alfano sempre più in difficoltà
Ieri vertice al Viminale in vista del Question time di oggi
Audizione al Senato: Lyudmyla Kozlovska, presidente Ong, “Uno stupro dei diritti umani condotto in un Paese occidentale come il vostro”
Il vicepremier Alfano sarebbe stato l’unico a essere avvisato e sarebbe stato chiamato direttamente dal diplomatoco Kazako
di Fabrizio d’Esposito e Davide Vecchi
Il rimpatrio forzato di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, 6 anni, in Kazakistan rischia di creare serie difficoltà al governo Letta. Il premier ha avviato l’indagine interna e ieri nel pomeriggio c’è stato un incontro al Viminale cui ha preso parte anche il presidente del Copasir, il leghista Giacomo Stucchi insieme ad Angelino Alfano, ministro dell’Interno. Sul tavolo la ricostruzione del trasferimento della donna prima dalla villa di Casal Palocco al Cie di Ponte Galeria, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, poi il rimpatrio nella capitale kazaka, Astana, il giorno successivo. Ci sono diversi dubbi su entrambi i passaggi.
ALCUNI dei quali sollevati dai legali dei familiari e confermati, a quanto si apprende, anche da una relazione preparata dalla Questura di Roma che ha effettuato il blitz notturno nella villa di Casal Palocco. Nell’operazione, infatti, oltre agli uomini della Digos sono stati coinvolti militari di altri reparti. Ernesto Gregory Valenti, avvocato dei familiari, ieri nel corso di una conferenza stampa in Senato organizzata dal senatore del Pd, Luigi Manconi, ha parlato dell’esistenza di “un documento agli atti secondo cui una società di sicurezza italiana è stata incaricata, penso da una società di sicurezza israeliana, di sorvegliare la villa prima dell’irruzione della polizia”. Inoltre, a quanto si è appreso, la questura aveva già ricevuto una prima richiesta di trasferimento forzato al quale però non è stato dato seguito perché non era accompagnata da un provvedimento di espulsione e si è così reso necessario attendere il mandato di cattura internazionale a carico della donna.
I passaggi sono ancora tutti da accertare. Ma nella vicenda il ruolo degli uomini della Questura è ritenuto “assolutamente corretto” anche al Viminale. I dubbi sono semmai sui modi di azione scelti da Alfano. Il vicepremier , infatti, sarebbe intervenuto su chiamata diretta ricevuta dall’ambasciata del Kazakistan senza avvisare né il ministero degli Esteri né Palazzo Chigi. Ipotesi questa confermata anche dalla ricostruzione del trasferimento ad Astana: il jet privato è stato noleggiato in Austria al mattino e a bordo c’era il console del Kazakistan che ha preso in consegna Alma e sua figlia.
La donna è stata rilasciata dal Cie prima ancora che venisse identificata correttamente con i documenti che l’ambasciata avrebbe dovuto inviare ed è invece stata schedata come immigrata clandestina. Le presunte responsabilità di Alfano, insolitamente premuroso, fanno dire sottovoce a vari ambienti istituzionali e politici che “possiamo trovarci di fronte a un nuovo caso Ruby”.
UN PASTICCIO, stavolta, però ancora più tragico. Anche perché da Alfano si arriva in un lampo all’amicizia tra Berlusconi e il dittatore kazako Nazarbayev. Molto dipenderà anche dal grado di credibilità delle risposte che forse oggi stesso darà in Parlamento il vicepremier nonché ministro dell’Interno. Nel governo e anche nel Pdl questa vicenda comincia a mettere paura e alcune fonti anticipano che Alfano sostanzialmente si trincererà dietro la relazione della questura di Roma. La linea di difesa si baserà sul fatto che la donna è entrata in Italia “sottraendosi ai controlli di frontiera” e, inoltre, la sola assenza sul documento di timbri o visti di ingresso “legittimava il provvedimento di espulsione, ai sensi del decreto legislativo 286 del 1998 perché trovata in possesso di un passaporto diplomatico risultato falso e irregolarmente soggiornante sul territorio italiano”. Il documento, a quanto riferiscono ambienti del Viminale, “presentava evidenti segni di contraffazione ed era mancante di timbro o visto di ingresso in area Schengen”. Alla luce di queste irregolarità “la donna è stata deferita all’autorità giudiziaria per i reati commessi con l’esibizione del falso passaporto e proposta al prefetto di Roma, in quanto clandestina, ai sensi del decreto n. 286/98, per l’emanazione del provvedimento di espulsione”. I legali della donna smentiscono da giorni il canovaccio questurino : il passaporto era regolare e mancavano le autorizzazioni della magistratura. Ieri, Riccardo Olivo, altro avvocato della Shalabayeva, ha detto che c’era solo “una nota dell’Interpol” che poi però non è stata allegata agli atti. Olivo ha parlato durante un’audizione alla Commissione straordinaria diritti umani del Senato, presieduta da Manconi. Prima di lui Lyudmyla Kozlovska, presidente della Open Dialog Foundation, ha detto ai senatori presenti che questo scandalo “è uno stupro dei diritti umani condotto non in Kazakistan ma in un paese occidentale”. Cioè da noi.
il Fatto on line 10.7.13
Caso Kazakistan, i legali: “Procedure insolite”. Oggi Alfano alla Camera
di Luca Pisapia
qui
il Fatto Lettere 10.7.13
Caso Ablyazov: vogliamo i responsabili
Da chi è partito l’input? Qual è la catena di comando che ha portato la Digos a irrompere, con dovizia di uomini e mezzi, nottetempo nella casa dove soggiornavano la moglie e la figlia di Ablyazov, figura molto discussa ma anche maggior oppositore in esilio del dittatore kazako Nazarbayev amico di Berlusconi, prelevarle e consegnarle nelle grinfie del dittatore dopo aver fornito alla magistratura notizie infondate sulla validità del loro passaporto e violando l’art.10 della Costituzione che tutela i cittadini stranieri in Italia? Possibile che, a distanza di più di un mese dai fatti, il governo e i ministri interessati non abbiano ancora chiarito di chi sono le gravi responsabilità e perché vi siano state così gravi violazioni, non solo della Costituzione ma anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Come si può rimediare, se si può, per tutelare quelle persone dalle possibili vessazioni del dittatore kazako? Di chi è la responsabilità politica? Chi si vuole coprire? Il caso dovremo annoverarlo fra i tanti piccoli e grandi misteri d’Italia o questo governo saprà dire la verità? Subito però!
Mario Sacchi
Corriere 10.7.13
Spunta una pista israeliana nel giallo dell’esule kazako
Ma il Viminale assicura: «Abbiamo agito correttamente»
di Fabrizio Caccia
ROMA — Solo ieri, per la prima volta, dopo 40 giorni di silenzio, qualcosa è trapelato dal Viminale: «La Questura di Roma agì correttamente, il passaporto diplomatico della donna era contraffatto e dunque fu espulsa in quanto clandestina», assicurano fonti vicine al Ministero dell’Interno. E mentre infuria lo scontro politico (Pd, Sel e Movimento 5 Stelle hanno presentato altrettante interrogazioni) il governo riferirà forse domani in Parlamento sul caso dell’espulsione della cittadina kazaka Alma Shalabayeva il 31 maggio scorso da Roma. Ma intanto il pasticcio internazionale s’ingarbuglia ogni giorno di più: «C’è un documento agli atti — rivela Ernesto Gregory Valenti, uno dei legali della donna — secondo cui una società israeliana avrebbe incaricato una società di security italiana di sorvegliare la villa romana della signora nei giorni precedenti l’irruzione della polizia». Per conto di chi agiva la società israeliana? Forse del governo kazako? «Non ho altri dettagli da riferire», taglia corto il legale. Di certo, il grande intrigo assume ora contorni da spy story. La cittadina kazaka Alma Shalabayeva e la piccola Alua, 6 anni, espulse in tutta fretta quel 31 maggio dall’aeroporto di Ciampino, sono infatti rispettivamente la moglie e la figlia di Mukhtar Ablyazov, dissidente politico inviso al presidente e padrone del Kazakhstan, Nursultan Nazarbaev, già torturato nelle prigioni patrie e ora ricercato dal suo Paese ma anche dall’Interpol per una truffa da 5 miliardi di dollari. Ablyazov viveva da qualche mese nella villetta di Casalpalocco insieme alla famiglia, ma il 29 maggio quando arrivò la Digos lui non c’era più. Gli avvocati della donna, Riccardo Olivo e Gregory Valenti, accusano le autorità italiane di «eccesso di potere» e di «decreto illegittimo». Il passaporto diplomatico della Repubblicana centrafricana mostrato dalla donna ai poliziotti era infatti “un passaporto vero” e così pure il passaporto kazako detenuto dalla signora. E allora? Caso spinosissimo: il Kazakhstan è una miniera di petrolio e l’Eni vi opera dal 1992. «Ma come si può rimandare in Kazakhstan una persona contro la sua volontà, se è risaputo che perfino la Corte europea dei diritti umani rifiuta l’estradizione in quel Paese?», è la domanda che si pone il senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della commissione per la tutela e promozione dei diritti umani. Secondo le fonti vicine al Viminale, invece, «Alma Shalabayeva, in Italia, non aveva mai chiesto diritto d’asilo e nemmeno manifestato alcun timore di eventuale persecuzione in vista del rimpatrio». Dov’è la verità?
Corriere 10.7.13
È compito del governo chiarire i lati oscuri del pasticcio kazako
Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha garantito che «riferirà al più presto» sull'inquietante vicenda del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov
di Giuseppe Sarcina
Ieri la Commissione dei Diritti umani del Senato ha esaminato la dinamica dei fatti fin qui nota. La sera del 29 maggio una cinquantina di agenti della Digos hanno fatto irruzione in una villetta di Casal Palocco, poco distante da Roma. Cercavano Ablyazov, il banchiere imprenditore fuoriuscito dal Kazakistan nel 2003 e ora inseguito da una richiesta di estradizione e, soprattutto, dall'ostilità del presidente autocrate Nursultan Nazarbaev. Nella casa, invece, i poliziotti hanno trovato la moglie di Ablyazov, Alma Shalabayeva e la figlia di 6 anni.
Alfano dovrà spiegare parecchie cose. E non solo perché lo chiedono il premier Enrico Letta, i ministri degli Esteri, Emma Bonino e della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. E dovrà essere convincente, perché questo evidente pasticcio giudiziario rischia di trasformarsi in «un'ennesima figuraccia» (parole di Emma Bonino) politico-diplomatico internazionale. Può la Questura di Roma organizzare un'operazione in stile antiterrorismo per dare la caccia a un oppositore che ha chiesto e ottenuto asilo politico in Gran Bretagna, cioè un Paese dell'Unione europea? Può il ministero disporre il rimpatrio immediato di una donna e di una bambina sulla base di verifiche sommarie? Chi ha deciso e perché di consegnarli all'ambasciata del Kazakistan che già aveva noleggiato un aereo austriaco, ancora prima che fossero terminati gli accertamenti giudiziari?
A queste risposte una parte della politica e dell'opinione pubblica ha già risposto. Le decisioni sono state prese dal ministro Alfano. Motivo? L'uomo forte del Kazakistan è un amico personale di Silvio Berlusconi. Quel Paese per altro è un partner importante per la nostra politica energetica (l'Eni ha concluso un accordo chiave lo scorso anno). Ora tocca ad Alfano dimostrare che le cose siano andate diversamente.
