il Fatto 5.7.13
Femminicidio, 2013 tragico
Già 68 le donne uccise nei primi sei mesi del 2013
Nel 2012 sono state 124
di Elisabetta Reguitti
NUMERI CHE FANNO PAURA E RACCONTANO UN PAESE STRETTO NELLA CRISI, MA SOPRATTUTTO NELL’IGNORANZA E NEL MASCHILISMO
NEI PRIMI SEI MESI del 2013 sono state ammazzate 68 donne (124 in tutto il 2012). In Italia la violenza è la prima causa di morte per le donne dai 20 ai 40 anni. Più delle malattie. Più degli incidenti stradali. Il 70% dei femminicidi che si sono consumati potevano essere evitati perché già segnalati come situazioni a rischio. Da gennaio a oggi, oltre 600 donne si sono rivolte alla “Casa delle donne per non subire violenza” di Bologna le cui volontarie aggiornano mensilmente il bollettino di una guerra consumata fra le mura domestiche.
MA IL FEMMINICIDIO non è solo l’uccisione delle donne come movente di genere (classificato come atto criminale in sé), ma rappresenta il culmine di tutte le violenze che una donna può subire in una vita. Secondo l’ultima indagine Istat, oltre il 14% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito abusi sessuali o fisici dal partner: poco meno di 7 milioni di casi. Circa 1 milione gli stupri o tentati stupri. Solo il 7% di chi subisce violenze denuncia il compagno. Allarmante appare il dato che il 33,9% di coloro che hanno subito violenza dal proprio compagno e il 24% di coloro che l’hanno subita da un conoscente o da un estraneo, non parla con nessuno dell’accaduto per paura che il denunciato si incattivisca ancora di più.
LA CULTURA MASCHILISTA non è un concetto astratto, ma un principio saldo e diffuso. In molti casi, secondo gli esperti, è radicata la convinzione dell’inferiorità della donna e la conseguente volontà del controllo su di lei. Una donna che sta a casa, che cura i figli, fa la spesa e bada agli anziani, oppure una donna che si accontenta di mezzo salario e che si adatta a fare un lavoro precario e mal pagato, per il suo aguzzino vale meno. Donne che si ritrovano a essere ricattate dal datore di lavoro e devono stare zitte per non perdere quello stipendio. Donne che hanno paura di separarsi da un marito violento perché da lui dipendenti economicamente e che temono di non poter più rivedere i figli. Sembra poi che l’ultima frase di molte vittime prima di morire per mano del loro uomo sia “non vali niente”. Parole che un maschio non può tollerare.
il Fatto 5.7.13
Assalto alla Costituzione, la maggioranza sfonda
Il Ddl della riforma lunedì in aula
Corsa contro il tempo con dibattito (quasi) azzerato, per chiudere entro ottobre
di Luca De Carolis
Corrono, per stravolgere la Costituzione a tempo di record. Dimezzando i tempi dell’articolo 138 e riducendo ai minimi termini il dibattito in Parlamento. La tabella di marcia della maggioranza ha tempi chiari: il ddl costituzionale va approvato tra fine ottobre e inizio novembre, per poi lasciare tutto in mano a un comitato di 42 persone, libere di riscrivere la seconda parte della Carta senza vincoli e regole. Il governo delle larghe intese va dritto che è un piacere, sulla riforma della Carta. Martedì scorso in commissione Affari Costituzionali, in Senato, Pd e Pdl si sono rimessi d’accordo dopo qualche giorno di broncetti reciproci. Soppresso l’emendamento Bruno, capogruppo berlusconiano che voleva infilare nella riforma il titolo IV (quello sulla magistratura) e spazio a quello di Anna Finocchiaro (Pd), relatrice del testo, che mette qualche paletto: la parte sulla giustizia non verrà toccata, salvo che per le norme “strettamente connesse” a quelle che verranno mutate. Parecchie, visto che si parla dei titoli I, II, III e V della parte seconda.
PER IL RESTO, tutto confermato: compreso lo stop a una nuova legge elettorale in sintonia coi contenuti della riforma (ma c’è qualche malpancista) e compresa la deroga al 138. “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi” recita la norma. Bene, il ddl riduce l’intervallo a 45 giorni (ma nella prima versione era appena un mese). “Noi avevamo provato a fermarli con una ventina di emendamenti, ma i numeri sono dalla loro parte” spiega Loredana De Petris (Sel), che parla di “atto di propaganda” della maggioranza: “Con la deroga al 138 hanno voluto dimostrare che si accelera e che questa volta porteranno a casa la riforma”. Non basta: “Il ddl vieta la possibilità di sub-emendamenti in aula da parte di singoli parlamentari, con una lesione del diritto di rappresentanza di ogni eletto”.
IN SENATO o alla Camera, a proporre modifiche al testo potranno essere solo i capigruppo, 10 senatori o 20 deputati. A Palazzo Madama il ddl approderà già lunedì, perché la maggioranza ha imposto la procedura d’urgenza. L’obiettivo è quello di approvare il testo entro il 15 luglio. De Petris: “Noi di Sel presenteremo subito la pregiudiziale d’incostituzionalità: ovviamente non passerà, ma almeno costringeremo tutti a prendersi le proprie responsabilità politiche, perché questa volta non si voterà per alzata di mano”. A dire no al ddl c’è anche il Movimento 5 Stelle, che in commissione aveva presentato 103 emendamenti. “Chiedevamo che i cittadini venissero consultati preventivamente sulla riforma, ma ovviamente hanno cassato tutto”, ricorda il senatore Francesco Campanella. Che pone un altro tema: “Il testo istituisce il comitato dei 42 (20 deputati e 20 senatori, più i due presidenti delle commissioni Affari costituzionali, ndr) secondo un meccanismo non chiaro. Ci si baserà sulla consistenza numerica dei gruppi e sui voti presi dalle liste, ma di fatto siamo su un piano discrezionale”. Ma in aula i 5 Stelle cosa faranno? “Ripresenteremo i nostri emendamenti, per cercare almeno di ritardare un po’ i tempi. Ormai abbiamo capito che dobbiamo tornare nelle strade, per coinvolgere i cittadini. La prospettiva è quella di raccogliere le firme per un referendum contro il ddl”.
UNA CONSULTAZIONE ampia è quello che propone anche Antonio Ingroia, fondatore di Azione Civile, che ieri ha inviato una lettera a Epifani, Grillo e Vendola: “Chiedo loro una moratoria sulla riforma: fermiamo tutto, e sentiamo prima cosa ne pensa la gente attraverso delle primarie sui contenuti”. Ingroia ricorda che Azione Civile “è nettamente contraria a questa riforma, che punta al semi-presidenzialismo”. Ma precisa: “Ora il nodo principale è il metodo: il compito di riscrivere la Costituzione verrà affidato a una commissione extraparlamentare di 42 persone. Le aule verranno ridotte a meri notai”. E poi c’è la deroga al 138. “Un fatto grave - sostiene l’ex pm - anche perché a detta di molti costituzionalisti questo articolo non può essere modificato o derogato. Di fatto, l’articolo 138 sancisce la differenza tra Costituzione rigida (modificabile solo con una procedura speciale, ndr) e flessibile (per cui basta una legge ordinaria, ndr) ”. Timori che non incidono sul programma della maggioranza. Il ddl lo dice nero su bianco: la riforma va approvata entro 18 mesi. I tempi ci sono. La volontà del governissimo anche. Anzi, di più.
il Fatto 5.7.13
Montepaschi, l’ultima mail: “Aiutatemi o mi ammazzo”
David Rossi (capo delle relazioni esterne) preannunciò il suo gesto all’amministratore Fabrizio Viola. Nessuno rispose
Allora insistette: “È urgente, domani potrebbe essere tardi”
E Viola: “La cosa è delicata, non so e non voglio sapere che succederà domani”. L’indagine della Procura di Siena per istigazione al suicidio va verso l’archiviazione
di Davide Vecchi
MPS, LE ULTIME MAIL DI ROSSI “STASERA MI SUICIDO, SUL SERIO, AIUTATEMI!!!!”
IL CAPO DELLA COMUNICAZIONE DEL MONTEPASCHI AVEVA SCRITTO ALL’AD FABRIZIO VIOLA DUE GIORNI PRIMA DI TOGLIERSI LA VITA: “VORREI GARANZIE DI NON ESSERE TRAVOLTO DA QUESTA COSA”
“Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!! ”. David Rossi aveva scritto all’amministratore delegato, Fabrizio Viola, prima di scegliere la via peggiore per uscire dalla vicenda del Monte dei Paschi di Siena. Rossi, capo della comunicazione di Rocca Salimbeni, mercoledì 6 marzo alle ore 20 circa ha aperto la finestra del suo ufficio e si è gettato nel vuoto. Un gesto su cui pensava da lunedì. Quando, alle otto e 13 minuti, scrive a Viola, in quei giorni a Dubai. Una mail fin troppo chiara, già dall’oggetto: aiuto, “help”. Un messaggio di posta inviato per conoscenza anche a un’altra figura di vertice della banca. Una mail alla quale però nessuno inizialmente risponde. Ma poco dopo le 13, Rossi rinnova la sua preoccupazione: “Ti posso mandare una mail su quel tema di stamani? È urgente. Domani potrebbe già essere troppo tardi”. E inizia così un drammatico scambio di mail, agli atti dell’inchiesta sul suicidio di Rossi aperta dalla Procura di Siena, in cui vengono ricostruiti gli ultimi giorni di vita dell’ex braccio destro di Giuseppe Mussari. E, soprattutto, lo stato d’animo in cui Rossi era ormai costretto a vivere. David sente la pressione addosso. Pochi giorni prima, il 19 febbraio, ha subito la perquisizione in casa e in ufficio, i giornali scrivono che lui è ritenuto il trait d’union tra i vecchi vertici, Mussari e Alessandro Vigni, per accordarsi sulle versioni da fornire agli inquirenti. E, come se non bastasse, viene poi accusato di essere il responsabile della fuga di notizie sull’azione di responsabilità decisa dal Consiglio di amministrazione della banca il 28 febbraio contro gli ex vertici di Mps, Nomura e Deutsch Bank.
NOTIZIA CHE APPARE su due quotidiani il giorno successivo e della quale, ricostruiscono gli inquirenti, Rossi non era stato messo al corrente. Tant’è che aveva confidato ad alcuni familiari di sentirsi ormai escluso dalle informazioni sensibili della banca. Tre giorni dopo, su denuncia presentata da Viola, la Procura avvia un’indagine per insider trading, finalizzata a individuare il responsabile della fuga di notizie. Il cinque marzo per questo vengono perquisiti abitazioni e uffici di due componenti del Cda: Michele Briamonte e Lorenzo Gorgoni. Rossi no. Mercoledì sei marzo l’agenzia di stampa Reuters alle ore 18.49, a mercati chiusi, pubblica il take sulla quantificazione del danno: “Mps, danni da 700 milioni a Nomura, 500 a Deutsche, in solido con Mussari e Vigni”. Rossi alle 19 comunica alla moglie: “Tra mezz’ora sono a casa”. Ma qui, ipotizzano gli inquirenti, inizia l’ora fa presente le preoccupazioni relative al suo possibile coinvolgimento nelle inchieste, il timore che le voci che avvelenano Siena e Rocca Salimbeni sul suo conto possano aver trovato terreno fertile in Procura. Scrive a Viola l’intenzione di voler parlare con i magistrati, per sapere cosa vogliono. “Mi hanno inquadrato male”, scrive, tra l’altro.
E ANCORA, sempre nella stessa corposa mail: “Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani”. Sono le 14 e 12 di lunedì 4 marzo. Dopo dodici minuti arriva la risposta di Viola: “La cosa è delicata. Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere”. Rossi insiste, sente la necessità di parlare con gli inquirenti. Ha bisogno di rassicurazioni da parte dell'amministratore delegato. E riceve però un consiglio: di alzare il telefono e chiamare la Procura. Viola è stato sentito dagli inquirenti anche in merito a questo scambio di mail. E ieri, contattato telefonicamente dal Fatto Quotidiano, ha risposte per mezzo dell’ufficio stampa che in quei giorni era in vacanza con i figli a Dubai.
David era a Siena. E non chiederà più aiuto a nessuno, stando a quanto ricostruito dagli atti. E, forse deluso dalle risposte ricevute, si scusa anche con Viola. I due giorni successivi, secondo quanto ricostruito agli atti dagli inquirenti, David vivrà in “costante tensione”, “aveva paura – riferisce uno dei testimoni sentiti – di essere persino arrestato”.
L'inchiesta, aperta contro ignoti per istigazione al suicidio, era inizialmente stata affidata al pm Nicola Marini, magistrato di turno la sera di mercoledì sei marzo. Ma gli sviluppi l'hanno intrecciata all'indagine “madre” sul Monte dei Paschi di Siena e a quella per insider trading, ed è divenuta di competenza anche degli inquirenti titolari degli altri fascicoli: Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Giuseppe Grosso.
Lo scambio di mail, insieme ad altro materiale e nuove testimonianze raccolte solo nell’ultimo mese, hanno dato un nuovo impulso alle indagini. Il procedimento aperto per istigazione al suicidio sta ora andando verso l’archiviazione.
Corriere 5.7.13
Tre milioni in meno all'obolo di San Pietro
La Santa Sede: offerte in calo, Vatileaks non c'entra
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — Migliorano i conti della Santa Sede — la cosiddetta spending review, ovvero la revisione della spesa, è diventata una necessità anche Oltretevere — ma calano le offerte dei fedeli: «l'obolo di San Pietro», calcolato in dollari, è sceso dai 69,7 del 2011 ai 65,9 dell'anno scorso, un calo del 5,4 per cento, poco più di tre milioni di euro. E lo stesso è accaduto per il sostegno che arriva dalle diocesi, sceso da 32,1 a 28,3 milioni. Problema: perché? Nella Chiesa c'era chi paventava un «effetto Vatileaks» a minare la generosità dei fedeli, ma in Vaticano, più semplicemente, si tende a leggere il calo come un effetto della crisi economica: «Mi pare intuitivo, la gente ha meno soldi», riassume padre Federico Lombardi.
Peraltro, in Vaticano si fa notare che negli anni precedenti, anche nel pieno degli scandali sulla pedofilia nel clero, non c'era stato un simile calo. Di bilanci positivi nonostante il «clima economico mondiale» parla pure il comunicato che ieri riportava il bilancio consuntivo consolidato del 2012. Quello della Santa Sede, ovvero della Curia, ha chiuso con un utile di 2 milioni e 185 mila dollari (circa 250 milioni di entrate e 248 di uscite) «grazie soprattutto al buon rendimento della gestione finanziaria»: tra le spese più significative ci sono il personale (2.823 dipendenti), quelle per la radio e gli altri media e «il pagamento delle nuove tasse che gravano sugli immobili (Imu), risultate in aumento di 5 milioni». Anche il Governatorato, 1.936 dipendenti, che ha una gestione autonoma e si occupa dello Stato vaticano, ha chiuso con 23 milioni di attivo, oltre un milione più del 2011.