Repubblica 10.7.13
Caso Ablyazov, “espulsione illegale”
La moglie del dissidente kazako aveva due passaporti in regola. Alfano in Parlamento
di Alberto Custodero
ROMA — Gli israeliani spiavano il nascondiglio in Italia di Alma Salabayeva. L’Ufficio immigrazione della Questura di Roma sapeva che la donna aveva non uno, ma due passaporti regolari. La Repubblica del Burundi l’aveva proposta come «console onorario per le regioni del Sud Italia». Mentre si attende la relazione al Parlamento del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che finora ha taciuto, si complica l’intrigo internazionale dell’espulsione a velocità record della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. A svelare che «una società di sicurezza israeliana aveva incaricato una azienda di sicurezza italiana di sorvegliare la villa della Salabayeva prima dell’irruzione della polizia» è stato uno dei legali della donna, ErnestoGregory Valenti, ieri, al Senato, nel corso di una conferenza stampa organizzata da Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani. C’è forse un coinvolgimento in questa operazione dei servizi segreti israeliani così come in quella di Abu Omar di quelli americani?
Ma c’è un documento, in possesso di un altro avvocato della kazaka espulsa, Riccardo Olivo, che inchioderebbe l’Ufficio immigrazione a una responsabilità tutta da chiarire. Il 30 maggio, dunque il giorno prima delle udienze di convalida lampo prima dell’espulsione, l’Ambasciata di Roma del Kazakistan aveva inviato ai responsabili dell’Immigrazione un documento con il quale attestava che Alma Salabayeva era in possesso di due passaporti regolarmente rilasciati dalle autorità del suo Paese d’origine, facendo dunque cadere la necessità e l’obbligodell’espulsione. Perché, pur sapendo che aveva documenti in regola, è stata comunque allontanata dall’Italia insieme alla figlia in fretta e furia?
È stato infine il presidente del Tribunale del Riesame di Roma, Guglielmo Muntoni, a rendere noto nella sua ordinanza che Alma Salabayeva «era stata proposta come Console onorario per le regioni del Sud Italia da parte della Repubblica del Burundi». Ecco spiegato il motivo per il quale la donna era in possesso di un passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana che il giudice definisce, al contrario della Polizia, autentico. Il fatto poi, osserva ancora il magistrato, che la moglie del dissidente si sia «presentata alle autorità africane con il nome di Alma Ayan anziché Alma Shalabayeva appare riferibile non a falsità ma alla necessità di sottrarsi ai nemici politici del marito». Insomma, bastava un po’ più di calma e di tempo per chiarire ogni equivoco. Il ministro Alfano dovrà spiegare il perché di una «velocità » con la quale s’è proceduto al rimpatrio che lascia «perplesso» pure il presidente del Riesame. Se l’espulsione è «frutto di un errore e non c’è stata volontà premeditata di consegnare due ostaggi al presidente kazako», il terzo avvocato della donna, Anna D’Alessandro, lancia un appello «al governo affinché, invece di spaccarsi, trovi una convergenza nel chiedere che Alma e la figlia ritornino in Italia». E le voci su un interessamento di Berlusconi per consegnare all’amico presidente kazako le due donne? Sul punto interviene Manconi: «Non ho prove — ha detto — dell’interessamento del Cavaliere in questa vicenda».
il Fatto 10.7.13
Padre-padrone. Il Kazakistan
Il satrapo a tutto greggio dall’Urss ad Astana
di Stefano Citati
Andate tutti in vacanza in Kazakistan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei voti”, disse Silvio Berlusconi nel 2008, salutando Nursultan Nazarbayev in visita in Italia. Undici anni prima il padre-padrone del Kazakistan aveva ricevuto al Quirinale l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.
È dal 1990 che l'ex burocrate comunista governa il paese, conservando il potere a colpi di modifiche costituzionali che lo hanno proclamato “leader della nazione”, titolo che gli garantisce l'immunità giudiziaria.
UN SOGNO per un politico come Berlusconi per il quale il satrapo petrolifero incarna un modello ineguagliabile: “Ho visto i sondaggi fatti da una autorità indipendente che ti hanno assegnato il 92% di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può non basarsi sui fatti”, gli disse il Cavaliere nel 2011. Secondo le organizzazioni europee che hanno monitorato le ultime elezioni – nelle quali il presidente è stato rieletto con il 95% delle preferenze – il voto è risultato tutt'altro che regolare.
Ma tutta questa stima personale è solo un aspetto dei legami dell'Italia con il leader kazako. Perché il regime di Nursultan siede su un letto di petrolio e gas: oltre il 3% per cento delle riserve mondiali stimate, primo produttore mondiale di uranio. Politica, società ed economia cadono tutte assieme sotto l'influenza del partito Nur Otan, dove torna il suffisso – nur, luce compone il nome di Nazarbayev, sultano o “signore della luce”. Il cerchio magico che domina l'ex repubblica sovietica – sterminate steppe dove Mosca codusse i test atomici, e con 16 milioni di abitanti - è composto dalla stretta cerchia familiare del satrapo 73enne. Dinara Nursultanovna Kulibayev, pur dano sfogo alle sue tendenze artistiche, controlla – attraverso il marito Timur Asqaruly Qulybaev, chiaccherato per la sua relazione con “Lady” Goga Ashkenazi, che per un periodo è apparsa in pubblico con Lapo Elkann – buona parte delle società pubbliche che gestiscono le risorse naturali del paese. Timur (ovvero Tamerlano), è nell’elenco dei mille uomini più ricchi del pianeta. E il suo nome finì anche in un’inchiesta che indagava su spostamenti sospetti di capitali tra banche svizzere.
È con queste società familistico-statali che l'Eni ha a che fare per i giganteschi giacimenti petroliferi - come quello di Kashagan - custoditi dal Mar Caspio, il cui greggio, che può valere decine di miliardi di euro, dovrebbe essere nei prossimi anni portato in Europa attraverso l'oleodotto South Stream, per il quale Berlusconi si è speso con l'amico russo Putin (e quello turco Erdogan).
Repubblica 10.7.13
Il crimine dell’indifferenza
di Barbara Spinelli
PROVIAMO a immaginare una storia completamente diversa, dell’ultima settimana del Papa. Una storia segreta, non confessata, non ufficiale. A volte capita, che un racconto fantasticato si avvicini al vero.
Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio.
Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza.
È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in Moby Dick: di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia ». Perché dove c’è teologia non c’è teofania:dove c’è ideologia si parla di Dio, ma Dio non si manifesta.
Immaginiamo che sia una forma di esilio, questo rifiuto di scrivere encicliche ora. Un «esiliarsi rimanendo lì», spiega Carlo Ossola in un articolo del febbraio 2012 sulSole 24 ore:una peregrinatio in stabilitate,secondo i monaci antichi. Una «disoccupazione di spazi» per accogliere il prossimo senza che esso diventi ingombro, disse una volta Roland Barthes. È quello che fece Gesù, che non scriveva trattati ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie della città» (nelle «periferie esistenziali» evocate a marzo dal Papa), come il Cristo raccontato da Dostoevskij che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia.
Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell’adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un’altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s’incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano (lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013).
La Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici all’altro:ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d’indifferenza: «Tanti di noi,mi includo anch’io,siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (...) Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non è affare nostro!».
La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella Commedia di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d’Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l’immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno».
Arrivando a Lampedusa il Papa ha sorriso ai migranti, ma altrimenti il volto era assorto, il capo chino. Durante la messa non è andato tra la folla, per lo scambio dei saluti. Non sta col capo chino chi edifica dottrine, l’occhio fisso sul crocifisso: dunque più sulla morte di Gesù che sulla sua vita e le sue opere terrene. Tiene il capo chino chi espia, o è rattristato, o semplicemente pensa, e tace come Gesù con l’adultera.
A che pensa il Papa? Nell’omelia lo racconta. Fin da quando ha saputo dei tanti morti in mare, il pensiero della tragedia s’è conficcato «come una spina nel cuore che porta sofferenza». Allora ha sùbito risposto sì all’invito di visitare l’isola. L’enciclica gli era indifferente (immaginiamo, ancora): «Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Due volte ha detto il verbo – «Non si ripeta per favore» – come un mendicante che ha rabbia dentro e la trattiene.
Ha anche pensato alle poche parole che Dio rivolge all’umanità, nella Genesi. Una prima volta all’uomo che appena creato pecca: «Dove sei Adamo? ». Poi al primo fratricida: «Caino, dov’è tuo fratello?». Ne è nata una «catena di sbagli che è una catena di morte». Di qui la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia del cuore.«Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire-con». Ecco la globalizzazione dell’indifferenza: è tremenda perché «ci ha tolto la capacità di piangere». Perché si nutre di politiche che generano caos, e lo chiamano pace.
Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero. Dicono che un Papa così è impolitico, perché va nelle periferie esistenziali detestate dai Grandi Inquisitori, e fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica. L’irritazione è massima. Basti citare la reazione di Cicchitto, araldo di Berlusconi: «Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno così difficile quale l'immigrazione irregolare». Cose simili dice il ministro greco dell’Interno (Nikos Dendias, uomo di Samaras), blandendo i nazisti di Alba Dorata.
Il peccato d’indifferenza ha una lunga storia in Europa. Lo scrittore Herman Broch lo chiamò, narrando la Germania pre-hitleriana, crimine dell’indifferenza: più grave ancora del peccato di omissione, perché non perseguibile penalmente (nel primo caso c’è almeno il reato di omissione di soccorso). L’indifferente non è stato sveglio, quando si poteva. «Non è stato attento al mondo in cui viviamo», dice il Papa: «Non abbiamo curato e custodito quello che Dio ha creato per tutti». Chi difende il proprio benessere buttando a mare gli «uomini di troppo» usa il cristianesimo, mal dissimulando il razzismo e facendo quadrato attorno alla triade «Dio, famiglia, patria tribale». Ha perfino, come Cicchitto, l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche. Disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono ilmondo.
il Fatto 10.7.13
“Furgoni di lingotti d’oro in Vaticano”
Monsignor Nunzio Scarano, insieme a un amico ha visto i camion uscire dalla San Sede
di Marco Lillo
Andate tutti in vacanza in Kazakistan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei voti”, disse Silvio Berlusconi nel 2008, salutando Nursultan Nazarbayev in visita in Italia. Undici anni prima il padre-padrone del Kazakistan aveva ricevuto al Quirinale l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. È dal 1990 che l'ex burocrate comunista governa il paese, conservando il potere a colpi di modifiche costituzionali che lo hanno proclamato “leader della nazione”, titolo che gli garantisce l'immunità giudiziaria. UN SOGNO per un politico come Berlusconi per il quale il satrapo petrolifero incarna un modello ineguagliabile: “Ho visto i sondaggi fatti da una autorità indipendente che ti hanno assegnato il 92% di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può non basarsi sui fatti”, gli disse il Cavaliere nel 2011. Secondo le organizzazioni europee che hanno monitorato le ultime elezioni – nelle quali il presidente è stato rieletto con il 95% delle preferenze – il voto è risultato tutt'altro che regolare. Ma tutta questa stima personale è solo un aspetto dei legami dell'Italia con il leader kazako. Perché il regime di Nursultan siede su un letto di petrolio e gas: oltre il 3% per cento delle riserve mondiali stimate, primo produttore mondiale di uranio. Politica, società ed economia cadono tutte assieme sotto l'influenza del partito Nur Otan, dove torna il suffisso – nur, luce compone il nome di Nazarbayev, sultano o “signore della luce”. Il cerchio magico che domina l'ex repubblica sovietica – sterminate steppe dove Mosca codusse i test atomici, e con 16 milioni di abitanti - è composto dalla stretta cerchia familiare del satrapo 73enne. Dinara Nursultanovna Kulibayev, pur dano sfogo alle sue tendenze artistiche, controlla – attraverso il marito Timur Asqaruly Qulybaev, chiaccherato per la sua relazione con “Lady” Goga Ashkenazi, che per un periodo è apparsa in pubblico con Lapo Elkann – buona parte delle società pubbliche che gestiscono le risorse naturali del paese. Timur (ovvero Tamerlano), è nell’elenco dei mille uomini più ricchi del pianeta. E il suo nome finì anche in un’inchiesta che indagava su spostamenti sospetti di capitali tra banche svizzere. È con queste società familistico-statali che l'Eni ha a che fare per i giganteschi giacimenti petroliferi - come quello di Kashagan - custoditi dal Mar Caspio, il cui greggio, che può valere decine di miliardi di euro, dovrebbe essere nei prossimi anni portato in Europa attraverso l'oleodotto South Stream, per il quale Berlusconi si è speso con l'amico russo Putin (e quello turco Erdogan). Due furgoni pieni di lingotti d'oro. Monsignor Nunzio Scarano e uno dei suoi più cari amici, Massimiliano Marcianò, un imprenditore 45enne di Roma, hanno visto con i loro occhi la seguente scena: due camioncini si fermano davanti alla Città del Vaticano. Aprono gli sportelloni e in gran fretta mani nervose caricano, proprio lì sul piazzale, davanti al monsignore e al suo amico, alcune valigie piene di lingotti d'oro. Marcianò ha raccontato questa e altre scene che sembrano prese da un film, quando è stato ascoltato come testimone dalla Guardia di Finanza di Salerno guidata dal colonnello Antonio Mancazzo, nell'ambito dell'indagine dei pm campani per riciclaggio.
Il verbale di Marcianò del 4 luglio scorso è stato girato dal procuratore di Salerno Franco Roberti e dal pm Elena Guarino, ai colleghi di Roma Nello Rossi, Stefano Fava e Stefano Pesci nell'ambito del coordinamento investigativo. Il Tribunale di Roma ieri si è riservato di vagliare la richiesta di scarcerazione presentata dall'avvocato Francesco Caroleo Grimaldi nell'interesse di Scarano, sulla quale c'è il parere negativo della Procura. Marcianò ha raccontato ai pm di Salerno di avere assistito alla scena dei lingotti insieme a Nunzio Scarano e di avere chiesto al suo amico dove fosse destinato quel carico di valigie piene d'oro. Senza risposta dall'ex contabile dell'Apsa. Ieri il Fatto ha rivelato che Scarano nel suo ultimo interrogatorio di lunedì scorso ha puntato il dito sull'APpsa.
IL MONSIGNORE ha raccontato di essere stato messo da parte dopo avere denunciato al segretario di Stato Tarcisio Bertone alcune operazioni poco chiare effettuate da un collaboratore del direttore Apsa, Paolo Mennini. Inoltre ha fatto il nome di un peso massimo della finanza come il gruppo Nattino. Monsignor Scarano ha parlato di operazioni sospette effettuate dall'Apsa, l'altro grande ente finanziaro del Vaticano, accanto allo Ior: imprenditori che intestavano le loro ricchezze a società svizzere o monegasche e che poi facevano girare i soldi sui conti Apsa. Inoltre ha spiegato alcune operazioni lucrose di spostamento di masse enormi di capitale tramite banche italiane, con utili finanziari occultati alle autorità italiane sempre grazie all’istituto vaticano. Il monsignore inoltre aveva nel suo archivio alcuni dossier sulle operazioni dell’Apsa. Lo ha raccontato agli investigatori salernitani il suo amico Marcianò. Anche gli armatori D'amico, indagati a Roma per dichiarazione dei redditi infedele come svelato dal Fatto, sono stati interrogati dai pm romani sui loro rapporti finanziari con Scarano e il broker Carenzio. Paolo D'Amico, presidente dellla Confitarma, organizzazione padronale degli armatori, ha raccontato: “ho conosciuto Carenzio attraverso Scarano che lo ha indicato come persona affidabile. Io ho concesso un finanziamento di 5 milioni di euro a una società amministrata dalla moglie di Carenzio alle Canarie e ne ho riavuto indietro solo 1,5 milioni”. Mentre Cesare D'Amico, suo cugino e socio, ha dichiarato: “ho affidato a Carenzio nel 2008, 1 milione di euro per investimenti immobiliari e non ho recuperato nemmeno in parte la somma. Mai saputo di somme di denaro in Svizzera”. Nell'interrogatorio di garanzia del primo luglio scorso davanti a gip di Roma Barbara Callari, Scarano ha detto che il denaro depositato in Svizzera (in ipotesi dei D'Amico) sarebbe stato trasportato a Roma con l'aereo ma poi sarebbe finito a Beirut. Sempre secondo quanto dichiarato al giudice da Scarano, l'agente dei servizi segreti Giovanni Maria Zito avrebbe poi portato la somma (20 milioni di euro) a Beirut, perchè il Libano "è un paradiso fiscale".
La Stampa 10.7.13
“Soldi dall’estero allo Ior senza alcun controllo”
Monsignor Scarano, arrestato il 29 giugno: «È il modo più facile per quel tipo di operazioni»
di Francesco Grignetti
Aveva due conti presso lo Ior e uno in una normalissima banca italiana. Però monsignor Nunzio Scarano, arrestato nei giorni scorsi assieme a un agente dei servizi segreti e a un faccendiere italo-svizzero per una scivolosa storia di milioni di euro che dovevano rientrare clandestinamente in Italia, quando c’erano da fare operazioni spregiudicate utilizzava immancabilmente il conto dello Ior. Perché? «Effettivamente allo Ior sarebbe stato più facile».
Più facile. Sì, perché le procedure opache dello Ior, che non chiede e non dà spiegazioni, che emette bonifici senza indicare i mittenti né la causale, violando così ogni normativa antiriciclaggio, sono miele per i faccendieri.
Al tribunale del Riesame, ieri, si discuteva della detenzione di monsignor Scarano. È stato analizzato il suo interrogatorio davanti al gip Barbara Callari. Gli chiedono conto di quell’operazione anomala per cui esce dallo Ior con 560 mila euro in contanti in una valigia. «Non credo - lo incalza il gip - che una banca italiana le avrebbe mai dato... ». È per questo motivo che monsignor Scarano faceva confluire sul suo conto Ior le «offerte» degli armatori D’Amico e di tanti altri ricchi benefattori? I D’Amico gli davano migliaia di euro al mese. Secondo i conteggi della procura, il tesoretto di monsignor Scarano si aggira attorno al mezzo milione di euro. E ancora non si parla della grande operazione di rientro dei capitali - che forse sono 20 milioni di euro, forse sono 40, finiti alla fine in Libano attraverso l’agente segreto Giovanni Zito, operazione per cui il monsignore chiedeva una «commissione» di 2,5 milioni di euro.
In un modo o nell’altro, sono le procedure dello Ior che finiscono al centro dell’indagine. Il religioso nel corso dell’interrogatorio conferma che le offerte arrivavano sul suo conto presso lo Ior. «Io ho dato disposizione alla banca - afferma Scarano - che nel caso c’era bisogno di chiedere ulteriori informazioni, erano tutti bonifici con la causale per opere di carità».
Lo stesso monsignore, però, racconta di quando l’armatore Cesare D’Amico si recò agitatissimo presso la sua abitazione. «Era molto preoccupato. Io gli dissi di non mandare più bonifici, di togliere di mezzo ogni cosa anche perché tutta questa situazione è diventata incandescente e poco piacevole. Lui mi assicurò che io ne sarei uscito senza alcun problema».
E comunque monsignor Scarano ha chiaro il quadro di sostanziali illegalità e l’ha denunciato ai pm nel suo ultimo interrogatorio: non soltanto lo Ior si muove come una banca che non rispetta le norme antiriciclaggio, ma così farebbe anche l’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), dove lui ha lavorato fino a tre mesi fa, e dove c’è un direttore, Paolo Mennini, che odia di tutto cuore. L’ultimo interrogatorio di monsignor Scarano è tutto qui: non solo lo Ior, ma anche l’Apsa, che opera estero su estero, e non passa mai per l’Italia, schermerebbe i capitali alla stessa maniera.
l’Unità 10.7.13
F35
Mauro convoca la maggioranza, tensioni nel Pd
Governo e maggioranza di nuovo alle prese con lo spinoso tema degli F-35. E questa volta a scendere in campo, in prima persona, è il ministro alla Difesa, Mario Mauro, in pressing su Pdl, Pd e Scelta civica affinchè anche in Senato si approvi una mozione unitaria come avvenuto nei giorni scorsi alla Camera. La questione torna di attualità perchè da oggi in aula al Senato sono già calendarizzate le mozioni di Sel e Movimento 5 stelle che chiede la sospensione immediata della partecipazione dell’Italia al progetto dell’aereo F35 e ieri anche Felice Casson ha depositato un’analoga mozione firmata inizialmente da 22 senatori del Pd, fra cui Laura Puppato e Corradino Mineo. In tarda serata è iniziata la riunione del gruppo democratico durante la quale numerosi firmatari avrebbero ritirato la loro adesione su richiesta della presidenza del gruppo. L’orientamento sarebbe di confermare la versione licenziata da Montecitorio. Rispetto ad allora c’è però la novità del pronunciamento del Consiglio supremo di Difesa che ha ribadito che la titolarità delle scelte sugli F-35 è del governo. Per questo, il ministro alla Difesa ha deciso di occuparsene direttamente e oggi dovrebbe vedere i capigruppo in una riunione di maggioranza. Il voto in aula al Senato è atteso tra stasera o al massimo giovedì.
il Fatto 10.7.13
F-35, il Pd sceglie tra il rinvio unitario e l’asse con Sel-M5S
PASSAGGIO delicato sugli F-35 oggi al Senato. Il ministro della Difesa Mario Mauro è in pressing su Pdl, Pd e Scelta Civica affinché si approvi una mozione unitaria, come già avvenuto nei giorni scorsi alla Camera. Ma Sel e M5S hanno calendarizzato due mozioni pacifiste che chiedono di abbandonare in toto l’acquisto dei cacciabombardieri. Una mozione su cui potrebbe convergere una parte del Pd: il senatore Felice Casson ha depositato una sua mozione anti F-35, firmata da altri 22 colleghi (tra cui Laura Puppato e Corradino Mineo). Dopo una lunga riunione del gruppo, ieri si è deciso di rimandare a oggi ogni decisione. La linea della maggioranza nel Pd è di riapprovare al Senato la versione della mozione passata alla Camera portando in aula un nuovo testo unitario con Pdl e Scelta Civica: stop momentaneo del progetto F-35 per compiere più approfondite indagini sul rapporto costi-benefici. Resta da capire se l’area pacifista piddina guidata da Casson rientrerà nei ranghi o deciderà invece di allearsi con Sel e Movimento 5 Stelle.