Ma la revisione della spesa è appena iniziata, la Curia si mette a dieta. Il «consiglio dei cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede», riunito per i bilanci, elogia i «risultati positivi» ma parla di «una riforma necessaria» per «ridurre i costi attraverso un'opera di semplificazione e razionalizzazione degli organismi esistenti, nonché una più attenta programmazione dell'attività di tutte le amministrazioni». Fin dal conclave che ha eletto Francesco, del resto, si è parlato della necessità di una Curia più «snella», tra le proposte di riforma che esaminerà il «gruppo» cardinalizio voluto dal Papa c'è anche il taglio o comunque l'«accorpamento» di alcuni dicasteri. Lo ha detto anche il cardinale Odilo Pedro Scherer, parlando alla Radio Vaticana: «Resta il bisogno di una ristrutturazione dell'insieme dell'amministrazione della Santa Sede». Del resto «c'è senz'altro un grande bisogno di orientare nel migliore dei modi i beni a disposizione, perché servano al bene della Chiesa: la Santa Sede non possiede certo beni per accumularli».
In questo senso, colpisce la voce (registrata a parte) per le opere di carità della Santa Sede, una somma superiore al bilancio: attraverso varie realtà, dalle Caritas alle opere missionarie allo stesso obolo, ha raccolto 276 milioni di donazioni e ne ha distribuiti 274. Anche lo Ior, per parte sua, ha versato 50 milioni per la carità del Papa. Oggi verrà presentata Lumen fidei, la prima enciclica di Francesco sulla fede che rielabora un testo preparato da Ratzinger. Ma Bergoglio sta già pensando a un'altra enciclica, tutta sua, sulla povertà. La «Chiesa povera e per i poveri» di Francesco deve guardare all'essenziale. Anche per questo cresce l'attesa per il viaggio di lunedì a Lampedusa, l'incontro con gli immigrati naufraghi e la popolazione, la corona in mare per le ventimila vittime degli ultimi 25 anni: «Il Papa va lì a piangere i morti», ha detto ieri il segretario (maltese) di Francesco, monsignor Alfred Xuereb. «La sua presenza è un segno per dimostrare che mentre a Nord ci sono i ricchi che sprecano, dall'altra parte c'è un Sud che lascia tutto per tentare la fortuna e spesso trova la morte».
il Fatto 5.7.13
Vecchia guardia. Adunata di anziani big e giovani turchi divisi su tutto, ma uniti contro Renzi
Scontro finale, tutti contro tutti. Ora nel Pd si parla di scissione
Franceschini: “Rischiamo di dividerci fra ex-Pci ed ex-Dc”
Anche Fioroni, Reichlin e il renziano Richetti evocano il divorzio
di Wanda Marra
D’Alema: “Matteo vuol fare la vittima, non faccia il piccione”. Il rottamatore diserta la riunione e risponde: “Non devo chiedere il permesso a lui per candidarmi”.
A un passo dalla scissione Il Pd comincia la conta
L’AVVERTIMENTO DI FRANCESCHINI: ANDANDO AVANTI COSÌ IL RISCHIO C’È
IL RENZIANO RICHETTI: SE MATTEO NON SI CANDIDA, IL PARTITO SI SFASCIA
Che stiano ostacolando Matteo Renzi in tutti i modi è un fatto. E se alla fine lui non si candiderà al congresso, il rischio che molti non si riconoscano più nel Partito Democratico è un fatto altrettanto concreto”. Matteo Richetti, renziano della prima ora, la vede così. E allora, la parola “scissione” lanciata nel dibattito organizzato ieri dai bersaniani da Dario Franceschini (che arriva per ultimo) prende forma e sostanza. “In questi mesi siamo passati a riconoscerci non più come ex Margherita ed ex Ds. Ma addirittura come comunisti e democristiani. Attenzione: è pericoloso”. Poi “il monito”. O forse la minaccia. Un modo per dire a Bersani che così non va. “Non possiamo metterci in un clima di lacerazioni. Dobbiamo difendere il mescolamento che è l'antidoto a quel rischio che c'è, se non vogliamo essere ipocriti”. Lui sarebbe tra i primi indiziati a veleggiare verso il centro con l’ex Rottamatore.
Al Nazareno quella di ieri sembra una direzione, con l’espulsione conclamata di una parte del partito, quella che fa capo a Renzi. Pier Luigi Bersani chiama a raccolta le correnti per “Fare il Pd” (“Ma negli anni da segretario, che ha fatto? ”, ironizza Lino Paganelli, anche lui renziano). I “suoi” uomini ci sono tutti. Al banco della presidenza Alfredo D’Attorre, Maurizio Martina e Stefano Fassina. In prima fila c’è il segretario, Guglielmo Epifani. E tra il pubblico i ministri Zanonato e la Carrozza. Certo, l’idea del ricongiungimento con Massimo D’Alema non funziona. Lui se ne sta defilato. Non interviene, resiste un’ora, poi se ne va. Bersani neanche lo sente. D’altra parte ha riunito la sua corrente l’altroieri sera per blindare Cuperlo (ma alcuni hanno obiettato che è troppo di sinistra). Bersani punta su un altro nome: Roberto Speranza o lo stesso Epifani. “Maurizio Martina: prima dalemiano, poi veltroniano, poi fassiniano, poi bersaniano, ora fassiniano, nel senso di Fassina”: la descrizione - polemica - che ben racconta il clima è di Gianni Cuperlo. Che sta in un angolo, riflette se intervenire o meno, e alla fine lo fa: “Il congresso non passi da un accordo tra capi corrente che hanno già condizionato la nostra vita e anche qualche risultato”. Come dire: il candidato doc sono io.
RENZI e i suoi non si fanno vedere (a parte uno sventurato, Giacomo D’Arrigo, che ci capita per caso). Veltroni neanche. I Giovani turchi disertano. Passa il ministro Andrea Orlando. “Mah, se avessero presentato una candidatura quest’incontro avrebbe avuto un senso. Così... ”. Enrico Letta manda in rappresentanza Marco Meloni. Più che altro cortesia. Resiste l’amicizia del premier con Bersani? “Sì, ma a patto che la pressione anti - Renzi non diventi eccessiva”. Letta è un altro che in caso di scissione non potrebbe che pendere verso il centro. In prima fila sono seduti Beppe Fioroni e Franco Marini. Ma l’iniziativa prende una piega imprevista da subito. Alfredo Reichlin, il padre nobile, attacca: “Non sono qui per aggregarmi a un correntone contro Renzi. Non credo che la sinistra esista in natura, tanto meno il Pd. Facciamo solo chiacchiere su regole e nomi e non abbiamo ancora definito il tema del congresso, che dovrebbe essere dove va l’Italia. Se non risolviamo questa questione, un pezzo andrà a destra e uno a sinistra”. Marini concorda: “Il rischio c’è”. Bersani, rivitalizzato dalla battaglia interna, dice ancora una volta che non si può parlare di “partito protesi”. Nel suo perfetto stile, Renzi appare in serata al Tg 5. “Se mi voglio candidare non devo certo chiedere il permesso a D’Alema”. I suoi lo descrivono come stanco e sfibrato da questa ennesima guerra sulle regole. La scissione? “In termini di appartenenze antiche di Dc ed ex Pci è una cosa che non ci appartiene”, dicono dal suo staff. Ma il punto è un altro: se Renzi non si candida, (forse) finisce il Pd. Tanto per parafrasare il D’Alema di qualche mese fa.
il Fatto 5.7.13
Baffino e il sindaco di Firenze, amori e dissapori
Lontani e vicini, poi di nuovo lontani
Tra il fondatore di Italianieuropei e il rottamatore è ancora guerra
di wa.ma.
“Se vince Renzi? Finisce il Partito democratico”. Impossibile dimenticarlo, Massimo D’Alema che da Lilli Gruber alla sola ipotesi che il sindaco di Firenze potesse trionfare alle primarie (quelle di novembre) strabuzzava gli occhi, che quasi gli schizzavano fuori dalle orbite. Lui, il nemico numero uno, ne faceva un video. La hit immancabile del suo giro in camper. Toni più soft, ma decisamente più arroganti quelli di ieri. Quando, andando via dalla riunione dei bersaniani organizzata al Nazareno, a domanda specifica ha risposto: “Renzi? Credo che giochi un po’ a fare la vittima. Secondo me sbaglia, dovrebbe essere qui”. In mezzo “Baffino” ha cambiato e ricambiato posizione almeno una decina di volte. Prima, il Sacrificio. Il 18 ottobre, sempre a Otto e mezzo: “Non mi ricandido. Ma se vince Renzi sarà guerra”. Eccolo di nuovo, però, il 2 dicembre, in prima fila al Capranica per festeggiare la vittoria alle primarie di Bersani: “Mi vedo bene, diciamo, all’estero”, raccontava ai cronisti presenti. Un’ipoteca nemmeno velata sulla Farnesina. Poi, è andata com’è andata. Sonora “non vittoria” elettorale del Pd, settimane e settimane di caos nel tentativo di arrivare a un governo. E allora, ecco qua che il Lìder Maximo si scopre almeno un po’ renziano. Tanto da andare a Palazzo Vecchio l’11 aprile, pochi giorni prima dell’inizio della votazione per la presidenza della Repubblica. E poi arringare tutti i giornalisti presenti: “È una delle personalità importanti di questo partito”. E il passato? “Io non ho mai attaccato Renzi, era Renzi che attaccava me”. Nessuno ha mai saputo cosa i due si siano detti nel dettaglio, anche se le ricostruzioni raccontarono di un patto, che avrebbe dovuto portare D’Alema al Quirinale e Renzi a Palazzo Chigi. D’altra parte erano gli stessi giorni in cui il primo - ancora nella veste di primo demiurgo di Bersani - consigliava all’allora segretario di fare un passo indietro come premier del futuribile governo di cambiamento, in favore di Rodotà. Anche questa battaglia è andata com’è andata: D’Alema non è riuscito a farsi portare dal Pd come candidato al Colle, il designato Prodi (dopo Marini) è stato silurato, Napolitano rieletto. E a Palazzo Chigi dopo qualche ora in cui Matteo ci ha davvero creduto c’è andato Letta. E allora, D’Alema (escluso anche da un ministero) che ha fatto? Chiuso definitivamente con Bersani, ha cominciato a incontrare il fiorentino più spesso. Pranzi, mini vertici. Ma nel frattempo, ecco che lanciava Gianni Cuperlo come segretario per il congresso d’ottobre: “Serve un candidato giovane . Per esempio Cuperlo”. Ancora qualche giorno, e l’11 giugno (sempre dalla Gruber): “Renzi è un leader straordinario. Ultimamente gli ho dato molti consigli. Se li ascolta, potrà diventare capo del governo. E noi avremo risolto il problema della leadership”. Con buona pace del giovane Cuperlo, Renzi segretario e candidato premier? Neanche per niente. Il Lìder Maximo (il 17 giugno) organizza un meeting di Italianieuropei. Tesse la rete. “Il segretario che eleggiamo sarà anche il candidato leader? Può esserlo, ma anche non esserlo”. Mani libere. Poi avverte: “Nel Pd c’è solo il caos”. Non solo nel Pd, anche la sua strategia fa registrare una certa confusione. Poi però si rivela. Primo luglio: “Lo statuto del partito lo abbiamo derogato per Renzi. Quando serve a lui bisogna derogare, quando non serve a lui non possiamo derogare”, dice a proposito della separazione tra segretario e candidato premier che adesso caldeggia fieramente. “Non possiamo fare le regole per lui”. D’Alema pensa a tenersi il partito e a giocare la carta Renzi come candidato premier. Fino al prossimo cambio di strategia.
Corriere 5.7.13
La vera accusa al rottamatore: «Cambia spesso idea»
La cena riservata tra dalemiani al Testaccio e la fine del breve idillio tra i due leader
di Tommaso Labate
ROMA — «L’idea del correntone anti-Renzi è una follia. Io con Renzi ho parlato tante volte. Ma è una persona che ha l’abitudine di cambiare spesso idea e anche di fare la vittima». E comunque, «che sia chiaro a tutti che non permetteremo a nessuno di far cadere il governo» .
Mercoledì sera, Roma, quartiere Testaccio, ristorante Antico Forno - tra l’altro a pochi metri dalla casa di Enrico Letta - prenotato per una trentina di persone. Amici e compagni, vecchi e nuovi. E lui, Massimo D’Alema, il politico che rispetto ai «tavoli» rimane ancora fedele alla sua vecchia regola, «capotavola è dove mi siedo io».
È in quella sede che il presidente di ItalianiEuropei lascia intendere ai suoi che la base del suo dialogo con Renzi - che avrebbe dovuto aspettare un giro e candidarsi alle primarie per la leadership del centrosinistra - di fatto non c’è più. Perché il sindaco di Firenze, che questo dialogo l’aveva reso pubblico omettendo il nome di D’Alema («I capicorrente vengono a sussurarti all’orecchio di aspettare un giro»), nella versione dalemiana, è ormai un ragazzo che cambia spesso idea.
Al tavolo del ristorante di Testaccio c’è anche un dalemiano con un piede fuori dall’emisfero del Lìder Maximo. Come Nicola Latorre, le cui simpatie renziane sono in continua ascesa, convinto che «o Matteo si candida adesso alla segreteria o non avrà una seconda possibilità». La serata è all’insegna del dialogo e della riflessione, e quindi D’Alema ascolta e dialoga con tutti. Ma le sue colonne d’Ercole sono fissate. «Il governo non si tocca in nessun caso».
L’eco della cena dei dalemiani arriva ieri pomeriggio al Nazareno, a quella che doveva essere un’iniziativa dei fedelissimi di Bersani destinata a aprire i primi varchi per la candidatura alla segreteria di Stefano Fassina. E invece, come dopo un colpo di scena che finisce per spiazzare tutti, la riunione dell’area «Fare il Pd» si trasforma nel punto d’incontro di tutti i «governisti». Di tutti quelli che, per proteggere l’esecutivo dalla tensioni congressuali, hanno come unico obiettivo quello di evitare le condizioni perché il sindaco di Firenze scenda in campo.
I ministri in quota del Pd si presentano tutti. Ci sono Dario Franceschini e Flavio Zanonato, Andrea Orlando e Maria Chiara Carrozza. Manca solo il premier. Ma il messaggio da portare alla «ditta» è chiarissimo. «La verifica all’interno della maggioranza è andata benissimo», confida Franceschini ai suoi, che per una parte hanno disertato l’evento. «Persino Brunetta», è l’entusiasta rivendicazione del ministro dei Rapporti col Parlamento, «durante la riunione ha detto che il governo deve durare cinque anni. Adesso vogliamo far casino noi? ».
La risposta alla domanda retorica è nel fuoco di fila pro governo che si sente in tutti gli interventi, a cominciare da quelli degli ex popolari. E Renzi è il convitato di pietra a cui tutti i messaggi sono indirizzati. «Il nostro modello di partito è quello di David Serra e Flavio Briatore? », chiede ironicamente Beppe Fioroni, convinto che «le regole del congresso non possono essere costruite contro Letta, altro che Renzi». E si fa vedere anche Franco Marini: «Questo governo sta facendo di più di quello che pensavamo possibile». E quando tocca a Franceschini salire sul podio, ecco che il neo-ministro contesta quella frase sui «piccoli passi» che il sindaco di Firenze aveva detto durante l’intervista alla Faz: «Questa sfida la stiamo affrontando benissimo. In un momento del genere, che cosa possiamo fare se non piccoli passi? Dovremmo fare grandi annunci? Persino se fosse tra noi De Gasperi - è la chiosa franceschiniana - «si sarebbe mosso nello stesso modo di questo governo».