il Fatto 10.7.13
Il testo in Cdm
Ddl governo, basta distinzioni per figli legittimi e naturali
Sono pronte le norme del governo di attuazione della legge delega approvata dal Parlamento nel 2012 sulla parificazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, garantendo la completa uguaglianza giuridica. Il decreto legislativo, proposto dal presidente del Consiglio e dai ministri dell’Interno, della Giustizia, del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia, dovrebbe essere esaminato nella prossima seduta del Consiglio dei ministri. Sarà così definitiva l’introduzione del principio dell’unicità dello stato di figlio, senza più alcuna distinzione tra figli legittimi e naturali. La filiazione fuori dal matrimonio avrà gli stessi effetti successori, ai fini dell’eredità, nei confronti di tutti i parenti e non solo dei genitori. Inoltre, è prevista la sostituzione della nozione di potestà genitoriale con quella di responsabilità genitoriale, oltre alla modifica delle disposizioni di diritto internazionale privato, con la previsione di norme di applicazione, in attuazione del principio di parità tra figli legittimi e naturali. Tra le nuove norme, anche quella prevista dall’articolo 53 che introduce e disciplina le modalità dell’ascolto dei minorì che abbiano compiuto dodici anni, “o anche di età inferiore, se capaci di discernimento, al-l’interno dei procedimenti che li riguardano”. Una norma che tiene conto di numerose sentenze della Cassazione, che hanno sottolineato come il mancato ascolto dei minori costituisca “violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo, salvo che ciò possa arrecare danno ai minori stessi”.
Repubblica 10.7.13
Sarà l’aula di Palazzo Madama a voto segreto a decidere sull’esecutività dell’interdizione dai pubblici uffici
Il Pdl: pronti a dare battaglia
Sulla decadenza del Cavaliere l’ultima parola al Senato
di Tommaso Ciriaco
ROMA — L’ultima spiaggia di Silvio Berlusconi ha la forma dell’Aula di Palazzo Madama. È lì che i senatori saranno chiamati a mettere il sigillo su un’eventuale interdizione dai pubblici uffici del Cavaliere. Ed è sempre lì, fra quei banchi, che il Pdl si prepara a dare battaglia. Puntando tutto sul voto segreto, previsto dal regolamento è a volte latore di gradite sorprese.
La direzione di marcia la indica la Costituzione, quando affida al ramo parlamentare di appartenenza l’ultima parola sulla decadenza degli onorevoli condannati in via definitiva. Recita infatti l’articolo 66: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità».
In passato nessuno è uscito indenne da un voto del genere. Nel 1967, ad esempio, il Parlamento sancì la decadenza del deputato monarchico Mario Ottieri, colpito da una condanna per bancarotta fraudolenta. Stessa sorte toccò nel 1977 a Mario Tanassi, inciampato nel caso Lockheed. Non si arrivò invece a votare su Cesare Previti e Totò Cuffaro, ma solo perché i due si dimisero prima dell’approdo in Aula.
Se Berlusconi dovesse cadere sotto i colpi della Cassazione nel processo Mediaset, sarà costretto a sottoporsi prima al giudizio della giunta delle elezioni e dell’immunità, poi a quello dell’Aula di Palazzo Madama. In giunta il voto è palese. E in quella sede Pd, Sel e Cinquestelle godono di una solida maggioranza. Prima di esprimersi, i membri della giunta dovranno ascoltare un relatore della Regione Molise, che è collegio d’elezione del Cavaliere. Poi la palla passerà all’Aula.
Il passaggio più delicato è proprio quest’ultimo, perché i senatori dovranno fare i conti con le mille incognite dello scrutinio segreto. Sulla carta i numeri sono sfavorevoli al leader del Pdl. La somma di democratici, Sel e M5S, infatti, è 165. Ben oltre la soglia di maggioranza fissata a 159. Ma nell’urna c’è sempre la possibilità che si coagulino gli interessi di chi punta tutto sulla stabilità e di chi teme che l’interdizione metta fine alla tormentata vita della diciassettesima legislatura.
A sentire il democratico Felice Casson, comunque, uno scenario del genere nonè neanche da prendere in considerazione: «La fantasia degli avvocati la conosciamo. Ma è fuori dalla realtà — spiega il senatore — pensare di andare contro una sentenza definitiva. Sarebbe devastante e aprirebbe un gravissimo conflitto istituzionale ». Anche i grillini, d’altra parte, sono pronti a votare contro l’ex premier. «È una scelta scontata — giura Vito Crimi — perché la legge Severino sull’anticorruzione parla chiaro, prevedendo l’interdizione per i condannati a pene superiori a due anni».
Eppure, il Pdl si prepara a scendere in trincea. A via dell’Umiltà tutto è pronto per denunciare l’esclusione dalla vita parlamentare del leader del centrodestra. Un argomento che secondo Casson non è però destinato a far breccia: «Il Senato non è chiamato a fare una valutazione sul merito, ma deve solo prendere atto del titolo esecutivo. Cioè, in questo caso, di un’eventuale sentenza».
Repubblica 10.7.13
Epifani: “Chiudiamo subito sulle regole” E nel partito cresce il fronte pro-Renzi
Fassino, Bettini e molti amministratori in campo per il sindaco
di Giovanna Casadio
ROMA — Un occhio al governo, nel giorno delle tensioni nel Pdl per l’udienza Mediaset; e l’altro al congresso del partito. Epifani ripete che il Pd sostiene Letta. «Però dobbiamo essere pronti a qualsiasi evenienza...», ammette. E scherzando con Pippo Civati chiede: «Ma tu, hai sempre buoni rapporti con i grillini?». I Democratici, avverte il segretario, non possono restare ripiegati nel dibattito interno, e quindi invita con un post su Facebook a «chiudere velocemente la definizione delle regole congressuali, la priorità per il nostro congresso è costruire le risposte di cui il paese ha bisogno per rigenerare fiducia e senso del futuro». «Era ora!», è il commento dei renziani.
Matteo Renzi infatti sta scaldando i motori ed è pronto a scendere nella corsa per la segreteria, anche se si riserva ancora di decidere. Lo ha detto ieri in un’intervista aRepubblica. Vorrebbe il congresso entro il 7 di novembre, a norma di Statuto, e immagina un partito rinnovato, non più preda di correnti e capibastone. Riceve molte aperture di credito. Dallo stesso premier Letta, innanzitutto. «Penso che Renzi sia un’ottima carta per il Pd del presente e del futuro. E penso che il futuro lo affronteremo insieme», assicura il presidente del Consiglio, ex vice segretario democratico che però nel merito del congresso non vuole entrare. «Non parteciperò al dibattito, non lo credo giusto e Epifani sta lavorando benissimo». Né si pronuncia su chi sarà il prossimo candidato premier: «Non sta a me dirlo. Non sono ancora chiare le scelte essenziali sulle regole, le stanno ancora decidendo e le regole interne ai partiti sono indispensabili per la democrazia, abbiamo visto cosa è successo con il M5S...». Regole sempre al centro dello scontro. Renzi è per lasciare le cose così come sono, soprattutto per non toccare il legame tra leadership (del partito) e premiership, mentre Epifani, D’Alema, Franceschini e Bersani tutti vogliono la distinzione: il segretario non è detto debba essere anche il candidato a Palazzo Chigi.«Chi si deve dare una mossa, lo dico senza polemica, è proprio chi le attuali regole vuole cambiare bacchetta il renziano Paolo Gentiloni - E comunque se le primarie per il segretario le facciamo sotto Natale, cominciamo male».
Ma il fronte pro Renzi cresce, soprattutto tra gli amministratori locali democratici. Inoltre, Goffredo Bettini presenta un documento per il congresso che al sindaco fiorentino piace molto. Lancia, Bettini, il partito-agorà e raccomanda l’unità contro le oligarchie, insieme con un’analisiimpietosa degli errori fatti dal Pd bersaniano. Feeling ricambiato. «Se Renzi sarà segretario cambierà la politica italiana», afferma Bettini pur ritenendo prematuro schierarsi. Più netto è il sindaco di Torino e neo presidente dell’Anci, Piero Fassino: «Penso che non ci sia contraddizione tra un premier forte e un segretario altrettanto forte e espressione di una generazione nuova». Fassino spinge Renzi, e potrebbe essere la testa d’ariete pro-“rottamatore” della corrente di Franceschini, Areadem, di cui fa parte. Antonello Giacomelli, anche lui Areadem, giudica positivamente l’ultima uscita del sindaco di Firenze: «È più impegnato a delineare il profilo di segretario». Per Virginio Merola, sindaco di Bologna «Renzi è la persona giusta» per il Pd. Mentre Nico Stumpo, bersaniano, sta lavorando a un fronte anti renziano che, ne è convinto, avrà la maggioranza al congresso. In vista del “comitatone” per le regole, domani, nelle file democratiche è scontro al Senato sugli F35. Una fronda “pacifista” capitanata da Casson ha preparato una mozione, anche se la resa dei conti è stata rinviata a stamani, nell’assemblea del gruppo.
La Stampa TuttoScienze 10.7.13
A passeggio a 28 mila all’ora La prima volta di un italiano
L’uscita nello spazio di Parmitano. E martedì è in programma il bis
di Antonio Locampo
L’impresa Luca Parmitano ha effettuato una serie di riparazioni e di controlli all’esterno della Stazione spaziale Per una lunga fase si è agganciato al braccio robotizzato (a sinistra il momento del contatto)
«Esco a fare due passi». Un bigliettino laconico, lasciato su un frigorifero a bordo della Stazione spaziale internazionale e firmato da Luca Parmitano. Per la prima volta nella storia dell’astronautica una bandierina italiana è uscita nel vuoto spaziale, cucita su uno scafandro.
L’astronauta dell’Esa, catanese, 37 anni, ha realizzato ieri quella che i tecnici chiamano «attività extraveicolare», una «passeggiata spaziale». Tutto è cominciato alle 14.15 ora italiana: Parmitano e il compagno americano Chris Cassidy sono entrati nella camera di depressurizzazione, sotto l’occhio delle microtelecamere che si trovano sui caschi. Poi sono usciti nell’oscurità, perché in quel momento la Stazione stava attraversando la fase d’ orbita non illuminata dal Sole.
Tutto regolare, comunque. Si va a 28 mila km orari (anche se non sembra) e fuori la temperatura è di -100°. Inizia la «passeggiata», che è tutto fuorché semplice. A cominciare dalla fase di preparazione: dalle maschere per respirare ossigeno puro in modo da eliminare l’azoto nel sangue, fino alle operazioni per indossare lo scafandro, lo zaino di sopravvivenza e il «salvagente», un sistema dotato di mini-propulsori che permettono di tornare indietro, se ci si allontanasse troppo dalla Stazione. In tutto un fardello di oltre 100 chili, che nello spazio, ovviamente, si sentono meno. Ma l’ingombro è davvero notevole. «Sì, è una grande sfida. Ma con Chris ci siamo preparati per ore e ore e quindi siamo perfettamente in grado di avere confidenza con lo scafandro», ci aveva detto Luca prima del lancio della sua missione congiunta Nasa-Asi battezzata «Volare».
Prima esce Cassidy e poi lo raggiunge Parmitano, che si riconosce perché la sua tuta è completamente bianca, mentre quella dell’americano ha le fasce rosse sulle gambe. E il lavoro inizia subito: l’astronauta italiano si trasforma in «meccanico spaziale». In quasi sei ore di attività vengono recuperati apparati scientifici che si trovavano all’esterno della Stazione, compresa una telecamera da inviare poi a terra, e poi vengono installati una serie di apparati per il modulo russo «Nauka», che entro fine anno andrà a sostituire l’attuale modulo «Pirs». E non sono mancati alcuni controlli di routine.
Parmitano ha effettuato buona parte dell’attività esterna con i piedi agganciati al braccio robotizzato, poi ha effettuato alcuni scatti fotografici per verificare le condizioni di «Ams», il grande rilevatore di antimateria realizzato con il contributo di un team di ricercatori italiani. Il tutto, mentre gli altri quattro membri dell’equipaggio - tre russi e un americano - effettuavano filmati dalla «Space Cupola», la torretta panoramica.
La «passeggiata» si è conclusa alle 19.58. Oggi, per Parmitano, sarà una giornata di pausa, ma non c’è tempo per metabolizzare le emozioni. La seconda uscita è già in programma. Appuntamento per martedì prossimo.
l’Unità 10.7.13
Nel caos egiziano El Baradei è il nuovo vicepresidente
Nel «giorno dei martiri» i militari forzano i tempi: l’economista El Beblawi scelto come premier
di Umberto De Giovannangeli
La guerra delle piazze e i giochi di palazzo. Presidenti deposti a forza e premier (e vice presidenti) nominati dopo snervanti trattative. È il caos egiziano, tra l’incubo della guerra civile e la speranza, per quanto tenue, di un futuro da Paese normale. Il presidente ad interim, Adly Mansour, nominato dai militari, ha fissato una serie di tappe per arrivare al voto entro sei mesi: il premio Nobel per la pace, Mohamed El Baradei è stato designato vice presidente con delega alle relazioni internazionali, mentre l’ex vicepremier egiziano e ministro delle Finanze, Hazem El Beblawi è stato incaricato di formare il governo. Lo riferisce il sito del quotidiano ufficiale al-Ahram, spiegando che sono già cominciate le consultazione per la scelta della squadra che dovrà traghettare l’Egitto verso nuove elezioni democratiche entro la fine dell’anno. El Beblawi, economista di orientamento politico liberale, faceva parte dell’esecutivo di transizione del dopo-Mubarak guidato da Essam Sharaf.
Ma la tensione rimane altissima in tutto l’Egitto. I Fratelli musulmani hanno invitato tutti i loro militanti a scendere in piazza, nella «giornata dei martiri», in risposta al massacro dell’altro ieri al Cairo, dove almeno 54 persone (77 per la fratellanza) sono state uccise negli scontri tra i militari e i sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi. In serata, migliaia di sostenitori della Fratellanza musulmana continuavano ad affluire al Cairo, in piazza Rabaa al Adawiya, per invocare la liberazione del deposto presidente e il ripristino della sua legittimità costituzionale. Analogamente, altre migliaia di sostenitori del movimento islamico sono scese in strada ad al Miniya, nell’Alto Egitto, con lo slogan: «Rivoluzionari! Liberi! Proseguiamo il cammino!».
Seicentocinquanta persone, in gran parte sostenitori del presidente deposto , sono state fermate per il sospetto che l’altro ieri abbiano tentato di assaltare la sede della Guardia repubblicana al Cairo, dove ci sono stati scontri in cui sono morte 54 persone. I Fratelli musulmani negano che sia stato tentato alcun attacco all’edificio, affermando invece che i soldati hanno o aperto il fuoco sul loro sit-in al termine delle preghiere del mattino. L’ufficiale della sicurezza che ha fatto sapere degli arresti ha aggiunto che tra i fermati ci sono siriani e palestinesi.
ROAD MAP
L’esercito non accetterà «manovre» politiche. L’avvertimento è del ministro della Difesa e capo delle Forze armate, generale Abdel-Fattah el-Sissi. In una dichiarazione diffusa dalla televisione di Stato, el-Sissi afferma: «Il futuro della nazione è troppo importante e sacro per manovre o ostacoli, qualsiasi siano le giustificazioni». Intanto, il partito salafita Nour, seconda formazione religiosa del Paese dopo la Fratellanza musulmana, ha reso noto che accetta la scelta dell’ex ministro delle Finanze, Samir Radwan, come primo ministro ad interim. Il portavoce di Nour, Nader Bakkar, ha aggiunto che si sta invece ancora valutando la nomina di El Baradei.
L’Egitto terrà nuove elezioni parlamentari dopo che saranno stati approvati per via referendaria emendamenti alla Costituzione sospesa con la deposizione di Morsi. Il presidente ad interim, Adli Mansur, ha delineato un orizzonte di sei mesi per arrivare al voto. Il suo decreto indica in quattro mesi e mezzo il tempo necessario per riformare la Costituzione ispirata alla Sharia fatta approvare a dicembre dalla maggioranza islamista e sospesa dopo il colpo di Stato realizzato dai militari. Le elezioni politiche dovranno essere convocate entro 15 giorni dall’approvazione della nuova Costituzione in un referendum e, una volta insediato il nuovo Parlamento, nel giro di una settimana dovranno essere convocate anche le elezioni per un nuovo presidente.
VITA O MORTE
I Fratelli musulmani hanno già bocciato il percorso delineato da Mansour: per Essam al-Eriam, vice presidente del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico del movimento islamista, si tratta di un «decreto costituzionale formulato da un uomo nominato dai golpisti» che «riporta il Paese alla casella di partenza». Ancora più duro il consigliere legale del partito islamista, Ahmad Abu-Barakah, che ha parlato di documento «privo di efficacia e illegittimo». Per la Fratellanza è diventata una questione di vita e di morte: si sono convinti che i militari e il Movimento 30 giugno, la grande coalizione delle opposizioni diventate forza di governo, non li vogliono. Non sono nella loro «road map», esclusi dalla fotografia del nuovo Egitto.
Intanto l’Onu ha chiesto di fare chiarezza sugli scontri che lunedì mattina hanno portato all’uccisione di 54 sostenitori di Morsi. Tanto il segretario generale, Ban Ki-moon, che la responsabile dell’Alto commissariato per i Diritti Umani, Navi Pillay, hanno invocato una inchiesta indipendente sugli incidenti al Cairo. Per ora i militari si sono limitati ad avviare l’interrogatorio dei 650 fermati per le violenze della capitale. Nella notte i carri armati continuano a presidiare gli edifici pubblici e le piazze del Cairo. La normalità è lontana.
La Stampa 10.7.13
Siria: sciopero della fame di attiviste incarcerate e torturate
qui
La Stampa TuttoScienze 10.7.13
L’agonia dell’Accademia russa
E intanto i burocrati strangolano gli scienziati
di Anna Zafesova
Il partito comunista - che vanta tra le sue file il Nobel per la fisica Zhores Alfiorov - ha addirittura chiesto la sfiducia al governo di Dmitry Medvedev, una misura cui non aveva mai fatto ricorso. A far scendere in piazza matematici e fisici è stata la proposta di una drastica ristrutturazione dell’istituzione più prestigiosa del Paese, che secondo il suo presidente Vladimir Fortov l’avrebbe trasformata in un «club di discussioni» senza impegni e diritti, mentre l’impero accademico sarebbe stato di fatto sequestrato dai burocrati. Una neonata agenzia governativa dovrebbe infatti assumere la gestione del patrimonio - immenso - dell’Accademia, declassata a «organizzazione sociale-statale», con una moratoria sull’elezione di nuovi membri, mentre per i vecchi verrebbe introdotta una procedura di espulsione relativamente semplice.
Gli accademici - 501 membri effettivi e 749 supplenti - hanno proclamato la rivolta. Una settantina di grandi nomi - dal matematico Yuri Manin al fisico Roald Sagdeev - si sono rifiutati di entrare nella «nuova» Accademia, in quanto non più indipendente. Per Alfiorov si tratta solo di un’operazione di «espropriazione», confermata anche dalle modalità della riforma: proposta a sorpresa e votata in pochi giorni, saltando ogni norma. La vicepremier Olga Gorodez, in un infuocato dibattito alla Duma, non l’ha negato: «L’Accademia ha 260 mila ettari di terreno, sui quali costruisce palazzi con appartamenti da un milione di dollari, è il colmo del cinismo».
A sostenere l’idea che gli accademici siano dei boiari impegnati solo ad amministrare i beni concessi dallo Stato ci sono anche gli scienziati più giovani: il genetico Konstantin Severinov sostiene che da anni l’Accademia «si occupa solo di manutenzione e pagamento di stipendi base», mentre le ricerche «vengono finanziate altrove», e il fisico Anatoly Geim - che dopo aver ricevuto il Nobel si è visto invitare dai russi a tornare dal suo esilio britannico-olandese e ha rifiutato - ritiene che «gli accademici non cambieranno mai nulla, ci vuole un chirurgo, e probabilmente deve venire dal governo». Del resto, già Lomonosov nel ’700 lamentava le ingerenze dei burocrati «semiignoranti» nella «comunità dei dottissimi» allo scopo di farne una «fabbrica» che compiacesse i potenti con gemme, oroscopi e fuochi d’artificio.
Fondata da Pietro il Grande nel 1724, l’Accademia per tutta la sua storia ha oscillato tra il ruolo di baluardo dell’indipendenza e pilastro dell’impero. Di fatto un «ministero della scienza», si è permessa sfide che nessun altro osava: all’epoca sovietica dava asilo a intellettuali e artisti sgraditi al regime, e gli «immortali» si rifiutarono di espellere dai loro ranghi Andrey Sakharov, che venne mandato al confino, conservando il titolo prestigiosissimo e remuneratissimo di accademico.
Luminari di fama mondiale ai quali il potere non sapeva dire di no creavano nei loro istituti attual mente circa 500, in sedi gigantesche e lussuose, senza contare poligoni, laboratori, archivi, ospe dali, scuole, alberghi, residenze e dacie «corpora tive» oasi di semilibertà che hanno poi prodotto l’intellighenzia che ha lanciato la perestroika.
Una gloria oggi dimenticata: l’età media dei mem bri è di 74 anni e, nonostante i finanziamenti stata li siano stati raddoppiati negli ultimi anni, la pre senza degli scienziati russi sulla scena mondiale si è ridotta drasticamente. Per numero di pubblica zioni, infatti, la Russia è al 120° per numero di cita zioni al 16° (e la maggior parte sono menzioni in crociate tra autori), mentre i 100 mila dipendenti dell’Accademia (di cui la metà amministrativi) producono la metà delle pubblicazioni dei cinesi e un decimo dei francesi.