Una risposta anche a Bersani, che qualche minuto prima era tornato evocare il governo di cambiamento. Segno che le tensioni, anche nel fronte anti-renziano, ci sono ancora, eccome. D’Alema, nel frattempo, aveva abbandonato l’incontro lanciando dietro di sé poche parole: «Non c’è un correntone anti-renziano. Renzi ha sbagliato a non esserci, gioca un po’ a fare la vittima». La convinzione generale, quando il sipario cala, è che adesso bisognerà solo capire se il sindaco di Firenze scenda in campo o no. Nel secondo caso, le iscrizioni al congresso saranno rivoluzionate. E anche il «no» di Epifani, che continua a negare il suo interessamento alla riconferma, potrebbe essere rivisto.
Corriere 5.7.13
Guida del partito e del governo, la tesi del sindaco di Firenze
risponde Sergio Romano
Matteo Renzi in una delle sue ultime dichiarazioni ha detto chiaramente che chi si candida alle primarie per la segreteria del Pd, sia anche candidato premier a palazzo Chigi. Lei è d'accordo? A mio modesto parere credo che all'interno del Pd ci sia ancora parecchia maretta con i post comunisti. Per caso Renzi non ha in mente di sdoganarsi e creare un nuovo partito di centro di chiara ispirazione cattolica? Una sorta di nuova Dc tanto per intenderci.
Innocenzo Schiavone
Caro Schiavone,
Il tema è già stato trattato da Ernesto Galli della Loggia e Michele Salvati sul Corriere degli scorsi giorni. Aggiungo qualche altra considerazione.
Non so che cosa Renzi abbia in mente, ma il suo argomento — il leader del partito deve essere implicitamente il candidato alla presidenza del Consiglio — è la regola d'oro di molte fra le democrazie parlamentari di lingua inglese. In Italia, invece, è accaduto frequentemente che il segretario preferisse conservare il controllo della «casa» e lasciare a un collega il compito di andare al governo. Questa «originalità» italiana dimostrava che i partiti, per la classe politica nazionale, erano più importanti dei governi e che questi potevano essere congedati ogni qualvolta i segretari decidessero di cambiare il presidente del Consiglio o modificare gli equilibri di una coalizione.
La situazione accennò a cambiare con l'arrivo in campo di Silvio Berlusconi. Forza Italia gli apparteneva ed era naturale che la vittoria del partito aprisse al suo fondatore la porta di Palazzo Chigi. Qualcosa del genere accadde a sinistra con la nascita dell'Ulivo e la candidatura di Romano Prodi; e più recentemente nessuno ha negato a Bersani il diritto di aspirare a Palazzo Chigi. Ma il sistema politico italiano continua a essere privo delle caratteristiche che favoriscono altrove la coincidenza fra direzione del partito e candidatura alla presidenza del Consiglio.
Esiste una soglia di sbarramento, ma viene adattata alle esigenze delle coalizioni e non serve a diminuire il numero dei partiti in Parlamento. Non esiste, come in Germania e in Spagna, la sfiducia costruttiva che mette il Premier al riparo dalle imboscate parlamentari. Berlusconi ha cercato di ovviare a questi inconvenienti con l'indicazione del candidato Premier sulle liste elettorali. Ma la formula non sarà vincolante sino a quando il presidente della Repubblica continuerà a godere dell'autonomia che gli è garantita dalla Costituzione.
Ancora una volta Berlusconi ha cercato di aggirare l'ostacolo con una legge elettorale che garantisce al partito di maggioranza relativa, e quindi al suo leader, uno spropositato premio di maggioranza. Ma l'Italia ha altre anomalie che rendono questo obiettivo difficilmente realizzabile: un sistema politico che attribuisce alle due Camere gli stessi compiti, e al tempo stesso una legge elettorale che può produrre, per ciascuna di esse, un risultato diverso. Renzi, a sua volta, spera d'imporre una prassi che ritiene ragionevole. Ma la scorciatoia del pragmatismo, in questo caso, non funziona. Soltanto una riforma della Costituzione renderà la democrazia italiana più simile alle altre democrazie europee.
Repubblica 5.7.13
L’intervista
“Voterei Matteo come premier, solo lui può vincere le elezioni”
Pisapia: ma è meglio se rinuncia alla segreteria
di Alessia Gallione
“È l’unico che può guidare un’ampia coalizione, ma nessun partito può pensare di governare da solo. È possibile che, anche a causa delle fibrillazioni nel Pdl, il governo mangi il panettone ma non l’uovo di Pasqua”
MILANO — La premessa è chiara: «Bisogna distinguere la segreteria del Pd dal candidato premier. Il segretario lo eleggeranno gli iscritti e, se le regole lo permetteranno, gli elettori o i simpatizzanti. Ma nessun partito può pensare di governare il Paese da solo: l’unico modo per decidere il futuro leader della coalizione dovranno essere le primarie ». Ed è da questa divisione dei ruoli che, per il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, dovrebbe passare anche la scelta di Matteo Renzi: abbandonare la “scalata” al partito per puntare alla premiership. «In questo momento è l’unico candidato che può guidare un’ampia coalizione», dice.
È questo il consiglio che darebbe al suo collega di Firenze?
«Non intendo dare consigli: la decisione, naturalmente, è sua e capisco che sia difficile scegliere non sapendo quando si voterà. Se diventasse segretario, però, rischierebbe di perdere parte del suo “appeal” che gli fa avere consensi anche tra coloro che non guardano solo al Pd».
Potrebbe votarlo, quindi?
«Come segretario del partito non lo potrei votare perché non sono un iscritto e neppure ho partecipato alle primarie del Pd. Diverso il caso di primarie di coalizione, che sono necessarie. Quando sarà il momento, si vedranno candidati e programmi. Ma Renzi, come aspirante premier, adesso è la persona che può raccogliere più consensi, vincere le elezioni e portare il centrosinistra a governare con una maggioranza non risicata. Quindi, sì: non ho dubbi che potrei votarlo e, da parte mia, farò il possibile perché ci sia un confronto reale».
Alle scorse primarie lei appoggiò prima Vendola e poi Bersani. Che cosa è cambiato?
«Vendola ha, e spero avrà, un ruolo importante per il futuro di una coalizione che bisogna ricostruire. Bersani ha fatto altre scelte, ma sono tuttora convinto che sarebbe stato un ottimo presidente del Consiglio. Renzi ha avuto la capacità di aprire anche a elettori storicamente non di centrosinistra; ha saputo imparare dagli errori fatti nelle primarie. Credo che abbia compreso che per costruire non si può distruggere tutto: serve una classe politica nuova, ma non si può buttare via l’esperienza di chi non è attaccato alle poltrone e può dare contributi».
Vede formarsi un’alleanza contraria a Renzi?
«Non credo e spero proprio di no. L’impressione però è che, anche all’interno del Pd, vi sia nei suoi confronti della diffidenza che, purtroppo, lui stesso ha alimentato all’inizio con toni che lo hanno fatto apprezzare da molti, ma che hanno creato spaccature evitabili».
Ma lei si sente ancora “di Sel” o si sta avvicinando al Pd?
«La mia vicinanza a Sel è ancora forte, ma Sel deve riprendere quel cammino innovativo che aveva suscitato tanto entusiasmo. Il Pd è una grande partito che deve trovare una maggiore coesione interna».
È davvero un partito paralizzato dalle correnti?
«Da fuori, ho l’impressione che le correnti del passato siano ampiamente superate. Le differenze, però, devono essere di metodo e non limitarsi al continuo dissidio apparente. Ritengo che il partito debba al più presto fare scelte precise sul suo progetto e sul suo futuro: si stabiliscano le regole, si conoscano i candidati e, in autunno, si faccia il congresso. Il rischio, altrimenti, è che il dibattito emerga solo come contrapposizione frontale e finisca per oscurare i contenuti. Parlare di problemi reali è l’unico modo per non dare la sensazione che a sinistra si litiga sempre. Con il congresso ci deve essere un salto avanti».
Come giudica il governo e fino a quando dovrebbe durare?
«Questo è un governo che, come ha detto lo stesso Letta, è diverso da quello che gran parte dei nostri elettori avrebbe voluto. Adesso, però, deve dare risposte precise e, velocemente, fare scelte: non si può più continuare a rinviare. Dopo i primi mesi, in un momento difficile per il Paese, è possibile che, anche a causa delle fibrillazioni nel Pdl, alle contraddizioni di questa maggioranza e con l’avvicinamento delle elezioni europee, il governo mangi il panettone ma non l’uovo di Pasqua. A questo punto, con un presidente del Consiglio autorevole e capace come Letta, si prendano al più presto le decisioni fondamentali, almeno in campo economico. Tra queste, c’è la salvaguardia degli enti locali e la modifica sostanziale del patto di stabilità, che permetterebbe ai Comuni di investire e creare lavoro. Senza dimenticare mai l’equità sociale».
La Stampa 5.7.13
Nel mirino le adesioni fantasma
Pd, il Garante accusa “Tessere anomale”
di Maurizio Tropeano
«Una tessera su dieci delle nuove adesioni è anomala». Roberto Gentile è il capo della commissione di garanzia del Pd di Torino e il suo giudizio sul tesseramento del 2012 con il boom delle quattromila nuove adesioni arrivate solo a gennaio suona come un campanello di allarme alla vigilia di una stagione congressuale che si annuncia incandescente.
In questi giorni i garanti dopo aver cestinato 172 adesioni del circolo di Nichelino (ma per il sindaco e uno dei leader dei renziani, Pino Catizone, è stata fatta un’eccezione perchè non ha mai sgarrato nel versare i contributi alle attività del partito) stanno esaminando un numero analogo di iscrizioni relative ad altri sette circoli, quattro in città, che rientrano nella categoria delle adesioni fantasma. Quel che preoccupa Gentile è che a fronte di «una situazione che sulla carta mette evidenzia un partito in salute la situazione è diversa, ci sono circoli che a settembre non riusciranno più a pagare l’affitto della sede e che invece di essere aiutati a crescere vengono coinvolti in una battaglia di correnti che danneggia il Pd come bene comune».
l’Unità 5.7.13
Fabrizio Barca
«Lavoro, scuola, partito: il mio Pd chiede risposte»
«Gli incontri con i militanti arricchiscono il mio programma
La gran parte chiede che il segretario sia scelto dagli iscritti. Più spazio ai temi concreti»
intervista di Vladimiro Frulletti
Il Pd ha bisogno di un segretario che si occupi del partito e se la corsa (da cui però si esclude) sarà questa, il governo Letta non avrà nulla da temere dal congresso. Anzi, si rafforzerà con un Pd più forte. Il professore Fabrizio Barca, già ministro del governo Monti, è due mesi che fa su e giù fra circoli Pd, teatri, università e piazze per discutere («e arricchire») il suo documento sul futuro del Pd e del Paese. Il viaggio si concluderà a ottobre. Intanto ha già percorso oltre 15mila km e incontrato quasi 9mila persone. Un campione significativo del mondo dei democratici.
Professore, che Pd ha trovato?
«Interessato ai problemi della vita delle persone. Si discute della perdita del lavoro, di imprese che rischiano di chiudere, delle pensioni. Vengono sollevate questioni molto concrete sulla scuola, sull’infanzia, sulla salute. E c’è grande attenzione all’Europa. E poi su tutte la questione dell’identità del Pd. Cosa chiedono?
«Di dedicare più attenzione al profilo identitario e a definire alcuni punti qualificanti. Ad esempio c’è grande condivisione della mia scelta non ipocrita di definire il Pd come partito di sinistra. Condivisione che arriva anche da cattolici e da quelli che si definiscono i nativi del Pd. Chiedono al Pd di avere un’idea di società, sui diritti civili, su giovani e anziani. In che senso siamo diversi? Questo si domandano. Con la consapevolezza che questa identità è necessariamente legata a una visione del futuro dell’Italia».
Del Pd che sta a Roma che dicono?
«Ovunque è sempre stata sollevata la questione dei 101 franchi tiratori contro Prodi. E tutti dicono che non vogliono rischiare di tornare a votarli». Di regole e congresso nulla?
«Qui c’è una dicotomia interessante. Cioè pensando al partito di domani dicono che, essendo il Pd un’associazione, i dirigenti li devono scegliere coloro che partecipano all’associazione». Che è la sua proposta...
«Sì, e su questo c’è un’adesione fortissima. Però per l’immediato avvertono di non cambiare le regole. C’è l’invito a non giocare con le regole a partita iniziata, a non dare l’impressione di volerle modificare per avvantaggiare qualcuno a scapito di qualcun’altro
Sembrerebbero due cose che non si tengono insieme...»
Però nei partiti normali di solito le norme degli Statuti le cambiano i congressi.
«Esatto, non c’è contraddizione. C’è un’indicazione per il futuro, ma accompagnata dalla preoccupazione che vengano modificate le regole prima del congresso».
Ma un partito dove decidono solo gli iscritti militanti non è troppo chiuso? Anche il Pci aveva sì due milioni di iscritti ma ai congressi poi partecipava una minoranza.
«Io parlo di partecipanti. A Orvieto l’altra sera c’era una ragazza, che al Pd non si vuole iscrivere, ma col Pd lavora sulle questioni che le stanno a cuore. Ecco, questa ragazza è una partecipante non iscritta e nella mia idea deve poter contare nel Pd quanto il partecipante iscritto».
E sul governo che opinioni ha trovato?
«È più digerito di quello che si potrebbe immaginare. C’è stima per il Presidente del Consiglio. C’è però una forte richiesta verso il Pd affinché si faccia protagonista. Ai vertici del partito chiedono di caratterizzarsi. Già che al governo ci siamo, dicono, facciamoci sentire, incidiamo».
Diversi dirigenti del Pd temono che il congresso possa mettere a repentaglio la vita del governo Letta. Per lei è un rischio reale?
«No se la gara avverrà sul terreno giusto. Cioè che chi si candida a guidare il Pd si impegna a lavorare sodo per il partito. Perché il Pd ha bisogno di grande attenzione, di amore. Ecco, se la corsa avviene su queste basi il congresso non danneggerà il governo. Anzi il Pd sarebbe più forte e quindi sarebbe rafforzata la sua presenza al governo e quindi il governo stesso sarebbe più forte».
Insomma, per lei chi si candida alla segreteria del Pd deve fare il segretario del Pd. Punto e basta.
«È così».
Si rivolge a Renzi?
«A tutti quelli che si candidano. Se tu ambisci a fare il segretario di un’associazione devi avere un programma per rilanciarla, per farla funzionare meglio. Il lavoro è tanto e non si capisce come si potrebbe farne un altro, altrimenti vuol dire che non sei adatto a fare il segretario».