La chiusura al mondo durante il comunismo e la scarsità dei finanziamenti negli Anni 90 hanno tra sformato l’Accademia in una burocrazia ineffi ciente quanto intoccabile. Ma potente: il clamore attorno alla riforma ha costretto Vladimir Putin a intervenire personalmente e a mediare, perché in seconda lettura la legge smorzasse o rimandasse le ristrutturazioni proposte. Ora la battaglia è rin viata a settembre, per il voto finale.
Corriere 10.7.13
Srebrenica, una strage impunita, questa notte si ricorderà l’orrore
di Alberto Melloni
Il dono delle lacrime: così la tradizione cristiana indica una grazia che coincide con la vetta dell'umanizzarsi. Papa Francesco a Lampedusa ha evocato questa tradizione, senza citazioni, come suo solito. Ha chiesto, il Papa, chi ha pianto per i desaparecidos d'Europa: venuti da ogni dove e svaniti su quel confine azzurro. Ma il suo appello impone di liberare dalla coltre di oblio altri morti dimenticati e altri pianti di madri inconsolabili.
Fa parte di questo orizzonte la massa umana — 8.472 dicono i dati ufficiali — di uomini, vecchi, ragazzi di Srebrenica, massacrati l'11 luglio 1995 da milizie di serbi in una guerra che dovrebbe ricordarci che il più feroce animale della fauna europea, l'homo sapiens, non è domato e non ci è estraneo. Le madri di Srebrenica cercano da anni i loro morti, i resti dei loro morti, nelle fosse comuni, nei boschi. Un lavoro paziente sul Dna è riuscito a restituire ai propri cari oltre seimila identificazioni: ma altre madri continuano a scavare e tormentarsi, nella convinzione che un femore, una mandibola, un cranio darà pace ai loro cuori.
Quei morti ritrovati o sconosciuti non avranno giustizia nei tribunali pur necessari; non s'offenderanno per le medaglie date ai caschi blu inerti nella carneficina e decorati per aver resistito alla vergogna; non hanno tenuto conto di quell'Europa che credeva che il dopo-Tito fosse un mercato e non lo specchio del nostro divenire.
Attendono solo di essere visti con uno sguardo e una conoscenza «umana» che in quella estate mancò. Quella conoscenza si compirà stanotte in Italia per chi farà un po' tardi: attraverso lo sguardo di In utero-Srebrenica: un pluripremiato documentario di Giuseppe Carrieri che la Rai manda in onda poco dopo mezzanotte. Pasoliniano nella sua potente lentezza, questa raccolta di fonti orali fissa per sempre un dolore senza mediazioni, senza vanità, senza sconti. Un racconto che porta in sé il dono delle lacrime di un tempo che ha bisogno che venga la fine del mondo o almeno la fine di un mondo per ritrovare il valore di un gesto inutile come la compassione per l'irreparabile, la responsabilità davanti all'irreparabile.
Corriere 10.7.13
Massacro degli Armeni. Il ruolo di Kemal Atturk
risponde Sergio Romano
Una mia zia, Liza Mourokian, moglie di un fratello di mia madre, ebbe il padre (un giudice) ucciso dagli Ottomani. Qualcuno, in famiglia, sostiene che fu Atatürk e i suoi. Sono stato molto vicino alla zia (mio padre li aveva fatti andare in Cile e poi gli ultimi anni ad Alassio) e non mi ha mai raccontato che fossero stati gli uomini di Atatürk. Ho fatto un po' di ricerca via Internet, ma non ne sono venuto a capo. È plausibile? Vorrei scrivere la biografia di mia zia se avessi la documentazione necessaria. Nata ad Aleppo, vissuta poi a Salonicco, Nizza, Milano, Bucarest, campo rifugiati in Israele (lei non ebrea), campo rifugiati nel napoletano, Santiago del Cile, Liverpool (dove abitava il fratello) e finalmente Alassio! La donna più allegra che io abbia mai conosciuto.
Piero Ottolenghi
Caro Ottolenghi,
Non sembra che Mustafà Kemal, come si chiamava sino alla fondazione della Repubblica turca, sia stato personalmente coinvolto nel massacro degli armeni. Nel 1915, mentre due esponenti del partito Unione e Progresso — Mehmet Talat e Ismail Enver — decidevano la pulizia etnica dei territori armeni e provocavano un esodo durante il quale la maggioranza degli espulsi fu massacrata o morì di stenti, Kemal comandava un reggimento a Gallipoli e si distinse per la prontezza con cui seppe sventare i piani strategici del corpo di spedizione del Commonwealth britannico. Più tardi, dopo la conclusione dell'armistizio, mentre gli Alleati sembravano decisi a processare i responsabili come criminali di guerra, Kemal, ormai generale dell'esercito e già noto come una delle personalità emergenti della società politica ottomana, sembrò persino disposto a collaborare con i vincitori.
Come altri esponenti dell'Impero, pensava che il processo dei responsabili avrebbe giovato alla delegazione turca durante i negoziati per il Trattato di pace ed evitato le clausole più punitive. In un giornale che pubblicava insieme a Ali Fethi Okyar (ministro degli Interni nel primo dopoguerra e più tardi presidente del Consiglio), apparve alla fine del 1918 un articolo che denunciava «il tentativo di sterminare gli Armeni» come «gravido di conseguenze». In un libro pubblicato dalle edizioni Guerini nel 2006 (Storia del genocidio armeno), l'autore, Vahakn N. Dadrian, osserva che in Turchia, allora, «i processi contro i responsabili del genocidio armeno non mancavano di sostegno politico e mediatico».
La posizione di Kemal cambiò quando il Trattato di pace, firmato a Sèvres il 10 agosto 1920, menzionò espressamente le responsabilità turche e mise l'Impero sul banco degli imputati. In una fase in cui stava divenendo il leader della riscossa nazionalista, Kemal adottò una linea strettamente «patriottica» e sostenne, dopo qualche esitazione, la spedizione militare contro «l'Armenia libera e indipendente», che era stata costituita alle frontiere con la Russia nel maggio 1918.
I processi, in realtà, non ebbero mai luogo. La Gran Bretagna riunì a Malta qualche decina di presunti responsabili, ma la raccolta delle prove per un'azione giudiziaria apparve presto impossibile. I due registi del massacro, nel frattempo, erano fuggiti. Il primo, Mehmet Talat Pascia, Gran Vizir dal 1918, fu ucciso da un armeno a Berlino nel marzo 1921. Il secondo, Ismail Enver Pascià, ministro della Guerra durante il conflitto, morì in Tagikistan nell'agosto 1922 combattendo contro i sovietici. Sognava la nascita nel Caucaso e in Asia Centrale di un grande Stato composto dalle popolazioni musulmane di origine turca. Anche Enver, come Kemal aveva combattuto contro gli italiani in Cirenaica fra il 1911 e il 1912.
l’Unità 10.7.13
Infiniti universi paralleli
È la tesi del fisico americano Brian Greene
Secondo lo scienziato esistono dimensioni nelle quali si aggirano le nostre copie imperfette, «e lo dice la matematica»
di Cristiana Pulcinelli
CI ERAVAMO APPENA RIPRESI DALL’ESSERE STATI CACCIATI DAL CENTRO DELL’UNIVERSO per diventare gli abitanti di un pianeta periferico di una delle moltissime galassie che lo popolano, quand’ecco un altro colpo al nostro orgoglio. Ad essere messo ai margini questa volta è l’universo stesso che potrebbe essere solo uno fra tanti. La realtà potrebbe consistere di moltissimi, forse infiniti, universi paralleli e separati tra loro di cui nulla sappiamo, ma nei quali condurrebbero la loro esistenza copie di noi stessi, diverse tra loro magari solo per qualche dettaglio.
Non è la mente di un romanziere visionario a partorire questa idea, ma il rigoroso pensiero di un fisico americano: Brian Greene. Greene insegna alla Columbia University di New York ed è l’autore di un best seller uscito una decina d’anni fa: L’universo elegante. Nel 2011 ha scritto un altro libro, uscito in Italia con il titolo La realtà nascosta, (Einaudi 2012, pag 431 euro 26,00), grazie al quale in questi giorni ha vinto il premio letterario Merck. Greene vi descrive ben 9 versioni di universi paralleli, o multiversi come li chiama lui. A seconda della teoria della fisica che prendiamo in esame, dice Greene, si genera un certo tipo di multiverso: c’è quello patchwork, quello inflazionario, quello a brane, quello ciclico, quello quantistico e via discorrendo. Ognuno di essi viene reso con una metafora appropriata e sapiente: gli universi potrebbero essere come le pezze della coperta patchwork che si ripetono identiche ogni tanto, oppure come i buchi nel groviera separati dal formaggio, o come le bolle in una infinita vasca da bagno piena di bagnoschiuma che si infilano una dentro l’altra. «Molti differenti approcci della fisica prima o poi si imbattono nell’idea del multiverso, quindi, benché sia un’idea controversa, deve essere valutata seriamente», ci spiega lo scienziato americano durante una chiacchierata in una soleggiata mattina di luglio davanti a una tazza di tè caldo corretto al latte di soia.
Mentre parliamo, sembra di essere catapultati in un libro dello scrittore giapponese più à la page del momento, Haruki Murakami, in cui giovani assassini, scendendo una scala, entrano in un universo parallelo e simile all’originale. Ma Greene ci rassicura: «È virtualmente impossibile per una persona muoversi volontariamente da un universo all’altro». In ogni caso, l’idea che ci siano altre dimensioni nelle quali si aggirano le nostre copie imperfette è un po’ inquietante e non solo per noi profani: «Alcuni dei primi ricercatori che hanno elaborato questa idea l’hanno definita deprimente e sconvolgente. Secondo loro ci depredava della nostra individualità. Io non la penso così. Al contrario, sono pieno di stupore e meraviglia per la visione più ampia della realtà che emerge dall’indagine matematica». Già perché di tutto questo è colpevole la matematica: è per soddisfare alcune equazioni che siamo incappati nell’idea di multiverso. Ma la matematica non è una creazione della nostra mente? «Questo è un vero enigma. Abbiamo inventato noi la matematica per decifrare il disegno che è dietro a ciò che percepiamo con i nostri sensi? Oppure la matematica è cucita nella stoffa della realtà? Ci sono diversi punti di vista al riguardo. Un giorno potrebbero arrivare sulla Terra degli alieni e dirci: ma guardatevi, siete ancora intrappolati nel mondo della matematica! Tuttavia al momento faccio fatica a pensare a qualcosa di diverso per decifrare il mondo». Ammettiamo che l’ipotesi dei multiversi sia vera, il ruolo del caso nel nostro universo aumenterebbe: non c’è nessun motivo per cui l’universo che conosciamo è fatto così com’è, tant’è vero che ce ne sono molti altri. «Sì è così. Però ci dovremmo essere abituati. La vita stessa è un fenomeno transitorio e raro, anche se fosse vero il multiverso. Dovremmo essere ben contenti della finestrella di opportunità che ci è stata data, anche perché in termini cosmici si chiuderà presto». In che senso? «I dati ci dicono che nel futuro le condizioni non saranno tali da sostenere la vita».
Ci rimane solo da sperare che Leibniz avesse ragione quando diceva che il nostro è il migliore dei mondi possibili. Ma Greene non condivide del tutto questa opinione: «Se penso alla mia famiglia, sono d’accordo con lui: non posso immaginare niente di migliore. Ma se considero l’universo in cui vivo come parte di un multiverso, non vedo perché debba essere speciale”. Mi viene un sospetto: in un altro universo potrebbero esserci una copia di me e una di Greene che stanno parlando in questo momento? «Anche se non possiamo dire “in questo momento” perché la nozione del tempo non è applicabile a tutti gli universi nello stesso modo, tuttavia potrebbe avvenire. Naturalmente, se è compatibile con le leggi della fisica. Forse in quell’universo però lei sarebbe il fisico e io il giornalista». Forse anche il tè sarebbe freddo invece che caldo.
il Fatto 10.7.13
Storia contro
Gela, luglio ’43: processo allo sbarco degli americani
La Procura militare di Napoli ha aperto un’inchiesta per strage, settant’anni dopo
di Eduardo Di Blasi
SENZA MEMORIA
Giuseppe Mangano, podestà di Acate, con la moglie Melina e il figlio Salvatore Valerio. In basso, il carabiniere Michele Ambrosiano, fucilato a Passo di Piazza il 10 luglio 1943 (La prima proviene dall’Archivio di Salvatore Alberto Mangano, entrambe sono in Gela 1943)
FOTOGRAFO DI GUERRA Gli americani si preparano allo sbarco in Sicilia. La foto è di Phil Stern che partecipò da reporter all’operazione Husky (9 luglio ’43). In alto, i Ranger entrano a Comiso. Sono solo due degli scatti che fanno parte della mostra “Phil Stern. Sicily 1943”, da oggi in prima mondiale ad Acireale (Catania) sino all’8 settembre
Oggi, settant’anni fa. È un sabato. Festa di Santa Felicita. Sulle spiagge di Gela, comune siciliano di 32 mila anime, annunciati dai bombardamenti degli ultimi giorni e dagli avieri paracadutati nelle campagne della Sicilia sud-orientale, gli Alleati sbarcano per la prima volta in Europa dall’Africa liberata. Da qui iniziano la marcia che, nel volgere di un paio d’anni, affrancherà l’Europa dal nazifascismo. È l’operazione Husky: 490 mila uomini, 2.510 aerei, 2.590 navi, 1.800 cannoni, 600 carri armati, 14 mila veicoli.
PER I SETTE DECENNI trascorsi, la storia dello sbarco e della successiva conquista della Sicilia non ha appassionato più di tanto la storiografia contemporanea. L’avanzata angloamericana nell’isola è così divenuta nell’immaginario comune una serena risalita verso nord, fatta di scontri militari di scarsa importanza e poche crepe nella reputazione dei liberatori.
La cura della memoria, negli ultimi anni, ha però prodotto alcuni libri che vestono di una nuova luce quell’estate del ‘43 sulle coste siciliane e nel suo immediato entroterra. La riscoperta delle testimonianze orali rimaste, incrociata con la documentazione ancora conservata nell’archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e in altri consimili, ha prodotto tre libri editi da Mursia: Uccidi gli italiani (opera del senatore del Pdl Andrea Augello), Gela 1943 (di Fabrizio Carloni, giornalista e storico) e Obiettivo Biscari (di Domenico Anfora, maresciallo dell’Aeronautica e Stefano Pepi, carabiniere, entrambi appassionati della storia dell’isola e del Secondo conflitto mondiale). Sulla scorta delle fonti testimoniali contenute nei tre volumi, a settant’anni di distanza, la Procura militare di Napoli ha aperto un fascicolo di inchiesta.
ANCHE SE si è superato di molto il mezzo secolo dai fatti, i crimini di guerra non cadono infatti in prescrizione e l’unico rischio, in questo caso, è solo quello di non trovare più nessuno in vita per istruire il processo.
Non è operazione semplice riuscire a rintracciare gli indiziati per l’uccisione del podestà di Acate che fu fermato assieme alla famiglia (moglie, figlia, fratello medico e donna di servizio) sulla strada di Vittoria in fuga dalle bombe che il giorno 9 colpirono gli edifici del paese. Giuseppe Mangano si fece riconoscere appellandosi alla Convenzione di Ginevra. Allontanato dalla famiglia assieme al fratello fu fucilato in piazza attorno alle diciannove. Il figlio diciassettenne, risparmiato, si avventò con una pietra verso i fucilatori e ne ricavò un colpo di baionetta che lo stese assieme ai suoi congiunti.
A Gela, in località Passo di Piazza, Carloni ci racconta dello sterminio di otto carabinieri che avevano creato un posto fisso alle dipendenze di un vicebrigadiere. Circondati dalle forze dell’Alleanza i militari si arresero. È scritto in Gela 1943: “Furono disarmati e fatti distendere a terra per essere perquisiti e derubati di tutto quello che avevano dagli orologi alle penne stilografiche, ai borsellini agli anelli; poi furono fatti appoggiare a un muro con le mani sulla testa e fucilati senza preavviso, alle spalle”.
Il motto del generale George Patton “Kill, kill and kill some more”, fu usato come un ordine dal capitano John Compton che fucilò 35 persone a Santo Pietro. Al sergente Horace West, finito davanti alla Corte marziale degli Stati Uniti, fu invece riconosciuta una provvisoria incapacità di intendere e di volere per aver sparato ai trentasei prigionieri (italiani e tedeschi), lì catturati. L’aviere scelto Giuseppe Giannola, riuscì a salvarsi. Recentemente ha ricevuto la medaglia al valore.
il Fatto 10.7.13
I tre libri che hanno riaperto il dibattito sulla Liberazione
LA PRIMA EDIZIONE di Uccidi gli italiani sulla battaglia di Gela di Andrea Augello è del 2009: all’epoca recava la prefazione di Anna Finocchiaro. È stato ristampato e aggiornato nel 2012 con l’aggiunta dei nomi dei militari italiani e tedeschi fucilati dagli americani nelle stragi di Biscari.
È invece del 2011, sempre per i tipi di Mursia, il testo di Fabrizio Carloni Gela 1943, che racconta attraverso testimonianze dell’epoca lo sbarco e la resistenza incontrati nell’entroterra di Gela dalle truppe angloamericane.
Obiettivo Biscari di Domenico Anfora e Stefano Pepi si concentra sui sei giorni di guerra sanguinosa (9-14 luglio 1943) che si sviluppò attorno alla cittadina di Acate (fino al 1938 chiamata Biscari).
La Stampa TuttoScienze 10.7.13
“Solo il mio software sa leggerti nell’anima”
di Marco Pivato
Ora è scattato il conto alla rovescia e l’appuntamento, probabilmente decisivo, è domani a Boston.
Dimmi cosa scrivi (e come) e ti dirò chi sei. Non c’entrano le perizie calligrafiche o psichiatriche. Il riconoscimento della personalità si fa grazie all’intelligenza artificiale, con software in grado di analizzare testi da Twitter, e-mail, social network. E le applicazioni sono potenzialmente infinite: forensi (scovando personalità da stalker o valutando la tendenza a mentire), preventive (riconoscendo le devianze come la pedofilia on-line), psicologiche (evidenziando elementi nevrotici, ma anche le caratteristiche del leader carismatico). E non mancano le applicazioni strategiche, legate al marketing, per individuare le personalità più adatte a diffondere messaggi pubblicitari. Fino all’anti-terrorismo.
Se George Orwell ormai è superato dal Maxi Fratello che spia ovunque e tutti, come ha rivelato il Datagate di Edward Snowden, i nuovi programmi per il riconoscimento della personalità non «ascoltano» direttamente, ma traggono informazioni preziose in modo implicito, a partire dalle tracce linguistiche che ognuno di noi lascia inconsapevolmente in un tweet o in un sms. Il primato della ricerca in questo campo di frontiera è italiano e il punto di riferimento si trova al Laboratorio di linguaggio, interazione e computazione (Clic) del Centro interdipartimentale Mente/ Cervello dell’Università di Trento, il CIMeC. È infatti lo studio del giovane ricercatore Fabio Celli - l’«Adaptive personality recognition from text» - ad aver attirato l’attenzione di molti, non solo scienziati e informatici, ma anche della polizia di New York e di una società finanziaria californiana interessata ad analizzare il comportamento di chi investe in Borsa.
Se il riconoscimento automatico della personalità con metodi computazionali è un’ambizione non di oggi, è solo adesso che stanno maturando gli strumenti adeguati. E infatti proprio la ricerca di Celli è tra i motivi che hanno spinto all’organizzazione di una conferenza mondiale che si terrà domani al Mit di Boston: si chiama «Workshop on computational personality recognition» e si svolgerà all’interno di un grande evento, l’«International Aaai conference on weblogs and social media» dell’Associazione per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale (http://icwsm.org/2013).
«Secondo uno dei modelli più testati, vale a dire il “Big five”, le caratteristiche essenziali per definire la personalità sono cinque - spiega Celli -: nevroticismo, estroversione, apertura, amabilità e coscienziosità». E se per alcuni lo schema soffre di un eccesso di riduzionismo, in realtà i software partono da questa base per poi combinare le informazioni in modo creativo. «I programmi - aggiunge - riescono a rilevare correlazioni precise tra modo di scrivere e modo di essere, le stesse individuate dalla psicologia comportamentale. Il computer rileva correlazioni che si ripetono: non sa cosa significhi “nevrotico” o “estroverso”, ma il fatto che segnali dati simili a quelli ottenuti dai test cognitivi prova che le estrapolazioni hanno una certa significatività».
E fa degli esempi: «Chi usa molta punteggiatura ha un basso tasso di estroversione e un alto tasso di apertura all’esperienza, mentre chi parla molto spesso della famiglia ha un basso tasso di apertura all’esperienza e chi utilizza parole più lunghe di sei caratteri è, di solito, più introverso». Ampliando la ricerca dall’individuo alla massa, poi, emerge che «i nevrotici tendono a cercare molti contatti e followers, mentre la personalità leader rimane in una cerchia ristretta di amicizie e messaggia in maniera secca, a botta e risposta». Nell’ottica di applicare queste conoscenze è utile allora sapere che «il leader fabbrica concetti o messaggi pubblicitari che verranno veicolati più facilmente attraverso personalità nevrotiche, perché le sue interazioni sono altamente virali».
Il trentaduenne Celli, al secondo anno di dottorato, racconta che l’idea iniziale è nata assistendo a una lectio magistralis di un professore dell’Università di Trento, Fabio Pianesi: fu allora che si chiese se sarebbe stato interessante provare ad applicare il riconoscimento della personalità all’universo dei social network. «Ma poco dopo - sottolinea - avrei scoperto che, oltre a me, ci stavano pensando almeno altri due team di ricercatori: uno negli Stati Uniti, capitanato da Jennifer Golbek, e un altro allo Psychometric centre di Cambridge, ma decisi di andare avanti e scrissi la prima versione del mio programma». Il risultato fu l’articolo «Unsupervised personality recognition for social network sites», presentato l’anno scorso in un convegno a Valencia. Il successo fu discreto e così Celli pensò che valesse la pena di portare avanti il lavoro, modificando il progetto di dottorato.
La Stampa TuttoScienze 10.7.13
Dai canti dei fringuelli i segreti della lingua dei bebé
Due specie diversissime e un filo rosso che svela come impariamo a parlare
di Gabriele Beccaria
È possibile curiosare tra i canti dei fringuelli per capire qualcosa in più su un mistero coinvolgente come la nascita del linguaggio negli esseri umani?