Ci sarà un «tutti contro Renzi»?
«Sarebbe un danno per il Pd. Sarebbe bene che ognuno giocasse con le proprie idee e se si devono aggregare che lo facciano dopo, sulla base delle proposte».
Lei voterebbe Renzi o lo giudica inadatto al ruolo di segretario?
«No inadatto no. Anzi sono molto curioso di leggere il documento che ha annunciato. Ma come iscritto Pd non voterei nessuno che non abbia un progetto per il Pd».
E dei nomi in corsa, Cuperlo, Civati, Pittella, forse Fassina, che ne pensa? Si è già fatto un’idea?
«Me la sto facendo».
C’è chi pensa che sarebbe meglio confermare Epifani.
«Lui lo ha escluso. Ha un ruolo molto delicato che riguarda anche le regole. È positivo che svolga una funzione terza».
E lei? Davvero non punta a fare il segretario?
«Sì, è la verità».
Mai dire mai, soprattutto in politica. «La credibilità di quello che sto facendo e il seguito che sto incontrando derivano anche dal fatto che non sono l’ennesimo».
Il suo viaggio sembra una campagna elettorale.
«Perché s’è persa l’idea di pensare che ci possa essere qualcuno che prova soddisfazione nel tentare di modificare le opinioni. In particolare sul fatto se l’Italia non si possa governare da sinistra per un deficit di autorità o, come penso io, perché mancano partecipazione, conoscenza e attuazione».
E i 40mila euro che avrebbe dato alla sua sezione?
«Per organizzare il viaggio, preparare i documenti, aggiornare il sito, ci sono alcune persone che pago io e non attraverso il circolo del Pd a cui sono iscritto. Mentre le trasferte sono a carico di chi mi invita».
l’Unità 5.7.13
Civati, la corsa per la segreteria e la «piazza politica»
Inizia oggi «Politicamp», la tre giorni di dibattiti a Reggio Emilia organizzata dal deputato Pd critico sulle larghe intese
Stasera Barca ospite
di Natalia Lombardo
Io? Mi candido al congresso Pd, lo farei anche se ci fossero delle regole che valgono solo per chi si chiama Guglielmo e se si fa nel 2020... Mi sento come quando Fassino disse: Grillo fondi un partito e vediamo quanti voti prende...». Pippo Civati, anzi Giuseppe, sembra divertirsi sotto sotto a sfidare i big del Partito democratico, e da oggi comincia a Reggio Emilia la sua festa-iniziativa «Politicampo, W la libertà», che quest’anno si terrà nell’antico Chiostro della Ghiara. E ieri, mentre a Roma, al Nazareno, si stava svolgendo il convegno «Fare il Pd», Civati era a Vicenza alla presentazione del libro di Ilvo Diamanti, Un salto nel voto. «Al “caminetto” che Bersani aveva promesso di non fare più? Non mi hanno invitato, ma sono contento. Mi sembra una discussione surreale, sento parlare pure di doppio turno, così si va a finire nel 2016...».
Pippo Civati, trentottenne deputato lombardo, come candidato alla segreteria del Pd è convinto che si debbano usare «le regole che ci sono già». Nessun cambiamento dello statuto, nessun taglio alla consequenzialità che lega l’essere segretario e candidato premier.
«Non ha senso cambiare regole», dice a l’Unità, «altrimenti c’è qualcuno che fa la vittima» (ogni riferimento alla frase di D’Alema a Renzi è puramente casuale...) «oppure c’è il rischio che si faccia una norma contro Cuperlo», scherza improvvisando una par condicio. Magari una regola anti-Civati? «Ma va, non si occupano di me, meglio così. Piuttosto ci si deve occupare della questione politica più clamorosa». Quale? «Il governo di larghe intese, non capisco dove si vuole andare a parare, i miei consigli sono caduti nel vuoto», lamenta.
Un governo che lui non ha mai approvato (si è posto anche come trait d’union con i Cinque Stelle), infatti non ha partecipato al voto di fiducia. I suoi consigli riguardavano il fisco e la legge elettorale «che per me era da cambiare subito». Adesso però eliminare il Porcellum prima che sia compiuto il percorso delle riforme costituzionali, è diventato anche l’obiettivo parlamentare del Pd. «Hanno cambiato idea», quasi s’infuria l’animatore del blog www.ciwati.it, «fino a due settimane fa la mozione Giachetti era vista come una cretinata, non si parlava neppure di “clausola di salva-
guardia”. Franceschini è venuto a dirci che sarebbe stato come togliere la fiducia al governo», sbuffa. E contesta anche il braccio di ferro con il Pdl sull’Imu: «Io credevo che ci sarebbe stato un accordo prima di fare il governo delle larghe intese, invece ci ritroviamo il veto di Berlusconi che vuole abolire la tassa sulla prima casa a qualunque livello». Ma a questo punto, chiediamo, qual è l’alternativa che proporrebbe Civati? «Convincere il Pdl a rivedere l’Imu sulla prima casa. Non è possibile che sindacati e Confindustria dicano la stessa cosa e Berlusconi un’altra, come promessa elettorale».
Insomma, l’importante è discutere, «dei temi in ballo e dei tempi di durata del governo Letta: quando si va a votare? L’anno prossimo o nel 2015? Perché bisogna essere più chiari anche con Renzi», spiega Civati, che appoggiò il lancio del sindaco di Firenze alla Leopolda, per poi distaccarsene, «se davvero si ritiene che sia il miglior candidato premier, non ha senso che lui faccia il segretario Pd se poi si vada a votare fra due anni. E nel frattempo lasciamo a Sel tutto il campo a sinistra».
Civati intanto coltiva il rapporto con Fabrizio Barca, che stasera alle 21 interverrà al suo «Politicamp» di Reggio in un dibattito con la prodiana Sandra Zampa, Walter Tocci e Andrea Ranieri. «Con Barca c’è una grande sintonia sul partito, sulla sinistra. È un amico, ora vediamo cosa vorrà fare al congresso. Insieme faremo il punto su cosa è condiviso fra noi e cosa no».
Da oggi parte la tre giorni, una «piazza politica» che dal campeggio di Albinea, dove si svolgeva dal 2010, si sposta in centro e sarà trasmessa in diretta streaming. Da Occupy Pd all’«area-Rodotà», dibattiti anche culturali: da un’intervista al regista Roberto Andò all’incontro con gli studenti turchi (oggi), al monologo di Paolo Nori sui morti di Reggio Emilia (domenica). Si parla di comunicazione con Giovanni Diamanti, di piattaforme digitali con Renato Soru e Juan Carlos De Marti. Domani il tema sono le «leggi del cambiamento», dalle proposte per un Paese «a rifiuti zero» sperimentato dalla Provincia di Reggio Emilia, al tetto per le retribuzioni pubbliche, «non superiore a quella del presidente della Repubblica».
La Stampa 5.7.13
Settimana decisiva per l’Orchestra fiorentina
Ministro contro sindaco le due strade del Maggio
Renzi vuole la liquidazione, Bray un piano industriale
di Sandro Cappelletto
Muti: la cultura oggi è svuotata «Per la cultura ormai non si fa quasi nulla, è una parola che si è svuotata»
Dice Riccardo Muti, cui è stato assegnato il Premio Pico della Mirandola 2013 prima del concerto del Ravenna Festival ieri. «Sono preoccupato come italiano e come musicista»
«Non li ho mica inventati io, i debiti! », diceva allargando le braccia Gian Paolo Cresci, sovrintendente dell’Opera di Roma negli Anni 90. In 30 mesi accumulò 33 miliardi (in lire) di debito, giustificandosi così: «E che sarà mai? Un paio di carri armati, 4 chilometri di autostrada. Giulio (Andreotti) mi ha detto: “Gian Paolo, spendi, fai grande questo teatro! ”. E io ho speso». Era la morale pubblica al tempo della Prima Repubblica.
Venti anni – e molti governi, ministri, leggi, decreti - quell’esempio non è rimasto isolato. Ma chissà chi avrà detto di spendere ai passati sovrintendenti del Maggio Musicale Fiorentino, afflitto da un debito di 37 milioni, stavolta di euro. Nella sua enormità, la cifra rappresenta tuttavia poco più di un decimo della situazione debitoria complessiva delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche italiane. 332.406.966 milioni di euro a fine 2011, come certifica il Ministero.
Per il Maggio non c’è più tempo e la gravità della sua situazione è all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri la prossima settimana. Riccardo Muti riflette: «Se a finanziare il teatro del Maggio fossero stati i privati, come negli Usa, non saremmo arrivati a questo punto. Al primo milione di debito, qualcuno avrebbe chiesto spiegazioni urgenti. Perché qui lo Stato non l’ha fatto? Detto questo, il Maggio va salvato».
Salviamo il Maggio, infatti, dicono tutti. Lo dice il sindaco di Firenze Matteo Renzi in una lettera aperta al in cui denuncia – ma prima non si era accorto di nulla? - «dirigenze conniventi con alcuni sindacati che hanno assunto personale in modo sproporzionato, forti di un contratto nazionale che grida vendetta». Sostenuto dal sindaco, il commissario straordinario Francesco Bianchi – afflitto da un ulteriore onere di 5,8 milioni di euro di Irpef non pagata per i dipendenti - ha proposto la «liquidazione coatta amministrativa», con conseguente «concordato in bonis». Una sorta di bad company sul modello Alitalia. Si liquida il «vecchio» Maggio, creditori e banche non vengono saldati, e si riparte con 118 dipendenti in meno. Ma per garantire la ripresa autunnale servono 14 milioni di euro, che non si sa dove trovare. Fonti ministeriali riportano la contrarietà del ministro Bray a questa ipotesi, che giudica figlia di un modo di chiudere i passati contenziosi scaricando le perdite sulla collettività. Il Ministro vorrebbe un nuovo piano industriale, che comprenda un’ipotesi di rientro del debito e scongiuri il ripetersi in futuro di una situazione analoga, impegnandosi a sua volta a trovare impiego nella funzione pubblica per i lavoratori in esubero. Accusato da Renzi di «un dolce far nulla in linea con i suoi predecessori», Bray ribadisce l’intenzione di procedere a un radicale rinnovo, del contratto collettivo di lavoro, fermo dal 1999 e gravato da una serie unica al mondo di indennità e privilegi. Stiamo dunque assistendo a un inedito conflitto, figlio del regolamento strabico dei nostri teatri: finanziati dal Ministero, hanno per presidente il sindaco. Il gioco perverso dello scaricabarile è assicurato. «Fate meglio i compiti a casa», direbbe da Berlino la signora Merkel.
La Stampa 5.7.13
Gianandrea Noseda
“L’opera non è solo orgoglio nazionale ma un buon affare”
intervista di Alberto Mattioli
Se non fosse che spesso ci fa caldo, talvolta soffia il mistral quindi ci fa freddo e sempre c’è il «tout Paris» che strilla «magnifique! » qualsiasi cosa ci si faccia, il festival di Aix-en-Provence sarebbe davvero perfetto. Quest’anno, poi, il cartellone è davvero eccellente. Iniziando dall’inizio, cioè dal Rigoletto che ieri sera ha inaugurato il festival. Sul podio, una bacchetta che i torinesi conoscono bene, Gianandrea Noseda, al debutto nella mitica corte dell’Arcivescovado. Un’altra tappa di una carriera internazionale che procede con l’inarrestabile determinazione di un panzer.
Maestro Noseda, impressioni?
«Il Festival è bellissimo, sul palco c’è una buona compagnia e in buca la London Symphony Orchestra. Non solo sono bravissimi ma, visto che l’opera di regola non la suonano, si divertono moltissimo».
E la regia di Robert Carsen, con Rigoletto clown al Mantova Circus?
«Molto forte, molto bella. Molto verdiana. Con una continuità cinematografica e improvvisi cambi di prospettiva, così fa lui. Macché forzature: la drammaturgia verdiana c’è tutta, indiscutibile. E se quando si parla di “ferro” si estrae una pistola, beh, sempre di ferro è».
2013, anno verdiano. Anche per lei, sembra.
«Don Carlo a Torino, Rigoletto ad Aix, prossimamente Simon Boccanegra ancora a Torino e Aida alla Scala, Messa da Requiem in tutto il mondo. La cosa incredibile è che ogni volta che riapri una sua partitura parti da zero. Verdi è sempre nuovo, sembra che abbia finito si scrivere cinque minuti fa».
Ma le voci «verdiane» non ci sono più, si dice. E giù sospiri.
«Non ci sono più nemmeno Coppi e Bartali, però il Giro d’Italia si corre lo stesso. Se cerchiamo le voci di una volta, sì, è vero, non ci sono più. Ma le voci di oggi hanno altre caratteristiche che vanno valorizzate. Non sono peggiori, sono diverse. Il vero errore è non rendersene conto e cercare il bello di ieri invece che quello di oggi».
Parliamo del Regio. Il suo contratto come direttore musicale quando scade?
«A fine agosto 2014».
Lo rinnova?
«Ne parleremo, da parte mia non c’è alcuna preclusione».
Vabbé, cambio la domanda: pensa che lo rinnnoverà?
«Direi proprio di sì».
E pensa anche che ne valga la pena? In Italia, per l’opera sono tempi cupi.
«Il Regio, grazie a una buona gestione, non è certo in acque così cattive come altri teatri. Però bisogna evitare che ci finisca, quindi bisogna continuare a lottare, senza mai stancarsi. E se occorre alzare la voce, senza arroganza ma con decisione».
Il problema è che non c’è nessuno che ascolta.
«Il problema è che non si è ancora capito che l’opera per noi italiani non è solo motivo di orgoglio nazionale, ma anche volano economico. Paradossalmente, lo sanno meglio all’estero. Infatti sto cercando di portare a Torino degli sponsor stranieri».
Prossima stagione del Regio. Il piatto forte è Guglielmo Tell, ma incredibilmente in italiano. Perché?
«Perché si sta discutendo una coproduzione con un importante partner straniero, che però lo vuole in italiano».
Importante?
«Importantissimo».
La Stampa 5.7.13
Berlusconi orientato a firmare i referendum radicali sulla Giustizia
di Ugo Magri
Mediaset, la difesa di Coppi “Calpestato il codice”
La prospettiva sempre più drammatica di finire dietro le sbarre (nemmeno l’età lo metterebbe al riparo dalle patrie galere) spinge in queste ore Berlusconi a soppesare una mossa politica lucida e, insieme, disperata. Sta seriamente pensando di recarsi a un banchetto dei Radicali, e di sottoscrivere davanti alle telecamere i cinque referendum «per la Giustizia giusta». Chiaro che i suoi elettori sarebbero invitati a fare altrettanto. Al Cavaliere interessano i quesiti sulla responsabilità civile dei magistrati, sulle toghe fuori ruolo e sulla separazione delle carriere; meno quelli di ispirazione schiettamente liberale che mirano a cancellare l’ergastolo nonché a mettere un freno alla custodia cautelare. Ma l’impatto politico sarebbe formidabile, e Pannella si domanda con stupore come mai Silvio ancora non si decida a sfruttare la grande chance referendaria per piazzare una mina sotto al sistema...
Fonti di casa ad Arcore garantiscono che «ci siamo quasi». Ieri all’alba, «tweet» premonitore della Santanché, periscopio del sommergibile berlusconiano. La decisione sembrerebbe matura. Anche perché la fiducia dell’ex-premier nella giustizia è direttamente proporzionale alla speranza di vedere accolte le proprie ragioni: cioè zero. Dai diritti Mediaset a Ruby, finora ha sempre incassato il massimo della pena. È certo che il 19 luglio verrà rinviato a processo per corruzione di senatori, e molti indizi fanno pensare che finirà allo stesso modo a Bari per l’inchiesta sulle «escort» («C’est la vie», prova a sdrammatizzare un personaggio dell’entourage, «anzi c’est Lavitola... »).
A credere che il Cavaliere possa ancora scansare l’arresto è rimasto, praticamente, uno solo: il professor Franco Coppi che, insieme con l’avvocato Niccolò Ghedini (molto meno speranzoso di lui), ha presentato giorni fa il ricorso in Cassazione avverso la sentenza Mediaset, quella che ha condannato Berlusconi a 4 anni più pene accessorie per frode fiscale. Il verdetto della Suprema Corte è atteso in autunno, e la politica italiana lo attende col fiato sospeso. Nei Palazzi nessuno si illude che il governo e la XVII legislatura resisterebbero indenni a una condanna dell’ex-premier. Eppure, fatto singolare, nessun riflettore si è acceso sulle 359 pagine vergate dai due legali, cioè sull’extrema ratio difensiva di Berlusconi, dove si argomentano ben 49 motivi per cui il processo Mediaset di appello dovrebbe essere cassato, e precisamente: 23 cause di nullità, più 26 violazioni di legge. Qui si coglie lo stile inconfondibile di Coppi: sempre in punta di diritto, con il tono di chi sta tenendo un corso magistrale di diritto processuale, elenca (per restare sui numeri) 31 articoli, dicasi trentuno, del Codice di procedura penale a suo avviso calpestati nell’arco del giudizio di appello che non sarebbe nemmeno dovuto incominciare per «incompetenza funzionale»...
Il piatto forte della difesa? Ancora una volta, i legittimi impedimenti negati dalla corte milanese. Non solo quello appena bocciato dalla Consulta, ma altri non meno celebri: quando Berlusconi si mise a compilare le liste elettorali proprio nel giorno dell’udienza, e quando finì in ospedale per uveite (la privacy vieta di riferire le varie patologie visive riscontrate al paziente, e comunque il lettore non vi troverebbe nulla di così gradevole). Non si contano le bacchettate procedurali: dal sistematico «fraintendimento» dei testimoni al «travisamento» delle prove, alla mancata acquisizione degli atti del processo gemello, in cui Berlusconi fu assolto. Chi dimenticasse per un attimo la fonte del documento (gli avvocati difensori del Cavaliere) trarrebbe l’impressione che i magistrati abbiano fatto, come si dice a Oxford, carne di porco delle regole, combinando la qualunque pur di mettere fuori gioco il leader del centrodestra. Ma a Coppi e a Ghedini sarebbe sufficiente che la Cassazione desse loro retta su un punto, uno soltanto, per rovesciare i pronostici e tirare miracolosamente in salvo il loro imputato...
Corriere 5.7.13
Datagate. La Bonino riferisce in parlamento
Roma nega l’asilo a Snowden «Prima i rapporti con gli Usa»
di Stefano Montefiori
Scoppia il Grande Fratello francese: spiati sms e email
PARIGI — Dopo Cina e Russia, e poi Brasile, India, Norvegia e Polonia, ieri anche Italia e Francia hanno rifiutato la richiesta di asilo di Edward Snowden. Il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino ha detto in Parlamento che «non ci sono le condizioni giuridiche» per accoglierlo. Ma la questione è soprattutto politica: «A me e a noi come governo pare che preservare con Washington un rapporto di fiducia sia nei nostri migliori interessi nazionali e anche in quello americano». Al di là dell’irritualità della richiesta giunta per fax, il punto è che non si vuole compromettere la relazione con gli Usa.
L’ex consulente della National Security Agency americana ha denunciato il programma segreto Prism del governo degli Stati Uniti per lo spionaggio e la raccolta dei dati Internet a livello mondiale (anche a danno degli alleati europei): dopo avere lasciato il 20 maggio scorso le Hawaii per Hong Kong, il 23 giugno Snowden ha raggiunto l’aereoporto Sheremetyevo di Mosca e lì rimane tuttora, bloccato nell’area transiti, in attesa che uno dei 21 Paesi ai quali si è rivolto accetti la domanda di asilo. Molti Paesi amici degli Usa non si sognano di dare aiuto a colui che per Washington resta un traditore. Quanto alla Francia, all’inizio Hollande ha avuto la reazione più dura. Il presidente è arrivato a minacciare la sospensione dei negoziati sull’accordo di libero scambio Ue-Usa, ma dopo un paio di giorni i toni si sono abbassati: la Francia ha negato il sorvolo del suo spazio aereo al jet del presidente boliviano Evo Morales sospettato di avere a bordo Snowden (che invece non c’era), e ha acconsentito a cominciare le trattative sul libero scambio, come previsto, lunedì 8 luglio (in cambio di un gruppo di lavoro misto euro-americano sullo spionaggio).
Infine, ieri anche Parigi ha negato l’asilo a Snowden, e soprattutto Le Monde ha pubblicato un’inchiesta che parla di un programma «Prism» alla francese: c’è poco da indignarsi per l’invasione americana della privacy, la Francia da anni fa lo stesso. Secondo Le Monde, la «Direction générale de la sécurité extérieure» (Dgse) «raccoglie sistematicamente i segnali elettromagnetici emessi dai computer e dai telefoni in Francia, e il flusso tra i francesi e l’estero: la totalità delle nostre comunicazioni sono spiate. L’insieme delle email, degli sms, dei tabulati telefonici, degli accessi a Facebook, Twitter, vengono poi conservati per anni».
I dati sono custoditi nei sotterranei della sede della Dgse a Parigi, in boulevard Mortier, e messi a disposizione degli altri servizi francesi. Un procedimento illegale o meglio a-legale, sostiene il co-autore dell’articolo Jacques Follorou (l’altro è Franck Johannès): a differenza del programma americano Prism, a lungo segreto ma coperto dal Patriot Act approvato dopo l’11 settembre, la Dgse agisce nel totale vuoto della legge. Le rivelazioni di Le Monde non si appoggiano su uno Snowden francese, e le fonti dell’inchiesta restano oscure: a parte il direttore stesso della Dgse, Bernard Barbier, che avrebbe candidamente evocato in pubblico, per due volte a partire dal 2010, l’attività francese. Assieme all’assenza di smentite da parte del governo, un altro argomento per chi su questo tema ha scelto di non scandalizzarsi: nessuna sorpresa, le spie spiano.
Corriere 5.7.13
Rizzo: «Il ministro se ne vada Persa la sovranità nazionale»
Il blocco dell’aereo del presidente boliviano Evo Morales, per il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, sarebbe stata una palese violazione del diritto internazionale. Per questo, ieri, con un tweet, Rizzo ha chiesto esplicitamente le dimissioni del ministro degli Esteri Emma Bonino accusando il governo di aver fatto diventare l’Italia una colonia degli Stati Uniti. «È stata messa in pericolo la vita di Morales e si è persa la sovranità nazionale» ha spiegato l’ex parlamentare.
La Stampa 5.7.13
Schifani-mafia: respinta la richiesta di archiviazione
Presentata da Ingroia è stata bocciata: ora le parti tornano dal gip
di Riccardo Arena
Il giudice non si convince e non archivia l’inchiesta per mafia nei confronti dell’ex presidente del Senato Renato Schifani: udienza dunque fissata per il 23 luglio, quando le parti - la Procura che ha chiesto l’archiviazione e lo stesso attuale capogruppo del Pdl al Senato - saranno convocate davanti al Gip Piergiorgio Morosini. Che ascolterà le ragioni che hanno indotto i pm Nino Di Matteo e Paolo Guido a formulare la richiesta e le eventuali osservazioni dei legali di Schifani, chiamato in causa da quattro pentiti e invischiato in un’indagine aperta quando occupava la seconda carica dello Stato. Per evitare fughe di notizie (che ovviamente c’erano state lo stesso) l’ufficio diretto da Francesco Messineo aveva iscritto l’allora presidente del Senato con uno pseudonimo curioso, «Schioperatu».
Nel giorno in cui la corte d’assise di Palermo respinge le eccezioni di incompetenza territoriale e funzionale nel processo sulla trattativa Stato-mafia, stabilendo dunque che il dibattimento rimanga nel capoluogo siciliano, a Schifani viene notificato il provvedimento del Gip Morosini, poco convinto dalla decisione di chiudere la vicenda con un’archiviazione, chiesta, prima della partenza per il Guatemala, dall’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Nonostante vi fossero una serie di elementi a carico dell’indagato, avevano scritto gli inquirenti, mancavano riscontri certi, oggettivi e individualizzanti.
Non erano sufficientemente provate, in particolare, le accuse del pentito di Villabate, Francesco Campanella, che aveva parlato della vicinanza di Schifani al boss di Villabate, Nino Mandalà, e dei presunti favori che l’esponente politico avrebbe fatto, quando era avvocato e consulente del Comune a cinque chilometri da Palermo, sulle vicende del piano regolatore del paese. Sullo stesso fronte, quello dei piani regolatori, un altro collaborante, Innocenzo Lo Sicco, ex costruttore, aveva affermato che Schifani sarebbe riuscito a «salvare» un palazzo abusivo, nel centro di Palermo, facendo approvare, apposta per quell’edificio, una sanatoria edilizia nazionale. L’indagine, già stata archiviata una prima volta, era stata riaperta nel 2010, a seguito delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza.
il Fatto 5.7.13
Guerra per il Corriere, Della Valle sfida Elkann
di Camilla Conti
A SORPRESA L’IMPRENDITORE DELLA TOD’S ANNUNCIA DI VOLER AUMENTARE LE SUE QUOTE PER NON LASCIAR COMANDARE LA FIAT CHE AVRÀ IL 20 PER CENTO
Milano À la guerre comme à la guerre. Al suo ritorno da Parigi, ieri Diego Della Valle ha convocato una conferenza stampa per annunciare che non solo non molla la partita su Rcs-Corriere della Sera, ma anzi, rilancia. Con una mossa che suona come una dichiarazione di guerra agli Agnelli e una chiamata alle armi per tutti i soci non pattisti: “Domani sottoscriverò l’aumento di capitale e sono pronto a rilevare tutto l’inoptato che ci sarà” e che dovesse finire nei portafogli delle banche del consorzio di garanzia. A condizione che venga sciolto il patto di sindacato e rivisto il piano industriale.
DOPO IL BLITZ della Fiat diventata prima azionista con il 20,1 per cento, l’imprenditore marchigiano (oggi all’8,7 per cento) è pronto a salire oltre il 20 per cento del gruppo che controlla il Corriere della Sera. “L’ideale – ha aggiunto - sarebbe quello di avere almeno 5 azionisti con il 10 per cento che si mettano intorno al tavolo per gestire l'azienda, con persone competenti. Fiat ha il 20 per cento, le maggioranze si formano con il 51”. La decisione è stata maturata dopo “alcuni incontri e telefonate con le persone interessate” tranne Fiat, e dopo aver ricevuto garanzie sulle modifiche da apportare nella governance dell’azienda. “Mi è stato detto che queste cose non si potevano fare prima dell'aumento di capitale - ha aggiunto - e allora la mia decisione è di sottoscriverlo. Se poi le cose non accadono significa che abbiamo perso tempo, qualcuno avrà fatto il gioco delle tre carte per lasciare tutto come sta".
Mister Tod’s mette mano al portafoglio ma continua anche a lanciare strali contro il commensale per ora seduto a capo del tavolo, la famiglia Agnelli: dal blitz della scorsa settimana (“Comprare diritti sul mercato era una delle cose meno difficili e meno costose da fare'') alla telefonata con cui Elkann annunciava l’aumento della quota in Rcs al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (“una sceneggiata di cui il Paese non aveva bisogno, se hanno mezz'ora di tempo potrebbero telefonare a Pomigliano o andare a trovare i lavoratori all'Ilva di Taranto”).
Oggi è l’ultimo giorno utile per esercitare i diritti dell’aumento da 400 milioni in opzione ai soci e per aggiudicarsi, dunque le quote rimanenti di Rcs. Ma la battaglia vera comincerà lunedì quando si capirà quanto inoptato resta effettivamente da sottoscrivere sul mercato. E soprattutto se chi aveva inizialmente deciso di vendere i diritti a partecipare all’aumento di capitale ha deciso di cambiare idea scommettendo su un possibile rialzo del titolo in Borsa. Intanto, le truppe si stanno già posizionando: ieri Pirelli ha annunciato di aver sottoscritto l'aumento solo per la quota nel patto di sindacato mentre ha ceduto i diritti relativi alle azioni non vincolate. In caso di totale sottoscrizione dell'aumento, la percentuale di possesso del gruppo guidato da Marco Tronchetti Provera corrisponderebbe al 5,3 per cento circa. Mediobanca ha invece esercitato tutti i propri diritti di opzione e sottoscritto le azioni con un investimento di 60,8 milioni. La quota dell'istituto di Piazzetta Cuccia nel gruppo editoriale sale dunque dal 14,36 per cento al 15,14 del capitale, dove resta secondo socio dopo la Fiat.
OGGI TOCCHERÀ a Della Valle fare le relative comunicazioni a Consob. Solo a bocce ferme si delineerà il nuovo azionariato della Rizzoli perché, come ha ribadito ieri Della Valle, “le azioni vanno contate e non pesate”. Chi si schiererà dalla sua parte? Difficile immaginare una Mediobanca allineata sulle sue posizioni, mentre ancora non è chiara la posizione di Intesa Sanpaolo con il presidente Giovanni Bazoli che – si dice – abbia fatto da mediatore e con l’amministratore delegato del-l’istituto, Enrico Cucchiani, che a maggio aveva strigliato l’imprenditore marchigiano e i Benetton dopo l’annuncio del loro voto contrario all’aumento di 400 milioni. E che ieri ha sottolineato come Della Valle ha il suo ruolo “in funzione di quello che è il peso della sua quota azionaria e del contributo che può dare”. Su numeri e pesi delle azioni si è espresso anche il presidente del Consiglio gestione di Intesa, Gian Maria Gros Pietro, sottolineando che con l'operazione Rcs “si è aperta un’epoca in cui nelle aziende assume nuovamente maggiore importanza il peso delle azioni possedute. Un’evoluzione che noi salutiamo favorevolmente”. Evoluzione che porterà a una nuova battaglia agostana fra i condomini di via Solferino.
il Fatto 5.7.13
Bambini copti e ribelli siriani, nuovi africani di Sicilia
Partono dall’Egitto i migranti in fuga dalle rivolte, e si arenano nel Cie di Siracusa
di Veronica Tomassini
Siracusa I siriani arrivano dall’Egitto, si parte da lì adesso. Mentre dalla Libia vengono soltanto gli uomini del Nordafrica. Il barcone attracca nel porto di Siracusa mercoledì notte. Stavolta contiene nuovi numeri, i numeri della rivoluzione egiziana, cristiani copti minorenni, qualche adulto, donne (due devono partorire), neonati. Sono 109 clandestini, tra siriani ed egiziani, la carretta (12 metri) arriva dalle frontiere scoperte del paese di Mohamed Morsi.