Dietro questo interrogativo c’è una lunga storia, che comincia con una ricercatrice americana dell’Hunter College di New York, Dina Lipkind: è lei che decide di provare un esperimento mai tentato prima, soltanto in apparenza banale: insegnare a un gruppo di fringuelli zebra in cattività un nuovo canto. Un’impresa di sicuro difficile, dato che questi uccellini, in natura, ne imparano uno solo nel corso dell’intera vita.
Eppure, con pazienza e una notevole dose di abilità, nel giro di alcune settimane ci riesce. Da una melodia nota - basata su un modello identificato in laboratorio come «abc-abc» - le sue volenterose cavie acquisiscono un altro set di fischi e suoni, stavolta modellato su un «pattern» alternativo, del tipo «acb-acb».
Dina Lipkind si rende conto che lo sforzo a cui ha obbligato le sue fragili creature è una vera e propria lotta linguistica e quindi cognitiva. Il salto, ogni volta, in ogni esemplare, non consiste nel passare da una sillaba a un’altra, quanto nel comporle. Le connessioni richiedono una dolorosa transizione. Solo dopo che sono state davvero afferrate, può avere inizio un nuovo canto. Il problema - in altre parole - non sono i suoni, ma è la grammatica a far sudare sette camicie.
Il secondo test lo conduce uno studioso giapponese, Kazuo Okanoya, con i fringuelli bengalesi. Stesso tentativo e stessi risultati: anche questi uccelli, decisamente più intelligenti dei colleghi, devono impegnarsi al massimo per approdare all’analogo risultato di una melodia inedita.
A questo punto può cominciare il terzo - e decisivo - momento della ricerca, che finalmente si addentra tra i vocalizza dei bambini. Entro il primo anni di età - è noto - i bebè cominciano a esercitarsi con tutti quei suoni, familiari per ogni madre e padre, composti da vivaci sequenze di «da-da-da» e «ba-ba-ba». Monotone, forse, ma non per i genitori, che spiano il fenomeno della lallazione come l’annuncio di un’imminente svolta comunicativa dei figli. E di certo intriganti per Dina Lipkind e Doug Bemis, che hanno cominciato ad analizzarli con pignoleria nel database «Childes» dedicato al linguaggio infantile. E, così, dopo un po’ di tempo si accorgono che, se i bambini ripetono ossessivamente la stessa sillaba, come per stamparla nella memoria ed esercitare le loro nascenti capacità espressive, passano alle versioni sofisticate, in cui ne combinano due diverse, solo dopo un lungo - e faticoso - tirocinio. Non succede tutto in una volta. Ci vuole tempo ed esercizio, a volte qualche mese, come ai fringuelli sono necessarie alcune settimane.
Ecco finalmente un filo rosso che, accomunando due specie tanto diverse, rivela il nocciolo di una scoperta. Ciò che stanno facendo i cuccioli di uomo è imparare un passaggio fondamentale che plasmerà le loro esistenze, quello che dalla trasparenza dei suoni singoli arriva fino alle contorsioni della parola. E allora - annunciano Dina Lipkind e gli altri autori su «Nature» - alla domanda iniziale, di certo un po’ stravagante, si può rispondere con un «sì» secco. Anche se a un livello immensamente più raffinato, i bambini eseguono lo stesso lavoro di apprendimento con cui i giovani fringuelli acquisiscono le giuste melodie per entrare nel mondo dei volatili. Se i linguaggi degli uni e degli altri non sono comparabili, il background presenta tuttavia una struttura simile che implica molto più del trascinamento dell’istinto.
E non è un caso che dietro quelle prove d’autore - nei boschi, nelle gabbiette di laboratorio e nelle culle - sia coinvolto lo stesso gene-chiave, il Foxp2, considerato dagli addetti ai lavori una star: senza di lui non c’è articolazione di suoni e non ci sono, appunto, i vocalizzi che accomunano umani e volatili e che, invece, sorprendentemente, sono sconosciuti ai nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie. A loro l’evoluzione ha negato l’idea (e il piacere) di cosa significhi intonare un canto.
"Dina"
Lipkind, Psicologa: È RICERCATRICE AL DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA DELL’HUNTER COLLEGE DI NEW YORK (USA)"
IL SITO : WWW.HUNTER.CUNY.EDU/MAIN/
Repubblica 10.7.13
Benefattori privati ma anche idee folli suppliscono sempre più agli investimenti statali
La scienza a modo mio
Così milionari e reality finanziano la ricerca
di Massimiliano Bucchi
Un miliardario russo con la passione della fisica, un premio Nobel, un reality show per finanziare una colonia su Marte. Sembrano gli ingredienti di un film di fantascienza, sono in realtà recentiepisodi che segnano un significativo cambiamento nelle modalità di finanziamento della ricerca e più in generale nei rapporti tra scienza e potere.
Il secolo scorso ci aveva abituati alla cosiddetta “Big science”, la scienza che richiedeva grandi strutture e grandi finanziamenti e come tale era saldamente in pugno alle grandi superpotenze. Era talmente stretto, il rapporto tra scienza e potere, che nel 1939 Albert Einstein e Leo Szilard potevano scrivere direttamente al presidente americano Roosevelt per auspicare un progetto di ricerche sugli usi militari della fissione nucleare in grado di anticipare quello tedesco; e dopo il bombardamento di Hiroshima, poterono scrivere nuovamente al presidente (Truman) per scongiurarne ulteriori utilizzi. Era talmente legata al contesto di competizione tra grandi potenze, quella scienza, che si parlò di “effetto Sputnik” per descrivere lo choc delle élite americane nel fare i conti con lo sviluppo della scienza e tecnologia sovietica, e il conseguente slancio di investimenti e iniziative che ne seguì.
Era la dottrina della scienza come “gallina dalle uova d’oro”, nutrita amorevolmente dalla politica per conto della società, che ricambiava con risultati in grado di produrre rilevanti ricadute tecnologiche, economiche, militari. Questo rapporto si svolgeva generalmente in un clima di consenso sociale; talvolta, come descrive C. P. Snow nel suoScienza e Governo, l’opinione pubblica ne restava addirittura largamente all’oscuro. Gli scenari iniziarono a cambiare negli ultimi decenni del secolo scorso. Alla riduzione degli investimenti pubblici fece da contraltare un ruolo sempre più pervasivo del business, soprattutto in settori quali biotecnologie e Ict. La figura dello “scienziato imprenditore” affiancò e per certi versi rimpiazzò quella dello scienziato consulente caratteristica della Big Science.
«Posso fare buona scienza e guadagnarci » spiegò soddisfatto ad Henry Etzkowitz, un ricercatore della Silicon Valley. Una figura che agli occhi del grande pubblico fu incarnata in modo spettacolare da personaggi come Craig Venter, che con la propria azienda privata riuscì a sfidare il consorzio pubblico internazionale nella corsa alla mappatura del genoma umano. Una diversa modalità di allontanamento dal modello della Big Science emerse dalla mobilitazione di cittadini e pazienti, soprattutto su temi medici e ambientali. Si colmavano così lacune di attenzione a questioni e patologie troppo specifiche per la ricerca pubblica e poco remunerative per quella privata. Ha fatto scuola la vicenda dell’Afm, che, dall’iniziativa di due genitori straziati dalla perdita del figlio per una rara patologia, ha creato in Francia laboratori all’avanguardia diventando uno dei soggetti più rilevanti nella ricerca in questo settore.
Ma oggi si assiste a qualcosa di ancora diverso.
Da un lato, cresce il ruolo dei “benefattori privati”. La nuova generazione di imprenditori del software e del web ha un occhio di riguardo per la ricerca. La sola Bill e Melinda Gates Foundation in dieci anni ha finanziato progetti di ricerca per oltre 3 miliardi di dollari — per avere un termine di paragone, si consideri che nell’ultimo bando per progetti di ricerca di interesse nazionale il nostro Ministero ha messo a disposizione meno di 40 milioni di euro. Qualche mese fa, il patron di Facebook Mark Zuckerberg ha stabilito un’insolita alleanza con il concorrente Sergey Brin di Google per assegnare 11 premi da 3 milioni di dollari a ricercatori in grado di contribuire «alla cura di malattie e all’estensione della vita umana». Roba da far impallidire lo stesso premio Nobel, il cui attuale valore monetario si ferma a un terzo della cifra.
Ancor più scalpore ha fatto la notizia che l’investitore russo Yuri Milner ha attribuito nove premi dello stesso importo ad altrettanti ricercatori nel campo della fisica; scatenando, soprattutto con alcune scelte orientate alla teoria delle stringhe, forti polemiche nella comunità scientifica. L’ultimo episodio è ancora più singolare. Per raccogliere i 6 miliardi necessari a finanziare il progetto di insediare coloni terrestri su Marte nel 2023, patrocinato dal Nobel per la fisica Gerard ‘t Hooft, l’azienda olandese Mars One progetta di farne un reality show vendendo i relativi diritti televisivi. Ne risulterebbe così un’inedita miscela di iniziativa privata e crowdf ounding, con spettatori/abbonati che diventerebbero azionisti collettivi del progetto.
In uno scenario di contrazione delle risorse pubbliche, è assai probabile che il ruolo di donatori privati e altri meccanismi divenga sempre più rilevante. La preoccupazione di molti, tuttavia, è che insieme al rapporto con il finanziamento statale venga meno il controllo della comunità scientifica. Nessuno potrebbe infatti impedire a un miliardario creazionista di finanziare ricerche in contrasto con la teoria dell’evoluzione, né a un’azienda o associazione di raccogliere finanziamenti per ricerche finalizzate a illusori o improbabili terapie o ad altri obiettivi eticamente controversi.
Secondo Arie Rip, professore all’università di Twente e consulente per le politiche della ricerca in Sud Corea, «le agenzie governative dovranno ridefinire il proprio ruolo per convivere con altre forme di finanziamento, ad esempio anche offrendo la propria valutazione di qualità dei progetti a finanziatori privati». Un dubbio però rimane: se dovesse venire fuori che scientificamente la missione/reality per insediare coloni su Marte non ha molto senso, chi lo dirà agli 80000 che si sono già presentati alle selezioni? Il professor ‘t Hooft o Alessia Marcuzzi?
Corriere 10.7.13
«The Bridge», arriva il thriller con la poliziotta autistica
A pochi giorni dal debutto americano, «The Bridge», l’attesa serie thriller interpretata da Diane Kruger (nella foto) e da Demian Bichir, candidato all’Oscar come miglior attore nel 2012 per il film A better life , arriva in Italia su Fox Crime. «The Bridge» andrà in onda ogni giovedì alle 21 a partire dal prossimo 18 luglio e sarà visibile sul canale 117 della piattaforma Sky. La serie, di cui attualmente è in corso la realizzazione di un secondo remake francese, narra le vicende di due poliziotti, Sonya Cross, americana di El Paso, affetta dalla sindrome di Asperger, una rara forma di autismo che le impedisce di provare empatia con le persone, e Marco Ruiz, della polizia messicana dello Stato di Chihuahua, famoso per i suoi metodi investigativi poco ortodossi.