Sugli adulti non c’è molto da aggiungere, cercano gli scafisti, le identità rimangono segrete. I siriani sono raccolti in una delle stanze di una specie di mausoleo, sono costruzioni spaventose, grate, ballatoi, ogni dettaglio è un indizio di costrizione, un nonsense generale, un invito alla disperazione o all’ineluttabilità. Non c’è aria nel Cie di Siracusa (Centro di identificazione ed espulsione), qualche scritta sui muri esterni tipo W la Somalia e una manciata di metri più avanti una minaccia forse firmata con la vernice rossa: “la via della vergogna”. Dentro, da un antro all’altro, si intercettano uomini in divisa, o sagome avvolte dal niqab, sono donne, o testoline arruffate, i bambini. I siriani non torneranno indietro, gli adulti egiziani sì. I siriani “fanno puzza di guerra”, l’osservazione è di un giovane mediatore che sta traducendo ai poliziotti la loro ostilità. “Non daranno le impronte”, spiega ai funzionari, “faranno qualcosa di grande, sono pericolosi”.
SANNO DI GUERRA, hanno gli occhi sbarrati di chi non deve dormire, il terrore del cecchino, il volto consumato dalla concentrazione e dalla paura di chi è abituato a vigilare: “Fanno puzza di sangue capisci? ”, spiega il mediatore che viene da Sousse. Sono stati 20 giorni in mare, hanno soldi nascosti ovunque, vogliono andare in Nord Europa. Sono tutti uomini, vengono da Daraa. Nel frattempo un gruppo di ragazzini viene convocato in direzione, egiziani, cristiani copti dello sbarco del 29 aprile, rosario al collo, non sono accompagnati, partiti con 40mila sterline egiziane, perlopiù falegnami, 15-16 anni al massimo. Sono fuggiti a piedi dal centro per minori di Melilli. Siracusa assurdamente avrebbe rappresentato l’idea di un ritorno a casa: in mancanza di meglio, il Cie di via Gela. I genitori sono al paese, hanno investito su di loro, spiega il mediatore. Loro che faranno? Il responsabile del Cie dice che dipende, che si devono comportare bene, che potranno anche studiare, ma non devono scappare più. Girgise, Aiman, Jamir vorrebbero tornare indietro: non esiste l’Europa che credevano, quella immaginata con 40mila sterline egiziane in tasca. Ognuno di loro, in Occidente, in Italia, vale 70 euro al giorno. Un buon affare. Il giovane traduttore del Cie, l’arabo di Sousse, dice con convinzione che “la primavera araba poteva contare 22mila possibili richiedenti asilo, emarginati, in Tunisia, come qui in Italia, e accadrà in Egitto”.
Prepariamoci, avverte il giovane di Sousse, a circa 50 milioni di richiedenti. Il Cie di Siracusa è il non luogo che succede ad ogni sbarco, non è un punto di arrivo o di partenza, una zona grigia dove si giace più che aspettare uno status di rifugiato valido per tre anni, un traguardo per un giovane eritreo che è entrato esultando in direzione, mentre il responsabile Giampaolo Parrinello riceveva i ragazzini fuggiti dalla struttura di Melilli, con le mani in testa, una notte senza chiudere occhio e una manciata di fogli davanti con nomi e documenti da verificare.
Dal C3 - il documento che segue alle impronte - fino al riconoscimento dello status di rifugiato intercorre il nulla, o un tempo infinito, mesi invece che giorni consumati nel mausoleo di via Gela, che intanto teme un’implosione, e di solito diventa rissa o sommossa. Il funzionario della questura, nel cortile, al centro del mausoleo, sotto l’ombra del ballatoio, scuote il capo, non capisce perché continuano a sbarcare a Siracusa, cosa stia cambiando o piuttosto cosa debba tramare lungo le nuove rotte della clandestinità.
Repubblica 5.7.13
La strada bassa della Fiat
di Luciano Gallino
È POSSIBILE, mentre il XXI secolo avanza e una grave crisi sconvolge economie e società di mezzo mondo, riuscire a fabbricare beni e servizi ad alti livelli di produttività e mantenere al tempo stesso fermi i diritti che i lavoratori hanno conquistato in una generazione di lotte e sacrifici? A questo interrogativo l’ad Fiat Sergio Marchionne ha risposto più volte di no. Per contro giorni fa la Consulta ha stabilito in sostanza che sul terreno dei diritti acquisiti non si può tornare indietro, per cui una soluzione andrà comunque trovata. A sua volta la presidente della Camera (diciamolo: una delle poche voci alte e forti sortite dalle elezioni di febbraio) ha risposto, parlando nella sua lettera all’ad Fiat, di lavoro da reinventare e ripensare sotto nuove forme e in chiave di innovazione e produttività, decisamente di sì: deve essere possibile.
Sostenendo con le sue azioni dal 2004 in avanti il principio che per produrre come si deve bisogna oggi ridurre i diritti dei lavoratori, principio che la Consulta ha ora bocciato, Marchionne non ha ovviamente inventato nulla di nuovo. Ha deciso di seguire la polverosa strada bassa delle relazioni industriali, progettata e costruita in Usa e nel Regno Unito dai governi Reagan e Thatcher degli anni 80, poi percorsa attivamente in Francia e in Germania anche da governi sedicenti socialisti o socialdemocratici, o comunque con l’appoggio dei partiti così denominati. Si veda, nella prima, la legge sulla modernizzazione del diritto del lavoro, e nella seconda la sequela delle leggi Hartz — dal nome di un ex capo del personale cui il governo ritenne di affidare, nientemeno, che il compito di insegnare ai lavoratori ad essere più responsabili. Il che ha significato accettare senza discutere salari “moderati”, potere e rappresentatività dei sindacati in picchiata, condizioni di lavoro sempre più pesanti.
Parrebbe giunto il momento di riconoscere che la strada bassa delle relazioni industriali è stata una pessima costruzione. Ha compresso in misura iniqua quanto economicamente insensata la quota salari in Europa come in America; ha contribuito a produrre milioni di disoccupati; ha favorito la scomparsa di interi settori produttivi. Peggio che mai in Italia, dove la generalizzazione della ricetta Marchionne a tutto il settore industriale non sarà stata la sola causa, ma di fatto si è accompagnata a crolli paurosi della produzione: in un decennio scarso la costruzione di auto è scesa della metà, non si fabbricano più grandi navi, sono in crisi tessili ed elettrodomestici, l’aerospaziale ha i problemi suoi, la chimica è un nano rispetto a quello che era tempo addietro.
In questo quadro più nero che grigio, che cosa significa reinventare e ripensare il lavoro in chiave di innovazione e produttività, per usare le parole della presidente della Camera? Significa varie cose. Che bisognerebbe smetterla di concepire la produttività come lavorare sempre più in fretta sotto il controllo di un computer, come vorrebbe la metrica Fiat imposta dal cosiddetto accordo di Pomigliano: con il risultato ultimo, osservabile in tutti i comparti produttivi, che nel momento in cui finalmente gli operai lavorano come robot, vengono subito sostituiti da robot nuovi di zecca (come ho ricordato altre volte, l’Italia è da anni il secondo maggior acquirente europeo di robot industriali). La produttività andrebbe invece correttamente vista come valore aggiunto per ora lavorata, un risultato che si ottiene innovando, contando sull’intelligenza dei lavoratori invece che sulla loro disciplinata obbedienza, riconoscendo che nelle critiche che essi ed i sindacati fanno all’organizzazione del lavoro – e perché no ai prodotti – c’è più produttività da ricavare che non imponendo ritmi forsennati di lavoro. Per tacere della ricetta di Henry Ford, che non era precisamente il titolare di un’opera pia, ma all’incirca un secolo fa scoprì una formula che i manager di oggi sembrano avere dimenticato: raddoppiò il salario giornaliero agli operai contando sul fatto – allora puntualmente verificatosi – che essendo pagati meglio potevano acquistare i prodotti che fabbricavano. Al fine di concretare questi contenuti della produttività, la tutela dei diritti di rappresentanza, di parola, di partecipazione dei lavoratori attraverso i sindacati riveste più che mai un ruolo fondamentale.
La Stampa 5.7.13
Kazakhstan, intrigo internazionale
“Espulse ingiustamente la moglie e la figlia del dissidente kazako”
L’Italia le consegna in una notte al dittatore Nazarbayev
Il caso affrontato dal tribunale di Roma: «Procedura basata su falsi presupposti»
di Francesco Grignetti
24 anni di potere Nursultan Nazarbayev guida il Kazakhstan dall’indipendenza della nazione, nel 1989. La sua ultima rielezione, nel 2005, è stata condannata dall’Osce perché particolarmente carente nel rispetto degli standard internazionali di democrazia
Non andavano espulse, la signora Alma Salabayeva e la figlioletta Alua. È una sentenza del tribunale di Roma che lo stabilisce. Non è stata corretta la procedura perché basata su un presupposto rivelatosi falso, e cioè che la signora avesse un passaporto taroccato. Nossignore, il passaporto diplomatico che la donna aveva esibito agli agenti della Questura di Roma, emesso dalla Repubblica del Centroafrica e intestato fittiziamente a tale Alma Ayan, era vero. Ma è una magra consolazione per il marito della signora, Mukhtar Ablyazov, principale oppositore del padre padrone del Kazakhstan Nursultan Nazarbayev, un uomo in fuga che ha ottenuto asilo politico dalla Gran Bretagna. È infatti una vittoria tardiva. La moglie e la figlia da un mese sono agli arresti domiciliari in Kazakistan e lui può solo urlare al sopruso.
Per capire questa storia che ha il sapore del complotto internazionale occorre fare un passo indietro. Torniamo alla notte del 29 maggio scorso: una squadra di agenti della Digos fa irruzione in una villetta a Casal Palocco, periferia bene della Capitale. Cercano il magnate Ablyazov, ex banchiere, ricercato per truffa, da poche ore oggetto di un mandato di cattura internazionale emesso dal Kazakhstan (dove, detto per inciso, il presidente Nazarbayev ha tutti i poteri). La polizia si muove d’iniziativa, senza un mandato della magistratura; un codicillo della legge lo permette, anche se è rarissimo che avvenga. Nella notte, insomma, cinquanta uomini fanno irruzione nella villetta, non trovano il padrone di casa, bensì la moglie, i domestici, un cognato, la bambina di 6 anni. La casa viene messa a soqquadro. I presenti parlano solo russo. All’inizio c’è anche un grande equivoco: gli Ablyazov pensano di essere finiti tra le grinfie di assassini mandati dal Kazakhstan, vola qualche pugno, ovviamente il cognato ha la peggio. È comprensibile che gli Ablyazov siano terrorizzati. È una ben scomoda posizione essere l’unico oppositore politico di Nazarbayev. Uno che ha già minacciato la Gran Bretagna di far fuori tutte le sue compagnie petrolifere se continuerà a proteggerlo.
E il peggio deve ancora venire: la signora Alma Salabayeva presenta il passaporto del Centroafrica. Le dicono che è falso, che lei ha commesso un reato grave, che è una immigrata clandestina. La denunciano e la sbattono al Cie di Ponte Galeria. Un viceprefetto firma nella notte l’ordine. “Procedura formalmente ineccepibile”, spiega il suo avvocato, Riccardo Olivo. “Peccato però che il passaporto sia valido e che la signora invochi asilo politico: il trasferimento al Cie è una vergogna”.
Con la signora rinchiusa al Cie, e minacciata di espulsione verso il Kazakhstan, vengono attivati gli avvocati, che si presentano a Ponte Galeria all’udienza del 30 maggio. «Nel corso di un’udienza lampo – racconta ancora Olivo – il giudice di pace conferma l’ordine di trattenimento perché anche lui si ostina a considerare falso il passaporto del Centroafrica, nonostante io abbia presentato una dichiarazione giurata dell’ambasciatore competente. Mi concede un colloquio al pomeriggio e mi avverte che avremo 30 giorni per avanzare la richiesta di asilo politico».
L’avvocato Olivo alle 15 dello stesso giorno si presenta al portone del Cie. E lì scopre che da due ore la signora è stata portata a forza a Ciampino, dove l’attende un jet privato, noleggiato dall’ambasciata del Kazakhstan per riportarla tra le braccia di Nazarbayev. Ancora un passaggio formalmente ineccepibile: se la signora è una clandestina, la legge permette le espulsioni forzate. Ma se clandestina non è? Peggio: se piange, si dispera, e se chiede asilo politico? Intanto la Squadra Mobile torna a Casal Palocco, preleva con l’inganno la bambina, fino a quel momento affidata alla zia, per metterla sullo stesso aereo della madre. L’Ufficio Polizia di Frontiera Aerea di Fiumicino, a sua volta, prepara a tempo record una perizia in cui dichiara che il passaporto del Centroafrica è “falso”. Al riguardo, la sentenza del tribunale di Roma è lapidaria: «Lascia perplessi la velocità con cui si è proceduto al rimpatrio in Kazakhstan della indagata e della bambina, congiunti di un rifugiato politico, in presenza di atti dai quali emergevano quantomeno seri dubbi sulla falsità del documento».
Altro che dubbi. L’avvocato Olivo non fa in tempo a rendersi conto di quel che accade e già l’aereo è in Kazakhstan. All’atterraggio, la signora è in lacrime. Scende la scaletta tremando, con la figlia per mano. C’è una telecamera ad immortalare la scena. «Il video dell’arrivo della signora Alma – conclude Olivo – è stato immediatamente messo in Internet perché si sapesse del trionfo di Nazarbayev».
il Fatto 5.7.13
Dopo il golpe il caos
Egitto: Mansour nuovo presidente. Retata decapita i Fratelli islamici
Oggi islamici in piazza
di Francesca Cicardi
IL “NUOVO EGITTO” METTE AL BANDO I FRATELLI MUSULMANI
DOPO IL GIURAMENTO DEL GIUDICE-PRESIDENTE MANSOUR, ARRESTI NEL MOVIMENTO DELL’EX MORSI. OGGI ISLAMICI IN PIAZZA
Il Cairo. Dopo solo 24 ore, l’Egitto ha già un nuovo presidente: Adly Mansur -67 anni, giudice massimo della corte costituzionale, ha giurato come presidente a interim ieri mattina presto, quando il Cairo ancora dormiva dopo una lunga notte di festeggiamenti per il colpo di stato “pulito” e velocissimo dei militari.
La stampa locale celebrava la vittoria “volontà popolare” e della “rivoluzione”, con immagini della piazza Tahrir, forse più piena della sera dell’11 febbraio del 2011, quando se ne andò l’ex presidente Hosni Mubarak. In mattinata, alcune voci dicevano che l’ormai ex presidente Mohamed Morsi era stato portato nella prigione di Tora, dove si trova anche il faraone. Non si sa ancora con precisione dove si trovi Morsi, ma si crede sia in custodia militare.
DOPO IL GIURAMENTO, Mansur ha assicurato che i Fratelli Musulmani “sono parte dell’Egitto” e non verranno esclusi dalla “costruzione della nazione”, ma l’autorità giudiziaria ha già avviato diversi procedimenti contro i leader della Fratellanza, tra cui il presidente deposto. Morsi e altri importanti dirigenti sono soggetti a divieto di espatrio con l'accusa di insulto alla magistratura, inoltre Morsi potrebbe anche essere processato per essere evaso dalla carcere durante la rivoluzione del 2011, quando l’ex regime di Mubarak arrestò gli esponenti islamisti per evitare che si unissero alla rivolta popolare.
Adesso, si ripete lo stesso copione di allora, e le vittime sono ancora i Fratelli: i militari e le forze di sicurezza starebbero perseguitando i membri del gruppo, che conta già molti dispersi e molti probabilmente arrestati. Circolano ancora le voci, non confermate dalla Fratellanza, che il leader supremo, Mohamed Badie, è stato arrestato a Marsa Matruh, sulla costa mediterranea al nord del paese. Anche il vice e ideologo dei Fratelli, Khairat el Shater, è ricercato, e forse è stato arrestato. Confermata da suo figlio la cattura di uno dei pezzi grossi del partito dei Fratelli e presidente del parlamento, Saad al Katatni. Tutti hanno già trascorso lunghi periodi in carcere, durante i decenni della repressione contro gli islamisti.
I Fratelli Musulmani sono usciti dalla clandestinità, sono arrivati alla presidenza egiziana velocemente, e sono stati obbligati ad andarsene 12 mesi dopo: in un anno hanno buttato ciò per cui avevano lottato in 80 anni. L’organizzazione è sorpavvisuta ad altri “colpi” ed è stata smantellata diverse volte, e sarà probabilmente capace di sopravvivere e riciclarsi anche questa volta, anche se forse ormai l’incantesimo si è rotto. Il potere ha dimostrato che i Fratelli non erano l’unica alternativa al regime di Mubarak, e l’islam non è la soluzione, diversamente da come recitava il loro famoso motto. Morsi non è riuscito a diffondere in tutto il paese il famoso programma di “welfare” della Fratellanza, e ha fatto fallire il progetto islamista. Ironicamente, il presidente siriano al Assad assicura che la caduta di orsi “segna la fine dell’Islam politico”, mentre i paesi vicini governati dagli islamisti (Tunisia, Turchia) rifiutano il “colpo di Stato” che gli egiziani non considerano tale. Il giornale indipendente Tahrir scriveva ieri in prima pagina, in inglese: “Mr. Obama, it’s a revolution, not a coup! ”.
La Stampa 5.7.13
“Governo civile di facciata I paletti fissati dai militari”
Il politologo Marcou: islamici verso la clandestinità
di Alberto Mattioli
Nel suo ultimo libro, «La nouvelle Egypte», uscito in aprile, il politologo Jean Marcou scriveva che l’Egitto era alle soglie di una crisi. Profezia azzeccata.
Professor Marcou, quel che succede al Cairo è un colpo di Stato o la seconda rivoluzione egiziana?
«Direi tutti e due insieme. Nel senso che la mobilitazione popolare ha rilegittimato l’Esercito in quel ruolo di mediatore che aveva già avuto alla caduta di Mubarak. Ma non credo che l’Esercito governerà direttamente».
Quindi?
«Quindi la soluzione più probabile, come stiamo già vedendo in queste ore, è un potere di transizione, un governo civile ma inquadrato dai militari che stabiliranno molto chiaramente quali paletti non possono essere sorpassati».
E i Fratelli musulmani cosa faranno?
«Sono al bivio. O accettano di integrarsi nel negoziato, ma così ammettono il fallimento del loro governo, oppure resistono con la forza, ma così si condannano alla semiclandestinità come all’epoca di Mubarak. Non credo sceglieranno la forza».
Perché Morsi è caduto?
«Perché ha fallito. Sul piano economico, non ha scelto una politica ben definita e non è riuscito a rassicurare gli stranieri, come dimostra il mancato rilancio del turismo, che per l’Egitto è fondamentale. Sul piano politico, invece di cercare il compromesso ha dato l’impressione di provare a riunificare gli islamisti, specie i salafisti, “coprendo” l’estremismo e preoccupando l’opinione pubblica moderata».
Conseguenze regionali. Chi perde?
«La Turchia. Erdogan ha appoggiato Morsi e non solo sul piano politico, visto che i turchi gli hanno concesso grandi prestiti. Anche se il suo bilancio di Erdogan è molto migliore di quello di Morsi, la Turchia è in rivolta. Infatti le piazze egiziane hanno molto guardato a quelle turche e viceversa. E oggi ad Ankara c’è gente assai preoccupata».
Chi vince?
«La Siria, o meglio il regime di Assad. L’Egitto l’ha escluso dalla Lega araba e ha rotto le relazioni diplomatiche. In Siria i Fratelli musulmani partecipano alla rivolta, dunque la loro disfatta in Egitto rafforza il regime».
E gli Stati Uniti?
«Hanno sostenuto Morsi perché lo consideravano il male minore e in ogni caso perché ha mantenuto l’alleanza con gli Usa e la pace con Israele. Credo che adesso Washington punterà sull’Esercito, che del resto dipende dagli aiuti americani e che si mostrerà moderato anche per non imbarazzare gli Usa».
L’Unione europea cosa dovrebbe fare?
«Ma la Ue non fa mai nulla! Comunque, se avesse una politica, dovrebbe spingere per un governo d’unione nazionale con tutti i partiti, Fratelli musulmani compresi. Primo, evitare l’anarchia».
Corriere 5.7.13
L’Egitto, i militari, la democrazia, quei golpe fuori dai nostri schemi
Corano e colonnelli, l’eterna tentazione
La «via militare al progresso» inaugurata da Atatürk come costante della storia moderna del mondo islamico
di Sergio Romano
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana. Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
Corriere 5.7.13
Ahmad Mourad
«Il bacio della piazza ai militari? Meglio loro della piovra islamica»
Lo scrittore: «Sono figli del popolo, non corrotti»
di Cecilia Zecchinelli
IL CAIRO — «Siamo un popolo caldo, sentimentale e in fondo infantile. Che ride o che piange per una partita di calcio, figuriamoci per un avvenimento come la fine dell’incubo di quest’ultimo anno», dice Ahmad Mourad guardando una foto scattata mercoledì notte dopo la deposizione del raìs islamico. Due uomini che baciano e abbracciano un soldato, sprizzando felicità. «Io reportage così non ne faccio, ci pensano gli altri. Lavoro come fotografo ufficiale della presidenza egiziana, dieci anni con Mubarak, poi un anno con Morsi, da sabato sarò con il raìs ad interim», continua Ahmad, 35 anni, sposato e due figlie, un sorriso timido dietro gli occhiali nonostante il successo. Perché oltre a quel lavoro dietro le quinte, dal 2007 è anche scrittore di thriller ambientati al Cairo. Il primo, Vertigo, è già alla 12esima edizione qui, tradotto in varie lingue compresa la nostra per Marsilio. Il secondo, Polvere di diamanti, è del 2010, uscito da pochi giorni in Italia per lo stesso editore. Libri che parlano di corruzione e abusi, di politici e tycoon, di polizia e militari.
I militari, appunto: oggi sono baciati e abbracciati, ma non è sempre stato così. Solo un anno fa erano i nemici. Che succede agli egiziani dal cuore tenero, li hanno già perdonati?
«Abbiamo sempre amato i nostri militari, sono figli del popolo, strumento del sistema che li comanda dall’alto ma con dignità e rettitudine. E a differenza della polizia, che nell’ultimo decennio Mubarak usò come braccio violento mentre indeboliva l’esercito, i soldati non attaccavano il popolo, anzi nella Rivoluzione erano al suo fianco, la gente offriva loro fiori e si fotografava sui carri armati. Poi è cambiato, è vero, durante la lunga reggenza dei generali ci siamo sentiti traditi, eravamo furiosi. Pensavamo che il loro capo Tantawi volesse usurpare il potere e l’esercito in alcune occasioni passò alle violenze. Ma ora è passato, Morsi è riuscito a riunire il popolo e l’esercito, perfino la polizia è riabilitata».
Eppure Mubarak era un militare, come può dire che era amato?
«Più che Mubarak, era il suo regime corrotto e violento ad essere odiato, contro di lui umanamente non c’era tutto quell’astio, anche se la gente ormai voleva cacciarlo. Forse perché da 60 anni avevamo raìs militari o per infantilismo, il presidente è sempre stato visto qui come un padre. Amatissimo come fu solo Nasser, ma comunque rispettato nei casi di Sadat e di Mubarak all’inizio. Dalla prima Rivoluzione, questa per me è la seconda, siamo però cresciuti. Ora è diverso».
Al Sisi, però, è visto come un eroe. Eppure è lui al comando .
«E’ un eroe perché ha osato affrontare la piovra della Fratellanza, potente e pericolosa, veri serpenti. Gli si riconosce il coraggio e l’abilità, c’è riconoscenza perché ci ha tirato fuori da un buco nero. Ma sono certo che non vuole il potere politico, è troppo intelligente. Se lo facesse scenderemmo di nuovo in piazza. Questo non è un golpe, domenica ero anch’io nelle strade con tutto l’Egitto. Il sabato prima è stato il mio ultimo giorno di lavoro per Morsi, tra l’altro. A volte mi sento un po’ Dottor Jekyll e Mister Hide».
Morsi dove ha fallito?
«Morsi era solo un pupazzo usato e manovrato dalla gang della Fratellanza, non ha mai deciso niente, nemmeno di candidarsi. E la Fratellanza, a differenza dell’esercito, non pensa al Paese ma solo a se stessa. Si considera un’élite superiore: da una parte loro, i santi, i veri musulmani, dall’altra tutti gli altri. Ha un’idea vecchia e sbagliata di Islam, avrebbe imposto una dittatura religiosa che nessuno qui vuole».
Questo lo ha capito anche lavorando con Morsi?
«No, leggendo e studiando, seguendo gli eventi. Da Morsi non traspariva niente. Pregava, obbediva ai suoi capi, quasi non parlava. Anche fotografarlo non era facile, mai un sorriso, un linguaggio del corpo assente, rigido e inespressivo. Mubarak, che non rimpiango, almeno scherzava, sapeva stare con la gente. E poi era lui a decidere tutto nel bene e nel male. Morsi invece non era nessuno, nella storia di questo Paese è stato solo una virgola».
Corriere 5.7.13
Da Piazza Taksim a Place Vendòme la ribellione dei ragazzi turchi. Ma i primi furono i dissidenti sovietici
Manifestare leggendo: il libro come rivolta
Non un vero gruppo né una massa: così la protesta diventa individuale
di Gian Arturo Ferrari
Negli anni del brezhnevismo più cupo la manifestazione (ma, come si vedrà, manifestazione non è forse il termine più appropriato) prediletta e tipica del dissenso sovietico era il raduno sulla tomba di un poeta, preferibilmente di un grande poeta. Nessun cartello, nessuna bandiera, nessuno striscione, nessuno slogan, nessun grido, nessun canto, nessun suono, fatta eccezione per la lettura di qualche testo poetico. In silenzio, tutt'al più con una candela in mano, i partecipanti si raccoglievano e stavano lì, in piedi e fermi, finché la polizia politica non li ramazzava e avviava il consueto iter di vessazioni.
Traevano ispirazione dalla rigorosa filosofia di Nikolaj Aleksandrovic Berdjaev che negava ogni forma di fusione collettiva delle volontà, e delle relative musiche e sventolii, così come ogni ascendenza al movimento operaio ottocentesco e più indietro alla tradizione militare. Al posto di tutti questi cerimoniali e paramenti, la pura e nuda presenza — l’esser lì — a simboleggiare una testimonianza singola e irriducibile a qualsiasi universale, un atto di responsabilità individuale e totale portato fino alle — quasi auspicate — conseguenze estreme. Il gesto pubblico sì, collettivo no. Le forme odierne del manifestare si stanno polarizzando. Da un lato l’antico e tradizionale corteo, l’antica e tradizionale folla, assume la dimensione del gigantesco, del colossale, come le impressionanti e ondeggianti maree umane delle piazze brasiliane ed egiziane, con il corredo — alquanto anticlimax — di fuochi d’artificio e botti vari. Dall’altro la nuova forma, inventata dai giovani turchi — quelli veri —, ma applicata con diligenza anche dagli oppositori francesi al mariage pour tous, consistente nello stare in piedi a diversi metri di distanza l’uno dall’altro nell’atto di leggere (o effettivamente leggendo) un libro. La lontananza reciproca ha una funzione pratica difensiva e per questo verso poco berdjaeviana: il non incorrere nella fattispecie di manifestazione non autorizzata, come si può intuire dalla faccia e dai muscoli dei poliziotti francesi, non tanto addentro alla filosofia russa. Ma anche un evidente valore simbolico: non un gruppo, non una massa, non un insieme, ma singoli e autonomi individui, ognuno decidente per sé e responsabile di sé. L’elemento nuovo e inedito è il libro, fin qui assente dalle manifestazioni pubbliche. Non fa testo (è il caso di dirlo) infatti l’antologia di Mao Zedong, curata dal compianto e sfortunato Lin Biao e nota come Libretto rosso, minacciosamente brandita in infinite manifestazioni non solo in Cina, ma nel cuore della colta e civilissima Europa. Si trattava di «quel» libro, sacro com’è ovvio, e non di «un» libro qualsiasi e cioè «del» libro in quanto tale, così come è oggi. Anche in questo odierno uso del libro non è difficile ravvisare l’intento difensivo e poco berdjaeviano. Chi sta leggendo fa altro, non è occupato a turbare la quiete pubblica. Ma c’è qualcosa di più, forse di molto di più. Innanzitutto un dato sociale, di rispetto e di dissuasione sociale. Chi legge non è uno scamiciato, un energumeno intenzionato a menar le mani. Appartiene a un ceto per definizione superiore, armato di un secolare prestigio tanto quanto si presenta ostentatamente indifeso. Ma soprattutto nel puro gesto del leggere, nell’isolamento fisico e nella concentrazione della lettura, si manifesta l’appartenenza a un ordine di realtà diverso da quella sensibile, più alto e lontano. Chi legge, proprio perché si sottrae, perché non è del tutto qui, presente, ci appare avvolto da una sorta di intangibilità, di immunità, da una campana di vetro che lo protegge. Il lato geniale di questa forma di manifestazione è proprio quello di collegare il più forte simbolo e talismano dell’interiorità — il libro — con quello che è apparentemente il suo opposto, cioè la dimensione dell’intervento pubblico. A pensarci bene una forma, forse la più efficace, di promozione del libro.
Repubblica 5.7.13
Tunisia
Il gesto coraggioso di Amina: si scopre il capo davanti al giudice
di Cristina Mastrandrea
qui
Corriere 5.7.13
Chengdu, il nuovo paese dei balocchi e il sole artificiale
Nella Cina dei record non poteva mancare il palazzo più grande del mondo: ed ecco il New Century Global Center di Chengdu, lungo 500 metri, largo 400 e alto 100. La stampa internazionale, nel tentativo di far capire le proporzioni dell’opera, ha spiegato ai lettori che dentro la struttura di vetro, cemento e acciaio con tetto a onda potrebbero comodamente entrare tre palazzi del Pentagono, la mastodontica cittadella della Difesa americana. E invece il New Century Global Center di Chengdu è molto più pacifico: dentro c’è anche una spiaggia artificiale di cinquemila mila metri quadrati, una striscia di sabbia lunga cinquecento metri affacciata su un villaggio in stile mediterraneo. E naturalmente in mezzo c’è il mare, vale a dire una superpiscina di acqua salata.
Così il mare è arrivato a Chengdu, capoluogo del Sichuan, che dista mille chilometri dall’oceano.
Naturalmente nel palazzo più capiente del mondo ci sono grand hotel, ristoranti, negozi, cinema, uffici ecc. ecc.
E c’è anche un impianto di illuminazione che crea l’effetto di un sole artificiale e splende 24 ore su 24, tanto per far dimenticare ai visitatori la nebbia sporca che c’è all’aria aperta. Il sottoprodotto micidiale dell’industrializzazione accelerata della Cina.
Chengdu, con i suoi 14 milioni di abitanti, sta correndo verso un’ulteriore fase di sviluppo, possibilmente meno inquinato: sta costruendo un Parco del software hi-tech da 130 km quadrati, punta a diventare una sorta di Silicon Valley dell’Asia. Già 29 mila società hanno scelto come base Chengdu, che è nella zona centro-occidentale della Cina. La città avrà entro il 2020 anche una rete della metropolitana da 183 km, per arginare i danni del traffico automobilistico.
Chengdu sta diventando il nuovo modello di urbanizzazione per la Cina: molto verde, piste ciclabili lungo il fiume non per gli spostamenti normali, ma per il tempo libero; i pianificatori hanno cercato di conservare anche una parte delle costruzioni storiche o almeno di restaurarle.
Ma al momento, per essere sicuri di vedere il sole, meglio prenotare un posto nella spiaggia del Century Global Center, nuovo Paese dei Balocchi made in China.
Repubblica 5.7.13
Cristallo, cemento e una folle idea di futuro: misura 1,7 milioni di metri quadri ed è l’edificio più imponente esistente, con asili banche e spiagge
Cina La casa grande come una città dove nascere, vivere e morire
di Giampaolo Visetti
PECHINO Alla Cina della grande urbanizzazione, pronta ad inaugurare la prima metropoli da 80 milioni di abitanti, mancava un record: quello del palazzo più grande del pianeta. L’ha conquistato ieri. A Chengdu, capoluogo del Sichuan, è stato aperto il “New Century Global Centre”, ben più di un edificio vasto 50 mila metri quadrati più dell’aeroporto di Dubai, a cui ha sottratto il primato. Il nuovo colosso di cristallo e cemento, costruito in tre anni, è il primo esperimento della storia di palazzo-città totalmente autosufficiente. Assicura di offrire «tutto ciò che serve ad un uomo per vivere»: dalla sala parto, dove si viene al mondo, al cimitero, luogo usuale del commiato. Tra i due estremi, l’equipaggiamento quotidiano dell’esistenza standard: asilo, scuola, università, casa, uffici, centri commerciali, banche, biblioteche, cinema 3D, strutture sportive, sale congressi, parchi, giardini, ristoranti, hotel, ospedale e case di riposo.
La promessa dei proprietari è lo specchio del desiderio di stupire che anima la nazione decisa a dominare il secolo: «Inaugurare l’era delle strutture da cui non occorre uscire mai per essere felici». A confermare l’illusione, un ufficio distaccatodel Comune: in caso d’urgenza sarà possibile sposarsi, grazie ad un romantico ascensore dedicato, ma chi non ce la fa più avrà pure l’opportunità di divorziare, anche nel cuore della notte. Considerato lo smog che incombe sulla Cina, trascorrere la vita chiusi in un edificio, senza mai annusare l’aria che c’è fuori, potrebbe presto rivelarsi una necessità. Non è per ora il caso di Chengdu, gioiello verde preferito dai panda giganti: il “New Century Global Centre” si propone infatti come icona snob dei nuovi ricchi. La piazza centrale è stata riservata al “Mediterranean Village”, una spiaggia artificiale lunga mezzo chilometro, affacciata su una baia con acqua salata, mossa dalla marea su cui galleggia una nave dei pirati non solo per bambini. Uno schermo largo 150 metri e alto 40 riproduceorizzonti virtuali di paradisi reali: un sole elettrico si esibisce per gli abitanti, creando albe digitali, tramonti, oppure cieli tagliati dalle nuvole. Tutti i numeri rispondono all’ossessione del primato, leva del soft-power globale che anima la nuova leadership di Pechino.
Il nuovo condominio è lungo 500 metri, largo 400 e alto 100, la superficie calpestabile misura 1 milione e 760 mila metri quadrati, il giardino 400 mila. Per i maniaci dei confronti: l’Opera House di Sidney è venti voltepiù piccola e la basilica di San Pietro a Roma non arriva alla miseria di 26 mila metri quadri, praticamente un capitello. Ma nemmeno questo, per la Cina dei miracoli che ambisce a «inventare una nuova società», era sufficiente. Tunnel sotterraneicollegano il palazzo al museo interno d’arte contemporanea, progettato dall’archistar anglo- irachena Zaha Hadid, mentre altre strade condominiali conducono a palestre, campo da golf, stadio, piste ciclabili, da skate e da patinaggio, percorsi jogging e ad una serie di ville per chi, costretto a dormire tra 400 mila metri quadri di negozi, potrebbe sentirsi vittima del consumismo.
Teorizzare «una vita completa senza uscire di casa» è un paradosso, per il Paese segnato dalla più impressionante migrazione interna di ogni tempo, capace di spostare dai villaggi alle megalopoli quasi 700 milioni di individui. Per il nuovo nazionalismo rosso, assetato di migranti ma pure attento a considerare criminali i figli che non visitano i genitori almeno due volte al mese, i prodigi dell’edilizia sono però il simbolo patriottico della Cina prossima al sorpasso sugli Usa, come lemissioni nello spazio. La propaganda esulta così annunciando il primo hotel groundscraper, organizzato su 19 piani scavati sottoterra, o ricordando che da marzo Changsha, nello Hunan, ha sottratto al “Burj Khalifa” di Dubai il record del grattacielo più alto del pianeta: in soli tre mesi i cinesi hanno eretto lo “Sky City One”, torre da 838 metri, 220 piani e spazio per 30 mila residenti.
Due anni fa, nel Jiangsu, per risparmiare risaie le autorità avevano inventato il «primo villaggio agricolo traslocato dentro un grattacielo»: i duemila contadini di Huaxi, mucche, polli e maiali compresi, erano stati trasferiti in un solo casermone, considerato municipio e dotato di regolare sindaco. Nulla però a che vedere con il “palazzo- mondo” di Chengdu, dotato di una popolazione di 300 mila residenti-consumatori: questo è davvero un tuffo nella società futura, il test estremo della sostenibilità cinese. E nemmeno a Pechino sanno chi si potrà salvare.
Corriere 5.7.13
Nelson Mandela
Si può ingabbiare un mito della libertà?
di Edoardo Boncinelli
Si può ingabbiare un mito e trattenerlo al di qua del precipizio? Quanto è lecito tenere un essere umano, anche grandissimo, sull'orlo di questa vita? Sembra che Mandela ci stia abbandonando, e con lui tramonterebbe uno degli ultimi grandi miti della nostra epoca, travagliata e disincantata. Quanto è opportuno sforzarsi di tenerlo in vita? E quale può essere in generale la miglior condotta verso una grande anima che se ne sta andando? «Morire, dormire; dormire... forse sognare» dice Amleto, andando più vicino di chiunque altro al senso della vita e della morte; o meglio della morte vista dalla vita. Spesso per i grandi capi politici che se ne andavano si è fatto di tutto per tenerli in vita il più a lungo possibile; per calcolo politico, per prudenza, per aver tempo di preparare il nuovo nella continuità. È discutibile che ciò abbia senso anche in questi casi, ma se ne intravede almeno una ragion d'essere. Nel caso di Mandela, la situazione sembra diversa e tutta giocata sulla sua nobiltà d'animo in vita e sul suo inesausto anelito di libertà. Forse quindi non è il caso di procedere oltre a tenere in gabbia un leone che in gabbia non ci è voluto mai stare. Né ha tollerato che ci stessero altri. È sempre difficile confrontarsi con la morte, soprattutto quando i sentimenti fanno ressa nell'animo. Né la medicina è onnipotente. Ma proprio perché in questo caso non sta a noi prendere decisioni, possiamo guardare in faccia la questione ed essere «gratuitamente» filosofi. È umano che chi lo ama lo voglia ancora per sé, anche se della vita non gli sarà probabilmente rimasto che qualche barlume, qualche residua visione della sua grande coscienza. Forse è sulla sua coscienza che dobbiamo interrogarci, più che sul suo corpo, anche se non c'è niente di più insondabile della coscienza di un altro. Questa coscienza ha visto tante, tantissime cose, belle e brutte, ha ricevuto un numero enorme di manifestazioni di devozione e di affetto. Forse ne vuole ancora; forse basta così; forse è il caso di lasciarlo andare a un altro, diverso, sogno. O forse allo stesso, congelato per sempre.
Repubblica 5.7.13
L’invasione americana degli psicofarmaci
Un’inchiesta di Robert Whitaker sulla diffusione degli antidepressivi
di Massimo Ammaniti
Un’epidemia sta infettando la società americana, ma non si tratta delle malattie tradizionali, riguarda invece la diffusione dei disturbi mentali e di conseguenza l’uso degli psicofarmaci. Questa è la tesi provocatoria, ampiamente documentata nel libroIndagine su un’epidemia(Giovanni Fioriti Editore, pagg. 368, euro 26) di Robert Whitaker, un giornalista noto negli Stati Uniti per le sue inchieste nel campo della medicina e della scienza. I dati riportati sono allarmanti: un’ampia indagine effettuata negli Usa fra il 2001 e il 2003 dal National Institute of Mental Health ha messo in luce che il 46% degli adulti selezionati casualmente manifesta un disturbo psichico nelle categorie dei disturbi di ansia, disturbi dell’umore, disturbi del controllo degli impulsi ed infine disturbi da dipendenza da sostanze, che comprendono l’uso di droghe e alcolismo.
Una domanda è inevitabile, che cosa sta succedendo negli Usa? Stanno aumentando in modo esponenziale i disturbi psichici che secondo la psichiatria americana avrebbe-ro una base neurobiologica? Oppure gli psichiatri hanno imparato a diagnosticare i disturbi psichici che in passato non venivano riconosciuti? O più plausibilmente le maglie diagnostiche si sono talmente allargate da trasformare un malessere personale in un disturbo psichico? Quest’ultima ipotesi è confermata da Whitaker che ricostruisce il percorso della rivoluzione degli psicofarmaci dal 1950 ad oggi entrati nella vita quotidiana: pillole per dormire, pillole contro la depressione, pillole contro gli stati d’ansia. Solo negli Usa nel 2007 sono stati spesi 25 miliardi di dollari per gli antidepressivi e gli antipsicotici. Ma la diffusione degli psicofarmaci ha profondamente modificato la concezione sociale della sofferenza psichica: non si tratterebbe di conflitti che hanno un’origine inconscia secondo la teoria freudiana e neppure di stress e avversità della vita, più semplicemente sarebbe una malattia psichiatrica legata ad una disfunzione dei neurotrasmettitori cerebrali. La trasformazione della sofferenza mentale in malattia medica è avvenuta in questi decenni fondamentalmente attraverso l’iniziativa dell’American Psychiatric Association di costruire un sistema diagnostico condiviso, il DSM, di cui è stata pubblicata recentemente la quinta edizione. E mentre le precedenti versioni erano rivolte ai professionisti della psiche, quest’ultima versione è stata pubblicizzata dalla stampa, anche perché ha suscitato forti critiche ed opposizioni da parte di associazioni di professionisti e ricercatori che hanno messo in luce la fragilità di molte categorie diagnostiche e il pericolo di dilatare l’etichettamento psichiatrico. Ma gli psicofarmaci sono efficaci come viene sostenuto dalle case farmaceutiche? La documentazione di Whitaker mostra come i tranquillanti possano fornire un sollievo immediato per alcuni sintomi, ma che il loro effetto si riduce col tempo fino a comportare una sindrome di astinenza quando vengano interrotti. Ancorapiù problematico è l’uso degli antidepressivi che sarebbero di poco più efficaci del placebo, come verrebbe confermato da una ricerca inglese. Alla stessa conclusione è giunta anche la rivista British Journal of Psychiatry che ha riconosciuto che le prove scientifiche a supporto di questi farmaci sono “limitate”.
Ma Whitaker solleva una domanda ancora più radicale: gli psicofarmaci non creano forse più problemi di quanti ne risolvano? Clinici e ricercatori hanno più volte segnalato una maggiore propensione alle ricadute dopo l’interruzione di un trattamento prolungato con gli psicofarmaci per cui ricercatori europei ed italiani si sono chiesti se non sia utile discutere di questo rischio e verificare se gli psicofarmaci aggravino il decorso clinico che invece dovrebbero curare. Non è neppure da sottovalutare il pericolo dell’etichettamento psichiatrico già messo in luce negli anni ’60 dalla sociologia americana e che è stato al centro del dibattito e della rivoluzione psichiatrica in Italia soprattutto per il contributo di Franco Basaglia. È ancora oggi un tema attuale se il 46% della popolazione americana soffre di disturbi psichici, anche se si potrebbe supporre che lo stigma psichiatrico perda la sua rilevanza essendo così diffuso nella popolazione e allo stesso tempo la supposta origine cerebrale potrebbe decolpevolizzare il malato e la sua famiglia. Se una diagnosi medica è fonte di apprensioni per ogni malato, la diagnosi psichiatrica influenza ancora più profondamente la percezione di sé e può scoraggiare le proprie difese personali per fronteggiare la sofferenza e non spinge a modificare il proprio stile di vita, anche perché si può ricorrere agli psicofarmaci per risolvere ogni problema.
Se in questi ultimi decenni sono state effettuate numerosissime ricerche cliniche finanziate dalle case farmaceutiche per confermare l’efficacia degli psicofarmaci rispetto al placebo, purtroppo in campo psicoanalitico non si è ancora avvertita l’esigenza di documentare in modo incisivo l’utilità dei trattamenti analitici che non si limitano ad attenuare i sintomi come gli psicofarmaci, ma favoriscono un processo di trasformazione della propria esperienza interiore, ampliando le risorse personali e le capacità introspettive.
IL LIBRO Indagine su un’epidemia di Robert Whitaker (Giovanni Fioriti Editore pagg. 368 euro 26)